LATIUM et CAMPANIA
Nell'ordinamento augusteo venivano riuniti sotto la denominazione di Latium et Campania i territori di una lunga fascia a S di Roma, tra la costa tirrenica e l'Appennino dalle foci del Tevere a quelle del Calore. Tali territori comprendevano una multiforme varietà di popolazioni, in un quadro assai complesso, che anche per obiettive ragioni di ordine storico obbliga a una distinzione delle due componenti di questa realtà territoriale, all'interno delle quali è possibile effettuare ulteriori suddivisioni.
Lazio. - In origine Latium designava solamente la parte di territorio delimitata dal corso inferiore del Tevere, dal Tirreno, dalle Paludi Pontine e dai Monti Sabini (Latium vetus), approssimativamente la stessa zona denominata «Campagna di Roma» nel Medioevo. In quest'area, l'unico porto naturale era Anzio, anche se le foci del Tevere e di altri corsi minori (p.es. l'Astura), favorivano la presenza di scali.
Variegato è il fenomeno della presenza di stirpi e di lingue differenti nel Lazio ove, con un moto convergente, si stanziarono numerosi popoli, senza però abbandonare le loro sedi originarie: i Sabini nell'VIII sec. a.C., gli Etruschi nel VII e VI, i Volsci all'inizio del V, considerando anche la costante minaccia rappresentata da Equi, Ernici e Aurunci nel VI e V sec. a.C.
Questo composito orizzonte fu ricucito con la romanizzazione, nel periodo repubblicano, e trovò sanzione amministrativa nell'ordinamento in regioni voluto da Augusto.
Tivoli e la Valle dell'Aniene. Due fra i centri più importanti del Latium vetus, Tibur e Praeneste erano situati ai margini orientali della pianura laziale, in prossimità di punti di passaggio fra le aree interne abitate dalle tribù sabelliche e la pianura laziale. Il carattere di città di frontiera rivestito da Tivoli, centro latino sul confine fra Sabini, Equi e Latini, risulta dalla necropoli del II e III periodo laziale di Rocca Pia, che con le sue tombe a circolo secondo l'uso osco-sabellico, richiama le sepolture di Terni, Tolentino e Campovalano nel Piceno, Teramo nei Praetutii, Introdacqua nei Peligni, Pescina nei Marsi, Alfedena nel Sannio. I corredi sono caratterizzati da armi e oggetti d'ornamento (anelli, orecchini, fìbule, collane di pasta vitrea e di ambra). Divinità peculiare del mondo pastorale è Ercole nel suo aspetto legato alla pastorizia, che compare nel periodo arcaico con una connotazione oracolare e terapeutica. Questo Ercole, venerato in tutta l'Italia centrale, nel Piceno e nella Cisalpina, e in stretta relazione con le rotte della transumanza, a Tivoli aveva un santuario che fu ristrutturato in età repubblicana e che era ubicato presso la valle dell'Amene.
Recenti indagini a Civitella di Riofreddo e a Corvaro di Borgorose, nel territorio degli Equi, hanno contribuito a delinearne il profilo culturale.
Gli Equi, che appartengono al gruppo linguistico osco-umbro, abitavano la valle dell'Amene, ove le prime avanguardie devono essersi stabilite già nell'Età del Ferro nel tentativo di aprirsi una via verso la pianura laziale e il mare; lo stesso tipo di tombe a circolo della necropoli di Rocca Pia a Tivoli equivale a una testimonianza del loro influsso culturale. L'esistenza di contatti avvenuti in un'età molto antica fra Romani ed Equi si deduce anche dalla leggenda che attribuiva a Fertor Resius, un sovrano equo, l'introduzione a Roma dello ius fetiale. Annientati dai Romani nel corso di lotte feroci sostenute nei secoli V e IV a.C. (ne resta la testimonianza di Livio), praticamente scomparvero dopo la seconda guerra sannitica, quando i Romani in cinquanta giorni distrussero trentuno oppida e dedussero sul loro territorio le colonie di Alba Fucente, nel 303 a.C. e di Carsoli, nel 298 a.C.
La ricognizione topografica condotta nell'alta e media valle dell'Amene ha permesso di localizzare alcune cinte murarie in opera poligonale che possono essere attribuite a oppida utilizzati dagli Equi nel periodo in cui si svolsero le ultime lotte contro Roma. Queste cinte individuate a Ciciliano, Roviano, Bellegra, Canterano, Olevano Romano, Trevi nel Lazio, analogamente alle altre delle zone più interne del Sannio, sono tipiche degli insediamenti paganici di comunità non ancora urbanizzate. Un residuo del territorio equo, presumibilmente scampato al massacro, è da riconoscersi nell’Ager Aequiculanus, corrispondente alla valle del Salto che collegava la valle dell'Aniene con la Via Salaria, ove gli Equi sopravvissero fino all'età romana, con il nome di Equicoli. Una significativa testimonianza della cultura equa è offerta dalla necropoli di Casal Civitella di Riofreddo, situata in una sella montuosa nell'alta valle dell'Amene e databile ai secoli VI e V a.C. Le tombe rinvenute sono di due tipi, a cassone in calcare spugnoso e a fossa rivestita di calcare; hanno restituito corredi formati quasi esclusivamente da armi e da ornamenti in bronzo e ambra, che trovano significativi confronti nelle necropoli del Piceno, della Sabina tiberina e nel territorio ernico.
Nel Cicolano (come è chiamato il territorio più occidentale degli Equi o Equicoli) è iniziato lo scavo di un grande tumulo, denominato localmente Montariolo, nella pianura di Corvaro di Borgorose (Rieti) alla pendici dei Monti della Duchessa: con un diametro di m 50 per un'altezza di m 3,70, è il maggiore di una vasta necropoli. Sviluppatosi attorno alla sepoltura di un personaggio di rilievo vissuto nella prima Età del Ferro e utilizzato fino alla tarda età repubblicana, ha restituito finora un gran numero di armi e materiali che rientrano nelle tipologie diffuse in area centroitalica. Uno dei principali santuari degli Equicoli, dopo la conquista romana, è stato riconosciuto in un podio situato nella pianura di S. Erasmo di Corvaro (Borgorose), nella cui adiacenze era un vicus.
Sono stati di recente indagati imponenti resti di una villa imperiale sugli altipiani di Arcinazzo (Roma). La residenza, di notevoli dimensioni, si data fra la fine del I sec. d.C. e gli inizî del II, con una consistente fase flavia, come indicano i bolli laterizi, cui è seguita la ristrutturazione traianea.
Nel complesso archeologico di Villa Adriana si è rinvenuto, nella zona compresa fra il Pretorio e le Grandi Terme, il modellino di uno stadio in marmo. Il suo eccezionale interesse è dovuto alla rarità di modelli realizzati per l'esecuzione di edifici e al fatto di essere stato costruito per uno stadio non ancora identificato da collocare all'interno di Villa Adriana. Nel modellino, lo stadio è racchiuso in una lastra rettangolare ed è composto da cinque gradinate suddivise in nove ordini, con al centro di ogni settore i vomitoria. Rilevante è stata anche la scoperta di una testa-ritratto in marmo bianco a grana fine di grandezza naturale, rinvenuta a Piazza d'Oro; rappresenta un volto femminile giovanile pertinente a una statua panneggiata identificato in un primo tempo come ritratto di Sabina, mentre ora viene interpretato come quello di una privata appartenente alla cerchia della casa imperiale. Nell'ambito degli studi sulla decorazione architettonica e scultorea di Villa Adriana, è stata presentata una nuova ricostruzione del ciclo statuario egittizzante proveniente dal Serapeo del Canopo, con la quale viene messa in dubbio la sua interpretazione come coenatio estiva con triclinio galleggiante, secondo una tipologia architettonica nota per le residenze di lusso. La pianta del monumento viene invece vista come una allegoria geografica del corso del Nilo e del Mediterraneo.
Palestrina (v.). - La città latina di Praeneste ebbe una importanza particolare grazie alla sua felice ubicazione a controllo della valle del Sacco-Liri. Fino a quando non entrò nell'orbita romana, poté sorvegliare una vasta porzione di territorio sino a Tivoli e Gabì ed era collegata al porto di Anzio attraverso un percorso incuneato fra i Colli Albani e i Monti Lepini che costituì un motivo di scambi culturali e cultuali con Satricum e Anzio. Ad Anzio e Praeneste, p.es., il carattere bivalente della Fortuna veniva reso dall'accoppiamento di una figura matronale, legata alla fecondità e vicina alla Mater Matuta satricana, con una verginale con aspetti guerrieri. L'accostamento del culto di Mater Matuta e di Fortuna si ritrova anche a Roma ove Servio Tullio dedicò alla dee due templi gemelli. L'importanza strategica di Praeneste rende comprensibile come sin dal VII sec. a.C., la città latina abbia potuto possedere una ricchezza straordinaria e fosse un polo culturale e commerciale molto attivo, con contatti non solo con l'Etruria e la Campania, ma anche con il mondo ellenico e fenicio-punico, nonché con i centri italici dell'interno. Dal momento che nessuna fonte antica connette Praeneste con gli Etruschi, il problema della loro influenza può essere ricondotto a quello più generale dei rapporti con il Lazio; tuttavia, i rinvenimenti delle celebri tombe orientalizzanti hanno permesso l'ipotesi di un dominio o comunque di un'influenza degli Etruschi di Caere. Le necropoli si estendevano in una zona posta a S della città sillana, nelle contrade S. Rocco e Colombella. Quella medio-repubblicana era organizzata secondo un disegno urbanistico che aveva come punti di riferimento le vie di accesso e di attraversamento. I limiti non sono facilmente identificabili, in quanto a Ν le sepolture sono state obliterate dalla città sillana. A S, invece, un termine è visto nella villa attribuita ad Adriano, che attualmente ospita il cimitero di Palestrina. La zona funeraria della Colombella ha restituito segnacoli funerari a forma di pigna su sostegno a capitello corinzio in più di trecento esemplari, dispersi in varî musei e collezioni (Museo Nazionale Prenestino, Museo Nazionale Romano, Musei Vaticani, Accademia Americana, Istituto Archeologico Germanico). La loro importanza documentaria è ragguardevole soprattutto per le iscrizioni che hanno permesso di identificare più di un centinaio di famiglie prenestine per un periodo compreso fra il IV e il I sec. a.C. Dalla stessa necropoli provengono altri cippi più antichi che al posto del capitello corinzio ne presentano uno tuscanico con sopra un bulbo sferico schiacciato e appuntito in cima (c.d. a cipolla); si tratta di esemplari derivati dai cippi arcaici etruschi della zona di Chiusi e Orvieto, databili ancora nel pieno IV sec. a.C. I busti funerari cui veniva attribuito lo stesso significato di segnacolo che si diceva per i cippi, sono quasi tutti femminili e raffigurano personaggi velati, con la mano destra portata al petto, in quell'atteggiamento che è derivato dal tipo statuario della Pudicitia; il busto veniva incassato in una base parallelepipeda su cui veniva inciso il nome. Recenti indagini in località Selciata hanno restituito un lembo di necropoli medio-repubblicana, composta da una decina di sepolture, appartente a un nucleo distinto da quello della necropoli maggiore. Come nella Colombella le deposizioni sono all'interno di cassoni rettangolari monolitici alti e stretti in pietra gabina, utilizzati per un'unica deposizione eccetto nel caso di infanti; non sono stati ritrovati invece i c.d. pilozzi, le casse più piccole entro i quali avrebbero dovuto trovarsi le ciste o altri elementi del corredo.
I corredi, più sobri rispetto a quelli della Colombella, sono composti dai soliti oggetti da toletta: ciste, specchi, vasi a gabbia e strigili, attribuiti questi ultimi indifferentemente a sepolture maschili e femminili, vasetti in alabastro e in pasta vitrea. Nel grande quadrilatero sottostante Via degli Arcioni, ai piedi di Palestrina, è stato possibile riconoscere la colonia fondata da Siila dopo l’82 a.C., mentre all'estremità SO di questa, in un'area extraurbana, si trovano le sostruzioni in opera incerta di un edificio facente parte del complesso del Santuario di Ercole, che ha restituito una stipe votiva attestante l'esistenza di un culto molto sentito fra l'età arcaica e il II sec. a.C., che continua nel periodo imperiale. Allo stato attuale della ricerca, si ritiene che il santuario fosse privo di un edificio templare vero e proprio, ma che comprendesse portici e muri di terrazzamento in opera incerta.
Da una villa dell'agro prenestino (Mezza Selva), proviene un busto con ritratto di dama che si fa notare per l'alto livello qualitativo e per l'elaborata acconciatura di età traianea.
Colli Albani (v. laziale, civiltà). - La conoscenza degli insediamenti più antichi dei Colli Albani si basa prevalentemente sugli scavi avvenuti nel secolo scorso nelle necropoli di Villa Cavalletti e Boschetto (Grottaferrata), Campofattore e Riserva del Truglio (Marino), S. Lorenzo Vecchio (Rocca di Papa). Dopo che negli anni Sessanta P. G. Gierow ha esteso l'analisi condotta da Müller Karpe sulle origini e formazione di Roma, pubblicando le scoperte avvenute sui Colli Albani, negli ultimi decenni è stato possibile effettuare puntualizzazioni sulla linea degli studi precedenti. Nella cultura laziale i secoli Vili e VII furono fondamentali per lo sviluppo economico e culturale della regione. In questo lasso di tempo, pochi decenni dopo la fondazione di Pithekoussai (775 a.C.), in concomitanza con l'inizio della colonizzazione greca, fu fondata Roma (754-753 a.C., secondo la tradizione varroniana), quasi contemporaneamente a Cuma (750 a.C.). I contatti commerciali con i Greci e l'introduzione del grano, della vite e dell'olivo contribuirono al diffondersi di una certa prosperità nella regione.
Uno stretto legame connetteva nelle fonti Alba Longa e Roma sulla scia della venuta di Enea nel Lazio. Quanto all'identificazione topografica di Alba, dal momento che l'evidenza archeologica per l'Età del Ferro rivela l'esistenza di una serie di abitati e relative necropoli lungo il versante SO del lago di Albano, si ipotizza un aggregato di villaggi precedente la fase urbana, identificando in Alba il centro dominante. La sua posizione sul lago viene localizzata approssimativamente nell'area di Castel Gandolfo. A sostegno di questa tesi si sottolinea anche l'insistenza di alcune fonti romane di età imperiale (Mart., V, I; luv., IV, 60) nel riferire come la villa di Domiziano avrebbe occupato il luogo dell'ara di Alba. La sua fine, attribuita dalle fonti alla prima metà del VII sec. a.C., sarebbe antecedente a quei fenomeni di sinecismo che diedero l'avvio alla formazione delle città storiche.
La sua scomparsa dovette aprire la strada alla nascita di altri centri dei Colli Albani, Tuscolo, Ariccia, Bovillae, ai quali lasciò in eredità consuetudini di carattere religioso, fra cui il culto del santuario federale di Iuppiter Latiaris a Monte Cavo (il Möns Albanus). Del complesso religioso dei Colli Albani non restano tracce, né c'è concordanza fra gli studiosi riguardo la ricostruzione del tempio. Quanto alla viabilità, sin dalle epoche più remote, il collegamento fra il Foro Boario a Roma e i Colli Albani dovette essere costituito da una strada che, dal guado dell'Isola Tiberina, attraversata la vallata del Circo Massimo, percorreva la dorsale lavica che sarebbe poi stata occupata dalla Via Appia. E lungo questa via verso Alba Longa, che si svolsero alcuni episodi leggendari come il duello fra Orazi e Curiazi.
Nei quattro secoli compresi fra la distruzione di Alba Longa e lo scoppio della guerra latina, Roma riuscì progressivamente a diventare la città egemone del Latium vetus, riducendo l'area albana a una sorta di sua appendice. Alla fine del periodo repubblicano i Colli Albani videro quasi annullata l'importanza strategica dei propri centri, mentre l'area fu a lungo prediletta per le grandi residenze dell'aristocrazia romana.
Presso il piccolo lago di Nemi era il Santuario di Diana, che occupa un posto a parte nell'ambito dei santuari laziali, sia per la peculiarità del culto che vi veniva praticato, sia per l'impianto architettonico. Fra il VI e il V sec. a.C., infatti, il santuario fu sede anfizionica della Lega Latina, in antagonismo con il Tempio di Diana sull'Aventino. L'area del santuario è costituita da una piattaforma costruita con nicchie semicircolari nella parte superiore settentrionale e da muri con cointrafforti in quella meridionale, non antecedenti al II sec. a.C. Un portico correva parallelo ai muri di rinforzo delle varie tagliate, cui si presume appartengano le antefisse triangolari con la rappresentazione del busto di Diana al Museo Nazionale Romano. La strada di accesso al santuario, che passava lungo il margine occidentale del lago, è stata messa in luce durante l'operazione che ha portato al recupero delle due navi di Caligola ed è visibile all'interno del museo stesso. Il tempio occupava una zona decentrata, nel settore SO dell'area. A O di questo, furono riportate alla luce strutture comprendenti anche un teatro di piccole dimensioni, datato fra il I sec. a.C. e il III d.C. In prossimità del recinto esterno, si è di recente rinvenuto un portico con colonne in opera incerta e mista con trabeazione dorica in peperino.
A Velletri (Velitrae), città di antiche tradizioni latine, occupata dai Volsci, sono state riprese le esplorazioni del c.d. Tempio Volsco, inglobato nella chiesa di Santa Maria delle Stimmate, che hanno confermato la cronologia dell'edificio.
Litorale. - La zona compresa tra la foce del Tevere e il porto di Anzio ha rappresentato l'immediato sbocco di Roma verso il mare, costituendo altresì una delle prime aree di espansione della città in questa direzione. Essa era meta delle vie di transumanza tra l'Appennino e la costa, nonché zona di passaggio degli itinerari tra la valle del Tevere, il Sannio e la Campania, poli importanti di sviluppo culturale. Il tipo di insediamento si sviluppa in epoca più antica o lungo il Tevere o lungo la costa, ma non direttamente in riva al mare bensì in posizione arretrata, in rapporto forse con scali. L'area sembrerebbe caratterizzata da presenze di cultura appenninica e subappenninica (Ardea, Pratica di Mare), con una certa continuità verso la prima Età del Ferro. Il suo sviluppo tra l'Età del Ferro e l'Orientalizzante è ora documentato dai sepolcreti rinvenuti a Castel di Decima (v.). Del complesso di comunità fiorite in quest'area alcune sarebbero state oggetto di contesa da parte di Tullio Ostilio (Politorium, Tellenae, Ficana, ecc.) nella seconda metà del VII secolo.
La problematica fondazione di Ostia (v.), prima colonia di Roma riportata al tempo di Anco Marcio dalle fonti, ma al IV sec. dalle evidenze archeologiche, costituisce in ogni caso l'affermazione degli interessi di Roma verso il controllo delle zone costiere più immediatamente prossime alla foce del Tevere. !
Valle del Liri. - Il bacino del Sacco-Liri ha costituito per secoli la principale via di comunicazione naturale fra Etruria e Campania, lungo la direttrice che da Veio, attraverso Fidenae (v.), Praeneste, Gabi (v.), raggiunge Capua. Una serie di percorsi trasversali impegnavano la valle del medio Liri anche in relazione alle transumanze, fatte risalire dalle fonti a una migrazione di Marsi o di Sabini lungo le zone interne appenniniche e le pianure costiere del Lazio meridionale. In tal modo, i bacini del Sacco-Liri e del Volturno erano posti al centro di una serie di traffici intensi che resero la regione, corrispondente approssimativamente all'attuale provincia di Prosinone, appetibile alle popolazioni giunte in ondate successive: gli Ernici che si stanziarono a S di Praeneste, i Volsci che occuparono le valli del Liri e del Sacco, spingendosi a E verso la pianura pontina. Al centro di questo complesso sistema di comunicazioni era Sora, perno della viabilità verso la Campania e verso il Sannio, raggiungibile attraverso la valle di Roveto e il passo di Forca d'Acero. Il percorso principale che attraversava la valle del Liri era la Via Latina, un'arteria formatasi spontaneamente e di antica tradizione che deve il suo nome al fatto di percorrere il territorio appartente alla Lega Latina; partiva da Porta Capena e nel suo primo tratto aveva come alternativa verso l'interno le vie Prenestina e Labicana, imboccava poi la valle del Sacco nella parte più occidentale, ai piedi di Artena (ove era la statio ad bivium) e toccava Anagni (compitum Anagninum), Ferentino, Fregellae, Aquino, Cassino e Venafro, per poi passare in Campania. Tuttavia, le indagini più recenti hanno permesso di individuare una direttrice più interna rispetto a quella della Via Latina che da Praeneste, passando per Anagni, Ferentino, Alatri, Sora, Atina raggiungeva la valle del Volturno a Venafro. Dei centri nominati viene indicata con Artena (v.) una città che fino al 1873 era chiamata Montefortino. Recenti scavi effettuati su quella che dovette essere l'acropoli antica hanno permesso di identificare i resti del centro antico, da attribuire piuttosto a Fortinum.
Anagni (v.), situata su un colle in posizione dominante sulla vallata del Sacco, presso il puntò di incrocio fra Via Latina e Via Labicana (compitum Anagninum, ubicato presso Osteria della Fontana), fu il maggiore centro religioso degli Ernici. Nel periodo romano, ridotta a praefectura, continuò a conservare una certa importanza religiosa come sede di numerosi culti.
La colonia latina di Fregellae (v.), fondata dai Romani nel 328 a.C. e distrutta nel 125 a.C., si trovava su un pianoro sulla sinistra del Liri, in prossimità del moderno centro di Ceprano. La presenza di un culto di Esculapio inserisce questo centro in un panorama di cui fanno parte Roma, ove fu importato agli inizî del III sec. a.C., Ostia e Anzio, ove è noto, rispettivamente, sulla base della documentazione archeologica e delle fonti. Non è un caso quindi che le strutture del santuario appaiano influenzate profondamente dai modelli ellenistici a terrazze che, ancora prima che nei grandi santuari di Palestrina, Tivoli e Terracina, si presentano in questa zona del Lazio. Lo scavo ha restituito anche un ricco deposito votivo di tipo etrusco-laziale campano con un'evidente tendenza verso la sfera della sanatio.
Dopo la distruzione di Fregellae, nel 124 a.C. fu fondata la colonia di Fabrateria Nova (v.), forse con coloni fregellani fra il Liri e il lago di S. Giovanni, ove è in corso di scavo un piccolo anfiteatro.
Alatri deve la sua importanza alla posizione strategica a controllo della Valle del Sacco, in collegamento con quella dell'Aniene e la conca del Fucino. Lo scavo del santuario dell'acropoli di Alatri, che ha restituito materiale fittile, oggetti votivi e figurine di lamina bronzea ritagliata, ha permesso di puntualizzare la cronologia delle mura poligonali.
Il monumento principale di Sora (ν.) è il tempio, sotto la Cattedrale dell'Assunta, occultato in parte da superfetazioni; in particolare, è stato possibile esaminare il podio modanato a doppio cuscino e con profonda gola intermedia di tipo laziale. Indagini effettuate a Madonna del Piano, nella valle latina presso Castro dei Volsci, hanno riportato in luce un impianto residenziale di una villa romana con ricca pavimentazione musiva e marmorea; il sito fu frequentato fino alla tarda antichità e riutilizzato con sepolture altomedievali.
Regione pontina e Lazio meridionale. - La pianura pontina costituiva una zona di passaggio naturale fra il Lazio e la Campania, in cui confluivano le vie trasversali provenienti dai Colli Albani e dal bacino del Sacco-Liri; la regione, anche se parzialmente paludosa e malsana, era tuttavia fertile per la presenza di terreni vulcanici trasportati dalle alluvioni. Le fonti storiche (Liv., VI, 12) e le tracce di divisione agraria, leggibile nella fotografia aerea, hanno dimostrato che la regione fu coltivata e sfruttata, sia pure a fasi alterne. A lungo contesa fra Romani e Volsci, ebbe in Satricum e nei centri della costa (Anzio, Circei e Terracina), nei varî momenti della sua storia, dei punti vitali. Dopo un lunghissimo periodo di lotte i Romani, decidendo di realizzare un percorso artificiale in prossimità della costa, la Via Appia, compirono una scelta politica che condannava all'isolamento le principali città dei Monti Lepini, da Cori a Norba, da Setta a Privernum, che non poterono evitare una lenta e inesorabile decadenza.
Dopo la romanizzazione, tutti i centri della regione pontina furono investiti da una notevole attività edilizia, le oii manifestazioni principali sono i santuari ricostruiti su luoghi di culto precedenti imitando modelli ellenistici e le ville residenziali di lusso degli aristocratici Romani.
Lavinio (v.), da identificare con il colle di Pratica di Mare, era considerata la città madre dei Latini, fondata da Enea dopo avere condotto una guerra vittoriosa contro i Rutuli. Le indagini recenti hanno dimostrato che il sito, abitato sin dall'Età del Bronzo, fu urbanizzato nella seconda metà del VII sec. a.C., mentre al VI sec. risale la costruzione dell’heròon di Enea e del Santuario della Madonnella o dei Tredici Altari. A E della città è stato effettuato uno dei rinvenimenti più considerevoli che siano avvenuti negli ultimi tempi in Italia centrale: il deposito del Santuario di Minerva. I materiali più recenti della stipe, databili in un arco cronologico compreso fra il VI e l'inizio del III sec. a.C., sono costituiti, per la parte scultorea, da un centinaio di statue di grandi dimensioni, per lo più femminili, raffiguranti devoti nell'atto di offrire doni a Minerva, qui venerata nell'aspetto della greca Atena Iliàs. Essi sono interpretabili come fanciulle e giovinetti che offrono alla divinità oggetti della propria infanzia, prima che, secondo antichi rituali, venisse celebrato il passaggio alla maturità, che per il giovane coincideva con l'assunzione della toga virile, per la ragazza con le nozze. Molte statue sfoggiano ricche parures di gioielli che riproducono fedelmente, ricorrendo all'occorrenza all'aiuto di stampi su gioielli autentici, i monili in uso nell'ambiente etrusco nel IV sec. a.C. e che ritroviamo presenti nei corredi medio-repubblicani, nelle rappresentazioni della pittura funeraria, negli specchi e nelle ciste prenestine: orecchini del consueto tipo a grappolo, collane, pendenti a bulla con margini dentellati, armille, pettorali figurati. Il fatto che un gruppo consistente di statue lavinati sia caratterizzato da elaborate acconciature e da ricchi gioielli è stato messo in rapporto con l'alto livello sociale delle offerenti e con una prima liberalizzazione delle rigide leggi suntuarie romane avvenuta nel 396 a.C., in concomitanza all'ascesa delle maggiori famiglie plebee e alla loro integrazione nella nobilitas romana, come sancito dalle leggi Licinie Sestie del 367 a.C. Quanto al profilo stilistico, la documentazione votiva lavinate dimostra di possedere una notevole famiIlarità con i modelli greci, che venivano ricevuti attraverso la mediazione dell'ambiente magno-greco e spesso riadattati al gusto della committenza locale.
Ardea (ν.) è ricordata dalle fonti come il centro più potente al tempo dello sbarco di Enea nel Lazio; le indagini archeologiche hanno dimostrato che il luogo fu abitato sin dall'Età del Bronzo. Recenti indagini hanno interessato un terzo edificio templare sulla Civitavecchia di Ardea (Colle Noce) per il quale è stato proposto un orizzonte cronologico compreso fra il VI e il II sec. a.C. Come a Satricum, il tempio arcaico di Colle Noce aveva inglobato fondi di capanne dell'Età del Ferro.
Satricum (v.) fu abitata sin dal IX sec. a.C. e assunse l'aspetto urbano nel VII sec. a.C. con un'estensione di 40 ha. Le recenti indagini hanno evidenziato varie e complesse fasi del culto di Mater Matuta. Nel corso degli scavi del secondo tempio è stato recuperato un donario con un'iscrizione arcaica in latino su tre blocchi reimpiegati nelle fondazioni. Il testo fa menzione di un Publio Valerio (Popliosio Valesiosio Suodales Mamartei), probabilmente il primo console della Repubblica (509 a.C.) Publio Valerio Publicóla, in un momento anteriore all'espansione dei Volsci nella pianura pontina. L'iscrizione, anteriore al 490 a.C. (terminus ante quem per il secondo tempio), attesta un ruolo politico svolto da un membro della gens Valeria negli anni della fondazione della Repubblica. Nel corso del V sec. a.C., quando la città fu occupata dai Volsci, subì un profondo rimaneggiamento che ne alterò l'assetto urbanistico; a questo periodo risale la necropoli sud-occidentale (ove si rinvengono ceramica attica a figure nere e anfore vinarie etrusche), attribuita ai Volsci e insediata entro la cerchia urbana. Le sepolture sono del tipo a fossa semplice con copertura di tegole.
Il quadro culturale in cui Satricum si inserice è quello di un centro collocato in una posizione geografica ottima, con facilità di relazioni verso l'ambiente magnogreco, ma aperto anche all'influenza etrusca. Nel territorio di Satricum, in relazione con un culto delle acque non precisabile, è stata rinvenuta una stipe votiva nel laghetto di Monsignore (Campoverde di Aprilia), la cui durata è compresa fra la media Età del Bronzo e la fine del VI sec. a.C.
Un percorso di mezza costa sul versante occidentale dei Monti Lepini, che si staccava dalla Via Latina all'imbocco della valle del Sacco, collegava Cora, Norba, Setia e infine, Privernum.
Norba (v.), fondata dai Latini alla fine dell'età regia, divenne sotto i Romani colonia di diritto latino nel 492 a.C., a difesa della pianura pontina. La pianta della città, descritta da Livio (II, 34), indagata alla fine del secolo scorso, è stata di recente riconsiderata. Sorta su uno sperone che controllava la pianura aveva due acropoli, il foro, il Tempio di Diana sull'acropoli maggiore, quello di Giunone Lucina, abitazioni, cisterne e una poderosa cinta muraria (IV sec. a.C.).
A Priverno (v.), roccaforte dei Volsci, sono state evidenziate le strutture di due domus tardo-repubblicane con pregevoli rappresentazioni musive.
Sulla costa è da annoverare la villa di Tiberio a Sperlonga (v.), che si sviluppa accanto a una grotta marina trasformata in un ninfeo animato da giochi d'acqua e popolato da statue colossali riproducenti episodi della leggenda di Ulisse.
Bibl.: Per la bibliografia antecedente al 1970 si rimanda ai testi citati.
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(A. M. Reggiani)
Campania. - A partire da Sinuessa ha inizio il litorale campano (Strab., V, 4,3; Plin., Nat. hist., III, 59-60) fino al promontorio di Sorrento, cui venne annesso l'agro picentino, dal Sarno al Sele (Strab., V, 4,13 e Plin., Nat. hist., III, 70, nella visione allargata della Campania di età augustea); a Ν e all'interno i limiti sono dati dal Massico e dalla corona di montagne e colline che dividono la grande pianura dai monti dei Sanniti. Si vengono così a delineare i principali comprensori: a Ν Yager Falernus tra Sinuessa e il Savone, area nella quale gli Aurunci di età storica conservano il primitivo nomen degli Ausoni, poi la pianura campana vera e propria, attraversata dal basso corso del Volturno che con il Monte Tifata ne costituisce il limite settentrionale, chiusa a mezzogiorno dal Vesuvio; a S di questo la piana del Sarno su cui gravitano anche gli insediamenti della penisola sorrentina e, infine, l'agro picentino, fino al Sele che funge da confine con la Regio III. Entro questo ambito si colloca una serie impressionante di situazioni etniche e politico-sociali che fanno della Campania una delle regioni più complesse nel panorama dell'Italia preromana.
Una prima definizione deve riguardare il popolamento, quale risulta dalla coscienza antica trasmessa attraverso le varie manipolazioni fino ai testi conservati di Polibio e Strabone, la cui lettura critica e relativa Quellenforschung, (dopo le note analisi soprattutto di J. Beloch e di J. Heurgon), si devono, in epoca più recente, a F. Lasserre e, principalmente, a E. Lepore. In primo luogo va considerato il carattere ristretto dell'accezione Campania, che riguarda la pianura intorno a Capua, tanto che, per effetto della capacità di coesione politica della città, il termine campanus finì con l'indicare l’ager o il civis di Capua.
Timeo (apud Strab., V, 4,9 = FGrHist, 566 F 58) narrando l'eruzione dell'Epomeo a Pithekoussai, avvenuta poco prima della sua nascita, afferma che gli abitanti, atterriti, fuggirono dalla παραλία verso la Καμπανία. Ancora nel II sec. a.C., Polibio (XXXIV, 11,7 Büttner-Wobst; apud Strab., V, 4,2) distingueva le città della costa intorno al Cratere (il golfo di Napoli) dalla μεσόγαια (Pol., III, 91,2: «τά γαρ πεδία τα κατά Καπυην»). Altro punto da sottolineare è la polemica di Polibio contro Antioco, riportata da Strabone (v, 4,3): per lo storico di Siracusa i più antichi abitatori della regione erano gli Ausoni, i quali erano anche chiamati Opici (seguito da Aristot., Polit., VII, 1329 b 20); per Polibio, invece, Ausoni e Opici erano due entità distinte.
A parte la diversità di prospettive tra uno storico del V e uno del II sec. a.C., per un greco dell'età di Antioco era Opikòs ogni popolo dell'Italia antica che non fosse Tirreno o Messapo (Beloch). Polibio non fa menzione degli Osci (a meno che non li ritenesse sinonimo di Opici) che invece Strabone conosce sia quando dice che la fertilissima pianura campana è racchiusa dai monti degli Osci e dei Sanniti sia quando, da Timeo, come suppone il Lasserre (Strabon, a cura di G. Budé, p. 213, nota), attraverso la mediazione di Artemidoro - e ha dimostrato E. Lepore, scorgendo la presenza, forse diretta, dello storico di Tauromenio nel passo straboniano - deriva la successione etnografica, che è argomento di notevole interesse. Facendo precedere il discorso dal frequente «άλλοι δε λέγουσιν» (dietro il quale si nasconde appunto Timeo) Strabone afferma che la Campania era dapprima abitata da Opici e Ausonî, poi da un èthnos osco (la correzione Σιδικινους del tràdito oì δ' εκείνους, probabilmente una glossa da espungere, non è proponibile) che fu dapprima soppiantato dai Cumani e questi ultimi dai Tirreni.
Ora, a parte il dibattito molto acceso, anche in epoca recente, sulla cronologia della presenza etrusca in Campania che oscilla tra quella bassa di Catone e quella alta di Velleio Patercolo (fig. 69, HRR, p. 70; apud Vell., I, 7,3-4), sembra abbastanza strano che Timeo sostenesse una sparizione di Cuma a opera degli Etruschi. L'aporia si può forse risolvere ricorrendo a un'altra testimonianza timaica, relativa a una più antica definizione geografica, importantissima, della Campania antica, che è quella di «Campi Flegrei». Timeo, esplicitamente citato da Diodoro (iv, 21,5 = FGrHist, 556 F. 89), afferma che la pianura flegrea era così chiamata per la presenza del Vesuvio e che per essa Eracle aveva combattuto contro i Giganti; Polibio, dopo aver dato dell'ignorante a Timeo (II, 16,15), continua a utilizzarlo (II, 17,1) quando afferma che la pianura intorno a Capua e Nola si chiamava un tempo flegrea, che era stata occupata dagli Etruschi e godeva di grande reputazione per la sua fertilità; ribadisce poi (III, 91,7) che la pianura al centro della quale si trova Capua era chiamata, come altre, Flegrea, con riferimento a Flegra/Pallene in Calcidica dove era localizzata la lotta tra Zeus e i Giganti. Proprio quest'ultima saga mitologica diventa un osservatorio importante per comprendere il formarsi di certe tradizioni; è fuori di dubbio, infatti, che si debba connettere la battaglia dei Giganti e lo stesso toponimo Flegra alla mediazione euboica, al punto da indurre a ritenere che i Campi Flegrei siano una sorta di menzione antica della chòra cumana, come Diodoro ammette (V, 71,4) quando, proprio ricordando la lotta di Zeus contro i Giganti, dice che quello che in seguito si chiamò Κυμαῑον era in antico dominato Φλεγραῑον. Non pare che si debba troppo meccanicamente concludere che queste tradizioni rimandino a un periodo in cui tutto il territorio dal Volturno al Vesuvio era controllato dai Cumani, perché osterebbe fortemente proprio la ricerca archeologica più recente (con la connessa rivalutazione della cronologia alta di Capua e del problema della presenza etrusca in Campania, anche se l'accordo non si può dire totale a questo riguardo, ma per ragioni legate ad aspetti culturali che sono comunque tali da non porre minimamente in discussione il fatto che il territorio di Capua era fuori dal controllo greco-cumano). Più interessante può risultare il confronto tra i due passi di Timeo (apud Strab., V, 4,3 e apud Diod. Sic., IV, 21,5) da cui si potrebbe evincere che lo storico di Tauromenio seguisse lo schema Opici cacciati dai Greci e Greci cacciati dagli Etruschi, non in quanto credesse a una resa di Cuma agli Etruschi (abbastanza improbabile viste le sconfitte di questi ultimi nel 524 e nel 474 a.C.) e nemmeno perché ritenesse che Cuma era andata in crisi nel V sec. a.C., nonostante le vittorie, ma perché doveva in qualche modo prestare credito allo schema che vedeva una presenza tardiva degli Etruschi in Campania (come conseguenza della cacciata dalla Cisalpina), fatto questo che avrebbe comportato l'occupazione non di Cuma ma del territorio flegreo (connesso come abbiamo visto a Cuma) comprendente anticamente la pianura in cui si trovavano Capua e Nola. Insomma Timeo poteva ritenere che l'originario Κυμαῑον non solo arrivasse ad abbracciare la Campania interna ma si estendesse fino al Vesuvio, in una visione presumibilmente piuttosto antica (se non tiene conto che tra Cuma e il Vesuvio si trovava Napoli) che sembra confermata dal μυθολογοῠσιν di Diodoro, vale a dire le fonti (cumane?) di Timeo. In Strabone, invece, si colgono da un lato ancora un'eco della tradizione, dall'altro l'adeguamento a una realtà più aderente, recente, che limita la flegrea alla zona compresa tra Cuma e Pozzuoli. Il parallelismo tra v, 4,3 e v, 4,4 mostra la dipendenza in entrambi i luoghi da Timeo: la pianura campana fu oggetto di contesa per la sua άρετή (ν, 4,3), il πεδίον di Cuma era chiamato Φλεγραῑον (ma il geografo non dice quale estensione aveva il Κυμαῑον, anche se si può esser certi che non vi includesse le pianure dell'interno, in quanto non ne fa parola quando parla di Capua e della μεσόγαια in v, 4,10) perché la terra fu oggetto di contesa per la sua aretè (V, 4,4). Quest'ultimo è già un tentativo di «razionalizzazione» politica del φλέγειν che accomuna Strabone a Polibio (e, dunque, entrambi a Timeo, e non si dimentichi che non solo la menzione comprende il Vesuvio, in Timeo/Polibio, ma anche le pianure intorno a Capua) mentre in V, 4,6 Strabone passa a una «razionalizzazione» fisica, mostrando di credere che il mito dei Giganti sarebbe stato generato dai fenomeni vulcanici della zona di Pozzuoli, nello stesso tempo indicando una localizzazione più nettamente circoscritta (in pratica quella moderna) che ritroviamo anche in Plinio (Nat. hist., III, 60, dove i Campi Flegrei sono circoscritti all'area Pozzuoli-Cuma, mentre la piana di Capua ha assunto il nome di Campi Leborini che conserverà fino a epoca moderna nella dizione «Terra di Lavoro»),
Insomma il motivo della aretè non sembra scindibile dalla pianura campana, cui arriva il Phlegraion, non in quanto realtà politica, cioè dominio di Cuma, ma come ricostruzione erudita che, partendo dal presupposto di un arrivo degli Etruschi molto tardi, tende a colmare il vuoto tra la fondazione di Cuma e il successivo arrivo di quelli, immaginando che il cumano comprendesse un'area molto più grande di quella che effettivamente dovette abbracciare (se ciò non fu effetto di propaganda, non impossibile a ipotizzarsi, proprio nel movimentato quadro politico del VI e del V sec. a.C.). Si tratta comunque, ancora una volta, di distinguere tra ricostruzioni antiquarie, fortemente ideologizzate, e fatti «concreti», non per affermare una generica superiorità della documentazione archeologica (anch'essa per nulla obiettiva) ma per mostrare i limiti e le autonomie di ciascun sistema interpretativo.
Un'altra prospettiva, poi, non va dimenticato, riguarda la Campania ed è quella di Ecateo (nei frammenti tramandati da Stefano di Bisanzio) secondo il quale Capua è «città d'Italia» e Capri «isola d'Italia», nella quale si è scorto di recente (Lepore) un «punto di vista» ionico, che presuppone la mediazione sibarita. Ma, per tornare al discorso iniziale, si pone dunque, così come la ricerca linguistica ha da tempo sottolineato, il problema del rapporto Ausoni-Opici rispetto a quello Opici-Osci, nel quale la posizione centrale degli Opici può forse riflettere la coscienza di una fase intermedia, da intendersi non solo sul piano cronologico ma soprattutto culturale, entro i processi di trasformazione e diversificazione del quadro regionale locale sul lungo periodo.
Lo schema (Opici autoctoni e Osco-Sanniti venuti da fuori) è ribadito da Strabone (V, 4,12) quando racconta il ver sacrum dei Sanniti che giungono in Campania e trovano gli Opici che vivevano κωμηδόν, anche se da un lato il racconto serve da àition della denominazione Sabelli da Sabini (improponibile, come si sa) e, dall'altro, il modello del ver sacrum - probabilmente assunto dai Mamertini durante l'occupazione dello Stretto di Messina dopo il 288 a.C. - è la colonizzazione greca (Heurgon). Pur nello schematismo appiattito della fonte tarda, che riflette solo molto parzialmente la realtà, si dovrà parlare di «un lungo fermentare» di elementi di origine italica che portò alla oscizzazione della regione, «alla penetrazione etnica e linguistica» alla «conquista da parte delle avanguardie sannitiche, che riuscirono, attraverso assimilazione e sopraffazione a creare quell'organico ambiente unitario, pur nelle diverse componenti e articolazioni, che chiamiamo Campania» (Lepore).
Accanto a questo fondo italico in continua evoluzione, andranno poi considerate altre due importanti presenze: gli Etruschi e i Greci. Per quanto riguarda le presenze greche, un primo problema è posto da un lato dalla frequentazione micenea ora attestata non solo a Ischia, ma soprattutto a Vivara, dall'altro la tradizione sulle navigazioni rodie (Pugliese Carratelli), che si verrebbero a collocare tra il crollo dei regni micenei e la colonizzazione storica, prima dell'inizio delle Olimpiadi (Strab., XIV, 2,10). Il popolamento antico nell'Età del Ferro permette di osservare una certa serie di fenomeni articolati: la pianura intorno a Capua e l'agro picentino sono occupati da genti di cultura «villanoviana» (è oggetto di discussione il significato di tali presenze, se si debba intenderle come un vero e proprio movimento coloniale o come effetto di trasformazioni culturali) che sembrano, in ogni caso, dipendere da due filoni principali, quello interno (Chiusi, Etruria tiberina, valli del Sacco e del Liri fino a Capua) e quello marittimo (Etruria meridionale tirrenica, Pontecagnano).
Nel resto della regione prevale il rito inumatorio utilizzato da un «mondo contadino statico e poco strutturato» (d'Agostino) fino a quando, sotto la spinta delle presenze etnische e della colonizzazione greca non si avviò un macroscopico processo di trasformazione. Che quel mondo fosse caratterizzato da staticità non eccessiva, mostra, comunque, il caso di Cuma preellenica, postazione indigena costiera, aperta ai traffici marittimi dai quali era stata toccata sin dalla prima metà dell'VIII sec. a.C., che fu sopraffatta dai coloni euboici. Al primo stanziamento di questi a Pithekoussai (da molti comunemente definito un empòrion) seguì la fondazione di Cuma (terzo quarto dell'VIII sec. a.C.) e lo strutturarsi della chòra politica di questa città, con la successiva (VII-VI sec. a.C.) fondazione di epìneia a Miseno, Pozzuoli, Partenope, sicché, tra gli «Etruschi» che occupavano la valle del Volturno e i Greci stanziati tra Cuma e il sito della futura Napoli, si produsse quella barriera che compresse il mondo indigeno nelle vallate dell'interno.
La capacità reattiva del fondo italico, qui forse più che altrove in Italia meridionale, è mostrata dalla nascita di una serie di insediamenti ai margini della pianura campana (noti esclusivamente grazie alle necropoli) come Calada (Maddaloni), Suessula (Cancello), fino all'ingresso delle Forche Caudine alle cui estremità si trovavano Saticula (S. Agata dei Goti) e Caudium (Montesarchio), quest'ultima strettamente collegata con Abella (Avella). In tutti questi siti l'archeologia delle necropoli mostra, nel corso del VII sec. a.C., processi di differenziazione nel quadro di una più vasta unità etnica.
Ma è a partire dal VI sec. a.C., soprattutto grazie al diffondersi della scrittura, che si osserva un netto prevalere della componente etrusca nell'organizzazione di numerosi centri come Pompei, Stabia, Vico Equense, Fratte di Salerno, accanto a documentazioni recuperate in centri esistenti da tempo come Capua, Nola, Suessula, Pontecagnano. L'uso del greco è attestato a Nocera, Fratte e Pontecagnano (vi si riconosce l'origine poseidoniate) mentre due iscrizioni della prima metà del VI sec. a.C. rinvenute a Nocera e Stabia provano la precoce presenza della lingua osca, fornendo così un panorama quanto mai complesso delle stratificazioni etniche e delle tensioni sociali in tutto il territorio compreso tra il Volturno e il Sele, mentre l'area a Ν del Volturno, ai confini con il Latium, occupata dagli Aurunci, restò a lungo marginale.
Il principale esito dello scontro tra Greci ed Etruschi, come si sa, fu, dopo la seconda battaglia di Cuma (474 a.C.), la nascita di Napoli, con il rapido consolidarsi di una comunità politica mercantile che si assicurò ben presto il controllo delle bocche di Capri e l'isola di Ischia, in pratica il dominio della navigazione nel golfo, avviandosi a svolgere un ruolo di primaria importanza nella storia economica della regione, soprattutto ponendosi come principale punto di riferimento del commercio dei prodotti agricoli delle zone interne (si pensi, p.es., solo per citare uno degli aspetti più macroscopici, agli interessi ateniesi durante l'età di Pericle e all'omaggio «diplomatico» alla sirena Partenope). Alla determinazione della fisionomia etnica politica e sociale della Campania fu poi decisivo il concorso delle popolazioni sannitiche. La tradizione che arriva a Diodoro Siculo (XII, 31,1) permette allo storico di affermare che in quegli anni (arcontato di Theodoros ad Atene e consolato di Marcus Genucius e Agrippa Curtius Chilon a Roma: 438/37 a.C.) «si costituì in Italia l’èthnos dei Campani, che derivò il suo nome dall’aretè della piana circostante». Si trattò dell'esito di un processo di lunga durata che determinò, a un certo punto, la saldatura tra plebe urbana «ingrossatasi per recenti infiltrazioni» e «plebi rurali della campagna circostante» (Lepore); il contraccolpo militare di poco successivo fu la presa di Capua nel 423 e quella di Cuma nel 421 a.C.; Napoli si arrese, accogliendo i Campani nella cittadinanza (da questo momento la demarchìa è appannaggio di Greci e Sanniti: cfr. Strab., V, 4,7).
Un importante momento di ridefinizione degli assetti territoriali si avrà, nel quadro delle guerre sannitiche, con la colonizzazione latina. La concessione della civitas sine suffragio a Capua nel 338 a.C. e il foedus neapolitanum del 326 a.C. aprono la Campania alla penetrazione delle clientele romane che potranno fruire, a partire dal 312 a.C., di un collegamento importantissimo quale quello che si costituì con la creazione della Via Appia da Roma a Capua. Tra la fine del IV e gli inizî del III sec. a.C. un massiccio programma di colonizzazione investì la Campania, soprattutto settentrionale (Cales, Suessa, Sinuessa), nella quale le recentissime indagini topografiche hanno permesso di riconoscere le sopravvivenze dei sistemi catastali e i minuziosi programmi di insediamento e sfruttamento razionale del territorio. Al confine tra la Lucania e la Campania le colonie di Paestum nel 273 e di Picentia nel 268 a.C. e quella di Benevento nello stesso anno completano il quadro della colonizzazione latina nella regione. Il ruolo dominante del porto di Napoli per lungo tempo incontrastato sarà fortemente ridimensionato con la fondazione della colonia romana di Pozzuoli (194 a.C., dedotta contemporaneamente a quelle di Volturnum e Liternum) destinata nel volgere di pochissimo tempo a diventare uno dei porti di commercio (per il grano egiziano, per le spezie e gli schiavi orientali) più grandi del Mediterraneo; la via consolare campana collegava Pozzuoli a Capua, che con Cuma sempre più priva di importanza, costituiva un'unica grande prefettura.
Nella Valle del Sarno, Pompei, porto di Nola, Nocera e Acerra conoscevano un notevole sviluppo proprio nei due ultimi secoli della repubblica, grazie al commercio delle derrate alimentari che permetteva un grado di floridezza non piccolo a città come Nocera (meglio conosciuta archeologicamente), che contrasta con il profondo degrado sociale ed economico di aree come l'agro picentino in cui, dopo il passaggio di Annibale, si era verificata la dispersione della popolazione nella campagna e la fondazione di Salerno nel 197 a.C., in funzione di presidio militare contro i ribelli Picentini. Il nuovo ordine stabilitosi con il regno di Augusto vedeva Napoli ridotta al ruolo di tranquillo centro residenziale, tagliato fuori dai grandi traffici, uno sviluppo impressionante su tutto il golfo di ville e centri di vacanze che ebbero il loro punto centrale in Baia e Capri, da quando l'isola fu annessa al demanio imperiale. I grandi lavori a Lucrino, con la costruzione del Portus Iulius di effimera durata, precedettero di poco il trasferimento a Miseno e la creazione della grande base navale militare, sì che l'area tra Pozzuoli e Miseno con le sue diversificazioni funzionali, apriva la Campania a una molteplicità di traffici e di transiti di genti diverse. La costruzione della Via Domitiana, diverticolo dell’Appia che tagliava fuori Capua, inferse un duro colpo a questa città, ma anche Pozzuoli vide sempre più ridotto il suo ruolo a favore di Ostia, che a più riprese veniva protetta dall'insabbiamento grazie all'intervento imperiale, fino a quando l'emporio campano cessò di esistere, nel quadro di una regione profondamente colpita dal terremoto del 62 e dall'eruzione del 79 d.C.
La favorevole posizione sulla Via Appia, specialmente dall'intervento traianeo in poi, permise a Benevento un notevole grado di sviluppo per la sua funzione di raccordo con le pianure dell’Apulia e con il porto di Brindisi. Fino alla tarda antichità la Campania continuò a svolgere il ruolo prevalente di produttore di frumento per le esigenze di approvvigionamento di Roma.
Gli scavi e le ricerche più recenti forniscono una buona base documentaria per lo studio del popolamento della regione nell'antichità, contribuendo a fissarne le grandi fasi cronologiche. Agli inizî dell'Età del Ferro troviamo culture di incineratori a Capua e a Pontecagnano (Piana del Sele) e cultura a fossa soprattutto nella Valle del Sarno e nella zona di Cuma. La colonizzazione greca si attesta a Pithekoussai e a Cuma, tra la metà e il terzo quarto dell'VIII sec., provocando sensibili fenomeni di trasformazione culturale nelle aree indigene documentate esclusivamente da sepolcreti come a Calatia (Maddaloni), Suessula (Cancello), Saticula (S. Agata dei Goti), Caudium (Montesarchio), Abella; forti elementi conservativi presentano il gruppo di Oliveto Citra-Cairano dove sono attestati inumatori nella zona irpina situata sull'asse Ofanto-Sele e nell'area aurunca gravitante sul Garigliano. Una vera esplosione di abitati si avrà nel VI sec. sotto la spinta della componente greca, ma soprattutto di quella etrusca, grazie al ruolo dominante che in questa epoca assume Capua. Sorgono siti importanti come Pompei, Stabia, Nola, Nocera, Vico Equense, Fratte di Salerno, caratterizzati da documentazione linguistica etrusca, greca e osca, oltre che da assetti monumentali (come mura di cinta o edifici sacri di un certo impegno). Con la fondazione di Dicearchia (Pozzuoli) nel 531 a.C., a opera dei Samii, di Napoli verso il 470 a.C. e la conseguente occupazione di Capri e Ischia si completa il dominio greco sul golfo; Napoli diviene presto il principale mercato della regione. Durante il periodo di influenza sannitica, evidente per gli aspetti culturali (come le tombe dipinte di Capua, Nola, Sarno o le numerose testimonianze di plastica in terracotta o pietra legate ai luoghi di culto, come a Capua, Teano, il Santuario di Mefite in Val d'Ansanto) e l'adozione del tipo di armatura sannitica (abbondantemente esemplificata oltre che da numerosi corredi tombali, anche dalla miriade di vasi figurati di questo periodo, prodotti nelle officine di Capua, Avella, Cuma) si assiste, come un po' dovunque in Italia meridionale, anche a un grande incremento demografico e alla nascita di nuovi abitati importanti come Ercolano e Sorrento. Con la romanizzazione, tra la fine del IV e gli inizî del III sec. a.C., nascono Cales (Calvi Risorta), Suessa (Sessa Aurunca), Teano (che era un centro di culto dei Sidicini sin da età arcaica), Sinuessa (Mondragone) e poi Benevento, siti che forniscono testimonianze, spesso notevoli, sugli impianti urbanistici delle colonie latine. Altri importanti centri, sorti nel II sec. a.C., sono Literno e soprattutto Pozzuoli, mentre Salerno nasce come presidio militare contro i Picentini che si erano alleati con Annibale. I dati caratteristici dell'età romana, a parte gli aspetti monumentali dei singoli centri, emergono con grande evidenza sia attraverso lo studio delle ville di produzione, soprattutto nel Casertano, sia grazie alle numerose testimonianze di grandi impianti di otium come Baia e Capri o di ville sparse sul litorale del golfo e lungo la penisola sorrentina sia, naturalmente, attraverso quello straordinario complesso costituito dagli abitati della «regione sotterrata dal Vesuvio» (Pompei, Ercolano, Stabia).
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(E. Greco)