latino
In funzione sostantivale o aggettivale, la voce ricorre con alta frequenza (specie nel Convivio) e con interessanti variazioni di significato.
Il riferimento alla " lingua dell'antica Roma " domina nei passi della Vita Nuova (poete in lingua latina, XXV 3; versi in latino, § 4; versi latini, § 6; parole... latine, XXX 2), e nel Convivio. In questo trattato, le citazioni sono inquadrate nei capitoli di discussione linguistica tra l. e volgare e conoscono ambiti assai tecnicizzati. Così D. usa lo latino per " lingua latina " nelle battute famose di I V 7 lo latino è perpetuo e non corruttibile; V 12 lo latino molte cose manifesta concepute ne la mente che lo volgare far non può; IX 11 pronta liberalitade mi mosse al volgare anzi che a lo latino, e in altri passi meno incisivi anche se del pari importanti e caratterizzati dall'uso sostantivale: I V 14 (2 volte), VI 1, 2, 6, 7 (2 volte), 8, 9 (2 volte), 10 e 11, VII 3, 5, 8, 10, 11, 12, 13 e 15, VIII 2, IX 2, 4, 6, 9 e 10 (2 volte), X 1, 5, 10 e 12, XI 14, XIII 5 (2 volte), III XI 5, IV VI 5. Funzione aggettivale connessa al commento latino delle canzoni in I V 1 e 7, VI 6, VII 1, 3 e 7, VIII 1, IX 1, X 10. Usi aggettivali eccentrici solo in I V 8 le comedie e tragedie latine, e IV IV 10 la gente latina (" dell'antica Roma ").
L'accezione etnica domina nella Commedia, ove nondimeno è presente con un massimo di estensione semantica, dato che l'appellativo designa " gl'Italiani " eredi diretti della gloriosa stirpe di Roma, secondo un uso di cui è traccia nello stesso Convivio (IV XIII 13 li Latini, e da la parte di Po e da la parte di Tevero; XXVIII 8 lo nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano; ma cfr. VE I VI 4, X 9, XII 4 e XV 6). Pertanto terra latina è l'Italia (If XXVII 27 e XXVIII 71) e Latini gl'Italiani (XXVII 33, XXIX 88 e 91, Pg XIII 92). Da segnalare in proposito la differenza stabilita tra stirpe e schiatta provinciale nelle parole di Omberto Aldrobrandeschi: io fui latino e nato d'un gran tosco (Pg XI 58); l'ambigua posizione dei Sardi all'interno della ‛ latinità ' dantesca: conosci tu alcun che sia latino / sotto la pece? (If XXII 65. La risposta I ' [Ciampolo] mi partii /... da un [frate Gomita, sardo] che fu di là vicino, pare rinviare a VE I XI 7 Sardos etiam, qui non latii sunt, sed latiis associandi videntur, eiciamus...), e l'altissimo omaggio a Virgilio gloria di Latin (Pg VII 16), " non solo antichi, ma anche moderni " (Grabher).
Uso assai interessante in tre passi del Paradiso, ove l. vale " linguaggio ": X 120 quello avvocato dei tempi cristiani [Orosio] / del cui latino Augustin si provide (bene il Grabher: " del suo parlare, di ciò che Paolo disse "; altri " della sua dottrina "); XII 144 mi mosse l'infiammata cortesia / di fra Tommaso e 'l discreto latino (ma altri intendono che s. Tommaso abbia parlato in latino); XVII 35 per chiare parole e con preciso latin. Si tratta di cadenza comune nella lingua della poesia e della prosa culta due-trecentesca da Cecco Angiolieri (Tutto quest'anno 14 " i' non ne fo però un mal latino ") a Meo dei Tolomei (Da te parto 5 " 'n tuo latino / sì usi spesso: - Non so che ti dici ! - "), da Cino da Pistoia (Su per la costa 22 " con t[u]oi latini / facéi contento ciascun che t'udia ") a Boccaccio (Fiammetta I " egli, più savio che io non pensava, astutissimamente si guardava dal falso latino "), nata metaforicamente dal parlare spontaneo di un tempo in cui il l. aveva dignità di lingua d'uso. Ad ambito figurato simile rimandano gli usi, tipicamente danteschi, di Pd III 63 m'aiuta ciò che tu mi dici, / sì che raffigurar m'è più latino, in cui la voce vale " facile " (ma già Betto Mettefuoco Amore perché 55 " ègli così latino "; e G. Villani [XI 20] dice di papa Giovanni XXII che " assai era latino di dare udienza ", cioè " facile " a darla; il Parodi [Lingua 281] collega questo passo a quello di Cv II III 1 A più latinamente vedere la sentenza litterale...), e Rime CXIII 2 la voce vostra sì dolce e latina, ove si tende verso l'accezione di " limpida ", " chiara ".
La lingua latina. - Il I. è per D. lingua artificialis di fronte al volgare usuale (Cv I V 14 lo volgare seguita uso, e lo latino arte). Il pensiero dantesco sul rapporto l.-volgare e sulla maggiore importanza dell'uno o dell'altro è discusso. In Cv I V 7-14 il l. è detto sovrano... per nobilità... perché lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile... per vertù... con ciò sia cosa che lo latino molte cose manifesta concepute ne la mente che lo volgare far non può... per bellezza perché quello sermone è più bello ne lo quale più debitamente si rispondono [le parole; e più debitamente si rispondono] in latino che in volgare: e per nobilità s'intende la stabilità della convenzione, per vertù la capacità espressiva, per bellezza l'articolazione della struttura. In VE I I 3-4 è invece il volgare a essere definito nobilior di fronte al l., locutio secundaria, gramatica, riservata ai pauci che non nisi per spatium temporis et s'udii assiduitatem riescono a conquistarne regole e dottrina: il volgare è più nobile del l. perché è la prima lingua humano generi usitata, perché totus orbis ipsa perfruitur e perché è naturalis, mentre il l. è artificialis.
La contraddizione è solo apparente, anche se ha dato luogo a infinite discussioni: basterà considerare la differenza fra i due piani di giudizio, quello della ‛ sovranità ' del l. che si fonda su una semplice constatazione di fatto (il l. è lingua letteraria e il volgare no) e quello della ‛ nobiltà ' che opera invece su una convinzione etica e su una valutazione qualitativa: di fronte al volgare è il l. e non è il sermone del nuovo mondo né veicolo sufficientemente ‛ nobile ' per trasportare alle genti le varie espressioni della missione di Dante. È possibile illustrare questa soluzione. In Cv I XI 11-14 D. difende il suo volgare illustre di fronte a quello dei falsi dicitori che commendano altro volgare lo quale non è loro richesto di fabbricare e fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza e adduce a conforto Tullio nel principio d'un suo libro che si chiama Libro di Fine de' Beni. Ebbene, è probabile che D. intenda la polemica di Cicerone (Fin. I II 4 qui citato) come rivolta a difesa di un sermo patrius contro l'imposizione di una lingua artificialis e ne ricavi l'equivalenza di una difesa del parlare italico di fronte a quello di Provenza. In questo caso, dato che la lingua artificialis osteggiata da Cicerone è il greco, gramatica per D. come il l. (VE I I 3 Est et inde alia locutio secundaria nobis, quam Romani gramaticam vocaverunt. Hanc quidem secundariam Graeci habent et alii, sed non omnes), sarà pensabile che il giudizio politico rivolto al parlare di Provenza possa essere trasferito al l. gramatica (v.).
Il Vinay fu il primo a intuire che i due confronti l.-greco e volgare italico-volgare di Provenza potevano essere facilmente ridotti al confronto volgare illustre-l., anche se finì poi col respingerne la possibilità, coinvolgendo questa ovviamente la conclusione che D. potesse pensare che il mondo di Cicerone parlasse un linguaggio vivo e che quindi in questo identificasse il tripharius capostipite delle lingue romanze: " A voler essere loici a ogni costo, forse tutto si accomoderebbe dicendo per esempio che D. ha trasferito al tempo di Cicerone i problemi dei tempi suoi e immaginato che esistesse allora la possibilità di tradurre dal greco in un volgare romano del tutto diverso dal l. stesso del De finibus. La soluzione più saggia è forse quella di non proporne alcuna affermando invece che la difficoltà è insita nel pensiero di D. quando scrive il Convivio ". C. Grayson ha riesaminato la questione, evidentemente sulla traccia del Vinay, negando egli pure che D. abbia potuto " pensare a una opposizione fra un latino in movimento e un greco canonizzato grammaticalmente " dalla lettura del luogo ciceroniano. Gli argomenti addotti sono due: 1) che il parallelo con la situazione volgare italico-volgare di Provenza sarebbe " improprio ", non vedendosene le simiglianti cagioni (Cv I XI 14 Contra questi cotali grida Tullio nel principio d'un suo libro che si chiama Libro di Fine de' Beni, però che al suo tempo biasimavano lo latino romano e commendavano la grammatica greca per simiglianti cagioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza); 2) che D., se avesse inteso in questo senso, avrebbe usato il parallelo per la situazione analoga dei rapporti volgare illustre-latino. Escludendo il secondo argomento, limitato alla constatazione del silenzio, rimane il primo: ebbene, sono convinto che sia possibile pensare che D. scorgesse simiglianti cagioni fra l'atteggiamento dei grecizzanti del tempo di Cicerone e quello dei provenzaleggianti della sua epoca. Su quale piano di simiglianza li collocasse potrà essere chiarito dall'analisi del concetto di gramatica a cui va inevitabilmente riferito sia il giudizio sul provenzale, sia quello sul latino.
D. intende per gramatica: 1) generalmente la struttura di ogni linguaggio convenzionale perpetuo e non corruttibile a cui non capiti che a piacimento artificiato (Cv I V 8) si transmuti (VE I IX 11 Haec cum de comuni consensu multarum gentium fuerit regulata... nec variabilis esse potest); 2) particolarmente il l., esempio sperimentato da D. di gramatica, e quindi il greco e tutte le locutiones secundariae che hanno avuto alcuni popoli di vasta civiltà letteraria. Il latino romano di Cv I XI 14 è gramatica nei confronti del volgare, come il greco è gramatica nei confronti del latino romano: è ammissibile sciogliere così il nodo di Cv I XI 14 (v. GRAMATICA). Aggiungerei però che nel contesto di Cv I XI 14 quel gramatica riferito al greco assume un particolare significato, chiarito com'è dalla particolare interpretazione che D. dà alla discussione ciceroniana del De Finibus. È un epiteto sicuramente ostile, se sta a qualificare il greco che D., sulla base di Cicerone, non poteva non considerare, nel confronto con lo latino romano, se non come lingua moralmente corrotta per l'uso che ne pretendevano gruppi, come quelli dei grecizzanti ciceroniani, retrivi e sordi alle esigenze del pubblico romano. Come Cicerone biasimava (Fin. I II 5) i suoi concittadini che dispregiavano le letture latine, così D. inveisce contro li malvagi uomini d'Italia che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, accusando la loro mossa di cinque abominevoli cagioni. La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d'invidia; la quinta e ultima, viltà d'animo, cioè pusillanimità (Cv I XI 1-2), e s'intende che la viltà d'animo è lo stesso che non-nobiltà e dipende fedelmente da Cicerone (Fin. I II 5 " rudem enim esse omnino in nostris poëtis aut inertissimae segnitiae est aut fastidii delicatissimi "). È per questa viltade che molti... dispregiano lo proprio volgare, e l'altrui pregiano. E tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi d'Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s'è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto suona ne la bocca meretrice di questi adulteri (Cv I XI 20-21). E appunto che la bocca meretrice dei parlanti faccia vile il linguaggio, D. lo ha dedotto da Cicerone, di cui riproduce le ire e lo sdegno. Ma non si tratta certo di una semplice constatazione. È Cicerone che gli dà spunto al concetto di nobiltà del volgare insita nell'uso che ne fanno classi e uomini di vera nobiltà. Si può obiettare che, in questa prospettiva, si debba concludere che D. sia stato convinto in definitiva che lo latino romano del tempo di Cicerone fosse stato la lingua naturalis e dell'uso della romanità. Può darsi, anche se non è sicuro che si sia fatta una domanda del genere. Ma è certo che non vede nel l. una vera e propria mobilità. Né avrebbe potuto, non avvertendo l'evoluzione semantica e strutturale della lingua latina, immaginarla viva nel suo trasmutare storico.
In Pg VII 16-17 " O gloria di Latin ", disse, " per cui / mostrò ciò che potea la lingua nostra ... " il l. è lingua nostra soltanto in quanto " lingua d'eloquenzia e di poesi " (Francesco da Buti), come ho cercato di dimostrare (G. Brugnoli, Lingua nostra, in " Rivista di cultura classica e medioevale " X [1968] 324-327): " quando Stazio parla del suo dolce e vocale spirto intende della ‛ sua lingua ', del suo carmen e della sua vox. La ‛ lingua ' di Sordello in cui Virgilio ‛ mostrò ciò che potea ' è quindi la poesia. Virgilio, come l'un Guido e come Dante, ha conseguito la ‛ gloria della lingua ', la gloria della poesia: perciò è ‛ gloria de' Latin '. Ammesso che ‛ lingua ' vada inteso come lingua ‛ d'eloquenzia e di poesi ', il ‛ nostra ' deve spiegarsi nell'accostamento a ‛ lingua ', come ‛ di noi ', sì che l'intera giuntura ‛ lingua nostra ' avrà il senso di ‛ la poesia che è nostro patrimonio ' ".
D. non scorge del l. se non la decadenza morale, nell'aver perduto il rapporto con il pubblico, e su questa constatazione soltanto articola la sua condanna. Giustamente il Paratore spiega la scelta di D. in favore del volgare con l'osservazione che a D. stesse a cuore " rivendicare questa patente di nobiltà " perduta dal l. e conquistata dal volgare, " proprio perché egli era poeta in questa lingua, per lo stimolo che la sua personalità avvertiva di rendersi intelligibile al maggior numero possibile dei suoi simili, dati i fini messianici sempre da lui avvertiti nella sua poesia ". Aggiungerei: e ancora per la coscienza dei suoi maggiori e per l'amoroso vagheggiamento della semplicità saturnia di una Firenze sobria e pudica (Pd XV 99) e della naturale nobiltà della favella di quell'esemplare mitico di cui Cacciaguida è la figurazione politica intorno alla quale gira l'intera struttura del grande carmen laicum. Nel quadro della grande difesa del volgare di Cv I XI il l. viene definito meno nobile del volgare, come il greco meno nobile del latino romano, come la lingua di Provenza meno nobile del parlare italico, se è vero che hanno torto quelli che fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza (§ 14), se ha ragione Tullio che biasima coloro che mettono il greco di sopra al latino. La gramatica greca, termine di paragone del provenzale in Cv I XI 14, è come la gramatica latina di VE I I 3, indicativa del linguaggio strutturato, ma nell'uso di élites, che D. vede, ostilmente, degenerate in quanto moralmente artificiali, fra cui molti sono che amano più d'essere tenuti maestri che essere (Cv I XI 11), in opposizione al linguaggio naturale che appunto perché a piacimento artificiato è invece libero da schemi e strutture di mala nobiltà. In questa angolazione, credo, è da valutarsi la comparatio nobilitatis fra l. e volgare.
È chiaro che il concetto di nobiltà del volgare va analizzato nell'ambito dell'intera quaestio nobilitatis a cui è dedicato tutto il libro IV del Convivio. Qui, com'è noto, D. obietta alla definizione di nobiltà come generis virtus, peripatetica e tomista, una proposta di tono guinizzelliano (Cv IV XVI 8 E così manifestamente vedere si può che generalmente questo vocabulo, cioè nobilitade, dice in tutte cose perfezione di loro natura) su un piano politico chiaramente guelfo. Nel quadro della comparatio nobilitatis fra l. e volgare la sistemazione del IV del Convivio potrebbe essere chiarificatrice. Responsabilmente il Vinay: " Di fronte alla provvidenzialità dell'Impero, alla ‛ santità ' di un popolo cui Dio non ha posto ‛ termine di cose né di tempo ' [Cv IV IV 7], lo stesso criterio di ‛ artificialità ' e di ‛ naturalità ' addotto per difendere il volgare, perde ogni forza di persuasione, e difatti il rapporto natura-nobiltà è prospettato nel quarto del Convivio in tutt'altro modo: ‛ nobilior ' perché naturale il volgare del De vulgari eloquentia, ‛ nobilior ' qui ciò che è più perfetto secondo la propria natura... ", concludendo che nella coscienza del l. " perfetto nella sua natura di strumento di comunicazione tra le gentes dell'orbe imperiale e cristiano… è tutto intero il sistema del De vulgari eloquentia che crolla... ". Certo è che nel I libro del Convivio, la cui composizione fu con molta probabilità parallela a quella del De vulg. Eloq., la posizione di D. nei confronti dei letterati che usano il l. e della loro falsa nobiltà è assai violenta. In Cv I IX 2-3 i letterati che usano il l. sono identificati, secondo gli schemi delle Summae morali, in coloro che per la loro avarizia non posseggono vera nobiltà; in Cv I IX 5 la loro localizzazione sociale è minuziosamente precisata nel confronto con i veri nobili, non di genere, ma di natura, non letterati, ma volgari. La convinzione che il l. fosse lingua inadatta a esprimere il pensiero della nuova vera nobiltà, dev'essere, dunque, nata in D. da una fermentazione d'insofferenza prodotta dall'ambiente politico e culturale della borghesia mercantile in cui coscientemente operò. La stessa affermazione di Cv I V 1 che il l. sia frumento di fronte al volgare che è biado, va quindi intesa in senso classista. E si veda pure Vn XXV 3-4 e 6, VE II II 8. Che nel libro IV del Convivio ci sia un ripensamento di questa posizione, come sostiene il Vinay - quando la reductio ad unum dei dialetti d'Italia doveva ormai apparire a D. incompatibile con la reductio ad unum del mondo sul piano politico e sociale - è plausibile e giustifica la composizione delle Egloghe. Qui, al termine della sua vita, D. è certamente in una fase di recupero del l. come lingua d'arte. Se la Comedia fu la realizzazione pratica del ‛ monumentum ' della locutio vulgaris, le Egloghe sembrano riproporre, almeno su un piano di comunicazione umanistica, il problema dell'utilizzazione del latino.
Il l. usato da D. è il l. stabilizzato e suggerito dalle artes dictandi. Come tale è stabile nella produzione dantesca e non subisce evoluzione da un'opera all'altra; le variazioni sono soltanto nell'eventuale diversità del genere letterario affrontato: così è nella Monarchia e nelle Epistole, dove l'assunto aulico obbliga D. a costruzioni più ambiziose ed elaborate. Tuttavia nell'ambito dei singoli generi trattati da D. e dai suoi contemporanei non è dato scorgere una particolare cifra stilistica di Dante. Lo stesso dicasi per quel che riguarda l'uso del cursus.
Queste osservazioni sono valide con una forte pregiudiziale. La schedatura del l. di D. di cui siamo in possesso non permette sicurezza di valutazioni. Gli strumenti di cui disponiamo sono infatti assai elementari e variamente criticabili. Essi si basano sulle registrazioni delle edizioni critiche, ma trascurano sempre le varianti, che sono spesso sostanziali. Non vale certo a eliminare questa esigenza la constatazione che la gran parte delle edizioni critiche o non registra affatto o registra sommariamente e malamente le varianti dei manoscritti. Il dubbio sulla validità scientifica delle schedature sinora prodotte del l. di D. permane. Si aggiunga il disagio provocato in questa schedatura dalla diversità d'impostazione delle edizioni critiche che, com'è noto, non rispecchiano un quadro unitario né linguistico né grafico del l. di Dante. Le caratteristiche del l. usato da D. risultano perciò accertabili nei limiti di questi dubbi di base.
Le concordantiae delle opere latine di D. pubblicate a Oxford da Rand, Wilkins e White nel 1912 sono l'unico sforzo assolto nei confronti della schedatura del l. di Dante. Oltre che della situazione editoriale ovviamente arretrata al 1912, esse risentono di tutti i dubbi su esposti e delle loro conseguenze che risultano pienamente nell'incertezza della schedatura. Aggiungono inoltre ulteriori elementi di disagio per i criteri organizzativi che appaiono oscillanti e in ogni caso poco meditati. Si nota, ad esempio, che i comparativi e i superlativi sono elencati, senza criterio, a volte sotto il positivo, a volte sotto il grado di comparazione; le voci verbali sono indifferentemente riportate o sotto le varie forme temporali o sotto il verbo capostipite; addirittura la grafia u per v di alcune edizioni non è uniformata alla grafia v per u di altre. Sul sospetto nei riguardi di questa, che è l'unica schedatura generale in nostro possesso, non rimane che sfruttare gli indices verborum delle singole opere, di cui il più impegnato è il Glossario aggiunto dal Marigo alla sua edizione del De vulg. Eloquentia. Esso " comprende le voci che differiscono per significato, costrutto, grafia dalla latinità classica, o vi hanno un uso assai raro... o non vi sono usate affatto ": sono indicati con un asterisco i supposti neologismi danteschi, con due i volgarismi. Nel De vulg. Eloq. risultano neologismi al Marigo: abmotim, ambages, anteriotitas, artificiatus, astripetus, biblia, calabri, campso, cantionarius, canto, comoedia, comice, congremiatio, contatim, contemptive, crudeliter, devexio, dictum, dimeter, aeneida, fascio, fastigiositas, gemo, grandiosus, inalterabilis, insipidus, invenio, inventor, latium, latius, mixtus, montaninus, mox postquam, nequitatrix, nugatio, oretenus, parisillabus, pentameter, plausor, praeparatus, praerogo, primiloquium, principio, redigo, rude, sillabico, sirma, socio ad, sonus, stantia, subsecundarius, successive, superexcellentia, superficietenus, tot tot, tragoedia, tragice, tragicus, tredenus, trisillabitas, trisonus, tristiloquium, turpiloquium, undique, unus... alius, venatio, versus, vulgare, vulgares gentes, vulgaris, vulgaritas. In realtà, come si può dedurre facilmente e lo stesso Marigo giudiziosamente annota, si tratta di " voci di uso non accertato " nel significato che il Marigo ha creduto di ricavarne dal De vulg. Eloq., ma facilmente recuperabili e oggi in alcuni casi chiaramente recuperate nello stesso e in altri significati in altri autori dell'età di Dante. Lo stesso discorso vale per i volgarismi individuati dal Marigo nel De vulg. Eloq. e per cui serve tutt'al più l'osservazione che la loro presenza è percentualmente adeguata alla situazione generale del l. scolastico della trattatistica più aulica dell'età di Dante. Marigo segnala comunque: ad minus, ad plus, cantor, cantus, coronatus, ecce quod, gramatica, nota, pes, tonus, tuscani, uterque duorum; ma, se si escludono le parole tecniche e le forme avverbiali, rimane solo coronatus = " sovrano " di VE I XII 4, un participio peraltro attestato già in forma sostantiva, anche se non in questo significato, nell'uso classico.
Nonostante la precarietà della schedatura del lessico latino di D. e gli scarsi risultati che essa può offrire, anche al di fuori di ogni contestazione metodica e di sostanza, l'attenzione degli studiosi si è volta costantemente al latino di D. pretendendo di coglierne le caratteristiche peculiari. Melanconica ma giusta la valutazione che di questi tentativi ha fatto il Vallone: " Ma la ricerca dello stile non porta ad una qualificazione esemplificativa (ed è e rimane questo il primo passo) del latino di Dante, né ad una indagine distintiva delle varie opere e del vario atteggiarsi della lingua in relazione agli scopi o ai contenuti. Si cerca soprattutto e ripetutamente il cursus. Né sembra, in tale settore, che altro possa aggiungersi ". La mancanza, pur giustificata da difficoltà oggettive del recupero del materiale, di un serio tentativo di analizzare il l. di D. in confronto e in relazione all'uso della sua epoca, riporta infatti quasi tutti i tentativi di analisi finora prodotti al livello dell'opinabilità e molto spesso sotto il sospetto che essi siano stati influenzati, nelle loro conclusioni, dalla suggestione della figura stessa di Dante. Gratuito rimane, proprio per questa deficienza di analisi, ad esempio, il giudizio del D'Ovidio che giudicò " nervoso, spigliato, franco " il l. del De vulg. Eloq., o quello del Parodi che ipotizzò per il cursus che D. " avesse in proprio altre particolarità ", quando poi quelle particolarità " rimangono… sospese e inintellegibili nel concreto terreno storico e letterario " (Vallone). D'altra parte giudizi più temperati come quello del Di Capua che osservò che " il latino del De Monarchia è un latino dialettico, quello del De vulgari eloquentia è un latino retorico " appaiono scontati. Appare infatti ovvio che, se a un manifesto letterario quale è il De vulg. Eloq. conviene l'ornatus difficilis suggerito dalle artes per tal genere di trattazione, sotto questo impegno potranno spiegarsi sia l'inserzione di vocaboli preziosi e rari nel tessuto espressivo, sia lo sforzo della costruzione sintattica e stilistica, sia l'osservanza del cursus che notiamo in quest'opera. Ed è altrettanto ovvio invece che in un'opera come la Monarchia l'impegno concettuale, se ha fatto mettere da canto nella parte riservata alla dimostrazione dell'assunto molte velleità di carattere stilistico, nei prologhi e nelle parti programmatiche e specialmente in quei luoghi dove D. discute auctoritates che intende sottolineare come fondamentali, ha prodotto una cifra stilistica altrettanto notevole che quella che si riscontra nel De vulg. Eloquentia. È probabile che quelle parole che D. sentiva come nuove e preziose servissero appunto e soltanto a questo sforzo di ottenere una sottolineatura del concetto attraverso l'ornatus difficilis. Vero è che D. mostra in questa costruzione stilistica un personale e forte spirito di emulazione che lo contraddistingue fra i suoi contemporanei. Più difficile è ammettere che sentisse " la profonda diversità fra il latino dei suoi prediletti poeti classici e il latino artificiato dei trattatisti e dei dictatores " (Paratore). " Il latino di D. è essenzialmente conforme alla lingua della grande comunità medioevale ed europea dello studium " (Frenzel).
Come abbiamo riferito, un certo numero di vocaboli del De vulg. Eloq. è stato indiziato dal Marigo del sospetto di neoformazione dantesca. Il Marigo attribuiva queste innovazioni " a riflessi culturali, non a volgarismi e, se non sempre a conio dantesco, a formazione abbastanza recente ". È da escludere comunque, come osservò il Curtius, che D. abbia potuto o voluto modificare la latinità corrente della scuola sia con innovazioni o calchi dal volgare particolarmente clamorosi, sia con il recupero umanistico di termini di antiquariato. D. assume i vocaboli rari e preziosi dalla letteratura scoliastica e dai lessici correnti, particolarmente Uguccione. È nel giusto il Frenzel quando afferma: " la latinità di D. è latinità medioevale; non c'è nell'opera del poeta nessuna relazione di ‛ scoperta ' o di ‛ ritorno ' nel riguardo dell'antichità classica ". Lo stesso buon senso deve valere per la valutazione dei grecismi e dei volgarismi usati da Dante. Tuttavia la questione, data anche la difficoltà di accesso ai repertori scoliastici (scoli, glosse, lessici) di cui si servì D. appare piuttosto inutile, come al momento insolubile. Io stesso ho, vista la situazione, creduto di poterla modificare in termini utilizzabili: premessa la provvisorietà delle nostre cognizioni, sarebbe sempre possibile un'indagine sulla frequenza dell'uso di vocaboli rari e preziosi, ma a fini specificatamente utilizzabili per determinati problemi: a) la verifica dell'autenticità di alcune opere sulla cui appartenenza a D. si discute ancora (Egloghe, Quaestio, alcune Epistole); b) la verifica del trattamento delle auctoritates nell'ornatus difficilis e nelle posizioni di preminenza stabilite dalle artes, il che porta a sospettare la presenza di un'auctoritas in ogni passaggio stilisticamente evoluto o comunque determinato da vocaboli rari e preziosi. Ritengo ancora valida questa impostazione nei limiti almeno dei risultati che ne ottenni. Per quel che riguarda il punto a) cito ad esempio le osservazioni che feci per la questione specifica dell'autenticità delle Egloghe. Mettendo infatti a confronto le analisi statistiche degli usi dei grecismi, dei composti e dei diminutivi da una parte nelle due Egloghe attribuite a D. e dall'altra nel carmen e nell'Egloga attribuita a Giovanni del Virgilio, se ne può concludere che l'uso è statisticamente differenziato nei due autori, deducendone, per quel che possono valere analisi del genere, un argomento in più contro la tesi di A. Rossi e di altri che indiziava di falso boccacciano l'intero corpo bucolico tradito (Giovanni del Virgilio + D.): era evidente infatti che Boccaccio, se ne fosse stato l'autore, non avrebbe potuto, né sul piano ideologico né su quello tecnico, arrivare a differenziare la cifra stilistica dei due autori che intendeva falsificare. Per quel che riguarda il punto b) mi rifaccio all'analisi che feci del proemio della Monarchia. La presenza di uno sforzo eccezionale d'impegno nell'ornatus serviva a nascondere lì un'auctoritas (Sall. Catil. I I) estremamente rara per Dante.
L'usus dei classici in D., come in tutta la scuola, è legato alle regole della Imitationstechnik, cioè del procedimento di ripresa musivo e allusivo della fonte. Tale procedimento, soggetto a molteplici e raffinate variazioni, rimane sostanzialmente analogo a quello che, formulato come segreto iniziatico di conventicole culturali del mondo antico, fu assunto a modello dalle scuole di palazzo e poi, nel tardo-antico, dalle loro dirette dipendenze, le scuole episcopali e monastiche. Le scuole borghesi e la loro trattatistica (all'epoca di D. le artes) ne tramandano gelosamente la normativa. La stessa tradizione scolastica impone i canoni degli auctores (gli autori regulati). La latinità di D. è sottoposta ovviamente all'influsso di queste letture canoniche, e la sua tecnica d'imitazione si adegua a quella degli esemplari.
Il Renucci ha postulato nella cultura classica di D. la conquista graduale, dalla Vita Nuova, all'Inferno, al Convivio e alle altre cantiche della Commedia, di un repertorio sempre più raffinato. È una tesi plausibile anche se rimangono dubbi sostanziosi sul modo di collocare cronologicamente le varie soste di questa evoluzione culturale. Allo stato degli studi si riconosce a D. con il Moore la conoscenza diretta dei quattro poeti regulat i (VE II VI 7 Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum). Di Ovidio è sicura per il Moore la conoscenza delle Metamorfosi, delle Eroidi, dell'Ars amatoria e dei Remedia amoris: vi aggiungerei i Tristia (Ovidio Trist. III XI 41-54 = If XXVII 7-12: Renaudet). Oltre ai regulati D. mostra di conoscere parzialmente, e per alcune cose indirettamente, Orazio (sicuramente l'Ars ed Epist. II I), Giovenale (indirettamente la sat. VII, direttamente la VIII), Persio (quasi tutto direttamente) e forse, attraverso florilegi, Ausonio e il Corpus Tibullianum. I prosatori regulati di VE II VI 7 (Titum Livium, Plinium, Frontinum, Paulum Orosium) sono piuttosto una pretesa di stabilire un canone quadripartito forse laico (Mengaldo) di ‛ altissima prosa ' parallelo a quello dei poeti. È probabile che D. conosca direttamente fra loro, forse qualcosa di Livio, certamente Orosio. Fra i classici gli saranno stati noti Cicerone (il Moore cita: De Officiis, De Finibus, De Amicitia, De Senectute, De Inventione [= Rhetorica Vetus ], il I degli Academica, il Somnium Scipionis indirettamente attraverso Macrobio, i Paradoxa, la pseudo-ciceroniana Rhetorica ad Herennium [= Rhetorica Nova ]), Boezio, Seneca il Giovane (De Beneficiis, Epistulae, Naturales quaestiones, lo pseudo-senechiano De quatuor virtutibus ovvero Formula vitae honestae che è invece di Martino di Braca e il frammento De Remediis fortuitorum), Seneca il Vecchio (le Controversiae, ma forse indirettamente), Floro, Valerio Massimo, Vegezio. Per gli autori del tardo-antico e per gli scrittori cristiani manca veramente l'indagine. Il Moore cita soltanto Agostino (De Civitate dei, De Doctrina christiana, Confessiones, Sermones, De Trinitate, ma anche altre opere), ma sicuramente saranno da aggiungersi Girolamo (ad es. Epist. LIII IX 3 = Cv IV V 16; Chron. Ol. CLXXXI 3 = If XXVIII 102), Isidoro (ad es. Orig. XIV VI-VIII = Pg XXVIII 139-144: Vallone), Prudenzio (v. SUPERINFUSA), Marziano Capella, ecc. (v. CLASSICA, CULTURA).
Interessa l'uso del l. in D. un accertamento delle possibilità del suo scrittoio, generalmente al fine della " rivelazione anche di modelli meno evidenti e meno pubblicamente conclamati, ma pur tuttavia erompenti a una più attenta analisi corroborata da sicure notizie sulla diffusione, ai tempi di Dante, della conoscenza di taluni autori latini " (Paratore); più particolarmente al fine di poter determinare le caratteristiche della sua Imitationstechnik, in modo da poter rettamente giudicare sul contributo personale di D. all'impasto linguistico, scartandone tutti gli echi imitatori.
La ripresa delle auctoritates avviene in D. di norma: a) mediante un procedimento di collatio fra due o più auctoritates classiche delle quali le più recenti siano sviluppo della più antica (ad es. le variazioni che Persio e Giovenale fanno di loci di Orazio): in questi casi D. sottolinea la reciproca dipendenza; b) mediante un procedimento di collatio fra una o più auctoritates classiche e la loro esegesi (scoli, glosse, commenti, varianti): D. introduce nelle auctoritates come variatio il dato esegetico o la variante; c) con un procedimento di collatio fra auctoritates classiche e ipotizzati paralleli scritturali o cristiani D. introduce nelle auctoritates come variatio il dato del testo religioso. Questi procedimenti sono comuni sia a D. latino sia a D. volgare e sono stati più volte dimostrati (Ronconi, Paratore, Brugnoli) in particolare per le variazioni da auctoritates latine nell'opera volgare. Procedimenti più dotti e forse più originali sono invece: a) il richiamo attraverso la variatio di un luogo precedente che viene di conseguenza spiegato; b) la variatio di un vocabolo dell'auctoritas su adattamento fonetico. Per il primo tipo di procedimento valga come esempio il divina fiamma detto dell'Eneida in Pg XXI 95 da Stazio: che sono parole di Stazio Theb. XII 816 (" divinam Aeneida "), ma che servono a spiegare il conosco i segni de l'antica fiamma di Pg XXX 48 in quanto obbligano a localizzare l'auctoritas virgiliana lì ripresa (Virgilio Aen. IV 23) in una scenografia consimile (nell'episodio di Stazio del riconoscimento; nell'episodio della dipartita di Virgilio in quella altrettanto drammatica della sparizione), al che obbliga perentoriamente la rispondenza della rima dei due episodi (Pg XXI 95, 97, 99 fiamma / mamma / dramma = Pg XXX 44, 46, 48 mamma / dramma / fiamma). Per il secondo tipo di procedimento valga come esempio il disperar di Pg I 12, variatio di uno " spernunt " di Ovidio Met. V 669 " Rident Emathides spernuntque minacia verba ".
Molti degli autori citati da D. subiscono variazioni di questo tipo che pesano inevitabilmente sia sul lessico volgare sia su quello latino. È chiaro che variazioni di questo genere costituiranno nel lessico latino di D. il prodotto di un'interpretazione filologica e non potranno essere considerate innovazioni.
Nei termini metodici su proposti e con le cautele suggerite dal buon senso che è nella posizione del Frenzel, pare legittimo limitare a conclusioni più elementari ogni eventuale osservazione sulle variazioni lessicali latine di Dante. Faccio un esempio. L'uso dei diminutivi appare più accentuato nelle Epistole (agellus, corvulus, funiculus, muliercula, munusculum, navicula [due volte], parvulus [due volte], rivulus, vulpecula) e nelle Egloghe (alveolus, bacillum, coenula, labellum, tremulus, vagulus, vasculum) che nel De vulg. Eloq. (chartula, parvulus) e nella Monarchia (areola, navicula, particula, rimula), assente nella Quaestio. Se ne può dedurre, a mio parere, soltanto questo: che la presenza di queste forme nelle Epistole è giustificata dal genere epistolare che le imponeva come caratterizzazione familiare e affettiva; nelle Egloghe si spiega invece col " tentativo di ottenere una delle caratterizzazioni prevalenti della poesia bucolica " (Brugnoli).
Vale quindi per una valutazione generale del lessico latino di D. il giudizio del Marigo sul vocabolario del De vulg. Eloq.: " esso è indubbiamente di origine culturale, anche a prescindere dalla sintassi e dal costrutto d'arte, che... rivela le raffinatezze della scuola di retorica. Il fondo è costituito da vocaboli della lingua antica seriore, collo speciale colorito di quella scritturale e patristica e con notevoli apporti della terminologia dell'alta cultura contemporanea; a questo sono da aggiungere alcuni vocaboli rari o preziosi, i cui significati etimologici rivelano l'origine dal lessico uguccioniano ". Anche se difettiamo di analisi del lessico delle altre opere latine di D., sarà prudente attenersi a questo giudizio, limitato sì al De vulg. Eloq., ma comunque l'unico scientificamente fondato su una vera analisi. Questa posizione mi pare sensata e utile a temperare gli affetti di chi passionalmente volle, proiettando sulla lingua di D. l'annosa ideologia della personalità irrequieta e dispettosa del vate, ricavare a tutti i costi e da ogni luogo una sua prepotente originalità.
Un discorso consimile servirà anche a chiarire la posizione di D. nei confronti delle norme sintattiche e stilistiche tradizionali. Qui è però possibile aprire una discussione differenziata. Se infatti ancora una volta dobbiamo convenire, per quel che riguarda l'uso sintattico, con le conclusioni ricavate dal Marigo dall'analisi della sintassi del De vulg. Eloq., e cioè che è palese la sudditanza di D. dalla normativa e dall'uso tradizionale, per quel che riguarda invece lo stile, sarà possibile, a mio parere, distinguere con assai maggior fortuna una posizione personale di D. di fronte alla trattatistica tradizionale. Quest'apertura è resa in questo caso possibile dall'ovvia constatazione della presenza nell'epoca stessa di D. di polemiche e discussioni portate avanti da diverse e avverse scuole di dettatori, in cui è innegabile riconoscere l'assunzione di diverse e contrastanti posizioni politiche. Se dunque sul piano stilistico può emergere una posizione originale di D. nei confronti della tradizione, questo si può capire col fatto che quella tradizione stilistica, a differenza di quella grammaticale, non era considerata, nel momento stesso in cui D. scrive, affatto normalizzata: D. doveva quindi prendere posizione fra le varie tendenze enunciate dalle artes dictandi. Mi sembra chiaro che questa presa di posizione debba essere postulata sul piano squisitamente politico, che è quello su cui del resto palesemente agivano le scuole dittatorie; sullo stesso piano, come mi è parso su di poter dimostrare, D. si poneva personalmente e originalmente nella polemica sulla superiorità del volgare sul latino.
I rapporti di D. con le artes dictandi sono stati sufficientemente dilucidati, da ultimo, dalla Wieruszowski. Rappresentano la retorica del tempo di D. con la sua problematica sociale e politica i Dictamina di Pietro de' Boattieri di Bologna (c. 1260-1335) e, probabilmente più da vicino, la fonte di quest'opera, una perduta Ars dictaminis di Mino di Colle di Val d'Elsa (c. 1250-post 1312) di cui ci rimangono altre Artes composte fra il 1300 e il 1312. Ma lo stile di D. è piuttosto sotto l'influsso dei principali dettatori bolognesi, di Boncompagno di Signa (morto c. 1250) e soprattutto del rivale e successore di Boncompagno, Guido Fava. Le Notulae super arte dictaminis di Mino, il Microcosmus dictaminis di Tommaso di Armannino, l'Ars dictaminis di Giovanni di Bonandrea che insegnò a Bologna dal 1292 al 1321, sono opere strutturate sul modello proposto dalle scuole rivali di Guido Fava e di Bene di Firenze (morto nel 1239) continuatore di Boncompagno. Appunto nelle opere di questi due maestri si era verificata la fusione fra la tradizione del dettato notarile e medievale, com'era stato codificato, ad esempio da Boncompagno, e l'urgenza di una nuova retorica richiesta dalle velleità culturali e politiche antisignorili della borghesia mercantile. Il nuovo stile propone un dictamen diverso dove il primo posto viene dato all'ornatus (lo bello stilo), nello spirito del De Inventione e della Rhetorica ad Herennium. La Wieruszowski sottolinea giustamente questa riforma delle artes come " the first revival of Cicero ".
D. costruisce puntualmente il suo dittato latino su quegli elementi che le artes borghesi imponevano requirenda in ogni exacuto dictamine: l'elegantia della locutio che doveva risultare congrua et apta, cioè con giusta proporzione fra le auctoritates, le sentenze, e la ratio, cioè la dimostrazione sillogistica; e propria, cioè attenta alla proprietas verborum. Nella compositio è tenuto presente soprattutto il labor limae al fine di ottenere un color e un modus dicendi personali. Ma la dignitas, la cifra stilistica, è qualificata essenzialmente dall'uso dell'ornatus verborum e del cursus (Guido Fava Summa dictaminis 104 " Dignitas est quae orationem quarundam exornationum varietate colorat "). D., come suggerivano le artes, ottiene l'ornatus verborum attraverso l'impiego dei traslati (transumptio), ma limita quest'uso all'ornatus difficilis che considera grado supremo della costruzione stilistica (VE II VI 5 Est et sapidus et venustus etiam et excelsus, qui est dictatorum illustrium, ut ‛ Eiecta maxima parte florum de sinu tuo, Florentia, nequicquam Trinacriam Totila secundus adivit '. Hunc gradum constructionis excellentissimum nominamus, et hic est quem quaerimus, cum suprema venemur). Questa posizione è genericamente equivalente a quella proposta da Boncompagno (Rhetorica novissima 281) e ancor meglio da Guido Fava (Summa dictaminis 78). Dei quattro stili della retorica medievale, il romano, l'ilariano, il tulliano e l'isidoriano, D. cita in VE II VI 5 il romano qui est rigidorum scolarium vel magistrorum e che qualifica pure sapidus; il tulliano (qui est quorundam superficietenus rethoricam aurientium, ut ‛ Laudabilis discretio marchionis Estensis, et sua magnificentia praeparata, cunctis illum facit esse dilectum ') che qualifica et sapidus et venustus e l'isidoriano, termine ultimo dall'ambizione dittatoria et sapidus et venustus etiam et excelsus di cui dà l'esempio Eiecta maxima parte, ecc., su riportato; tralascia lo stile ilariano. Lo stile isidoriano è l'ideale della prosa artistica di D. e le sue influenze sono notevoli anche sulla strutturazione della prosa volgare. È appunto con questo stile excelsus che D. intende conquistare la sua parola ornata. Egli lo realizza con un attento delectus verborum e con un meditato uso del cursus (v.). Sia nella scelta delle parole, sia nella preferenza per determinati tipi di cursus è da notare che D. si comporta con la libertà suggerita dalle artes più moderne, come quella di Guido Fava, rifiutando la rigidità del dictamen proposto da Boncompagno. Così ad esempio l'uso del cursus è più stretto nel contesto di un ornatus dificilis che serva a sua volta a sottolineare fondamentali auctoritates, e nel luogo delegato dalle artes alle auctoritates, all'inizio o alla fine di una trattazione (Guido Fava Summa dictaminis 88 " pulcriores dictiones locari debent in principio et in fine "). L'alto stilo serve a dare all'opera un poco di gravezza, per la quale paia di maggiore autoritade (Cv I IV 13): questo impegno stilistico è particolarmente evidente nei prologi, anche delle opere volgari, come ha ben visto lo Schiaffini, ma anche all'inizio e alla fine di canti o cantiche della Commedia. Nella trattatistica latina il prologo - lo ha notato il Di Capua - è retoricamente foggiato sugli schemi della " forma epistolare, seguendo in tutto e per tutto, i noti schemi che le artes dictandi assegnano a un tal genere di componimenti ". È qui appunto e nelle Epistole che D. applica più ampiamente il cursus, anche se non arriva al livello di abuso dei suoi contemporanei.
Per l'uso del cursus nelle Epistole i calcoli del Lindholm e del Di Capua concordano grosso modo: cursus planus: 68 casi = 31,8%; cursus tardus: 45 casi = 21,1%; cursus velox: 97 casi = 45,3%; cursus trispondiacus: 2 casi = 0,9%; nessun cursus: 2 casi = 0,9%. Di fronte all'uso contemporaneo D. si mostra più equilibrato, non indulgendo, come avviene ad esempio in Cola di Rienzo, all'abuso del cursus velox (84% in Cola di Rienzo). La preferenza è data nell'ordine al cursus velox, al planus e al tardus, ma con un certo equilibrio percentuale. Nel De vulg. Eloq. abbiamo la conferma di quest'uso: 117 casi di cursus planus, 57 di tardus e 105 di velox. La conclusione del Lindholm pare ragionevole: " Dante ist rhytmisch, bildet die verschiedenen Cursusformen den Regeln entsprechend, hat sich aber in der Verteilung dieser Formen von dem strengen mittelalterlichen Gebrauch freigemacht ".
Questa libertà, che non è - lo ripeto - elemento tale da poterci imbastire su un discorso sulla cifra personale stilistica di D., si riscontra anche nel comportamento di D. nell'elaborazione del discorso sentenzioso. Guido Fava insegnava che la " summa urbanitas " consisteva sia in " rethoricorum colorum flosculis dictamina purpurare ", sia in " circumvallare ", il dittato " proverbiis sapientum, et maiorum doctorum auctoritatibus insignire " (Guido Fava Summa dictaminis 103). D. si attiene spesso a questa norma. Moltissime dimostrazioni dei due trattati e delle Epistole sono sviluppate su una sententia, sia ex evidentia naturae, cioè contenere una constatazione di un dato comunemente accettato, sia derivata da un'auctoritas, dalla citazione di un auctor, filosofo o poeta, o su un testo scritturale. In questi casi è sì la sententia che nobilita l'ornatus, ma è anche l'ornatus, in queste occasioni sempre particolarmente difficilis, che sottolinea la presenza più o meno evidente della sententia. Questo comportamento è, come dissi, non solo nelle opere latine, ma anche in quelle volgari. Tenerlo presente con la dovuta e finora non prestata attenzione, servirà molto bene all'esegesi, spesso in notevole imbarazzo specialmente di fronte a ‛ loci ' che giudica disperati non essendo riuscita a enuclearvi quella nascosta eppur chiarificatrice auctoritas che appunto l'impegno stilistico intendeva, nelle intenzioni di D., generosamente segnalare. Si potrebbe quasi pensare che D., dinnanzi ai verba seniorum, si senta particolarmente impegnato alla constructio excelsa dell'ambizione scolastica. Certo è che proprio in questi casi, quando deve citare un'importante auctoritas, egli si adegua al dettato più estroso e complicato suggerito dalle artes. Ché forse l'esempio classico del linguaggio di quelle auctoritates - ma anche il classico cristianesimo della prosa di Agostino - valgono a suggerire quella moderazione nel dettato che è, se si vuole, la vera cifra stilistica del l. di D., come quella che, secondo l'acuta notazione del Segre, ha innegabili simiglianze con la grande, pacata prosa volgare del Convivio.
D. sfrutta nella stesura delle auctoritates tutti i ‛ flosculi ad exornationes sermonis ' che suggerivano le artes (Guido Fava Summa dictaminis 105-144 " repetitio, conversio, complexio, traductio, contentio, explanatio, ratiocinatio, sententia, contrarium, membrum, articulus, terminatio similium casuum, similiter desinentia, gradatio, diffinitio, correctio, occupatio, disiunctio, coniunctio, adiunctio, conduplicatio, interpretatio, commutatio, promissio, dubitatio, expetitio, dissolutio, praecisio, conclusio, nominatio, praenominatio, denominatio, circuitio, transgressio, superlatio, intellectio, abusio, translatio, permutatio ") per l'ornatus isidoriano. In questi casi il cursus appare particolarmente seguito. Si vedano alcuni esempi. VE I I 1 locutioni vulgarium gentium prodesse temptabimus, non solum aquam nostri ingenii ad tantum poculum haurientes, sed, accipiendo vel compilando ab aliis, potiora miscentes, ut exinde potionare possimus dulcissimum ydromellum: si nota la tenuta coerente della translatio dell'aqua dell'ingegno (aquam - poculum - haurientes - miscentes - potionare - ydromellum), le allitterazioni accipiendo - compilando e potiora-potionare, i due vocaboli rari potionare e ydromellum (ambedue da Uguccione) e il cursus velox: dulcìssimum ydromèllum. VE I VI 5 hac forma locutionis locutus est Adam: hac forma locutionis locuti sunt omnes posteri eius usque ad aedificationem turris Babel, quae turris confusionis interpretatur; hanc formam locutionis hereditati sunt filii Heber, qui ab eo dicti sunt Hebraei: qui l'anafora (repetitio) è impreziosita dalle due allitterazioni locutionis locutus est e locutionis locuti sunt. VE I VII 6-7 Siquidem pene totum humanum genus ad opus iniquitatis coierat, pars imperabant, pars architectabantur, pars muros moliebantur, pars amussibus regulabant, pars trullis linebant, pars scindere rupes, pars mari, pars terra vehere intendebant, partesque diversae diversis aliis operibus indulgebant, cum celitus tanta confusione percussi sunt, ut qui omnes una eademque loquela deserviebant ad opus, ab opere multis diversificati loquelis desinerent et nunquam ad idem commertium convenirent. Solis etenim in uno convenientibus actu eadem loquela remansit: puta cunctis architectoribus una, cunctis saxa volventibus una, cunctis ea parantibus una, et sic de singulis operantibus accidit: notiamo le repetitiones (pars-pars-pars-pars-pars-pars-pars-pars-partes; cunctis-cunctis-cunctis; una-una-una), le traductiones (diversae-diversis; ad opus-ab opere), il membrum (deserviebant ad opus-ab opere diversificati), la rima nei cola (architectabantur-moliebantur; imperabant-regulabant; linebant-intendebant-indulgebant-deserviebant; desinerent-convenirent; architectoribus-volventibus-parantibus-operantibus). I due periodi sono dominati dall'asindeto (dissolutio) e dall'ellissi. Il secondo è strettamente legato al primo da una traductio (commertium convenirent. Solis etenim in uno convenientibus). L'ordo artificialis è ottenuto con lo spostamento di alcuni termini: ad opus dopo deserviebant invece che prima; ab opere multis diversificati loquelis desinerent invece di multis loquelis diversificati ab opere desinerent; in uno convenientibus actu invece di in uno actu convenientibus. Sono termini rari celitus (Orosio, Isidoro) e architector (Uguccione). Il composto deservio (invece di servio) è scelto di proposito per costituire il membrum. Corona il tutto il cursus velox (commèrtium convenìrent) nel paragrafo 6 e il tardus (operàntibus àccidit) nel 7. Mn I I 3 Haec igitur saepe mecum recogitans, ne de infossi talenti culpa quandoque redarguar, publicae utilitati non modo turgescere, quinymo fructificare desidero, et intemptatas ab aliis ostendere veritates. Nam quem fructum ille qui theorema quoddam Euclidis iterum demonstraret? qui ab Aristotile felicitatem ostensam reostendere conaretur? qui senectutem a Cicerone defensam resummeret defensandam? Nullum quippe, sed fastidium potius illa superfluitas taediosa praestaret: oltre alle solite figure come l'allitterazione (fructificare-fructum; ostensam-reostendere; defensam-defensandam) e l'involuto ordo artificialis, possiamo notare la presenza della correctio (non modo turgescere, quinymo fructificare) e la serie d'interrogazioni retoriche in anafora (complexio). E si badi come i primi quattro cola siano chiusi da un cursus velox (ostèndere veritàtes - ìterum demonstràret - reostèndere conarètur - resùmmeret defensàndam), mentre il quinto che chiude il periodo è un cursus planus (taediòsa praestàret). Vocaboli rari sono turgescere, fructifìcare, reostendere, defensare, superfluitas, in gran parte del sermo humilis e della Scrittura. Arricchisce l'ornatus il connubio autorevole di Cic. Orat. I I 1 (" Cogitanti mihi saepenumero ") con Matt. 25, 14 all'inizio e la citazione degli Elementi di Euclide (introdotta dal greco theorema), dell'Ethica Nicomachea e del De Senectute di Cicerone alla fine. Mn I I 1 Omnium hominum quos ad amorem veritatis natura superior impressit hoc maxime interesse videtur: ut, quemadmodum de labore antiquorum ditati sunt, ita et ipsi posteris prolaborent, quatenus ab eis posteritas habeat quo ditetur. L'auctoritas che suggerisce l'inizio è qui Sallustio Catil. I 1 " omnes homines qui sese student preaestare ceteris animalibus summa ope niti decet ne vitam silentio transeant veluti pecora quae natura prona atque ventri oboedientia finxit ". D. la sviluppa nell'ambito del concetto tomistico (Tomm. Comm. Metaph. I 1 4) sottolineandone l'importanza con diversi ‛ flosculi ': il verbo dito che è hapax dantesco; le rispondenze isidoriane de labore-prolaborent, ditati-ditetur, posteris-posteritas; la clausola in rima videtur-ditetur; il cursus planus (interèsse vidètur) e velox (pòsteris prolabòrent; hàbeat quo ditètur). Paradigmatico per sottolineare il peso che ha ovviamente il genus sul tipo di retoricizzazione scelto da D. rimane il raffronto fra Mn II X 6-8 ed Ep VII 14, dove un medesimo tema, quello importantissimo che l'Impero romano fu de iure, subisce un diverso trattamento retorico. Si confrontino fra parentesi le variazioni di tipo isidoriano riscontrabili nell'Epistola: Sed Cristus, ut scriba eius Lucas testatur (= ut bos noster evangelizans accensus Ignis aeterni flamma remugit, con la raffinata interpolazione testuale e ideologica di Virgilio Aen. VI 98-99 " Cumaea Sibylla / horrendas canit ambages antroque remugit "), sub edicto romanae auctoritatis nasci voluit de Virgine matre, ut in illa singulari generis humani descriptione filius Dei, homo factus, homo conscriberetur: quod fuit illud prosequi (= si non de iustissimi principatus aula prodiisset edictum, unigenitus Dei Filius homo factus ad profitendum secundum naturam assumptam edicto se subditum, nequaquam tunc nasci de Virgine voluisset, dove il discorso assertivo della Monarchia viene ridotto in forma ipotetica). Sono esempi di un uso che si potrebbe documentare in modo massiccio. Così è ad esempio in Mn II V 8-15, VIII 3-9, IX 13-15, III IV 1, X 1, XI 1-2 dove l'auctor è Livïo, che non erra (If XXVIII 12). Ma anche altrove e specialmente nei grandi initia e nelle allocuzioni, come deputavano le artes, ma anche nel mezzo di un'expositio particolarmente impegnata. È qui sempre che la prosa latina di D. si svolge più solenne e distesa nella constructio excelsa, sapida e venusta, dell'effort retorico, " progrediens venusto verborum matrimonio et flosculis sententiarum picturata " come consigliava Mathieu di Vendôme (Ars versif. 110-111 Faral).
Bibl. - Per il pensiero dantesco sul rapporto l.-volgare si vedano, nell'ordine degli argomenti trattati: per la nobiltà del volgare e il concetto di l. gramatica: G. Brugnoli, Il latino dei dettatori e quello di D., in D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 113-117; G. Vinay, Ricerche sul De vulg. Eloq. I. Lingua " artificiale " " naturale " e letteraria, in " Giorn. stor. " CXXXVI (1959) 236-258 (riassunto in G. Vinay, La teoria linguistica del De vulg. Eloq., in " Cultura e Scuola " 4 [1962] 30-42); C. Grayson, ‛ Nobilior est vulgaris '. Latin and Vernacular in Dante's Thought, in Centenary Essays on D., Oxford 1965, 54-76 (da tre Barlow Lectures tenute a Londra nel 1963 sul tema " D. and the Italian Language ", di cui la terza edita come D. e la prosa volgare, in " Il Verri " 9 [1963] 6-26, ripubblicate come ‛ Nobilior est vulgaris ': l. e volgare nel pensiero di D., in Dante. Atti della Giornata internazionale di studio per il VII centenario, Faenza 1965, 101-121). Per la spiegazione politica della nobiltà del volgare: G. Brugnoli, Il latino dei dettatori, cit., pp. 117-124; E. Paratore, Il latino di D., in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 94-124 (poi in Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 127-177]; G. Vinay, Ricerche, cit., p. 257. Per altre spiegazioni, esauriente D.A., De vulg. Eloq., a c. di P.V. Mengaldo, Padova 1968, L-LXIV. Per lo stile delle Egloghe: G. Padoan, D. di fronte all'umanesimo letterario, in " Lettere Italiane " XVII (1965) 237-257; G. Martellotti, La riscoperta dello stile bucolico (da D. a Boccaccio), in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 335-346.
Per il latino usato da D.: G. Brugnoli, Il latino di D., in D. e Roma, Firenze 1965, 51-71; il glossario del De vulg. Eloq., in Marigo (ma si veda dello stesso l'appendice La latinità del trattato, ivi 299-318); A. Vallone, Il latino di D., in " Rivista Cult. Classica e Medioev. " VIII (1966) 119-204; F. D'Ovidio, Versificazione italiana e arte poetica medioevale, Milano 1910, 453 n. 2; E.G. Parodi, Intorno al testo delle Epistole di D. e il " cursus " (1912 e 1915), ora in Lingua 399-442; F. Di Capua, Appunti sul " cursus " o ritmo prosaico nelle opere latine di D. A., Castellammare di Stabia 1919 (poi in Scritti minori, I, Roma 1959, 566 n. 3); E. Paratore, Il latino di D., cit., p. 119; K. Frenzel, Latinità di D., in " Convivium " n.s., I (1954) 16-30; E.R. Curtius, D. und das lateinische Mittelalter, in " Romanische Forschungen " LVII (1943) 162-163.
Sull'uso dei classici in generale: P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi 1954; A. Renaudet, D. humaniste, ibid. 1952 (che sono preceduti soltanto da M. Scherillo, D. e lo studio della poesia classica, in Arte scienza e fede ai giorni di D., Milano 1901, 217-248; P. Chistoni, La seconda fase del pensiero dantesco: periodo degli studi sui classici e filosofi antichi, Livorno 1903). Su un piano, invece, più chiaramente interessato alle variazioni semantiche e di struttura e alle contaminazioni testuali e concettuali: A. Ronconi, Per D. interprete dei poeti latini, in " Studi d. " XLI (1964) 5-44; E. Paratore, L'eredità classica in D., in D. e Roma, cit., pp. 3-50 (poi in Tradizione e struttura, cit., pp. 55-121 e v. il cap. D. e il mondo classico, ibid. 25-54). Il censimento e l'identificazione delle auctoritates in E. Moore, Studies in D., s. 1, Oxford 1896; E. Proto, D. e i poeti latini, in " Atene e Roma " XI (1908) 23 ss., 221 ss.; XII (1909) 7 ss., 277 ss.; XIII (1910) 79 ss., 149 ss.; G. Martellotti, D. e i classici, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 125-137 (non servono V. Sirago, D. e gli autori classici, in " Lettere Italiane " III [1951] 99-134; T. Hudson-Williams, D. and the Classics, in " Greece and Rome " XX [1951] 38-42; F. Mollia, D. e il mondo classico, in " Ausonia " XV [1960] 7 ss.). Ma saranno da aggiungersi per Virgilio: A. Ronconi, Parole di D., in Interpretazioni grammaticali, Padova 1958, 86-87. Per Ovidio: P. Fabbri, Ovidio e D., Roma 1959; M. Settineri, Influssi ovidiani nella D.C., in " Siculorum Gymnasium " n.s., X (1959) 31 ss.; G. Brugnoli, D. Inf. 30, 13, in " L'Alighieri " VII 2 (1966) 98-99; ID., La primavera di Proserpina, in " Trimestre " II (1968) 236-239. Per Stazio: G. Brugnoli, Due note dantesche, in " Rivista di Cult. Classica e Medioevale " VII (1965) 248-251; ID., Stazio in D., in " Cultura Neolatina " XXIX (1969) 117-125. Per Lucano: E. Paratore, Lucano e D., in " L'Alighieri " II (1961) fasc. 2, 3, 24 (poi in Antico e nuovo, Caltanissetta-Roma 1965, 165-210); G. Brugnoli, Due note dantesche, cit., pp. 246-247. Per Persio: E. Paratore, De Persio apud Dantem, in " Latinitas " XII (1964) 193-200 (poi in Biografia e poetica di Persio, Firenze 1968, 203-210; e v. pure il capitolo Ancora di Persio in D., ibid., 210-223); G. Brugnoli, Omero sire, in " Cultura Neolatina " XXVII (1967) 120-136; ID., Lingua nostra, in " Rivista di Cultura Classica e Medioev. " X (1968) 324-327. Per Ausonio: G. Brugnoli, Tre note dantesche, ibid. VIII (1966) 270-271. Per Girolamo: G. Brugnoli, Due note dantesche, cit., pp. 246-247; ID., Tre note dantesche, cit., p. 270. Per Isidoro: A. Vallone, Isidoro di Siviglia e Purg. XXVIII, 139-44, in " Studi d. " XXXV (1958) 259-262.
D. non conosce probabilmente né Terenzio (M. Barchiesi, Un tema classico e medievale: Gnatone e Taide, Padova 1963; G. Padoan, Il " Liber Esopi " e due episodi dell'" Inferno ", in " Studi d. " XLII [1964] 75-102), né Seneca tragico (G. Brugnoli, Ut patet per Senecam in suis tragediis, in " Rivista di Cultura Classica e Medioev. " V [1963] 146-163, contro E. Parodi, Le tragedie di Seneca e la D. C., in " Bull. " XXI [1914] 241 ss.).
Sul mito classico in D.: A. Vallone, Il mito nel medioevo e in D., in " Giorn. Ital. Filologia " XVII (1964) 5 ss.
Sul problema della traduzione: F. Groppi, D. traduttore, Roma 1962².
Sulla Imitationstechnik di D., cfr. gli articoli citati di E. Paratore, A. Ronconi, G. Brugnoli.
Su D. e le artes, oltre agli scritti di F. Di Capua, in Scritti minori, cit., H. Wieruszowski, " Ars dictaminis " in the Time of D., in " Mediaevalia et Humanistica " I (1943) 95-108; A. Buck, Gli studi sulla poetica e sulla retorica di D. e del suo tempo, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 143-166 e nel volume D. e Bologna, cit., oltre a G. Brugnoli, Il latino dei dettatori, cit., G. Nencioni, D. e la retorica, ibid. 91-112; F. Forti, La " transumptio " nei dettatori bolognesi e in D., ibid. 127-149. Sul cursus: F. Di Capua, Scritti minori, cit., I 564; G. Lindholm, Studium zum mittellateinischen Prosarhythmus, Stoccolma 1963, 76-87; G. Brugnoli, Il latino di D., cit., pp 63-65. Sul discorso sentenzioso: F. Di Capua, Scritti minori, cit., I 41 ss.; G. Brugnoli, Il latino di D., cit., pp. 65-70.