CARINI, Laurea Lanza baronessa di
Nacque a Palermo nel 1529, da Cesare Lanza, barone di Castania e di Trabia, e da Lucrezia Gaetani.
Il padre apparteneva ad una famiglia di recente nobiltà: figlio di un facoltoso avvocato catanese che aveva fatto fortuna con la professione e due matrimoni con ricche ereditiere, aveva educazione militare e cavalleresca. Dimostrò tuttavia assai presto anche altre qualità: seppe consolidare infatti le fortune della famiglia con gli uffici e i rapporti privilegiati con il governo vicereale e occorrendo con la stessa lontana corte reale. Fu più volte pretore (cioè sindaco) di Palermo e non gli mancarono intraprendenza e spregiudicatezza negli affari: potenziò le imprese economiche della famiglia (in particolare la tonnara, la piantagione di canna da zucchero e lo zuccherificio di Trabia) e amministrò oculatamente i feudi ereditati dal padre e dalla madre che arricchì con l'acquisto dello Stato di Mussomeli. Violento e privo di scrupoli, non usava rispettare alcuna norma etica o legale, quando si trattava dei suoi interessi, non arretrando neanche davanti all'assassinio, salvo poi aderire compuntamente a tutte le pratiche religiose e devozionali che la sua condizione sociale richiedeva. Sposò anche lui due ricche ereditiere: la prima, Lucrezia Gaetani, madre della C., era di famiglia catanese. Vedova e in età abbastanza avanzata, gli fu promessa in sposa nel 1521 quando egli era ancora un bambino. Lo sposò quattro anni dopo, senza che avesse ancora compiuto i quindici anni e morì nel 1546, in tempo per permettergli il secondo matrimonio con un'altra vedova, Castellana Centelles, gentildonna di origine spagnola, già accasata però in Sicilia.
Anche la C., come il padre e il nonno, fece un matrimonio, di convenienza e in giovanissima età: nel 1543 a soli quattordici anni sposò il sedicenne Vincenzo La Grua e Talamanca, barone di Carini. Ebbe una dote principesca: 4.400 onze in contanti ed inoltre biancheria e gioielli sontuosi e arredi di ogni sorta. Il marito apparteneva ad una delle più antiche e nobili famiglie siciliane (per parte di madre poteva vantare addirittura sangue reale), che era però travagliata da serie difficoltà economiche. Le terre che dipendevano dalla baronia di Carini non rendevano più come una volta, erano concesse infatti per lo più in enfiteusi a censi fissi e in denaro che si svalutavano progressivamente in conseguenza della rivoluzione dei prezzi. Il marito in effetti costituì alla moglie, secondo l'uso siciliano, un dotario, ma di sole 1.000 onze; egli inoltre risulta successivamente associato al suocero in vari affari, ma sempre in posizione subalterna e pare anche con utilizzo di capitali provenienti dalla dote della moglie. Erede di un gran nome, il barone era uomo da poco, succube predestinato della prepotenza del suocero. Privo di capacità e di iniziativa, si tenne sempre lontano dalla vita pubblica siciliana alla quale pure lo chiamava l'alto rango della sua famiglia. Vi comparve in effetti una sola volta nel 1542, all'età cioè di appena quindici anni, ma solo per salvare un servo dalle frustate che aveva meritato trasgredendo certa ordinanza del pretore di Palermo. Il caso fu gonfiato dalle autorità e il baronello accusato addirittura di crimine di lesa maestà. Il viceré Ferrante Gonzaga ne scrisse persino a Carlo V che lo invitò ad usare la massima severità, ma l'età del colpevole riportò presto l'incidente alle sue vere proporzioni e il tutto si risolse in una bolla di sapone.
Le cronache mondane della capitale dell'isola registrano anche una sola volta la presenza della C., ma a più giusto titolo: ella è ricordata infatti per la partecipazione ad una sontuosa cavalcata di gentildonne palermitane in occasione delle cerimonie nuziali della figlia del viceré Juan de Vega.
Dal matrimonio con il barone, la C. ebbe sei figli: Eleonora, Lucrezia, Maria, Cesare, Ottavio, Tiberio. Ma il ruolo di madre non dovette aggiungere gran che a quello abbastanza squallido di moglie di un inetto che vegetava all'ombra del suocero e gli custodiva la figlia nel castello di Carini. Quivi il barone, che pure possedeva un palazzo a Palermo, trascorreva gran parte dell'anno, occupato dall'amministrazione dei suoi beni. Fra di essi uno zuccherificio che egli possedeva in società con lo zio Ludovico Vernagallo e con il fratello di lui Alvaro. Ludovico, ricco mercante palermitano, aveva sposato una sorella del padre del barone; Alvaro, di condizione economica più modesta (possedeva, come il barone di Carini, solo un quarto dell'azienda), aveva proprietà nella vicina terra di Montelepre. Padre di tre figli, uno dei quali, di nome Ludovico come lo zio, viveva con lui a Montelepre. Giovane, veniva spesso da Montelepre a Carini, dove era ammesso di sicuro a frequentare anche il castello. La C. lo conobbe e se ne innamorò, a quanto risulta dai documenti nel 1561. La relazione si protrasse per due anni all'insaputa del marito, che non doveva avere rapporti frequenti con la moglie, se il Vernagallo che s'introduceva di notte nelle stanze della baronessa, novello Romeo con una scala di corda, usava restarvi "por dos y tres meses continuos comiendo y durmiendo con ella". Il silenzio più assoluto fu osservato ininterrottamente per tutti e due gli anni dalla servitù, sicuramente a conoscenza della relazione, e dagli abitanti tutti di Carini, che qualcosa dovevano pure sapere. La tragedia scoppiò all'improvviso, sabato 4 dic. 1563, ma per l'intervento del padre, non del marito. Quel giorno il Lanza aveva deciso di passarlo con la figlia a Carini, dirigendovisi da Palermo a cavallo con un piccolo seguito di cinque persone. All'approssimarsi del castello, mandò avanti un servo ad avvertire il genero e la figlia del suo arrivo. Appresa la notizia nella sala del castello dove lo trovò il servo del suocero, il barone si precipitò a comunicarla alla moglie: la trovò nelle sue stanze con il Vernagallo e ne uscì stravolto. Disse al servo che lo interrogò sul suo turbamento che avrebbe voluto uccidere ad archibugiate il Vernagallo sorpreso in flagrante adulterio con la moglie. Ma non lo fece, aspettò invece l'arrivo del suocero che non tardò. Violento e spietato, ma soprattutto geloso della figlia, egli decise sull'istante di ucciderla insieme all'amante. Concertò rapidamente l'assassinio con il genero: seguito da lui entrò nelle stanze della baronessa e le fece sgomberare dalla servitù che vi si tratteneva: due colpi di archibugio segnarono la morte dei due amanti. Un nuovo delitto, non certo il solo della sua lunga carriera di uomo d'onore, il più esecrando, ma non l'ultimo. Dopo che ebbe consumato il duplice assassinio aprì le porte delle stanze della figlia e invitò il suo seguito e la servitù del castello a prenderne atto. Quindi si ritirò nelle stanze del genero, mentre i chierici di Carini trasportavano le due salme nella chiesa madre. Prima che vi fossero seppellite, pretese che fossero esposte sulla piazza del paese, per rendere manifesto ai Carinesi e a quanti altri consapevoli e conniventi dell'adulterio che l'onore del padre era stato riscattato con la morte della figlia e dell'amante di lei. Fu raccolta così la sfida che la baronessa aveva osato lanciare, a costo della vita, al costume infame e inveterato che la condannava all'assurda fedeltà all'amore impossibile del padre, malamente mascherato dal vincolo coniugale con un marito che era solo l'ombra di lui.
La notizia, dell'atroce fatto di sangue si sparse fulmineamente, arrivò subito a Palermo alle orecchie della suprema autorità in Sicilia. Il viceré, don Juan de la Cerda, duca di Medinaceli, non aveva ragioni di riguardi verso il prepotente barone, anzi covava contro di lui un ben motivato rancore, per via di certi recenti trascorsi che gli erano costati piuttosto cari. Agì quindi con energia e tempestività, ma non tanto da arrivare ad arrestare l'assassino che da lui non si aspettava certo alcuna indulgenza. Introvabile a Palermo e nei suoi feudi, fu colpito da bando e confisca dei beni. Il Lanza si dileguò allora dalla Sicilia e riparò a Roma, dove con il tramite di quella ambasciata spagnola chiese di presentarsi personalmente al re. Ottenne udienza da Filippo II e quindi giustizia, quella stessa che in gioventù aveva ottenuto da Carlo V per l'assassinio di un giurato di Termini. Al viceré che insisteva per una severa punizione si replicò da Madrid che se il diritto di uccidere la donna sorpresa in flagrante adulterio era riconosciuto dalle leggi vigenti solo al marito, era pur vero che l'omicidio era stato commesso dal padre alla presenza del marito ed era quindi come se l'avesse commesso il marito stesso. Al crudele omicida fu quindi permesso di rientrare incolume in Sicilia, dove fu reintegrato nel pieno possesso dei suoi beni e continuò a godere di tutto il rispetto che ogni uomo d'onore suo pari vi aveva sempre meritato. Non è noto se subì un processo e fu assolto, cosa abbastanza probabile, visto anche che fu facile mettere a tacere i Vernagallo e impedire loro di costituirsi parte civile per l'assassinio del loro congiunto. Certo è solo che il delitto del Lanza restò, come le altre volte, impunito.
La stessa sorte ebbe ovviamente il marito, il quale però si sentiva sicuro delle leggi che tutelavano l'onore e non prese alcuna precauzione, finendo a quel che pare nelle carceri del Castellammare di Palermo. Non per molto tuttavia. Riconosciuto a maggior ragione innocente, il 21 ott. 1564, con una fretta decisamente insolita, passò a nuove nozze con Ninfa Ruiz, sorella di un alto funzionario siciliano. Questa seconda moglie morì però subito dopo, sebbene di morte naturale, costringendolo a un nuovo precipitoso matrimonio, l'11 marzo 1566, con Paola Sabia, vedova di Francesco Spinola. Questi due matrimoni contratti in così breve volgere di tempo rientravano con tutta probabilità in un disegno premeditato del barone di cancellare al più presto il ricordo della prima moglie e dell'adulterio che l'aveva condotta alla morte. L'eccezionale pubblicità che il Lanza aveva voluto dare al suo delitto aveva soddisfatto l'orgoglio del padre, ma non quello del marito che in tutta la vicenda svolse ancora una volta il ruolo della semplice comparsa.
Il ricordo dell'atroce fatto di sangue restò tuttavia profondamente impresso nella memoria popolare che dette vita a una leggenda in prosa e ad una Storia in ottave siciliane straordinariamente fortunata. Fortuna assai tenace, sebbene affidata alla sola trasmissione orale, della quale avvenne la prima registrazione scritta (ma di due sole ottave) nella seconda metà del sec. XVIII a cura di un erudito palermitano, il marchese di Villabianca. Ben altra ampiezza di registrazioni scritte e secondo un metodo sempre più corretto si ebbe nel secolo scorso per iniziativa di alcuni folkloristi siciliani e in primo luogo di Salvatore Salomone Marino, al quale debbono anche le prime ricerche storiche sul caso della sventurata baronessa. Alla tradizione popolare ella risultava uccisa dal padre barone di Carini per via del suo amore illecito, non approvato cioè dal genitore, con il cugino Vernagallo. In alcune varianti era considerata una giovinetta nubile e talvolta di nome Caterina, mentre in altre si lasciava intendere un'età più matura e una condizione civile diversa, di madre e ancor più vagamente di moglie. Alle ricerche condotte dal Salomone Marino negli archivi privati dei principi di Carini e dei Vernagallo, oggi non più aperti agli studiosi, risultò che fu lo stesso barone di Carini a diffondere, naturalmente dopo un certo lasso di tempo dai fatti, una versione edulcorata che lo sostituiva al suocero come assassino appunto di una figlia di nome Caterina e non della moglie. Secondo il Salomone Marino questa versione sarebbe stata avallata anche dalla famiglia Vernagallo che avrebbe indicato in un Vincenzo, finito monaco carmelitano a Madrid, l'amante di Caterina La Grua uccisa dal padre. Quanto credito si possa dare a queste affermazioni è difficile dire senza il controllo delle fonti sulle quali si fondavano. Sta di fatto comunque che un cronista dei primi del Seicento accenna assai laconicamente al caso della signora di Carini, chiamandola "Donna Catarina La Grua". A questa epoca dunque la versione edulcorata del caso era già corrente a livello di coscienza colta.
Il Salomone Marino pubblicò a Palermo nel 1870 un poemetto popolare in ottave siciliane (La baronessa di Carini, leggenda storica popolare del sec. XVI in poesia siciliana), che ricavò non senza abilità e sensibilità letteraria da una ricucitura delle varianti sempre frammentarie e incomplete, registrate in vari paesi della Sicilia. Nel 1873 seguì una seconda edizione (La baronessa di Carini, leggenda storica popolare del sec. XVI in poesia siciliana, seconda edizione corretta ed arricchita di nuovi documenti)ricca di altri centocinquanta versi e di nuovi documenti. Queste due edizioni accettavano la versione del fatto che successivamente lo stesso Salomone Marino dichiarò edulcorata, ma provocarono un lungo strascico di critiche e di polemiche. Tali da indurre il folklorista siciliano a nuove e assai più vaste registrazioni oltre che ad ulteriori ricerche storiche che lo condussero finalmente alla verità. Il risultato fu una terza edizione (La baronessa di Carini, storia popolare del sec. XVI in poesia siciliana reintegrata nel testo e illustrata co' documenti, Palermo 1914; una nuova ediz. a cura di G. Cocchiara, Palermo 1926), fondata su un numero ancora più ampio di varianti e sulla scoperta della realtà storica alla quale il Salomone Marino pretese di fare aderire compiutamente il testo della Storia popolare. Scartò quindi tutti quei versi e frammenti che accreditavano la versione edulcorata e approntò una nuova ricucitura del poemetto sulla base di quelli soli che gli sembrarono più aderenti alla verità storica. Questa ricostruzione di un presunto testo originario del poemetto soddisfece ancor meno gli studiosi che non le risparmiarono critiche assai dure e manifestarono una preferenza pressoché totale per la ricostruzione originaria del 1870-73. La quale era stata accolta già da G. Pitré nei suoi Canti popolari siciliani, II, Palermo 1891, pp. 127-147. Allo stesso testo si rifanno i rifacimenti più o meno liberi e sempre filologicamente, poco attendibili, di L. Galante, Un poemetto siciliano del Cinquecento. La baronessa di Carini, nuova edizione con note e frammenti inediti, Catania 1909; di F. De Maria, La Barunissa di Carini, introduzione testo italiano e note, Milano 1943 e di Vann'antò, La baronessa di Carini. "Storia" popolare del secolo XVI, Messina 1958. Il testo del 1873 era stato accolto, ma dall'edizione del Pitrè e con tutti gli errori di stampa, nel Canzoniere italiano, Antologia della poesia popolare, a cura di P. P. Pasolini, Modena 1955. Tutta la questione è stata rimessa in discussione dalla pubblicazione filologicamente irreprensibile de Le varianti della "Barunissa di Carini" raccolte da S. Salomone Marino, a cura di A. Rigoli, Palermo 1963 (una seconda edizione ricca di nuove varianti raccolte direttamente dal Rigoli con personali registrazioni: La Baronessa di Carini. Tradizione e poesia, Palermo 1975).
Fonti e Bibl.: Il documento più importante sull'assassinio della baronessa (contiene una relazione assai dettagliata delle autorità siciliane fondata su informazioni di prima mano) è ancora ined. e si conserva nell'Archivo General de Simancas, Segretarias provinciales, Sicilia, leg. 980. Altre notizie nei Libros 800 e 837 dello stesso fondo. Il contratto matrimoniale della C. è nell'Arch. di Stato di Palermo, Atti notar. Pietro Ricco, reg. 498. I due successivi contratti nuziali del marito in Atti notar. Antonino Occhipinti, regg. 3727 e 3728. Per Ludovico e Alvaro Vernagallo, Atti notar Pietro Ricca, minute n. 477 e reg. 477. Laconici accenni al caso in F. Paruta e N. Palmerino, Diario della città di Palermo, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, a cura di G. Marzo, s. 1, I, Palermo 1869, p. 25; Notizie di successi varii nella città di Palermo, ibid., p.208. Qualche notizia sul barone di Carini in G. Capasso, Ilgoverno di don Ferrante Gonzaga in Sicilia dal 1535 al 1543, in Arch. stor. sicil., n. s., XXXI (1906), pp. 390-391; F. San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, II, Palermo 1924, pp. 276-277; C. Trasselli, Un banco genovese a Palermo nel 1570, in Riv. internaz. di storia della banca, III(1970), pp. 209-210. Un'accurata ricostruz. del caso con particolare riferimento agli aspetti giuridici offre A. Baviera Albanese, La storia vera del "caso" della baronessa di Carini, in Nuovi quad. del meridione, II(1964), pp. 1493-533. Per la discussione critica sulla Storia in ottave siciliane oltre alle edizioni citate nel testo, vedi A. De Gubernatis, La baronessa di Carini, in Riv. europea, I(1870), pp. 563 ss.; S. Salomone Marino, Della "storia" della baronessa di Carini, lettera al prof. A. de Gubernatis, in Nuove effemeridi sicil., II(1870), pp. 145-147; A. D'Ancona, La baronessa di Carini, in Nuova antol. di scienze lett. ed arti, XIII(1870), pp. 860 ss.; G. Pitré, Della baronessa di Carini, in Nuova effemeridi sicil., I(1870), pp. 551 ss.; G. Gentile, Il tramonto della cultura sicil., Bologna 1919: pp. 135-136; A. Pagliaro, Poesia popolare e poesia giullaresca, Bari 1958, pp. 249-350; A. Varvaro, in Filologia e letter., IV(1964), pp. 440-448; L. Sciascia, La baronessa di Carini, in Nuovo Mezzogiorno, VII(1964), pp. 22 ss.; G. Cocchiara, Le origini della poesia popolare, Torino 1966, pp. 312 ss.; G. B. Bronzini, S. Salomone Marino fra filologia e storia sullo sfondo della cultura sicilianapost unitaria, in Pitré e Salomone Marino, Palermo 1968, pp. 289 ss.; C. Ciorceri, Analisi delle varianti di un "tratto" della "Barunissa di Carini", in Annali della Facoltà di Magistero dell'Univ. di Bari, VIII(1969), pp. 121-152; Id., L'episodio dell'uccisione della "Barunissa di Carini", ibid., X (1971), pp. 9-25; A. Pagliaro, Forma e tradizione, Palermo 1972, pp. 143-204.