MALABRANCA, Latino
Figlio di Angelo e di Mabilia di Matteo Rosso Orsini, nacque, probabilmente a Roma, intorno al 1235. Per parte di madre il M. era nipote di Giangaetano Orsini, che salì al soglio pontificio con il nome di Niccolò III nel 1277 (è da rifiutare l'ipotesi di un rapporto genealogico tra il ramo della famiglia Malabranca al quale apparteneva il M. e i Frangipane, seguita da un'esigua parte della storiografia).
Il M. studiò a Parigi, dove si laureò in diritto civile e canonico e in teologia. Indirizzato alla carriera ecclesiastica, in giovane età entrò nell'Ordine dei frati predicatori. Divenne lector della provincia romana e, successivamente, priore del convento romano di S. Sabina. Fu nominato inquisitore da Urbano IV e in seguito sembra essere stato inquisitor generalis, come prima di lui Giangaetano Orsini.
Il M. si mostrò strenuo assertore dell'istituzione inquisitoriale: quando era legato a Firenze lanciò l'interdetto contro la città di Parma, perché i Parmigiani avevano dato vita a un violento moto popolare in reazione alla condanna al rogo di una donna accusata di essere catara.
L'elezione al soglio pontificio di Giangaetano Orsini determinò una svolta profonda nella carriera del Malabranca. Salimbene (Ognibene) de Adam, che descrive laconicamente e con una certa ironia il M. come "quidam iuvenis et macilentinus", mette in rilievo il favore nepotistico di Niccolò III nei confronti del nipote: "papa Nicholaus tertius fecerat cardinalem et legatum ob gratiam parentele" (p. 632).
Il neoeletto pontefice era, infatti, determinato a poggiare il suo ambizioso progetto politico di formazione di un forte Stato territoriale quale fondamento dell'autorità pontificia, tanto nella vita spirituale quanto in quella politica dell'Europa cristiana, su una solida base familiare, nonché sul contenimento della componente francese nel Collegio cardinalizio.
Il 12 marzo 1278 il papa creò il M., cardinale vescovo della diocesi suburbicaria di Ostia e Velletri, e il 25 settembre lo nominò legato a latere, assegnandogli un territorio che comprendeva la Romagna con Bologna, la Toscana, la Marca trevigiana, il patriarcato di Aquileia, la provincia ecclesiastica di Ravenna, Ferrara, Città di Castello e le Venetiarum partes. Il territorio era molto vasto e il M. fu costretto a impegnarsi intensamente per la soluzione delle difficili situazioni in cui versavano Firenze, Bologna e la Romagna, gli unici luoghi in cui è attestata la sua presenza.
Il papa gli affidò allora una missione delicata e complessa, quella che gli diede maggior lustro e notorietà storica, conferendogli, su richiesta dei delegati del Comune fiorentino, l'ufficio di paciere per risolvere le controversie interne a Firenze, dove, tuttavia, entrò soltanto un anno dopo a causa delle molte altre incombenze che gravavano su di lui.
Il 27 luglio 1278 il papa lo incaricò, congiuntamente al cardinale Giacomo Colonna, di preparare la città di Roma alla fine del senatorato romano di Carlo I d'Angiò, poiché si approssimava la scadenza del periodo decennale a suo tempo fissata e che il pontefice non aveva intenzione di prorogare.
I due cardinali dovevano svolgere un incarico di grande importanza politica; recandosi a Roma essi portavano, per diffonderne pubblicamente il contenuto, la bolla Fundamentis militantis Ecclesie del 18 luglio, con la quale il pontefice aveva inteso regolare su nuove basi i rapporti tra il Papato e il popolo romano. Il M. e Giacomo Colonna dovevano impegnarsi, inoltre, affinché fosse garantito un corretto e pacifico passaggio di poteri, tutelando il sovrano e i suoi ufficiali fino allo scadere del mandato e anche più avanti.
Oltre a questa missione, il M., prima di risolvere i problemi fiorentini, dovette impegnarsi nella soluzione di quelli in Romagna, e in particolare a Bologna.
Nel frattempo il papa aveva ordinato ai Fiorentini che, fino a quando il M. non fosse giunto in Firenze, i ghibellini non dovevano essere in alcun modo perseguitati e, soprattutto, che a quelli rimasti fuori dalla città non dovevano essere imposti tributi maggiorati. Intanto furono inviati a Firenze a precedere il cardinale e a prepararne la missione di pacificazione il domenicano Giovanni da Viterbo e l'abile giurista Guillaume Durand; il prelato fiorentino Andrea di Spigliato de' Mozzi fu nominato sublegatus et nuntius del cardinale.
Il papa, ottenuto dall'imperatore il riconoscimento della sovranità pontificia sulla Romagna, si impegnò al fine di avere analogo riconoscimento da parte delle comunità cittadine, inviando lettere e nunzi, ai quali era affidato anche il compito di pacificare l'intera provincia. Per esercitare la sua sovranità, il pontefice aveva nominato rettore o conte di Romagna un altro suo nipote, Bertoldo Orsini, figlio di suo fratello Gentile, al quale il M. si affiancò nell'opera di pacificazione. Il 25 sett. 1278 Niccolò III inviò ai due una lunga lettera nella quale raccomandava di cooperare per riuscire nella missione, che si dimostrò più complessa di quanto essi avevano stimato.
Nei mesi seguenti molte città si sottomisero e accettarono rettori e podestà di nomina papale. Ma a Bologna, dove il M. fece il suo ingresso il 3 novembre, essi non riuscirono a portare rapidamente a conclusione gli accordi già in parte stabiliti tra le fazioni cittadine.
Le trattative continuarono senza progredire: i Bolognesi erano tutt'altro che favorevoli a riammettere i fuoriusciti, per il pericolo che da ciò poteva derivare. Nel gennaio 1279 il papa tornò a redarguirli e ad ammonirli con fermezza e decisione; li invitò a rimettersi al giudizio del legato e del rettore (anche se negli accordi preliminari i Bolognesi avevano accettato lo stesso pontefice come arbitro), affermando che i suoi due rappresentanti erano pienamente autorizzati a definire la questione della pacificazione. Sembra che le fazioni bolognesi mostrassero una certa diffidenza nei confronti del M. e di Bertoldo Orsini, ma è anche possibile che essi non volessero affatto raggiungere un accordo di pace.
Si susseguirono altri interventi diretti del pontefice e trattative serrate; furono stabilite nuove condizioni. Poi il papa impose d'autorità alla città come podestà per almeno un anno proprio Bertoldo Orsini, libero di operare senza alcun vincolo determinato da statuti, provvisioni e ordinamenti concepiti e redatti in passato secondo lo spirito di parte, che dovevano essere annullati.
Neppure un mese dopo l'insediamento del nuovo podestà, i rappresentanti delle parti, Lambertazzi e Geremei, giurarono l'accettazione delle condizioni di pace in presenza di Bertoldo Orsini e del Malabranca. Il 17 agosto il giuramento fu confermato da cinquanta cittadini di ciascun partito, sempre alla presenza di rettore e legato, di svariati alti dignitari ecclesiastici e del popolo bolognese; molti rappresentanti di famiglie rivali si scambiarono il bacio della pace. Alla fine di settembre i Lambertazzi rientrarono a Bologna. La pacificazione si rivelò tutt'altro che duratura e il periodo di tranquillità interna che ne seguì fu brevissimo. L'operato del M. dovette costituire, in ogni caso, un successo e dopo la pace egli poté finalmente dedicarsi alla missione fiorentina.
Il M. entrò solennemente a Firenze l'8 ott. 1279 tra le accoglienze trionfali riservategli dal Comune e dal popolo, certamente con la speranza di riuscire là dove Gregorio X sei anni prima aveva fallito. Il clima politico italiano era mutato e, rispetto al suo predecessore, Niccolò III era favorito nei suoi disegni fiorentini dalla necessità di pace, qualunque essa fosse, sentita tanto dai vincitori guelfi, quanto, e soprattutto, dai vinti ghibellini.
L'avvio della trattativa fu alquanto laborioso. Il 19 novembre il M. raggiunse un primo successo; convocato un Parlamento generale del popolo fiorentino con la partecipazione di tutte le magistrature comunali, espose le sue intenzioni volte a eliminare le discordie, tanto tra guelfi e ghibellini, quanto all'interno delle parti. Ottenne così il riconoscimento di tutti i poteri necessari a far rispettare gli accordi, che sarebbero stati conchiusi e ratificati sotto forma di sentenza, emessa da lui stesso in quanto al di sopra delle parti, che tutti avrebbero dovuto incondizionatamente rispettare. Nelle settimane seguenti il M. si dedicò alla risoluzione dei contrasti tentando di pacificare le casate e le consorterie con tutti i mezzi ai quali poteva ricorrere, dai matrimoni tra esponenti di famiglie nemiche al coinvolgimento di mallevadori, fino alla minaccia di gravi sanzioni per i trasgressori della pace, compreso il bando.
Rompendo ogni indugio, il 19 genn. 1280 il M. emanò con la dovuta solennità la sua sentenza di pace, caratterizzata da un dispositivo molto dettagliato e in cui tutto era previsto per evitare il riaccendersi dei contrasti.
Egli comprendeva che non si sarebbe potuta cancellare la divisione in fazioni; il suo intento era dunque quello di evitare che esse venissero in contrasto, allo scopo di garantire un'accettabile convivenza. Molto si affidava ai cittadini neutrali, contando sulla loro funzione equilibratrice in un sistema complesso di contrappesi. In sostanza, venne istituzionalizzata la divisione dei Fiorentini tra guelfi e ghibellini; le arti dovevano costituire un puntello dell'assetto istituzionale del Comune e, forse, proprio in esse dovevano trovare la loro collocazione politica quei neutrali che miravano a stemperare i contrasti tra le parti per favorire la crescita economica. Furono stabilite norme minuziose per regolare la vita cittadina e per risolvere il problema del rientro dei fuorusciti.
I giorni seguenti furono caratterizzati da consultazioni e riunioni consiliari, nel corso delle quali tra i Fiorentini emersero due posizioni, una favorevole a un'immediata accettazione della sentenza, l'altra più cauta, propensa a rinviare momentaneamente il giuramento di osservanza delle disposizioni per valutarle più approfonditamente, soprattutto in relazione agli impegni che da esse sarebbero derivati per il Comune.
Il M., pressato dalle richieste del papa, non attese, tuttavia, che fossero compiuti tutti i preliminari e gli atti complementari della sentenza, e il 18 febbraio celebrò solennemente la conclusione della pace; contemporaneamente fece stilare e pubblicare una lista di fideiussori e garanti della pace, cinquanta per ciascuna delle parti, da lui stesso nominati. Per tutto il mese di febbraio e nei primi giorni di marzo si susseguirono le varie adesioni alla pace da parte di guelfi e ghibellini e dei rappresentanti delle arti; il 13 marzo il Comune, dando pieno seguito alla sentenza, riammise in città gli esuli ghibellini. Il 24 aprile furono donati al M. 1500 fiorini e svariati gioielli, quale compenso per le spese giudiziarie; due giorni dopo egli lasciò definitivamente Firenze.
La pace raggiunta ebbe effetti positivi in tutta la Toscana, anche se non fu integralmente rispettata, tanto per la sopravvenuta morte di Niccolò III (22 ag. 1280), quanto per l'oggettiva inferiorità numerica e di potere dei ghibellini. La sententia pacificationis portò un ridimensionamento del potere degli esponenti del guelfismo più intransigente, fortemente legati agli Angioini; segnò l'affermazione della politica papale iniziata da Gregorio X e accrebbe il potere sia dei casati magnatizi che avevano appoggiato l'azione del M. sia delle famiglie di popolani in forte ascesa economica.
La stima della quale il M. godeva da tempo presso le fazioni fiorentine fu senza dubbio uno dei presupposti che gli permisero di raggiungere la pacificazione. Su questa base egli seppe tessere una fitta rete di rapporti, partendo dai legami di amicizia che lo univano ad alcune casate di rilievo nell'ambito della politica e dell'economia fiorentine.
L'attività di legato in Toscana del M. non si limitò alla sola Firenze, ma fu rivolta alla composizione delle controversie interne di altri Comuni; ottenne buoni risultati in un certo numero di casi, come a Siena, a Volterra, a Pistoia - dove lui stesso assunse la carica di capitano del Popolo -, a San Gimignano, a Colle di Val d'Elsa. A Prato, invece, i tentativi di pacificazione fallirono e le lotte fra le fazioni continuarono durissime.
A parte gli impegni più strettamente politico-diplomatici, il M. in qualità di legato fu preso da una notevole quantità di altre incombenze, nelle quali fu sostenuto da vari collaboratori appartenenti alla sua familia, tra cui spicca la figura di Guillaume Durand. Il M. dovette certamente esercitare funzioni giudiziarie in materia ecclesiastica e, soprattutto, prese alcuni importanti provvedimenti di natura ecclesiastico-disciplinare di durevole efficacia. In particolare le costituzioni, elaborate probabilmente nell'ambito di un concilio indetto dallo stesso M. e promulgate a Bologna il 30 sett. 1279.
Distinte in sei o sette capitoli (secondo le redazioni), furono diffuse a ottobre e novembre nelle province ecclesiastiche di Ravenna e Aquileia. Il primo capitolo mirava a colpire gli usurpatori di benefici ecclesiastici; il secondo era dedicato a risollevare i monasteri dalla crisi in cui versavano; il terzo era incentrato sullo stato degli ecclesiastici e, soprattutto, su una più chiara distinzione, nell'abito e nei comportamenti, tra chierici e laici; il quarto e il quinto avevano carattere più squisitamente pastorale, in relazione alla disciplina, alla dottrina e alla cura dei fedeli, prevedevano l'istituzione della figura di un penitenziere e si impegnavano alla correzione di abusi, relativi in particolare alla concessione di indulgenze; il sesto dettava norme suntuarie relative alle vesti muliebri. Di questo capitolo dà ampiamente conto anche Salimbene de Adam, che narra come i provvedimenti in esso contenuti (il divieto per le donne maggiori di dodici anni di indossare abiti aperti e con lunghi strascichi, nonché l'obbligo, per le coniugate, di coprirsi il capo con un velo) risultarono invisi a un gran numero di donne, specialmente a quelle bolognesi. Salimbene ricorda anche come i precetti del M. fossero stati diffusi capillarmente attraverso le prediche nelle chiese e come fossero stati realmente applicati minacciando e infliggendo pene canoniche. Un settimo capitolo fu aggiunto nella redazione diffusa nella provincia ecclesiastica ravennate ed era relativo ai chierici che studiavano presso l'Università di Bologna.
Anche durante il suo soggiorno a Firenze il M. si occupò di cose ecclesiastiche: ordinò novizi, consacrò chiese e altari; pose la prima pietra della chiesa domenicana di S. Maria Novella e per sostenere le spese dell'edificazione concesse un'indulgenza di cinque anni a chi avesse contribuito con donativi alla realizzazione dell'opera. Il M. fu inoltre cardinale protettore e difensore dell'Ordine dei serviti presso la Curia papale.
Nel 1288 il M. e il cardinale Benedetto Caetani, incaricati di esaminare una controversia che contrapponeva il re del Portogallo Dionigi ai vescovi del suo Regno, elaborarono un complesso rapporto, articolato in 40 capitoli, che portò a una completa revisione dei principî generali che regolavano le relazioni tra i poteri temporali e quelli spirituali.
Nell'ultimo periodo di vita il M. fu determinante nel conclave che il 5 luglio 1294 a Perugia portò all'elezione di Pietro del Morrone, con il nome di Celestino V, dopo una sede vacante protrattasi per ventisette mesi a causa di accese discordie all'interno del Collegio cardinalizio, del quale il M. era il decano.
Bartolomeo Fiadoni (Tolomeo da Lucca), contemporaneo agli eventi, è chiarissimo su questo, sostenendo che "ad persuasionem domini Latini Ostiensis episcopi [(] vota sua dirigunt cardinales" (Historia ecclesiastica, col. 1199), affermando inoltre che il M. "fuit principalis in faciendo eum [Celestino V]" (Annales, p. 229) e, infine, che "dominus Latinus graviter infirmatur, in quo totus pondus incumbebat super electioni Celestini" (Historia ecclesiastica, col. 1199). Lo stesso Tolomeo da Lucca, nella Historia ecclesiastica, mette in rilevo quanto il M. fosse legato da devozione e amicizia a Pietro del Morrone e quanto avesse sostenuto con elemosine lui e i suoi confratelli, specialmente quelli residenti in Roma.
Ancora a proposito del ruolo centrale avuto dal M. nell'elezione di Celestino V, Bernard Gui commentò che di tale elezione il M. "post Deum, fuerat motor primus" (Vitae pontificum Romanorum); ed è stato recentemente ipotizzato che l'elezione di Celestino V fosse scaturita proprio da accordi intercorsi tra il M. e il re di Sicilia Carlo II d'Angiò (cfr. Golinelli). Le fonti al riguardo sono però totalmente reticenti, ma in ogni caso non si può non convenire sul fatto che fosse effettivamente il M. a convogliare i voti degli altri cardinali su Pietro del Morrone, il quale, per spessore morale e religioso, per il fatto di essere suddito del re di Sicilia, ma pure per la veneranda età, doveva apparirgli come idoneo ai piani della Chiesa e del sovrano angioino, nonché per venire incontro alle aspettative di quella larga parte dei cristiani che agognavano l'avvento di un papa angelico, oltre che ai forti interessi economici dei Fiorentini.
Il M. morì a Perugia il 9 o il 10 ag. 1294. Fu sepolto nella chiesa romana di S. Maria sopra Minerva.
Il testamento del M. è andato perduto; si è conservato, invece, un codicillo testamentario, dal quale si deducono il suo attaccamento alla basilica di S. Pietro in Vaticano e la sua devozione nei confronti di s. Domenico e di s. Gregorio Magno; egli definisce il primo "pater meus spiritualis" (Paravicini Bagliani, 1980, p. 269), in onore del secondo dispone l'istituzione della festa della consacrazione (2 settembre). Alla basilica vaticana lasciò un importante complesso immobiliare (forse la sua residenza romana) situato presso il cosiddetto Palatiolum, ossia le pendici del Gianicolo, prospicienti la basilica stessa, accanto alla chiesa di S. Michele dei Frisoni.
Nel sermone scritto per la morte del M., Remigio de' Girolami ne traccia un vivo e denso profilo, esaltandone virtù, sapienza e capacità, dottrina, attitudini artistiche e poetiche, ingegno e cultura letteraria, stile ed eloquenza: "oriundus de Roma que anthonomastice vocatur Urbs, et quantum ad modum, scilicet sue conversationis et suorum morum; item in nobilitate, qui ex parte patris filius fuit domini Angeli Malabranche qui fuit potestas istius civitatis et septies fuit Rome senator; ex parte autem matris fuit filius sororis pape Nicholai de Ursinis" (Salvadori - Federici, p. 488).
Il M. ebbe fama di buon cantante e soprattutto di compositore musicale; scrisse inni sacri, responsori e sequenze; gli si attribuisce addirittura la composizione della stupenda sequenza del Dies irae.
Tra le opere del M. (per le quali si rinvia a Kaeppeli) si ricordano: i carmi De beata Virgine Maria e Planctus de morte fr. Thomae de Aquino; il commento In sententias Petri Lombardi; il Liber quando episcopus cardinalis missarum sollemnia celebraturus est; la Prosa de beate Mariae Virginis; Prothema; nonché svariati sermoni.
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