Lavoratrici
Zanze era di Cannaregio e faceva l'infilaperle. Passava lunghe ore seduta in circolo con le vicine in calle, la sessola di legno sulle ginocchia, ridendo talvolta con la testa rovesciata all'indietro alle battute delle compagne. Fu così che la notò Nane Merlo, facchino di erberia, non bello ma dall'aria forte e spavalda. La paga di facchino era a cottimo, dalle 3 alle 4 lire al giorno, a cui si aggiungeva il ricavato di qualche servizio a domicilio, ma Zanze era felice di sposare Nane, "il suo sogno modesto di ragazza del popolo si era avverato"(1). In sei anni di matrimonio arrivarono cinque figli e i guadagni calarono. Zanze dovette dare i piccoli a balia in campagna perché non aveva latte, e oltretutto dovette prendere in casa la suocera rimasta senza tetto, maligna e invidiosa. Nane si dette al bere e cominciò a lasciare in osteria buona parte delle lire guadagnate. Frequentava il Malibran la sera, in cattiva compagnia. Tornato a casa ubriaco, bestemmiava e bastonava. Una notte Nane cadde in un canale e annegò. Zanze andò allora alla fabbrica di conterie a chiedere lavoro: l'infilatura delle perle rendeva poco, ma le permetteva di badare ai figli lavorando nella cucina. Mandò il terz'ultimo alla scuola pubblica; il maggiore dei maschi andò a lavorare in erberia come il padre e la sera girava con le cassette in collo a vendere zolfanelli. Teresina, di 12 anni, i capelli rossi e crespi, la pelle bianca, le forme precocemente sviluppate, era una ragazzina vivace, andava a zonzo per mezze giornate o nei campi a giocare con i monelli. Zanze la collocò presso una sarta a cucire imbastiture, a saldare fili e a portare le scatole dei vestiti alle clienti, un ambiente dove, oltre al mestiere, imparò "le vere arti della civetteria, e peggio". Qualche anno dopo, lasciata la scuola, andò a giornata nelle famiglie. Alla madre giunsero voci dalle comari del vicinato sul comportamento della figlia, divenuta amante di un giovane patrizio; non resse la vergogna e cacciò Teresina di casa. Ora "si consuma di dolore nella cucina umida e scura, passando e ripassando con moto automatico il ventaglio lucente nel volume candido e mobile delle perline". Virginia Olper Monis, scrittrice impegnata sul fronte dell'emancipazione femminile, è l'autrice del racconto che tratteggia il vissuto delle donne del popolo nell'Ottocento veneziano: tra desiderio di uscire dalla condizione di povertà e il pericolo incombente della caduta nella disperazione o nel disonore, si consumano i destini di due donne, madre e figlia, emblematici di una condizione femminile che nel corso del secolo acquista le dimensioni di una "questione" sociale.
Quali margini di scelta erano possibili, pur all'interno di coordinate assai anguste, al di là di un destino già prefigurato alla nascita? Capire che cosa cambia nella vita delle donne a Venezia nel corso dell'Ottocento e del primo Novecento - periodo caratterizzato da grandi trasformazioni sul piano politico, economico, culturale -, nel loro orizzonte materiale e simbolico, nel loro ruolo e nella loro identità, ma anche nei modi di definirle e di pensarle, è lo scopo di questo scritto.
La ricerca delle risposte è problematica; non appena ci si inoltra nel percorso a ritroso nel passato lo scenario è ingombro di rappresentazioni: venditrici ambulanti, merlettaie e impiraperle, l'industria dell'immagine fissa i loro gesti e la loro presenza su fondali veneziani. "È ben difficile che un forestiere vada a Venezia senza mettere nella sua valigia, come ricordo, di un tipo caratteristico, la fotografia od il dipinto che rappresenta la portatrice d'acqua"(2). La pittura verista cattura la gestualità e gli ambienti quotidiani di mogli di pescatori e venditrici del mercato, serve e cucitrici. Le immagini mostrano uno spazio urbano animato e attraversato da presenze femminili di tutte le età, che si addensano in alcuni luoghi dove i loro impegni le conducono più di frequente: i mercati, le fontane, i luoghi di devozione, il banco dei pegni; di ritorno dal mercato sono colte davanti all'uscio di casa con la borsa della spesa, o mentre lavano i panni e li stendono al sole dei campi; le calli ombrose, occupate per prolungare spazi domestici angusti e bui, sono ingombre di oggetti della vita quotidiana: cesti ricolmi di panni, mastei, assi per lavare che, poggiate tra due seggiole, diventano un tavolo per mangiare ma anche per giocare a tombola nei momenti di svago.
La commedia borghese e la letteratura verista della seconda metà del secolo amano rappresentare la vita del popolo e in particolare le donne che del popolo sono considerate la parte più pittoresca e più autenticamente portatrice della 'natura' locale. Sono loro la fonte orale che alimenta le raccolte scritte di canti, fiabe, racconti della tradizione(3).
Seguendo l'itinerario attraverso la rinnovata commedia ottocentesca - da Sugana a Selvatico e Gallina - tracciato da un'altra scrittrice, Lucia Pagano Briganti, incontriamo non più solo le servette frizzanti e furbe di goldoniana memoria, ma una varietà di figure femminili capaci di forza e di presa di parola, che rappresentano sulla scena quasi la metafora di un cambiamento. Non nelle patriote del '48 che "in silenzio custodiscono le carte, tagliano le filacce pei feriti e le bandiere per i soldati, piangono sommesse e non parlano lavorando", l'autrice riconosce il carattere delle "donne nuove", ma nelle ciarliere operaie che attraversano la città con passo deciso: un'immagine di fierezza che un dipinto di Cadorin ben rappresenta visivamente(4).
Sullo scorcio del nuovo secolo, Amelia Rosselli, scrittrice e autrice di commedie in lingua veneziana quando è ormai lontana dalla sua città natale, mette in scena il cambiamento dei tempi attraverso vicende familiari in cui giovani donne affermano con parole e azioni una nuova morale: la priorità del diritto e della libertà di scelta individuali sul dovere e l'obbedienza. Aneta, una maestra ventenne che vive sola lontana dalla famiglia, ama leggere e scrivere, esprime con fervore le sue idee femministe, vuole convincere la vecchia serva Zanze a ribellarsi additandole come esempio le tabacchine: lei non è una serva, ma una lavoratrice, una proletaria, una che vive del suo lavoro e non è schiava di nessuno(5)!
Impegnate da sempre a consumare vite di lavoro e di lotta per la sopravvivenza nell'ombra, le lavoratrici entrano nella scena reale, nella seconda metà del secolo, con i loro corpi e le loro voci: protestano, chiedono, supplicano, cantano, scioperano; occupano le calli per lavorare in gruppo, si recano insieme alla fabbrica o a scuola, assistono a comizi commentando e rumoreggiando. Presenti nelle cronache, lo sono anche nei discorsi e negli scritti di filantropi ed economisti, politici ed educatori, preoccupati di ricondurre le loro esistenze all'interno di comportamenti compatibili col sentimento del decoro e dell'onore che una classe borghese divenuta protagonista tende ad imporre alla società.
Com'è visto questo mutamento nell'immagine pubblica delle donne e come viene da loro stesse percepito? Chi sono realmente le lavoratrici?
Tabacchine, impiraresse, maestre sono soltanto le figure in primo piano dietro le quali si addensa una folla di donne dai contorni sfocati. Ho tentato, con la mia ricerca, di dare voce, corpo e identità ad alcune di queste donne, di raccontare vicende che le hanno viste protagoniste, o almeno di farle uscire dall'anonimato, dare loro il nome.
Ho voluto considerarle non come un gruppo sociale astrattamente omogeneo, ma nelle loro differenze di età e di condizione: bambine, giovani o anziane, hanno vissuti e orizzonti diversi; ma la ricostruzione del ciclo di vita di donne povere è cosa problematica e i risultati mostrano le lacune della documentazione.
Per quanto riguarda le fonti, non essendo al momento consultabili alcuni archivi di importanti fabbriche né parte consistente dell'Archivio di Stato di Venezia, ho rivolto la mia attenzione agli archivi di istituzioni pubbliche comunali - Municipio di Venezia e Murano, I.R.E. (Istituzioni di Ricovero ed Educazione) - che mi hanno consentito di indagare aspetti interessanti come l'intreccio tra mercato del lavoro e assistenza pubblica, forme embrionali di welfare cittadino, e soprattutto quell'articolato disegno finalizzato alla educazione e moralizzazione attraverso il lavoro che percorre tutto il secolo. Il controllo delle donne, nelle sue diverse realizzazioni, è dunque al centro della mia indagine.
Ho cercato di ricostruire però anche la loro autonomia, la loro resistenza o la loro ribellione, leggendo in controluce cronache e resoconti delle proteste, mettendo a confronto giornali cittadini di diverso orientamento e scritti di educatori, economisti, industriali che, nello sforzo di fissare norme di comportamento, ne descrivono gli aspetti riluttanti o trasgressivi. Ho ritenuto di dover dar conto delle pratiche discorsive riguardanti le donne e la definizione del loro ruolo e identità sociale come costruttrici delle differenze di genere, non solo come rispecchiamento di queste, prestando particolare attenzione alle parole e all'immaginario che traducono.
La Venezia postunitaria presenta agli osservatori una situazione di crisi sociale e di accentuate condizioni di precarietà e di povertà dei ceti popolari. All'indomani dell'annessione, Alberto Errera calcola 35.000 poveri ufficialmente soccorsi su una popolazione di 122.390. "È così deperita e stremata di forze [osserva] che una parte della popolazione vive alle spalle di un'altra e le officine sono in parte abbandonate, e le case vuote o del tutto o nella massima parte sono un sesto del totale"(6).
L'abate Jacopo Bernardi, presidente della congregazione di carità, tornato a Venezia nel 1877 dopo trent'anni di assenza, è colpito dai mutamenti nelle condizioni economiche: sono sorte parecchie industrie del vetro, dei mosaici, della tessitura, dei merletti, del ferro, ma la miseria è aumentata e la pubblica beneficenza non basta a togliere dalle vie il "tormento assiduo" di coloro che assalgono il passante. Percorrendo le vie dei sestieri più popolari - S. Pietro di Castello, S. Marta - ingombre di fanciulli e fanciulle di ogni età, visitando i piani bassi delle case attigui ai canali, privi di aria e luce, ha la netta percezione di quanto le condizioni materiali in cui versano le famiglie popolane influiscano su quelle morali(7).
Lo spettacolo quotidiano di questuanti e vagabondi per le strade - tra cui molti bambini e bambine - diventa intollerabile per il quieto vivere, ma anche per quel senso del "decoro" che è valore fondante della nuova patria. Ciò si evidenzia nel dibattito locale sulla "questione sociale", i cui protagonisti si confrontano nelle adunanze dell'Ateneo Veneto, nelle riunioni dell'Associazione per il progresso degli studi economici, nella stampa, concordi nel sostenere la rinascita economica per rinnovare le fortune cittadine, ma anche come antidoto al "degrado morale" dei ceti poveri e prevenzione dei paventati conflitti sociali.
Questo progetto sociale e politico, tra filantropismo e nazionalismo, ponendo la famiglia a fondamento dell'ordine, ridefinisce i ruoli sessuali e individua nelle donne e nei bambini, inevitabilmente accomunati, i soggetti strutturalmente deboli da educare e da tutelare.
L'"educazione del popolo", termine connesso in modo inestricabile con quello di "lavoro", viene teorizzata da riformatori e pedagogisti - dall'abate Bernardi al prof. Pick, dal dott. Musatti al prof. Sacerdoti - come strumento con cui perseguire l'integrazione sociale delle classi popolari nel modello borghese, ma anche la formazione di una mano d'opera atta a rispondere alla domanda di un auspicato sviluppo industriale.
Prima di addentrarci a ricostruire questi aspetti vale la pena soffermarsi ad ascoltare le loro indignazioni e i loro accorati appelli, che contribuiscono a riaffermare discorsivamente le differenze di classe e di sesso e a darne fondamento teorico.
Il popolo veneziano è dipinto come festaiolo, imprevidente e spensierato. Non possiede cultura della previdenza e del risparmio, ma vive alla giornata, impegnando per far festa ciò che possiede al banco dei pegni. Preferisce vivere di stento piuttosto che guadagnare faticando, affidandosi alla carità generosa che abitua all'inerzia. La famiglia proletaria viene descritta come un ricettacolo di perversioni e di brutture: padri e madri dediti ai vizi frequentano bettole e magazzini di vini, "voragine spaventosa e struggitrice d'ogni mercede operaia"(8). Vi portano persino le loro creature, "educandole così fin d'allora all'osceno spettacolo di uomini avvinazzati e di femmine bestemmiatrici"(9).
Con queste parole si esprime un relatore, intervenendo nel dibattito:
Ignorando qualunque principio religioso e morale, trasportato dai soli istinti brutali, non conoscendo della famiglia che il peso del mantenimento dei figli, frutto più che dell'affetto, di un abietto sensualismo, il proletariato tratta quelle innocenti creature, come nell'infanzia fu trattato lui stesso, né punto si cura del loro avvenire(10).
Le madri proletarie sono ritenute responsabili della trascuratezza, dell'abbandono e anche dell'immoralità dei figli e specialmente delle figlie, che spingono a turpi guadagni "per saziare la loro fame"(11).
Concordi nel giudicare la gravità del problema, gli autori divergono nella considerazione delle cause: vi è chi le trova "nella corruzione morale e nella mancanza di sentimento religioso, nel cattivo esempio, e nell'amore del lusso e dell'ozio"(12), per altri invece la causa principale è la povertà; secondo Giulio Sacerdoti il lavoro femminile poco retribuito rappresenta un "vizio economico" che obbliga a considerare una "questione femminile" accanto alla "questione sociale": i bassi salari mantengono le donne, in particolare le giovani, in una situazione limite nella quale sono spinte a cercare delle scorciatoie fino a prostituirsi, il mezzo più facile per uscire dal vicolo cieco di una vita di fatiche senza prospettive di miglioramento. Racconta di un amico artista che aveva come modella la figlia di un barcaiolo lavorante come sarta in un negozio della città, "una ragazzina svelta, faccia espressiva, capigliatura bionda ricchissima". Intrattenuta in chiacchiere per farla stare ferma, la ragazza comincia a narrare le storielle piccanti del magazzino e i pettegolezzi della calle:
Salo, […], la Gigia quela che sta qua de fassa la ze scampada de casa! […] L'ultima volta che la go vista se capiva che la gera stufa - la diseva che a servir no ghe comodava andar […]. Qualcosa de grosso bisognava che la lo fassesse. Zà, el senta, cossa vol-lo che femo nu altre povarete… maridarse?… gnente gavemo poco guadagnemo… Chi vol-lo che ne toga?… Un povaro diavolo de artesan! Bel affar… impinirse de fioi e far dei infelisi!… Piuttosto…(13).
Lasciando immaginare gli scenari spalancati da quel "piuttosto".
Ripetuti e insistenti sono nelle fonti i richiami a pericoli di molestie e di violenze che correrebbero le fanciulle precocemente avviate al lavoro all'interno dei laboratori. Particolarmente deboli e ricattabili appaiono le domestiche, spesso giovanissime, sole, lontane dalla tutela familiare, poco considerate sia per la loro provenienza sociale che per la loro origine campagnola o montanara.
Nel periodo considerato, Venezia ha una popolazione femminile più elevata di quella maschile, fatto dovuto alla presenza di donne e ragazze immigrate, provenienti dalla campagna circostante, dalla pedemontana e dalla montagna bellunese e friulana, che vengono a servizio presso famiglie(14); trattandosi di lavoro domestico, invisibile all'esterno, di una figura socialmente svalutata, pur essendo quantitativamente rilevante, le fonti sono reticenti sulle loro condizioni. Qualche pagina di sapore letterario, carica di retorica sul buon cuore e sui sentimenti semplici ma sani della piccola serva di campagna(15), distoglie lo sguardo da una realtà ben più misera che talora affiora dalle cronache della stampa cittadina. È il caso ad esempio di una ragazza di 24 anni, Giovanna L. originaria di Alano di Feltre, domestica presso un fornaio. Recatasi a Rialto dal fruttivendolo Girolamo Pase, un giovane sulla ventina, è condotta da questo nel magazzino con la scusa di prendere il prezzemolo. Una volta entrati nel locale, vi s'introducono altri due individui, il Pase immobilizza la giovane e le impedisce di gridare, mentre i due sconosciuti la violentano e poi si allontanano chiudendola a chiave(16).
Quanti sono gli episodi analoghi consumati in silenzio? Scorrendo le cronache dei giornali colpisce la ricorrenza di fatti come suicidi e fughe delle giovani domestiche traviate.
All'interno di quelle stesse pareti domestiche nelle quali cercano tutela, oltre che mantenimento, "i padroni pensano a tutt'altro che a protegger[l]e quando pure non cerchino di farne la meta dei loro desideri, ed abusare della loro giovinezza e della loro inesperienza", denuncia Cesare Della Vida, esortando gli educatori a prevedere per le ragazze povere un futuro lavorativo non unicamente indirizzato al servizio(17). Le serve cacciate di casa dai padroni non trovando lavoro sovente si danno alla prostituzione(18).
Difficile valutare dal punto di vista quantitativo il fenomeno, per la maggior parte clandestino, incrementato dalla presenza in città di numerosa popolazione avventizia dovuta al porto, alla guarnigione militare, al turismo: si calcola che nel 1883, anno in cui vengono scoperte 251 prostitute clandestine di cui 11 minorenni, l'attività clandestina rappresenti circa il quintuplo di quella regolare che risulta essere di 229 iscritte(19).
Le indagini sulla provenienza confermano trattarsi per lo più di cameriere, sarte, lavandaie e operaie(20). Il confine tra lavoro precario e prostituzione risulta facilmente valicabile e le giovani vi cadono dopo aver perduto l'onore, sedotte con promesse di matrimonio o di mantenimento, oppure dopo essere rimaste sole e aver cercato in vario modo sostentamento, spinte anche dalle madri o dalle amiche; è quanto si ricava dai racconti delle ragazze traviate che chiedono di entrare nella Pia Casa delle Penitenti a S. Giobbe che aprono squarci interessanti sui loro vissuti.
Quando varca il portone della Pia Casa per chiedere di essere accolta, Veronica Maria P. ha 26 anni. Ecco il racconto reso al procuratore che la interroga:
Mio padre chiamasi Antonio P. d'anni 50 di professione burchiajo. Mia madre Ludovica T. d'anni 44 di professione rigattiera. Ho un fratello di nome Giuseppe d'anni 24 militare. I miei genitori sono poveri e quindi non posso sperare da essi alcuna assistenza. […] Per qualche tempo fui cameriera e lavoratrice nella fabbrica dei tabacchi. […] Nell'età di sei anni fui abbandonata da miei genitori - vissi in campagna fino agli undici anni - ad 11 anni ritornai in Venezia presso mio padre, il quale conviveva come tuttavia convive con una donna di mal'affare. A sedici anni, abbandonata la casa paterna, e scelta quale modello per le scuole dell'Accademia delle Belle Arti cominciai a vivere scandalosamente. Fui mantenuta da parecchi. Esercitai il meretricio in mia casa ed in casa di mia madre ad istigazione anche di costei. Non fui iscritta nei ruoli della polizia, ma fui molte volte richiamata da questa a cagione della mia condotta notoriamente scandalosa(21).
Dalle relazioni redatte dalle suore risultano ricoverate ragazze di età diversa - l'età minima per essere accolte è di 15 anni -, alcune sono orfane di padre o di madre, o figlie di genitori ignoti, hanno fatto vari lavori temporanei e poco qualificati, come il servizio e la cucitura. Molte escono dall'istituto prima dello scadere dei cinque anni necessari per avere la dote, richieste da familiari o per collocarsi come domestiche presso famiglie; poche, non giovanissime, si sposano, domandate da uomini vedovi o celibi di campagna. All'interno della Casa le giornate delle penitenti sono scandite dal lavoro, eseguito anche su commissione di privati e di ditte, tanto che l'ispettore governativo dopo averla visitata accusa le suore di sfruttamento delle ricoverate(22).
Lasciando ad altri autori la trattazione - in questi stessi volumi - del pauperismo(23), mi limito ad alcune considerazioni riguardanti le donne, le più povere tra i poveri. È indispensabile premettere che la loro condizione è diversificata a seconda che siano donne sole con o senza figli - nubili, vedove, abbandonate dal marito - o maritate, giovani o anziane; tuttavia esse devono provvedere a se stesse e ai loro figli, non potendo contare su un impiego maschile assai precario e su una garanzia di mantenimento paterno. L'insistente rassicurazione di occuparsi della famiglia e di consegnare lo stipendio alla moglie, da parte di coloro che chiedono un sussidio, fa pensare che ciò non avvenga normalmente. Un rimessaio dichiara di avere tre figli minori "custoditi, mantenuti ed educati dal loro padre" ed un gondoliere di traghetto assicura di non aver disperso il suo piccolo guadagno trattenendosi coi colleghi, come sono soliti fare gli appartenenti all'arte, ma "al solo riflesso di non far patire la numerosa sua famiglia tutto consegnava e consegna alla propria moglie, onde disponesse per i casi urgenti indispensabili ed imprevisti, come ad esempio parti, vestiti, scuole, malattie"(24). Drammatica è la condizione delle vedove con figli piccoli; tale Elisa Michieli, di anni 45, un tempo di condizione agiata avendo il marito un negozio di bronzi, rimasta sola è costretta a lavorare come domestica presso una famiglia, lasciando in custodia ad altri la sua bambina. Un giorno Elisa si getta dalla finestra del terzo piano(25).
Oltre al matrimonio, considerato la via d'uscita dalla situazione di miseria, varie sono le strategie messe in atto dalle donne per sopravvivere: ricorrono alla beneficenza privata e all'assistenza pubblica, supplicano per ottenere un sussidio, ma soprattutto chiedono lavoro. La necessità le spinge ad accettare qualsiasi mansione accontentandosi di paghe misere: una mano d'opera poco qualificata e a basso costo di cui approfitta l'espansione industriale.
La tanto vituperata tendenza all'ozio delle popolane non trova riscontro nelle fonti: impiegano buona parte della loro giornata ad alternare occupazioni o a cercarle, accorrono numerose quando si offre un'opportunità nuova, protestano quando il lavoro viene a mancare, sopportano condizioni durissime e orari prolungati oltre limiti intollerabili.
Per tutto l'Ottocento, ed anche oltre, il lavoro non rappresenta di per sé un elemento di emancipazione dal bisogno: non vi è separazione netta tra l'essere povere e l'essere lavoratrici, la debolezza economica le mantiene costantemente ai limiti dell'indigenza o nel pericolo di cadervi. È difficile perciò identificare una categoria di lavoratrici dai contorni precisi, essendo questi mutevoli nel tempo e nel ciclo di vita, se si escludono alcuni gruppi particolari di operaie come le tabacchine. Il loro salario del resto è considerato un'integrazione del salario maschile - giustificazione per mantenerlo a livelli minimi - e la loro condizione economica e sociale è segnata dalla famiglia di appartenenza. Nel tracciare destini personali e percorsi lavorativi delle figlie le decisioni familiari appaiono determinanti.
Per comprendere come percepiscono il conflitto tra dovere familiare e scelta personale, ho trovato preziose e ricche di suggestioni le lettere di supplica scritte dalle ragazze al Municipio per ottenere grazie dotali o sussidi; pur adottando formule suggerite ed enfatizzando l'autocommiserazione e il vittimismo, vi si coglie la tensione fra necessità e desiderio nella quale consumano la giovinezza. "Osa sperare" di essere "contemplata fra quelli che dalla generosità dei pietosi verranno soccorsi" Luigia Dalnuovo, perlaia orfana di padre e con la madre vecchia ed inferma(26). Maddalena Fenzo, che ha 22 anni e fa la domestica presso lo stabilimento di bucato del Grand Hotel Nuova York, non guadagnando abbastanza per mantenere sé e la vecchia madre, definisce "crudele" la sua posizione di promessa in matrimonio che non può portare a compimento e se stessa "sventurata orfana immersa nella più grande miseria. La più sgraziata delle figlie".
Il sentimento del decoro e della dignità, il valore dell'indipendenza economica che traspare dalle loro parole, indica la volontà di distinguersi dai poveri assistiti. "Per poter sopperire alle occorrenze del mio matrimonio [scrive Margherita Rodo al parroco] attesi sempre con assiduità e perseveranza ai miei lavori del mio mestiere di sarta, ma di sì piccola importanza lo furono e lo sono da potere appena col reddito di essi supplire alla giornaliera sussistenza ed al mantenimento di quel decoro familiare che è l'unica eredità lasciatami dal padre mio".
Mancando una letteratura sulla famiglia popolare veneziana del periodo esaminato, alcune considerazioni si possono desumere dalle dichiarazioni dei parroci e dalle documentazioni che accompagnano le suppliche: le condizioni economiche sono al limite della sussistenza, i lavori dei padri - battellieri, rimessai (riparatori di mobilio), venditori ambulanti, marinai - sono saltuari o comunque insufficienti; le mogli integrano le scarse entrate con espedienti e occupazioni precarie: si dedicano a piccoli traffici, prestano servizio a ore, eseguono lavori di sartoria, fanno le lavandaie e le stiratrici, le perlaie e le infilaperle. Anche le figlie infilano perle, oppure sono tabacchine, domestiche presso famiglie, lavano, stirano, rammendano a domicilio, con guadagni esigui ma necessari all'economia familiare, tanto da non riuscire a mettere da parte la dote per potersi sposare. I loro fidanzati sono barcaioli, pescatori, gondolieri di traghetto, giornalieri presso bottega, venditori d'agrumi, operai in Arsenale, passano di lavoro in lavoro e conoscono periodi di inattività. Le ragazze allungano così il fidanzamento oltre i 20-25 anni, per mancanza di mezzi o perché devono sobbarcarsi il mantenimento di genitori infermi, inabili, inoccupati, di fratelli e sorelle minori. Vittoria Padovan si rivolge al Municipio perché, essendo orfana di padre e "costretta a spezzare il pane colla propria madre impotente a qualsiasi lavoro", assicura che "le privazioni di mezzi colle quali sempre ebbe a lottare, furono la vera causa per cui si vede costretta a protrarre il suo matrimonio"(27).
La necessità di differenziare le entrate familiari o di cercare altrove sostentamento determina forme di convivenza e di coabitazione varie. Anna Bomba, vedova, non essendo in grado di mantenere e sorvegliare la figlia Adriana, la affida a sua sorella di latte che fa l'affittacamere, presso la quale la ragazza vive aiutandola nelle faccende(28). Non infrequenti sono i casi di ragazze madri che abitano con i genitori e le relazioni di fatto con l'esistenza di figli illegittimi. Laura Toffalo, una domestica nubile di 25 anni, di condizione miserabile, convive col proprio amante dal quale ha avuto due figli e che vorrebbe sposare se ottenesse la grazia; "prescindendo dal fatto dei figli che ebbe inanzi al matrimonio", si legge nella nota del funzionario municipale, "conduce una vita incensurabile sotto ogni aspetto". Anche Amalia Zennaro di 20 anni, figlia di un facchino e di una perlaia, è incinta dell'amante, ma conduce una vita ritiratissima. Margherita Povoleri, invece, mantenuta in parte dall'amante in parte dal fratello, vive presso una levatrice e pure essa, stando alla voce pubblica, è incinta(29). La presenza in città di lavoratori e lavoratrici con una ridotta tendenza al matrimonio è fattore di aumento della natalità illegittima, ma aumenta anche il numero di esposti legittimi(30).
Possiamo concludere che, in conseguenza dell'industrializzazione, nel periodo 1870-1900 si registra a Venezia una modificazione della struttura familiare e della fertilità: il tasso di nuzialità più basso d'Italia, un'elevata età del matrimonio per le donne e un'altrettanto alta percentuale di nubilato definitivo(31); le cause di ciò sono da rintracciarsi in diversi fattori che comprendono il costo economico del matrimonio, il lavoro extradomestico delle donne e l'esistenza di numerosi istituti femminili. Aspetti che non possono essere analizzati separatamente.
L'iniziazione delle bambine al lavoro è precoce. Abituate sin da piccolissime a contenere l'infantile esuberanza, imparano presto a non restare mai "con le mani in mano", ad aiutare la madre nell'accudimento dei fratellini e nel lavoro a domicilio; quando la madre è lontana, la sostituiscono diventando delle piccole donne di casa. Renzo Derosas, analizzando i fogli di famiglia per risalire alle cause della mortalità infantile, ha riscontrato che "la presenza di sorelle maggiori risulta sistematicamente favorevole alla sopravvivenza del bambino", non così quando i maggiori siano maschi(32).
Quando la famiglia viene meno, la madre è assente o non in grado di educare, la società si assume il compito di sottrarre le fanciulle alla strada per preservarne l'onore, il loro maggior bene da spendere nel mercato matrimoniale, addestrarle ai doveri muliebri e a guadagnarsi da vivere. Ma non di rado sono i genitori stessi che mandano le figlie nei conservatori e nelle case di carità per ottenere nel presente di che sfamarsi e di che vestirsi, per il futuro la dote, requisito necessario per aspirare al matrimonio(33).
Fanciulli e fanciulle poveri o abbandonati vengono condotti nella Casa d'industria che, sorta nel 1812 per debellare il fenomeno del vagabondaggio e della mendicità dando ricovero e lavoro a uomini e donne poveri, funziona anche come riformatorio. Tante sono le richieste di soccorso di ragazzi e ragazze che l'istituto non è in grado di accogliere. I maschi vengono inviati a lavorare in campagna o come mozzi sulle navi; anche le ragazze tra gli 11 e i 14 anni sono affidate temporaneamente a famiglie fuori città, ma il loro ricovero è ritenuto necessario e si cercano soluzioni diverse. Si ha notizia di un gruppo di "ragazze di qualche avvenenza" alloggiate in un settore a parte dell'edificio, detto "local superiore", dove sono istruite alla filatura sorvegliate da una maestra. I ripetuti progetti di trasferirle all'orfanotrofio sono continuamente rimandati, perché la loro produzione "è la fonte principale che assicuri la maggior quantità di canape bene filato"(34).
Una filanda è anche all'interno del Conservatorio di S. Alvise che accoglie le ragazze esposte di S. Maria della Pietà di ritorno dal baliatico esterno in campagna, con i cui proventi mantengono se stesse e l'istituto(35).
Oltre alla Casa d'industria, vi sono altri istituti gestiti dalla congregazione di carità che accolgono ragazzi e ragazze abbandonati o di famiglie povere per toglierli dalla strada: il "Manin" maschile e femminile e i due orfanotrofi, ai Gesuati per i maschi, alle Terese per le femmine. I ragazzi vengono addestrati in officine e laboratori per imparare un mestiere, le ragazze invece vengono istruite nei lavori "donneschi" - cucitura e stiratura, rammendo e rattoppo, ricamo a merli e a fuselli, confezionamento di biancheria e vestiario a mano e a macchina - al fine di "riuscire capaci lavoranti, valenti cameriere, brave massaie"(36). Completata l'educazione, all'uscita dall'istituto le allieve ricevono una dote in denaro ed effetti di vestiario: la loro meta è il matrimonio, il loro futuro andare a servizio. L'istruzione professionale femminile prevista negli istituti consiste infatti in quei mestieri utili alle future donne di casa, che rappresentano una fonte di guadagno in caso di bisogno; si teme - denunciano i riformatori - che dare alle ragazze un'arte "le svezzi dalla vita domestica, le allontani dalle affezioni della famiglia" e, piuttosto che nella capacità lavorativa, si confida nella tutela di padroni e padrone(37).
Migliore è l'educazione nell'Istituto delle Zitelle, trattandosi di allieve di condizione "civile" che si vogliono mantenere distinte dalle ragazze di estrazione popolare. Delle licenziate comunque soltanto alcune proseguiranno gli studi per diventare maestre, la maggior parte farà la cameriera, poche si sposeranno, le altre rimarranno a lungo nel conservatorio(38). Poiché l'indirizzo formativo dell'Istituto delle Zitelle non è ben chiaro, si progetta di dare alle allieve una formazione decisamente volta a diventare cameriere qualificate o istitutrici presso famiglie private, passando le figlie del popolo, destinate a diventare domestiche o bambinaie, all'Istituto "Manin" o alle Terese, dal momento che "per tale scopo modesto la soverchia istruzione sarebbe inutile, [direi] anzi dannosa"(39). In seguito viene introdotto lo studio teorico e pratico della telegrafia e scrittura a macchina per preparare le ragazze ai nuovi impieghi, senza arrivare ad una vera riforma.
Nel corso dell'Ottocento cresce notevolmente anche il numero di istituti privati per accogliere fanciulle povere, dove si pratica il lavoro educativo: scuole di carità, educatori femminili, case. Il movimento cattolico infatti, il cui attivismo è rinvigorito dopo l'annessione e che vede uno spiccato protagonismo femminile, individua nell'educazione dei bambini, e soprattutto delle bambine, il terreno privilegiato per fronteggiare la decadenza morale e spirituale originata dalla modernità, con i suoi corollari di trasformazione della famiglia e di allargamento del lavoro extradomestico delle donne. Don Luigi Caburlotto, fondatore con Maria Vendramin dell'Ordine delle Figlie di S. Giuseppe per accogliere ed educare bambine povere, preferisce indirizzare le sue cure alle femmine perché "il male maggiore di questo metodo di vita scioperato va ad essere recato alle fanciulle, le quali insensibilmente passano alla perdita di ogni verecondia e si danno in seguito in preda alla dissolutezza"(40). Anche il parroco di S. Pietro di Castello, monsignor Gregoretti, inizia a raccogliere nel 1852, in una piccola casa che diventa nel 1873 l'Istituto Buon Pastore, "povere fanciulle che corressero pericolo grave di seduzione sia per l'abbandono dei genitori, sia per la cattiva indole delle stesse fanciulle"(41).
L'Istituto dei Catecumeni, oltre alle attività volte a diffondere la religione cattolica, tiene anche una scuola di lavoro per le ragazze, divisa in cinque sezioni, con lavori progressivamente più impegnativi a seconda dell'età: le piccole bimbe di 5-6 anni si addestrano su imparaticci, fazzoletti e grembiali; un po' più grandine confezionano camicie, calze, maglie; vi è poi la scuola professionale dove si eseguono lavori di biancheria per la casa, pizzi all'uncinetto e a fuselli e si ricamano paramenti sacri; infine vi è il laboratorio frequentato dalle più abili che eseguono lavori su commissione sia a mano che a macchina(42).
Secondo il parere dell'ispettrice governativa che li visita, il tempo dedicato alle pratiche di pietà in alcuni di questi luoghi è eccessivo, mentre manca un'educazione "alle virtù civili e domestiche": l'aspetto delle bambine è "triste e quasi stupido", appaiono sudicie e disordinate nella persona e nella tenuta dei libri e dei quaderni; l'insegnamento elementare è scarsissimo, se non del tutto assente, le bambine vengono occupate in doveri domestici, atti a tenere impegnati il corpo e la mente, piuttosto che addestrare ad un mestiere. Urge una riforma seria e radicale di questi istituti affinché non siano "soltanto semenzaj di serve, e di cattive serve, o di ragazze che finiscono male per mancanza appunto della coltura pratica e dell'abilità necessaria a guadagnarsi da vivere con una certa facilità, bensì luoghi pii in cui si allevino buone massaie e brave operaie"(43). Dello stesso parere è Gualberta Alaide Beccari, fondatrice del giornale emancipazionista "La Donna" dalle cui pagine sollecita un rinnovamento degli istituti di carità dove non si istruisce né si educa, la pietà religiosa è esagerata e ripetitiva e alle povere ragazze si ricorda che "nate per essere serve non deggiono innalzare le loro idee che… tutt'al più per diventar cameriere"(44).
La congregazione di carità attua nei primi anni Ottanta un piano di riforma degli istituti educativi per meglio connettere l'istruzione "col nuovo movimento industriale della città"; la fabbrica è vista favorevolmente come una via d'uscita dalla "misera cerchia attuale dei soliti mestieri" di cameriera e domestica per le ragazze dell'orfanotrofio femminile e per assicurare loro un impiego esterno(45). Abbandonate le convenzioni con le ditte Frollo di fiori artificiali e Trapolin di passamanerie, lavori poco remunerativi (0,40 lire per 12 ore), si pensa ad un'istruzione delle orfane in prospettiva di entrare come operaie nel Cotonificio, sorto da poco nelle vicinanze. Il locale individuato allo scopo è l'ospizio abbandonato a ridosso dell'ex convento detto delle Terese, ma da questo separato, dove possano accedere alla scuola, a orari alterni, sia le orfane interne, sia allieve esterne senza che vi siano contatti tra loro; ceduto ad uso gratuito alla Società del Cotonificio, vi vengono installati gli aspatoi per ridurre in matasse il cotone filato. La congregazione pone come condizione che siano accolte di preferenza, sia nella scuola che in seguito nello stabilimento, fanciulle da lei raccomandate, richiesta che la direzione del Cotonificio accoglie decisamente, convinta così di poter avere "una manovalanza più seria, meglio educata e più facile a dirigere"(46).
L'orfanotrofio delle Terese viene descritto anche dalle ispettrici statali come una "numerosa famiglia" ben diretta e ben organizzata, nella quale le bambine, entrate denutrite e malaticce, sono ben nutrite e ben curate, in un luogo igienicamente sano in cui imparano presto ad essere disciplinate e ordinate e a diventare piccole lavoratrici(47). Tra i motivi che l'amministrazione adduce per negare l'uscita a due fanciulle reclamate dalla loro madre vi è il danno economico che deriverebbe all'istituto lasciando precocemente in libertà le orfane capaci(48). Si tratta non più di rinchiudere le bambine per sorvegliarle, ma di formare quella mano d'opera qualificata e disciplinata richiesta dalle nascenti fabbriche. Le "orfanelle" saranno le prime operaie specializzate del Cotonificio.
Anche nella scuola pubblica fin dalle prime classi della scuola elementare le bambine hanno una materia denominata "lavori donneschi", durante la quale eseguono rudimentali ricami e rammendi; questo insegnamento tuttavia è da alcune insegnanti considerato del tutto insufficiente e inoltre viene abolito nella classe prima, proprio la più frequentata dalle alunne povere e trascurate, come denuncia la maestra Elisa Meloncini. Lei è convinta che l'amore per il lavoro vada trasmesso alle bambine fin dalla prima età per sottrarle a quell'"atavica inerzia delle donne" ereditata dalle madri che se ne stanno sull'uscio di casa "sudicie, sciatte, inoperose"(49). Allettata dalla "visione di un laboratorio di minuscole operaie", ha l'idea di dar vita a una scuola di lavoro per fanciulle che sfuggono all'obbligo e trova subito appoggio nella signora Ottavia Ghe e nella contessa del Bono, impegnate nella neonata Società contro l'accattonaggio(50). Ottenuto dal Municipio l'uso di un'aula nella scuola "Gozzi" a Castello, vi raccoglie fanciulle povere, subito accorse numerose, e organizza ciò che chiama "Laboratorio popolare femminile". Le ragazze, gratificate dai loro stessi progressi e dagli oggetti confezionati, imparano presto e diventano buone e tranquille, anche le più insubordinate come due sorelle, "due vere selvagge" che non volevano far nulla, molestavano di continuo le compagne e si ribellavano agli ordini, che poco per volta si "ammansirono" fino a diventare "irriconoscibili". "Perché prolungare la spensieratezza bambinesca in fanciulle chiamate prestissimo alla più grave missione della donna?", chiede la Meloncini; a Pellestrina le bambine di 6-7 anni sono già al tombolo(51).
Questa precoce "adultizzazione" si persegue anche a scuola dove la dedizione alla cura delle cose e delle persone è suggerita da racconti e letture, dai titoli stessi di temi e dettati e perfino dal gioco, facendo delle bambine "piccole massaie" che si accingono ad esserlo pienamente. I discorsi a loro rivolti condannano "i vizi femminili" - la vacuità, la frivolezza, l'ozio - che generano sogni e fantasie dannosi, per richiamare ai doveri domestici. Laddove questi vengono a mancare lo scenario che si prospetta ai loro occhi è drammaticamente misero: "l'aspetto dell'operaio ha qualche cosa di scomposto, di sinistro; nel sembiante e nelle mosse degli adolescenti si vede un non so che di petulante e di provocatorio, nel volto dei bambini istessi sembra che il disordine e la sudiceria abbiano fatto fuggire l'angelico sorriso di quell'età, che ignora le colpe e le sventure"(52). Le parole sono pronunciate da Laura Goretti Veruda, direttrice dei lavori femminili nelle scuole comunali, figura onnipresente il cui attivismo spazia dai giardini d'infanzia alle scuole di lavoro.
Convinta assertrice che alle donne spetti innanzitutto il lavoro di cura, riconosce tuttavia che le occupazioni casalinghe non devono assorbire tutta la vita della donna del popolo, la quale ha necessità di lavorare per aiutare genitori e marito; del resto sarebbe pura follia che chi lavora per vivere si sforzasse di imitare coloro che stanno in una posizione elevata e che devono rappresentarla degnamente negli oggetti e negli ambienti di cui si circondano, quegli stessi oggetti che sono per le donne povere un'opportunità di guadagno di cui essere grate. "Servano pure i vostri lavori ad ornare ed abbellire altre donne ed altre giovinette [dice rivolta alle classi femminili radunate nel cortile della scuola] voi avrete di che consolarvi pensando che i più umili sono quelli di cui più si abbisogna"(53).
Anche Sacerdoti, sostenitore dell'istruzione professionale rivolta soprattutto alle arti, alle piccole industrie e al commercio, è convinto che il lavoro e lo studio siano per le figlie del popolo il mezzo per abbandonare onestamente la miseria. Le nascenti imprese hanno bisogno del "genio paziente, sobrio e austero della donna", la quale può così pretendere quel posto attivo che le spetta nel mondo e "combattere l'assurdo morale ed economico" che vuole gli uomini destinati al lavoro e le donne all'ozio, a condizione però che la loro istruzione abbia carattere pratico e non teorico, limitato a quei "naturali confini" entro i quali l'economia, la fisiologia e la morale consentono di estendere il lavoro femminile(54).
A partire dagli anni Settanta a Venezia, come in altre città, si fa sempre più insistente la richiesta di scuole professionali femminili sull'esempio di paesi come Francia, Germania e Svizzera, per rendere le industrie locali competitive con quelle europee e dare impulso a un artigianato di buon gusto che risponda alla crescente domanda del mercato borghese. Emanuele Celesia, intervenendo al Congresso pedagogico di Napoli nel 1871, espone il suo progetto per avviare le donne a nuove professioni, allontanandole dagli opifici, indicando criteri e caratteristiche di scuole a loro riservate che si adattino alla realtà locale: per le veneziane suggerisce, ad esempio, la pittura su vetro(55).
Progetti di apertura di tali scuole hanno l'adesione anche di ambienti democratici e progressisti e sono condivisi dalle esponenti dell'emancipazionismo, tra cui le collaboratrici veneziane del giornale "La Donna". La stessa Beccari interviene sul problema del precoce lavoro in fabbrica, considerata luogo di rovina fisica e morale per le ragazze, sostenendo invece la necessità dello studio attraverso il quale possano imparare un mestiere ed evitare il tirocinio di apprendista da cui escono "fisicamente e moralmente guastate"(56).
Rosa Piazza, collaboratrice del giornale tra le più impegnate sul versante dell'educazione(57), è in prima fila nella promozione di una scuola professionale a Venezia, e stende assieme a Guglielmo Stella il progetto: limitando lo studio al programma elementare, questo prevede il disegno come materia di base e la creazione di laboratori gestiti da artigiani del settore - merletto, perle, moda - per apprendere o perfezionare il gusto artistico al fine di migliorare, secondo le indicazioni di Celesia, le industrie "casalinghe" cittadine(58). Le allieve, nelle intenzioni degli autori, "non devono uscire né saputelle né mezze letterate, ma buone e brave operaie"; si vuole evitare che investano i loro sforzi in indirizzi di studi che "aumentano il loro disinganno e producono delle spostate" - si legge nel "regolamento" - facendo riferimento al "contingente delle illuse nell'aspettazione della carriera magistrale" che ha come unico e "non splendido ufficio" quello della maestra elementare(59). La "scuola normale" per la formazione delle future insegnanti elementari è l'unico corso di istruzione superiore per le ragazze, se si eccettua la scuola superiore femminile, che offre però alle figlie di famiglie borghesi un'istruzione postelementare generica ed esornativa, "onde farne brave ed utili donne, non donne in toga"(60). La carriera della maestra quindi è l'unica professione intellettuale che si prospetta ed effettivamente l'apertura di scuole femminili, l'allargamento dell'istruzione elementare e l'insegnamento di discipline "donnesche" offrono opportunità di lavoro nuove e molte ragazze, di condizione "civile" ma bisognose, ambiscono ad inserirvisi, tanto che a Venezia, come nel resto dell'Italia, in questo arco temporale aumenta in misura considerevole la tendenza delle giovani all'insegnamento, mentre diminuisce nei giovani maschi(61).
Le figlie del popolo, lasciata precocemente la scuola, lavorano in casa, si impiegano nelle fabbriche di recente apertura o vanno in qualche laboratorio a imparare un mestiere.
Negli anni postunitari si va sempre più affermando la convinzione di sostituire a interventi di pura assistenza iniziative volte a rendere economicamente attive le donne povere. Tentativi di questa natura erano già stati fatti in passato, senza risolvere peraltro il problema della carenza di lavoro.
Negli anni in cui rimane operante la Casa d'industria, molte sono le donne sole, vedove o abbandonate dal marito, anche non mendicanti, che vi si rivolgono. La Casa infatti distribuisce canapa da filare e da tessere a domicilio, tramite centri situati nei sestieri più poveri gestiti da un'intermediaria che percepisce il 5%.
All'interno della Casa sono addette alla sfilacciatura dei tarozzi (cordami) per recuperare la canapa da filare o per ottenere stoppa: ricevono 1 centesimo più il pasto per 4 libbre di tarozzi sfilacciati. Fabbricano tele di canapa e cotone per lenzuola o per vele e panni di lana destinati agli istituti di beneficenza e ai ricoveri pubblici; producono anche stuoie e tappeti e in generale quelle manifatture che non richiedono forti capitali per l'acquisto della materia prima e impiegano una mano d'opera non specializzata(62).
La filatura della canapa e la cucitura delle vele è lavorazione tradizionalmente eseguita dalle donne anche all'interno del vicino regio Arsenale, in condizioni addirittura peggiori, tanto che nel 1812 34 filatrici non si presentano al lavoro nel locale detto "bagno delle vergini"(63) e 10 di loro vengono ritrovate all'interno della Casa d'industria e diffidate a non ricomparirvi. Ecco il commento del commissario generale della marina, Maillot:
Siccome desse sono per lo più delle poltrone ed amano lavorare lentamente e senza assiduità il loro guadagno diviene minore e per ciò preferiscono di lavorare alla giornata presso la Casa d'Industria(64).
Il fatto comunque si ripete negli anni successivi.
Nel periodo in cui la Casa dipende dalla congregazione di carità (1863-1875) vengono introdotte altre lavorazioni, come le cannette di paglia per sigari per la Manifattura Tabacchi(65); la proposta di attivare l'infilatura delle perle invece viene respinta con la motivazione che, togliendo da vivere a molte infilatrici, risulterebbe dannosa alla città; si paventa però anche il danno risultante allo stabilimento dalla sottrazione di perle da parte delle lavoranti(66).
Soppressa la Casa d'industria, altre iniziative vengono attivate dalla congregazione di carità per le donne povere, come l'apertura di sale da lavoro con macchine da cucire, sull'esempio di quanto si va sperimentando nella città di Milano, con lo scopo di fornire alle operaie cucitrici a domicilio e alle madri di famiglia il modo di ripararsi dagli effetti della concorrenza del lavoro a macchina.
Elisabetta Michiel Giustinian, Elisabetta Gradenigo ed Elisabetta Clary, signore del patriziato e attive benefattrici, costituiscono un comitato promotore del progetto e organizzano una lotteria per la raccolta dei fondi, facendo appello alla "carità industriosa" a non lasciare inascoltato "il gemito di quelle poverelle"(67). Lo spirito della loro iniziativa è dichiarato nella lettera che scrivono al Municipio per sollecitarlo a contribuire ad un progetto con il quale "né si va a largire una passeggera beneficenza al più delle volte sprecata, né si appoggiano fallaci teorie, ma soltanto viene ad offrire uno strumento di lavoro all'operaia che per difetto d'esso o languirebbe nella inedia o smarrirebbe la via dell'onestà"(68): un'alternativa costantemente prospettata.
Molti vi si oppongono, avverte Rosa Piazza, accampando il vecchio pregiudizio che a Venezia non si riesce a far nulla e che le operaie non vi sarebbero accorse e "mille altri pronostici di malaugurio". Lei invece è convinta degli effetti benefici di quest'opera, che considera in continuità con le scuole professionali femminili; se queste infatti sorgono per il bene delle giovani, le donne future, con le sale da lavoro "si porge la mano alla donna della generazione presente e la si aiuta a superare la distanza che passa tra l'educazione da lei ricevuta, che sente troppo le tendenze del passato, e le necessità create inesorabilmente dalla scienza e dal progresso"(69).
Anche la Beccari vede con favore la modernizzazione dei lavori domestici come possibilità di miglioramento delle condizioni delle donne: l'idea di Celesia di aprire pubbliche lavanderie, oltre a migliorare l'igiene delle classi operaie, potrebbe trasformare i poveri mestieri di lavandaia e stiratrice in professioni più dignitose e più lucrose(70). Lo stesso risultato può produrre l'iniziativa di meccanizzare il lavoro tutto manuale delle cucitrici, eseguito da moltissime ragazze e donne nelle loro case o nei laboratori di sartoria, trasformandolo in lavoro autonomo. Una serie di interventi apparsi sul giornale "La Donna" per favorire le "operaie libere" sostiene l'apertura di bazar, sull'esempio di esperienze nordeuropee, che funzionano sia come negozi per la vendita diretta dei manufatti che come agenzie per ricevere commissioni e distribuire i materiali. Basterebbe un'unica intermediaria fra le operaie e il pubblico, la direttrice dell'agenzia, e questo ridurrebbe in maniera considerevole la percentuale sulle tariffe accaparrata da appaltatori e mediatori. Si potrebbe inoltre annettere al bazar un laboratorio di perfezionamento e asili per le operaie senza famiglia(71).
Ben lontana dal proporsi analoghi obiettivi emancipatori, l'apertura di sale da lavoro viene attuata a Venezia - a mio parere - con modalità assistenziali che riaffermano e rafforzano ruoli e compiti tradizionali: la macchina da cucire diverrà il simbolo di quell'operosità domestica "modernizzata", ma in continuità con il fuso e il telaio, che reclude le donne in casa a formare la categoria di lavoratrici "più povera e degradata"(72). Il manifesto del comitato promotore, a firma delle tre patronesse, annuncia i vantaggi dell'iniziativa con queste parole:
Il lavoro manuale fece sempre parte dei doveri e del guadagno della donna. Con la rocca, sul tombolo, al telaio, coi fuselli, essa si guadagnò di che vivere, ed aiutò i genitori ed il marito per mantenere la famiglia. Vennero le macchine, la filatrice, la tessitrice scomparvero, e furono impiegate non a far girare un fuso, ma a dirigerne 150 o 200 per volta. Restava ad esse l'ago di cui erano padrone; ecco la macchina da cucire che nessuna mano di donna può sperar di raggiungere. […] E che faranno dunque quelle povere che vivono del loro lavoro e con esso cercano di sostenere i vecchi cadenti, i bambini? Per guadagnarsi il pane bisognerà che adoperino la macchina; ma per adoperar la macchina, bisogna possederla, bisogna pagarla; e con i viveri così cari le povere cucitrici non possono far risparmi(73).
La raccolta di doni non dà buon esito, la lotteria non si fa e passano due anni prima che la sala da lavoro venga aperta nel 1876 ai SS. Giovanni e Paolo. Solo 9 donne vi si iscrivono inizialmente, ma nel marzo sono già 22, a luglio 31 e a settembre 45. La congregazione si assume le spese dello stipendio delle maestre e la manutenzione delle macchine, donate da benefattori, mentre il Comune fornisce i locali presso la scuola femminile di S. Maria Formosa. Vengono ammesse gratuitamente donne di età non inferiore a 15 anni, prive di mezzi, di sana costituzione e condotta incensurata(74). Un'altra sala viene aperta a S. Margherita nel 1883, dove vi sono anche gli aspatoi del Cotonificio, a cui si aggiunge la scuola professionale presso l'Istituto delle Canossiane ai Catecumeni e un reparto presso l'orfanotrofio delle Terese frequentato da 100 ragazze del popolo. Un'istanza firmata da un gruppo di donne per l'apertura di una sala a Cannaregio non avrà seguito per mancanza di fondi.
Questi laboratori sembrano essere ben accolti dalle donne dei sestieri che vi si iscrivono numerose e, a sentire gli organizzatori, "specialmente dalle giovani che preferiscono il lavoro quieto, costante, ordinato, e indipendente a quello irregimentato dei grandi stabilimenti"(75). Nel 1890 si registrano 623 donne iscritte ai SS. Giovanni e Paolo, 80 a S. Margherita, 54 ai Catecumeni e il numero cresce progressivamente fino al 1915, anche se molte vi si recano in maniera discontinua. Vi eseguono lavori di sartoria, biancheria, maglieria, sia per il fabbisogno familiare che per commesse di terzi dalle quali ricavano qualche lira.
Imparato il mestiere di calzettaia e fattasi un buon giro, qualche operaia riesce a prendere una macchina per conto proprio, da pagare in rate settimanali, e a lavorare a casa, fatto questo che l'ispettrice Romilde Gamberini indica come risultato positivo di una beneficenza che mette nella condizione di rendersi autonome "ragazze che prima erano oziose, ed ora sono buone, brave, oneste operaie che mantengono sé e aiutano la famiglia"(76).
Raccogliere le donne in un laboratorio è anche un modo per controllarne i costumi, abituarle al rispetto di regole e orari che la nuova concezione del lavoro di fabbrica impone.
Il regolamento prevede che lavorino a turno, in modo che l'uso delle macchine sia equamente distribuito, sorvegliate da una maestra che ha la facoltà di allontanare le operaie "moleste" o indisciplinate e non ammettere le "sudicie". Le donne sembrano adattarsi all'organizzazione del laboratorio, a condizione però che mantenga quell'elasticità che consenta loro di entrare e uscire a seconda del bisogno e di conciliare il lavoro esterno con gli impegni domestici. Quando si introduce un nuovo orario estivo, anticipando l'inizio per avere un'ora pomeridiana di pausa in più, ai SS. Giovanni e Paolo rifiutano di presentarsi e scrivono una lettera di protesta alla congregazione:
Noi operaie tutte […] facciamo calda domanda a questa Benemerita Presidenza onde ottenere la grazia di poterci ancora accordare il nostro solito orario nelle ore di lavoro; perché questo nuovo […] non ci serve a nulla di vantaggioso ma piuttosto di danno. Ora in queste due ore che ci hanno posto di intervallo (dalle 12 alle 2) siamo costrette ad abbandonare il lavoro e lasciarlo più di qualche volta interrotto, non potendo in causa delle nostre occupazioni intervenire nelle ore pomeridiane; e le abitanti del sestiere di Cannaregio, prenderebbero il malvezzo in queste due ore, di girovagare per le vie. Essendo poi la maggior parte donne di famiglia ci sarebbe affatto insopportabile di poter intervenire alla mattina alle ore otto(77).
Le relazioni annuali delle direttrici si chiudono con parole attraverso le quali si fanno interpreti dei sentimenti di gratitudine delle frequentanti nei confronti dei benefattori, sottolineano il senso del dovere che le ispira, dimostrando di essere docili e rispettose sebbene siano donne delle classi popolari inasprite dalle difficoltà della vita, si compiacciono dell'ordine e dell'efficienza che, a sentir loro, regna nelle sale; tuttavia non sfuggono, a una lettura attenta, i riferimenti all'indocilità e riottosità delle donne. Lucrezia Zambon, direttrice della sala di S. Margherita, chiede un aumento dello stipendio, che è di lire 73,77 mensili, insufficiente a mantenere il decoro richiesto dalla sua condizione, adducendo come motivazione il fatto che quella da lei diretta è "la sede più difficile per la natura vivace delle frequentatrici"(78).
Disordini si verificano ai SS. Giovanni e Paolo dove ripetuti sono i rapporti della direttrice per insubordinazioni da parte delle operaie. L'episodio più grave vede protagonista certa Catterina Lazzari, anziana frequentatrice, la quale vuole comandare a tutte lei compresa, è insubordinata e "sparlacciona", pronuncia ingiurie che offendono la sua dignità e persino "mette in canzone le minacce". L'ispettrice, accorsa a rendersi conto di persona, riesce a tenere a freno le operaie, ma non lei, che alza la voce e accusa la direttrice di essere la vera responsabile del disordine che regna nella sala(79). Possiamo ipotizzare che in un simile contesto non siano rari discussioni vivaci e contrasti, causati da contenziosi su oggetti, rivendicazioni di spazi e tempi, ma anche da pettegolezzi e commenti con i quali le donne amano divertirsi in situazioni di lavoro collettivo. In questo caso sembra però essere il carattere di Catterina, la sua insofferenza nei confronti dell'autorità, il suo atteggiamento sfrontato e l'uso della parola salace a risultare inaccettabili. L'episodio però può essere a mio parere interpretato anche come conflitto di potere tra donne che rovescia le gerarchie della calle basate sull'età.
Catterina, trasferita in altra sede, non è la sola a subire un provvedimento per insubordinazione. Qualche anno dopo infatti la stessa ispettrice Gamberini deve difendersi dall'accusa di essere venuta meno al suo dovere di vigilanza, visto che nelle sale si sono verificate varie irregolarità. Una direttrice si è assentata per ben 15 giorni, lasciando macchine e oggetti affidati alle operaie. Altre volte aveva tenuto comportamenti non lodevoli, la cui elencazione restituisce un clima all'interno dei laboratori affatto diverso da quello descritto nelle relazioni e lascia intuire rapporti di convivenza tutt'altro che armoniosi: "i prestiti in danaro avuti da parte delle operaie, gli ornamenti d'oro impegnati, i frequenti desinaretti nella sala, lo scambio di insulti atroci fra direttrice ed operaie, il guasto delle macchine, la sparizione degli aghi ed altro"(80).
Non disponiamo di dati sugli effetti prodotti dalla presenza delle sale sulla capacità lavorativa e sulla qualificazione della mano d'opera femminile, ma tutti gli indizi inducono a ritenere che vengano utilizzate più per l'autoconsumo che per il mercato. Attive per tutti gli anni di guerra, durante i quali le donne lavorano intensamente per confezionare capi d'abbigliamento per i soldati al fronte, vengono definitivamente chiuse nel 1921.
Negli anni che seguono la nascita dello Stato unitario, vi sono altre iniziative che, sotto la bandiera dell'assistenza e del patriottismo, proclamano di voler risolvere la "questione sociale" dando lavoro alle donne e nello stesso tempo di incrementare l'economia cittadina affrancandola dalla dipendenza straniera. Non i dispensatori di elemosine, ma coloro che offrono occasioni di lavoro, introducendo nuove industrie o ravvivando le antiche, "si possono a buon diritto salutare col nome di padri del lavoro nella lor patria", secondo il parere di Jacopo Bernardi(81).
È il caso della Società anonima per il lavoro di cartonaggio fondata nel 1868 con l'intento "patriottico" di sanare la piaga del vagabondaggio. Nell'istanza presentata dalla direzione della Società al Ministero delle Finanze per chiedere l'esenzione del dazio sulle merci prodotte, occultando la finalità economica si esalta lo spirito di filantropia di coloro che "vollero seguire il generoso impulso del loro animo" e diedero vita alla nobile iniziativa. Il lavoro, che consiste nel confezionamento di scatole di ogni tipo per farmacia e profumeria, è adatto all'infanzia - dicono gli impresari - e per questo si aspettano l'intervento statale. Ragazzi e ragazze vengono raccattati dagli agenti della questura e dalle guardie municipali per le strade, di giorno e di notte, e obbligati ad entrare nello stabilimento, ma è convinzione degli organizzatori che le donne, appena diffusa la voce, accorreranno ad iscriversi in numero superiore al necessario. Un reparto separato viene creato per le ragazzine, affidate ad una maestra, "allo scopo di procurare mezzo anche alle fanciulle della classe volgare, molte delle quali trovasi sfacendate, o impigrite fra le domestiche mura. O peggio ancora sulle pubbliche vie"(82). Ma le ragazze, e soprattutto i ragazzi, così reclutati, difficilmente si adattano alla disciplina di fabbrica, molti abbandonano lo stabilimento o vengono licenziati; non riuscendo ad avere una mano d'opera sufficientemente qualificata, l'esperimento ha vita breve e la Società chiude i battenti qualche anno dopo.
Caratteristiche analoghe di impresa economica che si ammanta di beneficenza, ma con esiti ben diversi, presenta l'industria dei merletti rifiorita a Venezia e nelle isole a partire dagli anni Settanta dell'Ottocento. Questa manifattura, di cui la città lagunare vantava i prodotti più preziosi e ricercati nei secoli tra il XV e il XVII, era decaduta fino quasi a scomparire nel corso del XVIII secolo, a causa della concorrenza straniera, in particolare della Francia, dove erano emigrate ad insegnare l'arte molte merlettaie veneziane e dove ben presto fiorì una vera industria.
Nei primi decenni dell'Ottocento sono documentate alcune fabbriche di merletti a Castello, ma non ci sono dati sulla produzione a domicilio; è presumibile - come suggerisce Madile Gambier - che questa non fosse del tutto scomparsa per poi rinascere dal nulla ad opera di alcuni illuminati impresari, ma che le donne continuassero a tramandarsi l'arte, anche se i prodotti erano di materiale povero e fattura grossolana(83). Non si spiegherebbe altrimenti come, nel giro di pochi anni, sia sorta un'industria concorrenziale con quella estera, per quantità e per qualità dei manufatti. Si tratta quindi di un riuscito esperimento di impresa che, sfruttando la mano d'opera femminile, trasforma il lavoro per autoconsumo in lavoro per il mercato, adattandolo alle esigenze dei tempi e al gusto delle classi signorili.
L'isola di Burano si trovava negli anni postunitari in condizioni di povertà estrema. Dopo l'inverno rigidissimo del 1872, che aveva gelato la laguna rendendo impossibile la pesca, il deputato Paulo Fambri, ragionando con il parroco, il sindaco e altri notabili su come risolvere il problema in modo definitivo, pensa a risvegliare una delle attività produttive che in passato davano lavoro agli isolani. Vengono considerate le industrie tradizionali dei merletti e dei cappelli di truciolo: il tentativo di ripristinare quest'ultima, che pure era stata fiorente, si deve ben presto abbandonare perché, emigrati a Modena e a Mestre gli ultimi artigiani, non si trova alcuno in grado di trasmettere le tecniche di lavorazione. Non rimane che il merletto ad ago, che avrebbe dato alle donne povere di ogni età il mezzo con cui sfamarsi mentre gli uomini sono a pesca o si imbarcano. Si rintraccia una vecchia settantenne, Vincenza Memo detta Cencia Scarpariola, conoscitrice superstite di quell'arte un tempo rinomata del punto 'Venezia', subito reclutata per insegnare ad altre. La prima allieva è la maestra del paese, Anna Bellorio D'Este: l'idea infatti è di aprire una scuola per istruire donne e bambine.
Fambri coinvolge amici ed elettori per raccogliere finanziamenti, si rivolge alla contessa Andriana Marcello e alla principessa Maria Ghigi Giovannelli e le convince ad unirsi all'impresa, con l'idea che, trattandosi di "affari di ragazze, bisogna[va] finire per metterli in mano a delle signore, buone, intelligenti, ricche, alto locate, possibilmente anche belle"(84).
La scuola, iniziata con 6 ragazze, arriva ad averne 300 qualche anno dopo: la D'Este insegna, la contessa Marcello cerca le commissioni, tra cui quelle della futura regina Margherita, sempre pronta nel sostenere simili iniziative. In un discorso tenuto l'anno successivo all'Ateneo Veneto, Fambri può magnificare il valore di questa industria "ricca di tradizioni, di ragioni storiche e artistiche", la quale non ha bisogno né di motori, né di grandi capitali, eppure in pochi mesi è riuscita a impiegare qualche migliaio di donne, eliminare l'importazione e porre le basi per l'esportazione: si è realizzato, dice, "il sogno santo della filantropia che per singolare favore della sorte può tradursi prontamente nel calcolo della speculazione, e passare vivo vivo dalla tribuna dell'oratore accademico all'officina del produttore e al banco del commerciante"(85). L'idea che lo appassiona, e per la quale si batte con convinzione, è di coniugare in un unico progetto imprenditorialità e beneficenza, economia ed etica.
In questi stessi anni Michelangelo Jesurum rinnova a Venezia la lavorazione dei merletti a fuselli, aprendo una scuola a Pellestrina e portando la sua impresa in quel lembo di terra tra mare e laguna, così povera da registrare persino morti per fame, dove gli uomini, pescatori, marinai ed escavatori, stanno lunghi periodi dell'anno inoccupati. Può ben vantare quindi di avervi impiantato l'unica industria alla quale tutte le donne si dedicano - su 7.000 abitanti 2.500 sono operaie dei merletti - tanto che all'ingresso dello stabilimento ha fatto affiggere le seguenti parole: "Qualunque operaia disoccupata, può ottenere lavoro"(86).
Merita attenzione il pensiero dell'imprenditore a proposito di industria a domicilio, grazie alla quale mogli e figlie di pescatori e marinai possono tenersi occupate nelle lunghe "pericolose" assenze degli uomini sorvegliando la casa; contrapponendo la manifattura dei merletti alle grandi industrie, ritenute luoghi di corruzione, fa notare
[…] che la corruzione che esercitano fra esse molte donne riunite, non regge al paragone di quella dove non vi sono che uomini. Nell'industria dei merletti, non vediamo le madri abbandonare i lattanti; non vediamo vispe, o troppo vispe, ragazze camminar forse un miglio o due per arrivar alle loro fabbriche; e ritornarsene poi di notte… o sole… o con delle compagne (lo che spesso è peggio) per le vie popolate di una grande città!… Le ragazze che esercitano quest'industria, non si staccano mai dagli occhi materni, che sono i più sicuri custodi del loro pudore; abituandosi a questo lavoro acquistano una pacatezza di carattere e una sobrietà di costumi […](87).
Le parole dell'industriale echeggiano quelle degli esaltatori delle piccole industrie, come Giuseppe Toniolo, per il quale la rifiorita industria del merletto, dove "la donna patrizia gareggia colla vecchia popolana per salvare dall'oblio e restituire al lustro antico il celebre punto di Venezia", ha tutte le caratteristiche auspicate di un'economia diffusa nel territorio, che ha un legame con la tradizione, vede la cooperazione tra classi sociali e consente alle donne di non abbandonare la casa(88).
Contro questo "pensiero umanitario" ironizza un lungo articolo di denuncia delle condizioni di lavoro delle merlettaie di Burano apparso nel 1901 sul giornale socialista "Il Secolo Nuovo". L'autrice - la maestra socialista Emilia Mariani, presente a Venezia al Congresso dell'educazione femminile, che effettua una gita nell'isola con le congressiste - è colpita alla vista di donne "patite e macilenti", di ragazzine con i grembiuli bianchi chiuse nei locali della scuola intente a un lavoro lungo e monotono, cadenzato dal passo delle "nere sorveglianti". La produzione industriale ha trasformato la lavorazione frammentandola in segmenti eseguiti da altrettante mani, divenute congegni di una macchina, cosa che, oltre a togliere creatività personale e spirito di inventiva, consente di impiegare le bambine nei punti più elementari. Poiché lavorano a cottimo, inoltre, finito l'orario le operaie portano il lavoro a casa, dove si vorrebbe che badassero ai figli. Ma quale cura dei bambini - continua la Mariani - che girano seminudi per le strade, "sguazzano" in canale, "trufolano" tra le immondizie e corrono dietro al forestiero per chiedere un centesimo, mentre loro stanno curve nel lavoro come "ergastolane" in buie e luride "tane"(89)?
Vista la consonanza di intenti, Fambri e Jesurum danno vita insieme alla Società anonima per la manifattura veneziana dei merletti, nel cui programma, all'atto della costituzione nel 1875, si calcola di vendere il prodotto veneziano ad un 35% in meno di quello francese e belga e ad una qualità superiore, debellando definitivamente la concorrenza. L'impresa viene presentata come vantaggiosa perché non richiede forti investimenti: le donne possiedono il cuscino e i fuselli delle loro antenate, basta fornire loro la materia prima e pagare la mano d'opera. Con un capitale di 100.000 lire si possono impiegare 600 donne ed ottenere un beneficio di almeno il 15% sul capitale stesso che, reinvestito, può duplicarsi e triplicarsi in un anno. I promotori promettono come ricompensa "la coscienza di avere nel tempo stesso servito il proprio paese e salvato dalla fame centinaia di famiglie", tuttavia intendono convincere i sottoscrittori di partecipare ad una speculazione economica, che stimola e moltiplica risorse, non ad un'opera di beneficenza.
Scopo della Società è anche quello di sostenere la Scuola dei merletti di Burano e fondare nuove scuole professionali sotto il patronato di signore e opere pie; queste scuole - si legge nel programma - "recando un vantaggio non indifferente ai fondatori, preparano i paesi industriali, assicurano l'agiatezza nelle famiglie, contribuiscono alla pubblica moralità come quelle che sottraggono le fanciulle al pericolo della pubblica via"(90).
Il 1° gennaio 1879 le veneziane leggono sui manifesti murali l'annuncio dell'apertura della scuola professionale a S. Martino di Castello, dove si insegnano i lavori più comuni a ragazzine di età non inferiore ai 9 anni che sappiano leggere e scrivere. Dopo un anno le alunne saranno in grado di guadagnare una modesta cifra, che però aumenterà man mano con la pratica, dopo di che la Società garantirà lavoro a domicilio alle alunne assidue e diligenti(91).
La scuola tuttavia non ha successo, le allieve non superano mai le 40, delle quali un terzo assente alle lezioni, e scendono presto a 24. Non riuscendo a superare le sopravvenute difficoltà, nel 1883 la Società per la manifattura dei merletti viene liquidata e viene costituita la Società anonima cooperativa per azioni denominata Scuola dei merletti di Burano, che produce gli ormai famosi merletti ad ago, mentre la ditta Jesurum mantiene la sua attività a Venezia e nell'estuario per i merletti a fuselli: sei sono le scuole che gestisce sussidiate da Stato, Provincia e Comune, ma è impossibile fornire cifre precise su numero, età, frequenza delle allieve, poiché è difficile distinguere queste dalle operaie vere e proprie; ve ne sono anche di 80 anni che frequentano per imparare un nuovo disegno o un nuovo punto, mantenendosi costantemente aggiornate e affinando la mano e il gusto(92). Non di scuole si tratta infatti, dal momento che non sono frequentate con regolarità e non vi è impartito, come dovrebbe, alcun insegnamento elementare, ma di laboratori per l'apprendistato e l'aggiornamento delle operaie(93).
I promotori affermano che, mentre gli azionisti non traggono benefici (Fambri perde buona parte del suo patrimonio), le donne hanno migliorato le loro abilità e aumentato le loro mercedi. Lo scoglio - lamenta Fambri - è il permanere di abitudini "di lavoro scarso e interrottissimo". Egli calcola che non si può avere un centro manifatturiero di importante valore economico nel mercato se le operaie non lavorano 10 ore al giorno per 300 giorni l'anno; ottenere ciò sembra impossibile, "le consuetudini sono in loro più forti degli stessi bisogni - il loro anno è di 150 giorni e il loro giorno, meno poche eccezioni, di sei ore"(94). "Abbiamo pertanto [commenta Pietro Manfrin] attitudine individuale ed abilità per riuscire, sventuratamente accompagnate da una decisa repulsione al lavoro"(95).
A Burano le donne si applicano con dedizione, a Pellestrina sono invece più restie ad accettare il periodo di addestramento, faticoso e non pagato, e la scuola professionale ha scarso successo. La disciplina mal digerita, è "resa più difficile dai sobillamenti delle antiche maestre, già incettatrici della produzione, nonché dalle cottimiste e cassiere", alle quali le operaie sono vincolate da antichi debiti. Questa situazione provoca proteste, diffidenze, ripicche che creano continue difficoltà. Ogni volta che viene introdotto un nuovo disegno o un nuovo punto, le donne reagiscono con obiezioni tecniche e richieste di aumenti. Quando giunge una commissione tutta uguale, allora protestano per la monotonia del lavoro. Racconta lo sconsolato narratore come, nel bel mezzo di una grossa commissione, giunga la festa dell'Apparizione, il mese della Madonna, il giorno di S. Giuseppe, il triduo, la novena, gli esercizi spirituali, insomma ogni scusa è buona per interrompere il lavoro o per ridurlo. E mentre si lotta contro "la concorrenza dell'altare" ecco balenare "lo spettro degli scioperi" che attecchiscono anche nei paesi delle novene(96). Si tratta di aver a che fare, secondo Fambri, con una popolazione non solo superstiziosa, ma anche riottosa(97). Gli fa eco Jesurum il quale non si stanca di sottolineare gli sforzi da lui fatti per "ordinare, disciplinare, educare una massa ignorante di 2-3.000 donne"(98). Secondo il parere dei socialisti ci è riuscito fin troppo, tanto che le operaie sono "così istupidite che benedicono il loro sfruttatore" e gli conferiscono persino una medaglia, mentre i loro salari sono i più bassi del settore (da 10 a 80 centesimi per 15 ore lavorative)(99). Opposto il punto di vista degli impresari per i quali le operaie non si arrendono facilmente alle leggi del mercato e triplicati gli stipendi, protestano chiedendoli quadruplicati. La tattica è efficace: il lavoro viene distribuito e dato l'anticipo, "quand'ecco a mezzo lavoro correre una parola d'ordine, e le operaie affollarsi all'ufficio della Società col tombolo in mano, la forbice nell'altra, e sulle labbra il dilemma seguente: o tanto d'aumento o si taglia ogni cosa"(100). Rifiutati loro i prestiti e gli anticipi a cui sono abituate, arrivano perfino a invadere gli uffici della Società minacciando gli agenti.
Motivazioni quali la scarsa voglia di lavorare, addotte dalla contessa Marcello, non paiono convincenti a spiegare la risposta così diversa delle donne delle due isole(101). Anche nella vicenda buranella vi sono dati che fanno supporre una difficoltà di adattamento. Nel 1898 la Scuola del merletto stipula una convenzione con le suore di Carità affidando loro la sorveglianza delle ragazze, il mantenimento della disciplina sia dentro che fuori la scuola e l'educazione religiosa e morale delle allieve. Questo inasprimento del controllo, se si dimostra vantaggioso dal punto di vista dell'ordine, come rilevano gli amministratori, produce però defezioni da parte di operaie che mal lo sopportano(102).
A Pellestrina, dove non vi sono istituti religiosi a cui ricorrere e dove le donne sono abituate a maggiore autonomia dalle prolungate assenze dei mariti pescatori di mare, risulta problematico il sovrapporsi dell'industria ad un'organizzazione già esistente, tutta femminile, con proprie regole non scritte ma consolidate, con tempi e modi flessibili e di volta in volta adattabili a esigenze contingenti. Quelle che vengono definite "accaparratrici", sono in realtà le intermediarie tra lavoranti e commercianti, figure chiave di un'impresa che si svolge tra le case e le calli, che utilizza rapporti di conoscenza e reti familiari e di vicinato. Il tempo delle novene, dei santi, della devozione è il tempo sociale di rituali intorno ai quali la comunità femminile si identifica e si riproduce.
La resistenza al cambiamento imposto dall'esterno, che rompe equilibri e consuetudini antiche, assume caratteri determinati e persino violenti, che sfuggono ad ogni controllo e ad ogni proposta di "ragionevolezza"; tuttavia sarebbe riduttivo ritenere che si tratti di un atteggiamento puramente conservatore. La novità viene accolta dalle donne senza reticenze, laddove risponde a reali bisogni, adattandosi però a esigenze che non sempre esse sono disposte a patteggiare: un ruolo produttivo che non le obblighi a porlo in alternativa alla dimensione riproduttiva; un'attività lavorativa non totalmente separata, nei luoghi e nei tempi, dalla vita domestica e dalla vita della comunità. Le donne non amano e mal si adattano a orari rigidi, a gerarchie formalizzate, cui contrappongono i loro tempi e spazi integrati, le loro reti di relazione informali che, pur esercitando poteri, implicano la conoscenza personale diretta e rapporti di forza continuamente negoziati.
Mossi dalla logica del profitto i sopracitati autori non riescono a comprendere i comportamenti delle donne e li riconducono a un residuo "primitivismo" contrapposto alla modernità. Ne scaturisce la rappresentazione delle isole lagunari come di un paese bigotto e arretrato, i cui abitanti sono rimasti al di fuori dal progresso; tra loro le donne sono l'elemento più prossimo alla natura e perciò più retrivo e conservatore: un immaginario 'antropologico' che sorregge l'ideologia paternalista e giustifica un intervento economico esterno come se si trattasse di una missione civilizzatrice.
Chi esamini l'albo municipale delle pubblicazioni matrimoniali, esposto sotto le artistiche volte dell'atrio di Palazzo Loredan, noterà tra le spose veneziane parecchie sigaraie, fiammiferaie, calzettaie, orologiaie delle fabbriche di Venezia e dell'isola della Giudecca; molte operaie del cotonificio, moltissime sarte, cucitrici, domestiche, stiratrici, qualche giuntatrice, qualche ricamatrice e lavoratrice di passamanterie o di cuoi artistici, qualche commessa, cassiera, impiegata, segretaria, dattilografa, telegrafista, telefonista, moltissime 'operaie in conterie' o 'lavoranti in perle'. Non di rado, pur tra le spose casalinghe e civili, si troverebbero brave ragazze che, senza abbandonare le occupazioni domestiche si son messe insieme la piccola dota col lavoro delle 'perle a lume', dei 'bovoli' (conchigline) o semplicemente col far l'impiraressa(103).
La 'foto di gruppo' delle lavoratrici veneziane all'inizio del XX secolo rappresenta efficacemente la distribuzione quantitativa e la commistione di vecchi e nuovi mestieri femminili.
Accanto a ricamatrici, cucitrici, lavoranti in perle, compaiono le telefoniste, le cassiere, le segretarie, le dattilografe che, ancora sparute, diventeranno ben presto modelli a cui aspirare. Accanto alla massa di perlaie, sarte, domestiche, le attività cui tradizionalmente le popolane veneziane si sono dedicate, ecco avanzare la schiera numerosa delle operaie di fabbriche vecchie e nuove: sigaraie, fiammiferaie, orologiaie.
I censimenti contemporanei confermano questi dati. Un gran numero di donne è dedito ai servizi domestici (5.745), ai lavori del vestiario e della toilette: più di 3.000 le sarte, 529 le cucitrici, 965 tra lavandaie e stiratrici; sono 497 le negozianti e ambulanti, 394 lavorano in alberghi o trattorie come cuoche o cameriere. Per quanto riguarda l'industria, soltanto le tabacchine sono più di 1.000, 670 le operaie del Cotonificio, 697 le fiammiferaie della Baschiera, 302 le merlettaie (nella sola città) a cui si aggiungono le manifatture per la lavorazione della seta, della canapa, della maglieria, delle reti, delle corde. Un numero non trascurabile svolge la professione di infermiera o di levatrice (448) e le insegnanti sono 770, circa il doppio dei colleghi maschi. Il conteggio diviso secondo l'età mette in evidenza che molte sono ragazze che hanno meno di 15 anni, impiegate soprattutto a servizio (240), nei laboratori di sartoria (703) e del vetro (329)(104).
I dati, di per sé significativi, danno conto soltanto dei lavori svolti con continuità, ma sfugge nella loro lettura la reale dimensione quantitativa del lavoro delle donne; quanti lavori a domicilio o presso terzi, saltuari e discontinui, nelle botteghe o nei laboratori di familiari e mariti si celano dietro la cifra di ben 46.531 donne che risultano mantenute o assistite, di cui 37.077 "attendenti alle cure domestiche, donne di casa"? Problematico risulta anche il confronto con precedenti e successivi censimenti, non essendo omogeneo il criterio di classificazione dei mestieri e variabili le ideologie che li ispirano(105).
Superfluo sarebbe richiamare gli studi e la documentazione esistenti per dimostrare come le donne delle classi popolari si siano sempre dedicate a un qualche lavoro, per necessità se non per scelta. Si tratta quasi sempre di lavori poco qualificati, precarissimi, che non vengono dichiarati all'atto del censimento per il carattere informale e temporaneo, ma anche perché, mentre l'identità sociale maschile è definita dal mestiere - come osserva Angela Groppi - quella femminile è definita dal ruolo familiare(106). È da tenere presente inoltre l'emigrazione temporanea che porta periodicamente a Venezia bambinaie, balie, domestiche e le venditrici ambulanti di uova, latte, ortaggi e fiori che giungono giornalmente dalla vicina campagna dell'entroterra lagunare portate dalle "barche delle donne del latte"(107).
Vistosa, se confrontata con altre fonti, appare la sottovalutazione del lavoro a domicilio: basti considerare l'infilatura delle perle alla quale moltissime donne del popolo si dedicano, o il servizio presso famiglie, o l'enorme quantità di lavoro manuale che richiede la confezione e la manutenzione del vestiario, la preparazione e la vendita di cibo in bettole e fritolini. E non va dimenticata la schiera di donne e fanciulle che lavorano all'oscuro dei monasteri, delle carceri e dei conservatori. A proposito dell'impiego femminile nel settore delle conterie il prefetto Sormani Moretti integra i dati statistici con le seguenti osservazioni:
Alcune poche lavorano presso le fabbriche, le più lavorano a domicilio. Parecchie maestre di pie istituzioni, tenendo conto corrente coi depositi delle fabbriche e con altre case commerciali in conterie, fanno infilare perle alle loro allieve, nei ritagli di tempo liberi da altre occupazioni […](108).
Le informazioni più interessanti desumibili dai censimenti riguardano la persistenza di lavori a domicilio, sia artigianali che legati ai cicli produttivi industriali, accanto all'allargarsi del lavoro nelle fabbriche, in seguito al processo di industrializzazione avvenuto negli ultimi decenni dell'Ottocento. Il dato di cambiamento dunque non riguarda il lavoro, cosa che le veneziane hanno sempre fatto, ma il fatto di svolgerlo al di fuori delle pareti domestiche o di oscuri magazeni mimetizzati tra le abitazioni: lo spettacolo quotidiano di donne che affollano le calli adiacenti gli stabilimenti, nell'orario di ingresso o di uscita, che a gruppi camminano frettolosamente per recarvisi, è sotto gli occhi di tutti.
Pur nell'andamento alterno del mercato, che determina periodi di stagnazione di lavorazioni legate all'esportazione come merletti e conterie, il dato di continuità va dunque sottolineato. Nella storia della manifattura veneziana la presenza delle donne, sia come lavoratrici dipendenti ai vari livelli di qualificazione, che come titolari, si è sempre registrata, in particolare nei settori delle conterie, della tessitura e dei mestieri legati all'abbigliamento e alla toilette. È stato rilevato da vari studiosi come questo fatto si sia potuto verificare grazie ai caratteri peculiari della organizzazione corporativa veneziana, la cui autonomia era inferiore rispetto ad altre realtà e meno rigide le norme di ammissione, in conseguenza di un maggior controllo politico dello Stato. Se donne risultavano presenti ai livelli subordinati, come "lavoratrices", "puere", cioè apprendiste, e schiave, in molte delle Arti lo erano a livello paritario(109). Il senato decise nel 1754 di aprire loro l'accesso alle Arti in quanto "più assidue al lavoro, meno distratte dai vizi e contente di minor mercede degli uomini"(110). L'inclusione non fu priva di contrasti e ricorsi legali. Il capitolare dell'Arte dei margariteri del 1763 escluse coloro che non fossero vedove, o mogli di artieri inabili, o figlie orfane, tutte le altre dovevano impiegarsi nell'infilatura delle perle(111); tuttavia nei secoli di maggior espansione (XVII e XVIII) della manifattura delle conterie, la resistenza delle Arti si allentò poiché le donne rappresentarono la mano d'opera salariata a basso costo a cui attingere al di fuori dell'inquadramento corporativo. Si tratta di quella che una studiosa definisce "economia ombra" per l'esiguità di riscontri nella documentazione, quell'"economia informale che correva non parallela bensì intrinseca e trasversale all'istituzione corporativa"(112).
Secondo lo storico Luigi Dal Pane ciò che balza agli occhi leggendo le relazioni settecentesche è la grande diffusione del lavoro femminile nelle industrie tessili, percentuale che si allarga ulteriormente quando si considerino le lavorazioni effettuate a domicilio(113). Il minor costo della mano d'opera femminile determina infatti la progressiva sostituzione delle donne agli uomini nella manifattura tessile, sancita con l'apertura del garzonato nel 1745 e l'abolizione dell'Arte nel 1782(114).
La presenza di donne e fanciulli parenti del maestro nella bottega artigiana riveste tuttavia, per tutto il Settecento, ancora l'aspetto di industria domestica basata sulla cooperazione dei membri della famiglia piuttosto che sulla divisione sessuale del lavoro. È nell'estendersi dell'industria a domicilio e nella fabbrica che il numero di donne e fanciulli raggiunge percentuali molto alte, senza limiti di età, rendendo palese la realtà dello sfruttamento(115).
L'industrializzazione ottocentesca si caratterizza per il recupero, lo sviluppo e la riorganizzazione di settori manifatturieri tradizionali - tessile e vetrario - che impiegano prevalentemente mano d'opera femminile e minorile. Già in epoca moderna esiste in città una fabbrica di notevoli dimensioni, la Manifattura Tabacchi, che trova nel 1787 definitiva sede nel limite ovest della città a S. Chiara(116). Le fasi della produzione dei sigari, tutte eseguite manualmente - dall'apprestamento (separazione delle foglie), alla scostolatura (estrazione della nervatura) al confezionamento dei sigari - sono per tradizione affidate a personale femminile, fatto dovuto al minor costo della mano d'opera e al maggior rendimento della stessa, grazie alla particolare destrezza delle sottili mani femminili nell'arrotolare la foglia, come si vuole dimostrare(117). Nella Manifattura veneziana nel 1870 lavorano 1.365 donne e 128 uomini; le operaie salgono a 1.536 nell'87, per attestarsi sulle 1.200 circa nel primo Novecento, una presenza ben visibile nella città e, come vedremo, anche rumorosa.
Nel corso degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta si sussegue l'apertura di fabbriche minori, conterie, cererie, tessiture, che offrono nuove opportunità di impiego alle donne. Errera ritiene che le condizioni della città non siano tali da consentire di progettare grandi fabbriche e invita a riporre ogni speranza nelle piccole e nei laboratori artigianali, che richiedono minori spese d'impianto, poco capitale, risparmio nei salari e nei locali. Ma vi sono aspetti ancor più convincenti, in particolare "il vantaggio di accrescere lo spirito di ordine, di famiglia, col lavoro a domicilio, col mutuo aiuto, colle piccole economie e colla incessante previdenza; e che per esse non avverranno né crisi, né coalizioni, né scioperi da farci sgomento, né si formerà un proletariato industriale"(118).
A partire dagli anni Ottanta tuttavia si assiste ad un radicale cambiamento, dovuto all'edificazione di alcune grandi fabbriche, che smentisce le previsioni e delude gli auspici in Errera. La città cambia volto: nelle aree periferiche di Cannaregio, S. Croce e Giudecca, vicino al porto e alla ferrovia, domina il profilo di imponenti edifici industriali di recente costruzione le cui ciminiere sormontano i circostanti campanili - Mulino Stucky, Cotonificio Veneziano, Manifattura Tabacchi - accanto a intere zone disseminate di piccoli e grandi stabilimenti.
L'Anonima società per azioni Cotonificio Veneziano, che raccoglie esponenti di punta della finanza e dell'industria non soltanto cittadina(119), apre nel 1882 uno stabilimento per la filatura del cotone di notevoli proporzioni, per quanto ridimensionato rispetto a quello progettato, la cui presenza segnerà la dimensione urbana e sociale di quell'area della città fino al secondo dopoguerra: delle 919 persone che vi lavorano nel 1887, ben 660 sono donne e 55 fanciulle(120).
Dirimpetto al Cotonificio, nell'isola della Giudecca, si staglia la grande sagoma del Mulino Stucky che dà lavoro a 187 operai, in prevalenza donne. Tutta femminile la mano d'opera della maglieria dei fratelli Herion, che impiantano anche una fabbrica di orologi successivamente rilevata da Arturo Junghans; ancora alla Giudecca, che acquista sempre più le caratteristiche di zona industriale, vi sono fabbriche di corde, di tappeti, di birra(121).
Un'altra isola, Murano, vede in questi anni grandi trasformazioni urbanistiche e industriali. Il settore della produzione di conterie infatti subisce nel corso dell'Ottocento un processo di concentrazione, ultimato alla fine del secolo con la creazione della Società veneziana per l'industria delle conterie, nata dalla fusione di ben diciassette ditte(122). Quelle che al tempo della Repubblica erano diverse arti, diventano reparti e fasi di lavorazione all'interno della stessa fabbrica. La produzione delle perline, dalla canna di vetro all'infilatura, avviene in otto fasi alle quali corrispondono altrettanti mestieri; alcuni di questi sono femminili, come la cernita - divisione delle canne di vetro a seconda dello spessore - e il taglio: eseguito un tempo manualmente con uno scalpello, in seguito alla meccanizzazione viene svolto dalle donne, mentre gli uomini sono addetti al funzionamento delle macchine(123).
In questi anni Venezia detiene il monopolio mondiale delle conterie. Perle e perline di vetro vengono esportate nei mercati europei e nordamericani, richieste dalla moda che ne vuole l'impiego in abiti, arredi e oggetti, in India e in Africa dove sono barattate con merci preziose. Un esercito di lavoratrici infila i mazzi di perle - così devono essere esportate -, confeziona fiori e frange, borsette e colletti, un attivismo in cui vi è spazio anche per l'iniziativa femminile. Ne è un esempio il laboratorio - dove lavorano 200 ragazze - per la fabbricazione di corone mortuarie di perline, molto richieste dalla Francia, che le sorelle Eulalia e Amelia Dorigo aprono nel 1882, dopo aver soggiornato alcuni anni a Parigi(124).
L'organizzazione del lavoro a domicilio avviene tramite le intermediarie dette mistre (maestre) che ricevono le perline, le distribuiscono alle infilatrici segnando su un registro il peso, ritirano i mazzi infilati e pagano le lavoratrici un tanto al mazzo. Figura chiave nell'organizzazione del lavoro a domicilio, l'intermediaria è un esempio di semi-imprenditorialità femminile la cui posizione, collocata tra la fabbrica e le donne dei sestieri e basata sulle reti di conoscenza, garantisce una diffusione capillare e flessibile, che può allargarsi o restringersi per rispondere alle richieste del mercato, come le maree nei canali lagunari. Il ruolo economico che riveste le conferisce potere e prestigio nella comunità femminile: oltre al traffico delle perle, le mistre tengono laboratori o "scuole", dove insegnano a ragazze e bambine, e gestiscono "casse" di prestito. Una ricerca svolta alcuni anni fa, raccogliendo anche le testimonianze orali delle ultime impiraresse, ha messo in luce la dimensione sociale del lavoro, integrato nelle relazioni familiari e di vicinato, un mondo femminile i cui aspetti economici e culturali intrecciati costituiscono forme autonome di organizzazione, di espressione e di identità collettiva che si renderanno visibili nella scena pubblica durante i loro scioperi(125).
Le perle veneziane sono le più pregevoli e cariche di prestigio, ma a vincere la concorrenza straniera sono i prezzi mantenuti bassi grazie ai bassi salari. Infilando perline per l'intera giornata, a volte sfruttando anche le ore notturne, le impiraresse veneziane arrivano a guadagnare 30-50 centesimi al giorno, l'equivalente di 1 kg di pane e della metà del guadagno di un'operaia; ancora meno percepiscono le infilatrici di Burano, Pellestrina, Chioggia e Mestre, tanto che, pur dovendo pagare il dazio di uscita dal portofranco, i produttori preferiscono portarle ad infilare colà. La commissione di vigilanza alle fabbriche ed arti della città franca di Venezia segnala il problema per timore che ne risenta il lavoro, pur riconoscendo la libertà di valersi della mano d'opera più a buon mercato. La Camera di commercio risponde dando ragione alle ditte che portano a giustificazione, oltre alla scarsità di mano d'opera locale, il fatto che "le pretese di compenso sono spinte oltre le misure di convenienza", non tralasciando di ricordare che il rimedio per risolvere la questione del lavoro sta unicamente nella "moderazione" dei lavoratori(126).
Vengono scaricate quindi sulle spalle delle lavoratrici sia le crisi di mercato che la concorrenza tra produttori. Mancanza di lavoro e salari da fame sono infatti la causa di ricorrenti esplosioni di scioperi spontanei delle lavoranti. Nel 1872, dopo un periodo di crisi del settore del vetro che aveva portato all'abbassamento delle mercedi, scrivono una petizione ai sindaci di Murano e Venezia per chiedere la loro mediazione presso gli industriali, fornendo le seguenti motivazioni alla loro protesta:
quando una guerra inconsiderata tra i padroni non aveva deprezzata la merce a segno di venderla sotto il costo reale, avevano tal prezzo dei loro lavori che una donna la quale fosse stata diligente avrebbe potuto campare onestamente la vita da sola, oppure aiutare efficacemente la famiglia se maritata e poteva dire d'avere un sufficiente premio alle sue fatiche. Quando ebbe cominciamento la fatale concorrenza, i fabbricatori vollero ricattarsene sulla mano d'opera e per conseguenza anche sulle infilatrici ed a tanto giunse l'inconvenienza che oggimai l'occupazione di tutto un intero e lungo giorno d'estate e talvolta alcune ore della sera e della notte, viene retribuita con 30 o 35 centesimi al più(127).
L'impronta industriale che assume la città nel secondo Ottocento convive non solo con l'espansione del lavoro a domicilio, ma anche con la rinascita e il rinnovato prestigio delle manifatture artistiche tradizionali, valorizzate dal gusto dei forestieri colti che fanno di Venezia il contesto ideale del loro fervore romantico.
La ripresa del mercato delle sete avviene nel Veneto verso la metà del secolo con l'introduzione dei telai Jacquard, che permettono una diminuzione dei costi e producono tessuti di qualità inferiore, e porta con sé la parallela riscoperta della lavorazione serica tradizionale con telai a mano(128). Le manifatture di Trapolin, Rubelli, Sartori e Bevilacqua reintroducono lavorazioni pregiate, come il velluto soprarizzo, che richiedono una mano d'opera altamente specializzata, non facile da procurarsi. I Sartori, ad esempio, sostengono di essere dovuti ricorrere a maestranze provenienti dal Trentino, perché "le ragazze non vollero adattarsi al sacrificio ed alla pazienza che occorrono per quel lavoro" e rivolgono al Municipio una richiesta di sussidio per l'apertura di una "scuola", in realtà un periodo di apprendistato da svolgersi all'interno della fabbrica(129). Altre manifatture ricorrono all'istituzione pubblica con analoghe motivazioni. Il Comune sostiene e finanzia queste "scuole" presso le industrie come politica diretta a diminuire il numero di fanciulli e fanciulle avviati al lavoro nei conservatori, ma non meno "educativo", grazie al controllo esercitato sia all'interno che all'esterno. I Sartori garantiscono che operai maschi, donne e ragazzi lavoreranno in locali separati, sorvegliati e addestrati da loro stessi, le operaie dalla loro sorella.
Presso la ditta Bevilacqua la giovane aspirante viene ammessa al colloquio di assunzione accompagnata da un genitore, il quale deve garantire il comportamento irreprensibile della figlia. Le apprendiste per tradizione sono parenti o amiche delle operaie, gli stessi cognomi ricorrono nel tempo, come la provenienza dal sestiere di Cannaregio, sede iniziale della manifattura; entrano in fabbrica molto piccole, assegnate ad una operaia esperta che affiancano stando in piedi presso il telaio: osservandola e aiutandola, imparano anche ad adattarsi al ritmo serrato del lavoro e al clima severo nel quale si svolge. Dopo quattro o cinque anni, al compimento del quattordicesimo anno, la ragazza viene assunta come apprendista tessile o allieva, impratichendosi per altri tre anni ad un telaio per la lavorazione del damasco, il più semplice da azionare ma anche il più pesante, affinché acquisti la necessaria forza fisica. Una volta raggiunta una tecnica sufficientemente buona può ottenere la qualifica di "tessitrice", meta che richiede lunga applicazione e ferrea disciplina, ma che produce quell'orgoglio di mestiere che porta le operaie della Bevilacqua a identificarsi col loro lavoro e con la fabbrica stessa. Per la maggior parte di loro infatti non si tratta di una occupazione temporanea per contribuire al bilancio familiare e mettere da parte la dote, ma di un vero e proprio mestiere che richiede un investimento progettuale di lungo periodo e agisce a livello identitario. L'analogia tra famiglia e fabbrica, alimentata dal paternalismo dei padroni e dai legami di amicizia e di parentela tra le dipendenti, suscita infatti un forte sentimento di autoidentificazione(130).
La necessità per le donne povere di guadagnarsi da vivere, e anzi il dovere di adoperarsi attivamente anziché invocare la carità, confligge con la riaffermazione del valore della famiglia come fondamento dell'ordine sociale: tempo dell'industria e tempo delle cure domestiche sono inconciliabili. I sostenitori stessi della produttività femminile vedono nella famiglia un'officina "ove per lo più una donna e dei bambini la fan da lavoranti, e ciò che fabbricano vale tutte le produzioni di questo mondo; perché è merce che il povero può godere al pari del ricco, e che si chiama amore". Se però l'abitazione, anziché "oasi sospirata di riposo e di pace", è sudicia, il vitto scadente, si può pretendere che l'operaio "corra lesto e lieto al lavoro, e nel lavoro s'affatichi contento l'intera giornata?"(131).
Intenso è il dibattito, a partire dagli anni Settanta, sulla limitazione del lavoro delle donne e dei fanciulli con intervento legislativo dello Stato; vi prendono parte, con posizioni diverse, esponenti del mondo politico ed economico. Tra questi il più convinto sostenitore della necessità di una legge è Luigi Luzzatti, in un progetto che intende coniugare "pubblica responsabilità e filantropia privata nella tutela sociale" per correggere il liberalismo e togliere argomenti al socialismo(132). Sul versante opposto l'industriale tessile Alessandro Rossi, difensore di un modello paternalistico secondo il quale è il padrone a farsi carico dei problemi delle maestranze e a risolverli autonomamente, ispirandosi ai principi della carità cristiana(133).
Il rapporto della Commissione sul lavoro costituita a Venezia per analizzare la situazione delle fabbriche locali, composta tra gli altri da Giuseppe Toniolo, che ne è il relatore, Paulo Fambri e Cesare Musatti, dopo aver preso in considerazione il lavoro delle donne e dei fanciulli nelle industrie, nelle manifatture artistiche e a domicilio, giunge a considerazioni non lontane da quelle di Rossi: si riconosce che nelle manifatture domestiche dei merletti e delle conterie il lavoro è eccessivamente prolungato, nocivo e male remunerato, per concludere tuttavia che questi fattori dipendono non da un eccesso, bensì da una carenza di spirito industriale, per cui l'imprenditore è obbligato a sfruttare al massimo la mano d'opera e i lavoratori si fanno concorrenza accettando bassi salari; trattandosi di lavoratrici poi, si accontentano di un compenso ancor più misero come semplice aggiunta ai redditi del marito. Non si ritiene quindi necessaria una legge generale, ma il rimedio è individuato in un'opera sociale di collaborazione di tutte le classi produttive della città, alla quale l'intervento pubblico deve essere di sostegno, non di freno. Non si tratta di precludere alle donne l'accesso alle grandi manifatture o limitarne il lavoro, ma di avviarle ad occupazioni armonizzabili con la loro missione domestica(134).
Sarebbe interessante soffermarsi - se i limiti del presente saggio lo consentissero - ad analizzare l'impalcatura ideologica che sorregge le argomentazioni dei diversi autori. Particolarmente significativa in proposito mi pare la relazione approvata dall'Associazione per il progresso degli studi economici, laddove la proposta di una legge si appoggia all'idea di protezione delle future madri e dei giovani per assicurare "robusti e virili individui" alla nazione(135). Ciò dimostra come il dibattito che accompagna gli esordi della legislazione sociale in Italia contribuisca a rafforzare una naturalizzazione dei ruoli sessuali, polarizzati nelle specifiche funzioni del servizio militare e della maternità, e a formare un immaginario sulle operaie che influenza il modo di considerarle.
La fabbrica, togliendo la donna alla casa e al buon costume custodito tra le pareti domestiche, la espone a pericoli di immoralità che vengono individuati nel lavoro promiscuo con gli uomini, dai quali apprende abitudini e parole poco oneste, nella necessità del vestire succinto, nella lontananza dal marito, dai genitori e dai figli che spinge alla ricerca di affetti estranei e persino nella necessità di lavarsi, cosa che fomenta l'immodestia e provoca appetiti sessuali.
È il caso di ricordare come tutto questo sia ben lontano dalla realtà della fabbrica, dove vige una netta separazione tra spazi e mansioni maschili e femminili, le donne sono controllate da norme severe e altrettanto severi sorveglianti; inoltre, come ci mostra la documentazione iconografica e fotografica, vestono anche d'estate con ampie sopravvesti lunghe fino ai piedi, grembiuli e cuffie. È vero che le giovani operaie hanno più libertà di movimento delle signorine borghesi e ostentano spesso un senso spavaldo di sicurezza: ne sono un esempio le tabacchine veneziane che attraversano ponti e calli in gruppo, avvolte negli scialli dalle lunghe frange ondeggianti, uno 'spettacolo' che attira l'attenzione di giornalisti, fotografi, artisti e curiosi(136). Il motivo tuttavia che genera fantasie di nudità e di esibizione procace va rintracciato in un immaginario borghese, alimentato da fonti letterarie, che associa la proletaria alla sessualità e la vede come donna di facili costumi(137). La fabbrica è vista inoltre come estrema manifestazione dell'imporsi della macchina sui ritmi e cicli naturali, inconciliabile con l'immagine del corpo materno e con la funzione riproduttiva. La paura della contaminazione, generata dalla promiscuità tra appartenenti a età e sessi diversi e avvertita come sovvertimento dell'ordine, spiega il tono drammatico col quale Alberto Errera invoca l'approvazione della legge:
Cresce in mezzo a noi questa ragazzaglia turbolenta e minacciosa: questi bambini pallidi, sparuti, scarmigliati hanno già il livore nell'animo, queste fanciulle alle quali è fatto perdere il pudore prima ancora che possano commettere la colpa, frammischiate di giorno e di notte con gli adulti, testimoni e complici di impudicizie; si vendicano poi di una mercede che è limosina e di un lavoro che è tortura, e sfogano almeno coi piaceri del senso quel bisogno di vita gaja che è richiesta dal sesso, dall'età(138).
Donne e fanciulli sono soggetti deboli, sia in senso fisico, sia nel senso morale di facilmente corruttibili, a cui si somma la naturale tendenza all'immoralità dei proletari.
Di tutt'altro genere le riserve di Cesare Musatti il quale giudica la proposta di legge troppo limitata dal momento che - a suo giudizio - tutela la sorte della madre dopo il parto, non la salute del bambino(139). La preoccupazione prioritaria riguarda insomma le condizioni dell'infanzia, sulla cui sanità viene investito un progetto di miglioramento sociale, non la donna in quanto lavoratrice sfruttata, ma la donna in quanto madre.
Nel suo giornale, "L'Igiene Infantile", il dottor Musatti lancia l'allarme sull'influenza deleteria della nicotina sulla salute delle tabacchine, soggette ad aborti; i loro bambini sono "pallidi e malaticci" a causa dell'assorbimento di sostanze nocive dal latte; le madri allattano infatti all'interno dell'opificio, oppure sono costrette all'allattamento mercenario e all'abbandono dei figli(140). Convinto che questa sia la principale causa della mortalità infantile, si batte per l'apertura di asili per i figli delle madri operaie, obbligate a lasciarli nelle cosiddette "custodie infantili", in realtà "magazzini" malsani, sudici e privi di igiene dove i bambini sono costretti all'immobilità e finiscono col prendere malattie infettive; questi bugigattoli talvolta "si riducono alla botteguzza di qualche povera fruttivendola, o peggio ancora, di qualche pezzente straccivendola". Degli asili aperti dalla Municipalità nel passato e successivamente chiusi, quello vicino alla Manifattura Tabacchi era durato più a lungo e proprio qui propone di riaprirlo, vista la concentrazione di lavoratrici in questa zona della città: oltre alle tabacchine di cui si contano 190 creature in tenera età, vi sono le operaie del Cotonificio, dei fiammiferi, delle officine minori e le moltissime donne che si recano a servizio(141).
Anche in questa occasione Elisabetta Michiel Giustinian ha modo di concretizzare il suo impegno sociale facendosi promotrice dell'apertura di un asilo per bambini lattanti e slattati in una casa di sua proprietà in rio Terà dei Pensieri, adiacente al tabacchificio, intitolandolo al marito, l'ex sindaco e patriota Giovanni Battista Giustinian. La Manifattura Tabacchi stipula un accordo con l'asilo, in modo che le tabacchine vi possano portare le loro creature e allattarle nella pausa del pranzo, ma tra le madri ammesse vi sono anche lavandaie, cucitrici, perlaie, cernitrici di stracci, tessitrici, serventi, sarte, fruttivendole.
L'interesse per le condizioni di lavoro spinge Cesare Musatti a visitare il nuovo edificio del Cotonificio e ne rimane positivamente colpito, tanto da compiacersi nel constatare che questa volta le esigenze igieniche non sono state sacrificate a quelle economiche. Descrive le sale di lavoro come ambienti ampi, ben illuminati e ventilati dalle grandi finestre; gli ultimi modelli di macchine installate, inoltre, evitano al massimo il polverio che rende queste lavorazioni tra le più dannose per i polmoni delle operaie; ed infine le latrine, in ferro e a tenuta idraulica, hanno la sua approvazione(142). Non pare che Musatti si sia preoccupato di ascoltare il parere delle operaie in proposito, forse il suo entusiasmo ne sarebbe risultato affievolito: la polvere, il calore estivo e il freddo invernale, il rumore assordante delle macchine, il loro ritmo incalzante, rendono insopportabile il lavoro prolungato oltre le 10 ore e sono tra le cause di scioperi e proteste.
Dall'indagine della Commissione sul lavoro passano una decina d'anni prima che si arrivi alla legge del 1886 che limita l'ammissione al lavoro ai fanciulli al di sopra dei 9 anni e abolisce il lavoro notturno(143). Al di là di affrontare radicalmente il problema non cambia nulla nella sostanza, dal momento che la maggior parte di loro lavora in piccoli laboratori; inoltre è pochissimo rispettata(144). Nelle fabbriche come il Cotonificio e la Baschiera le condizioni dell'infanzia operaia sono durissime e perfino un giornale moderato come la "Gazzetta" denuncia le frequenti disgrazie che vi si verificano, imputate alla scarsa sorveglianza e al lavoro notturno, e invita a mettervi riparo(145). Ha solo 12 anni Maria, piccola cotoniera, e forse la spensieratezza infantile è la causa della frattura di una gamba procuratale dal sopraggiungere di un carro mentre si dondola appoggiata ad una colonna(146). La direzione del Cotonificio chiede alla Camera di commercio una proroga del termine per l'abolizione del lavoro notturno per attendere che siano introdotte nuove macchine. Impedendo il lavoro alla trentina di ragazzi, tra i 13 e i 15 anni, si dovrebbero licenziare anche i 250 operai, cosa che risulterebbe dannosa per tutti viste le difficoltà affrontate "per educare e disciplinare" la manovalanza che "tuttora non è né fissa né disciplinata", tanto che si è dovuto far venire operai dalla terraferma, migliori sia per conoscenza del mestiere che per diligenza(147).
Anche per quanto riguarda il lavoro delle donne, non contemplato dalla legge dell'86, il dibattito in questi anni verte sul problema del lavoro notturno, soprattutto nelle industrie tessili. All'invito della Camera di commercio di Venezia ad esporre il proprio parere in proposito, questa volta il direttore generale del Cotonificio risponde sostenendo la necessità di abolirlo, adducendo delle motivazioni di carattere morale: i ritmi artificiali rappresentano infatti una minaccia per l'austerità dei costumi - scrive - e hanno come conseguenza "l'esaurimento delle forze lavoratrici più deboli, la perturbazione profonda dell'ordine morale e domestico"(148). A rafforzare quelle sociali vi sono ragioni economiche, dal momento che di giorno i lavoratori producono di più, perciò conclude suggerendo di non limitare alle sole donne e fanciulli la legge, ma di estenderla a tutti. In realtà l'abolizione dell'orario notturno viene accolta dagli industriali tessili come risposta alle crisi di sovrapproduzione(149). Per la stessa ragione anche Luigi Baschiera dà parere favorevole: la protesta di 500 operaie rimaste senza lavoro aveva fatto temere per la pubblica tranquillità e aveva richiesto l'intervento delle autorità politiche(150).
Dopo aver raccolto i diversi pareri la Camera di commercio invia le conclusioni al prefetto sostenendo che abolire il lavoro delle donne minorenni equivale ad abolirlo in assoluto; gli industriali infatti preferiscono assumere non quelle che abbiano raggiunto i 21 anni, età nella quale normalmente prendono marito, ma tra i 17 e i 20 anni, età "in cui maggiore è il vigore e più grande la disponibilità ad apprendere"(151). Nelle manifatture veneziane risulta poco esteso il lavoro dei fanciulli al di sotto dei 14 anni, lo è invece quello delle ragazze dai 14 anni in su, anche nelle fabbriche dove si lavora 12 ore, non c'è istruzione né previdenza, ma "gli industriali dimostrano una certa sollecitudine pel mantenimento della moralità fra i dipendenti", come si legge nel già citato rapporto della commissione(152).
Il lungo iter della "Legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli" giunge a conclusione nel 1902, ma negli anni successivi ragazze minorenni continuano ad essere impiegate in vario modo; il regolamento di attuazione infatti prevede che coloro che non hanno completato l'obbligo scolastico possano frequentare "scuole" interne agli stabilimenti o le scuole festive esistenti in vari comuni(153). La Scuola dei merletti di Burano chiede di poter dare lavoro a domicilio a ragazzine minori di 15 anni - che non possono frequentarla non avendo completato l'obbligo previsto fino alla terza elementare -, poiché "non è raro il caso che bambine, anche di età assai tenera, lavorino in casa per conto di artigiani, negozianti, ecc. danneggiando così l'industria"(154).
Nel Cotonificio, alla Baschiera, alla Herion moltissime sono le fanciulle, non poche delle quali hanno l'aspetto malato e denutrito.
Poco più che bambine sono le sartine e le stiratrici, fanciulle poverissime che per guadagnare appena 20-50 centesimi stanno per 15 o 16 ore davanti ai fornelli col ferro caldo, in locali angusti e sovraffollati, dove manca l'aria e dove ristagnano fumi e odori(155). Bestiale è la condizione delle piccole lavandaie. La lavanderia della società Grandi Alberghi del Lido impiega 200 donne per la maggior parte giovani, vero "scannatoio" dove si lavora dalle 5 del mattino alle 9 di sera con un solo intervallo, senza riposo festivo(156). Nella Manifattura Tabacchi il regolamento del 1904 eleva l'età dell'assunzione a 17 anni, ma prevede possano essere assunte fanciulle di età inferiore "temporaneamente a seconda del bisogno" e licenziate cessato il bisogno.
All'inizio del secolo il 51% delle tabacchine ha un'età compresa tra i 15 e i 25 anni e il 49% risulta essere nubile, l'età media del matrimonio (oltre i 25 anni) è superiore alla media cittadina che è tra i 19 e i 26 anni. A differenza delle altre fabbriche infatti la Manifattura Tabacchi, essendo fabbrica di Stato, offre condizioni migliori - orario più contenuto (8 ore), un salario più elevato -, si tende perciò a rimanervi più a lungo(157). L'indagine condotta in tutte le manifatture dei tabacchi nel 1905, affidata ad un esponente della nascente medicina del lavoro di orientamento democratico, Angelo Celli, fornisce una descrizione dello stabilimento veneziano: in un ampio salone di 850 mq caldo e umido, con le finestre sempre chiuse per non far seccare le foglie, si trova il reparto per il confezionamento dei sigari dove lavorano 805 operaie a cottimo. Le sigaraie, divise in squadre, sedute attorno a lunghi tavoli su una seggiola alta con i piedi appoggiati ad un'asta, tengono le gambe divaricate in modo da tenere il tabacco fermentato per il ripieno nella conca formata dal grembiule; un largo lembo di foglia viene steso sulla tavoletta, squadrato col coltello, spalmato di colla con le mani, riempito di trinciato e arrotolato, infine tagliate le punte: operazioni da compiere velocissime per raggiungere "la tasca" cioè la quantità di sigari prevista(158).
Immagini come questa alimentano l'idea della eccezionale fertilità delle tabacchine, attribuita alla promiscuità dei costumi piuttosto che alla nicotina assorbita e, pur non trovando riscontri, servono tuttavia allo "stato padrone" per giustificare il controllo severo, esercitato mediante i direttori in stretto contatto con prefettura, questura e Ministero dell'Interno, che riguarda anche i comportamenti privati dentro e fuori la fabbrica: "per la tutela della moralità" vengono allontanate dalla Manifattura le nubili in stato di gravidanza, "salvo provvedimenti più gravi", e licenziate le sospette di prostituzione(159). La quindicenne Maria Candi, ammessa come apprendista, viene licenziata dopo pochi mesi "per non soddisfacente riuscita dell'esperimento", ma il vero motivo è una lettera anonima che denuncia di averla vista "in non buona compagnia passeggiare con aria scomposta". Il questore, alla richiesta di informazioni, risponde che "da qualche tempo si mostra di condotta scorretta e ribelle agli ammonimenti dei genitori, ai quali rivolge anche parole oltraggiose", anche se non risulta si sia data alla prostituzione. La madre protesta essere proprio l'ingiusto licenziamento della figlia a creare intorno alla ragazza un'aria di sospetto e di diffidenza che le rende difficile procurarsi il pane(160).
L'opificio di Venezia, secondo Celli, risponde ai requisiti richiesti, trovandosi in un edificio appositamente costruito con ampi spazi, essendo le latrine rinnovate, possedendo un'infermeria e un luogo apposito per l'allattamento. I dati da lui raccolti sulla mortalità infantile, numero di aborti e malattie dell'apparato respiratorio e digerente, non vengono giudicati allarmanti e la sua conclusione è che la lavorazione del tabacco "non è di per sé nociva alla salute né delle operaie, né della loro prole"(161).
Opposti i risultati che in questi stessi anni viene raccogliendo a Venezia Raffaello Vivante, medico dell'Ufficio d'igiene autore anche di un'accurata indagine sullo stato delle abitazioni nei quartieri più degradati: i dati sulla tubercolosi rivelano come questa malattia colpisca soprattutto le giovani donne tra i 15 e i 20 anni. Le ragioni vengono rintracciate da Vivante, non nelle disposizioni "naturali", ma nelle condizioni sociali e professionali: elevata è la mortalità tra le operaie del Cotonificio, dei tabacchi, dei fiammiferi; elevatissima tra le infilaperle "che appartengono alla parte più povera della popolazione, quella addensata in ambienti dove l'umidità, la ristrettezza dello spazio, l'insufficiente ventilazione favoriscono la diffusione della infezione"(162). Le operaie e le lavoratrici a domicilio sono le più esposte al rischio di ammalarsi e di morire prima di aver superato l'età della giovinezza.
Il dibattito e le iniziative che hanno come oggetto il miglioramento delle condizioni delle lavoratrici si intensificano e si politicizzano negli ultimi decenni dell'Ottocento, stimolando anche la nascita di organizzazioni femminili. L'antagonismo tra democratici, radicali e socialisti da una parte, conservatori e cattolici integralisti dall'altra, che caratterizza il clima politico e culturale veneziano del periodo, si combatte anche sul terreno dell'egemonia sulle masse femminili, verso le quali si dispiega una imponente macchina propagandistica e un ingente impegno organizzativo.
L'iniziativa cattolica è attiva fin a partire dagli anni Settanta, quando l'Opera dei Congressi presiede in città ben 34 associazioni. Il congresso di fondazione che si tiene a Venezia nel 1874 invita espressamente a costituire associazioni femminili di categoria per tutelare le lavoratrici(163). Giuseppe Toniolo dà vita all'Unione cattolica per gli studi sociali, che promuove unioni professionali corporative e società di mutuo soccorso con il concorso di lavoratori e industriali, su imitazione delle antiche Arti, aperte anche alle donne(164).
Il prevalere a Venezia - negli anni successivi - del cattolicesimo intransigente non lascia spazio alla linea progressista del cristianesimo democratico e del femminismo cristiano, che altrove attua forme di associazionismo sindacale le cui battaglie convergono con quelle socialiste(165). Il desiderio di impegno sociale e di protagonismo delle donne viene ricondotto dalla Chiesa ad un'azione confessionale di osservanza papale e si esplica nella più moderata Unione delle donne cattoliche, la cui animatrice è l'aristocratica Elena Da Persico, futura dirigente dell'Azione Cattolica. Ribadendo, su dettato dell'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, che il ruolo della donna è all'interno della famiglia e condannando il lavoro extradomestico, le signore sono invitate ad impegnarsi in società di mutuo soccorso, unioni professionali, unioni delle donne per gli interessi cattolici, ispirate al concetto paternalistico di tutela delle classi inferiori da parte delle classi superiori, non a idee di emancipazione. Tra i loro obiettivi vi è la regolazione del lavoro delle donne e dei fanciulli, ove non si possa impedire, e la parità salariale perché il minor salario è all'origine dell'impiego della mano d'opera femminile a scapito di quella maschile; tramite questa azione lo scopo ultimo è sottrarre le lavoratrici alle seduzioni della propaganda socialista che sta ottenendo consensi anche tra le loro fila(166).
Con esiti assai diversi l'ispirazione interclassista connota anche l'esperimento veneziano di una "Unione morale", fondata sul principio della solidarietà umana al di là delle differenze di partito politico, di classe sociale, di confessione religiosa, di sesso, che prende il nome di Circolo di cultura etico sociale: vi figurano infatti uomini e donne di religione ebraica, come lo stesso fondatore David Levi-Morenos, cristiani democratici, laici, accomunati dalla difesa dello spiritualismo, inteso però in termini antintegralisti e antidogmatici. Non si intende demonizzare il progresso e la modernità, ma combatterne le degenerazioni materialiste; non si intende negare che le classi lavoratrici siano sfruttate, ma evitare di opporre classe a classe, sesso a sesso, usando l'educazione per elevare moralmente e culturalmente il popolo(167).
Animatrici del Circolo sono alcune donne, come Virginia Olper Monis, Antonietta Giacomelli e Maria Pezzè Pascolato(168); l'attenzione alla questione femminile è presente nelle "norme fondamentali", dove si dichiara il proposito di "ricercare a compagna e dell'opera e del pensiero la donna", indicandone la soluzione "nell'equivalenza dei due sessi" e nell'equiparazione dei diritti e dei doveri(169). Con una riunione al Circolo viene fondata nel 1895 a Venezia - dopo Milano, Torino e Roma - una sezione della Lega per la difesa degli interessi femminili(170).
Le leghe promuovono l'istruzione e l'accesso alle professioni delle donne, si battono per la parità di salario e la riduzione dell'orario di lavoro delle operaie; chiedono l'apertura di scuole professionali, pensionati per le professioniste che vivono sole, case di assistenza per le lavoratrici gestanti e rifugi per dare asilo alle domestiche senza impiego per sottrarle ai pericoli della disoccupazione e procurare loro collocamento(171).
Non abbiamo ulteriori notizie della Lega veneziana, la cui presenza testimonia tuttavia l'esistenza di un associazionismo variegato, non riconducibile alla dualità oppositiva cattolici-socialisti, interessante perché rappresenta un elemento di congiunzione tra l'emancipazionismo ottocentesco della Beccari, di cui sviluppa le tematiche, e il femminismo socialista di fine secolo che fa proprie le battaglie in difesa delle lavoratrici.
Il programma delle donne socialiste prevede la municipalizzazione dei servizi pubblici, la costituzione di cooperative non solo di consumo ma anche di produzione, leggi protettive per le lavoratrici madri; nella loro stampa chiedono l'estensione della scuola pubblica, l'apertura di asili infantili, la refezione comunale, casse di maternità e probivirato femminile nelle fabbriche(172).
Non si realizza tuttavia nella città lagunare l'alleanza tra società civile e ceto politico che in altre città industriali, come Milano, dà vita a quel "solidarismo municipale" che prefigura la nascita dello stato sociale(173), direzione verso la quale la giunta democratica guidata da Riccardo Selvatico aveva dato segno di incamminarsi, mentre il blocco clerico-moderato, che nel 1895 conquista l'amministrazione comunale e la terrà per 25 anni, l'abbandona, mantenendo nei confronti delle donne povere un atteggiamento puramente caritatevole. La lavoratrice continua ad essere sfruttata brutalmente, o tutt'al più considerata oggetto di tutela, non soggetto titolare di diritti.
Anche il mutualismo ottocentesco è fenomeno tutto maschile, compresi quei settori in cui è alta la percentuale di lavoratrici(174). Quando i promotori di un'Associazione generale di mutuo soccorso fra artieri ed operai dei comuni di Venezia e Murano - tra i quali figurano Alberto Errera, Luigi Luzzatti, Cesare Della Vida, Alessandro Blumenthal e la Camera di commercio - discutono lo statuto, le donne vengono escluse per la difficoltà di stabilire il contributo e il sussidio in caso di malattia, che di solito dura più a lungo, "e per di più sono d'indole speciale", non possono essere assimilate ai lavoratori; alla fine della discussione si delibera di destinare una parte del fondo per un'analoga società separata che non si è mai costituita(175). Le donne del resto prediligono un solidarismo non istituzionalizzato, legato a reti di relazioni di vicinato che controllano direttamente e ricorrono volentieri alle casse peote nelle quali molte operano come cassiere(176).
Sono le iniziative in sostegno della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli promosse dai socialisti ad avere una funzione importante nello sviluppo delle organizzazioni femminili all'interno del movimento operaio(177).
Il documento che ufficializza l'apertura della Camera del lavoro nel 1892 include tra i suoi proponimenti la tutela del lavoro delle donne nelle manifatture e negli opifici; in occasione del Congresso nazionale operaio, che si tiene a Venezia nell'ottobre del 1895, tra i punti da discutere sono fissati "interessi femminili, lavoro delle donne e dei fanciulli e istruzione obbligatoria"(178), temi sui quali sempre più prendono la parola le militanti nella stampa e in raduni rivolti alle operaie. Tra queste si fa notare Margherita Grassini, promessa della critica d'arte e allieva di Fradeletto, proveniente da una facoltosa famiglia ebrea veneziana, che abbraccia le idee del suffragismo e della giustizia sociale e aderisce, col marito Cesare Sarfatti, al partito socialista(179). L'abile conferenziera in un convegno delle donne socialiste sulla parità di salario, e in vari interventi scritti, sostiene la legge sul lavoro proposta da Anna Kuliscioff, critica però l'idea di tutela fondata sulla minorità naturale; in un articolo - non firmato ma a lei attribuito -, pur invitando a mobilitarsi per il progetto, vuol far sentire "un'altra campana", avanzando dubbi sull'applicazione della legge in un paese industrialmente arretrato come l'Italia: nelle campagne e soprattutto all'interno delle pareti domestiche risulterebbe impossibile porre delle limitazioni al lavoro e controllarlo; nelle fabbriche, non essendo più vantaggiosa per gli industriali la mano d'opera femminile e minorile, non avrebbero più motivo di preferirla a quella maschile e l'esclusione obbligherebbe molte donne non sposate alla terribile alternativa tra fame e prostituzione. Vi sono inoltre delle considerazioni di ordine politico che, come "donna, femminista e socialista", la spingono a sostenere il lavoro delle donne senza limitazioni, come presupposto della loro emancipazione: l'indipendenza economica consente alla ragazza di scegliere il suo futuro coniugale e di fondarlo sull'uguaglianza, di avere una dignità e una volontà proprie.
Si coglie in questi scritti il lessico politico del femminismo socialista che, mutuato dall'emancipazionismo, si coniuga con valori nuovi come la coscienza e la solidarietà di classe di cui la fabbrica diventa il simbolo, perché la fabbrica apre gli occhi alla donna, le allarga la mente alla comprensione di quelle idee "che sbigottiscono l'ignara massaia, ma accendono l'entusiasmo e prendon radice nell'ardita operaia"(180). Le operaie saranno le protagoniste di una vivace stagione di lotte. È il momento di dare loro la parola.
Il Novecento si apre a Venezia con l'annuncio di un giornale dei lavoratori rivolto anche alle lavoratrici:
[…] a vualtre operaie del Cotonificio, che i ve rosega su le paghe, par far le famose economie che va a finir nei… zoghi de borsa, a vualtre tabachine che rodolè le sigarete fine e i avana per le dame e per i siori, a vualtre lavoranti de Baschiera, che consumè salute e zoventù fra i fumi del fosforo; e anca a vualtre là da la Zueca, operaie de Herion, che fè le magie cussì fine e cussì calde per i altri, e batè le brochete per conto vostro; e infin a vualtre tute impiraperle, che lavorè fra un'ociada al putelo che pianze e una a la pignata che bogie(181).
Grazie a "Il Secolo Nuovo" - e ad altri giornali di orientamento diverso incitati a fornire altri punti di vista - abbiamo la cronaca puntuale di lotte e scioperi, accanto alla denuncia delle condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari, del formarsi e disciogliersi delle leghe, delle iniziative della Camera del lavoro e dei socialisti locali, sullo sfondo degli avvenimenti nazionali e internazionali: una fonte nuova che consente di analizzare il rapporto tra organizzazioni operaie e lavoratrici e di collocare la "questione femminile" all'interno della dialettica tra partito socialista e femminismo.
Nel giornale scrivono anche donne: alcune sono note attiviste, ma la maggior parte si cela nell'anonimato a testimonianza del disagio di stare in un contesto comunicativo per tradizione maschile e di un diritto di cittadinanza politica ancora tutto da conquistare. Vi prendono la parola anche operaie, a firma singola o collettiva, che denunciano soprusi e ingiustizie subite e commentano i fatti che le riguardano.
Gli ultimi decenni dell'Ottocento e i primi del secolo successivo sono caratterizzati a Venezia dal verificarsi di scioperi e lotte delle lavoratrici per migliorare le condizioni di vita e di lavoro: chiedono l'aumento delle paghe, la riduzione dell'orario, il rispetto della legge sul lavoro, l'istituzione di casse di maternità; proteste improvvise scoppiano come reazione a comportamenti rigidi, ingiusti, violenti di controllori e maestre(182).
Il primo sciopero delle impiraresse si verifica nel 1872 in coincidenza con altri e con l'arrivo in città di esponenti dell'Internazionale. Non risulta però che vi siano contatti tra questi e le donne, la cui protesta nasce spontanea come reazione alla decisione del titolare di una ditta di affidare il lavoro ad un'intermediaria di sua fiducia, è dettata dall'inasprirsi delle condizioni di vita in seguito alla riduzione dei salari e condotta in forme autonome, con una radicalità che sorprende e preoccupa gli osservatori. Mentre i conciapelle, i facchini e i pettinacanape hanno scioperato pacificamente appianando le controversie coi padroni, tanto da far commentare alla "Gazzetta di Venezia" che "il buon senso proverbiale e tradizionale" del popolo veneziano si è manifestato anche in questa occasione, le infilatrici di perle "con assai minor accorgimento degli altri scioperanti" usano minacce contro le compagne che non sospendono il lavoro, rovesciano casse di perle, rompono i mazzi. Per fermare la "diavoleria" interviene la questura e 11 di loro vengono arrestate e processate per frode - a causa delle perle andate perdute - e violazione di domicilio(183). La forza pubblica reagisce con incredulità a tanta determinazione e, considerandola imprevedibile, si mobilita numerosa. Quando nel 1884 le sigaraie scendono in sciopero contro i rigori di uno zelante capotecnico, il questore scrive al prefetto di non essersi mai immaginato nelle "buone e brave" operaie "una resistenza tanto intensa ed estesa"(184). Inutili i tentativi di parlare alle scioperanti, di pacificare i loro animi esasperati, di indurle a nominare una commissione per trattare; diffidenti, si rifiutano di dare i nomi temendo ritorsioni; sono consapevoli che la loro forza sta nell'essere in tante, di manifestarla con i corpi uniti e le grida all'unisono. Il mattino seguente le operaie sono tutte in fondamenta ad impedire l'entrata degli uomini; i due manipoli di guardie, disposti alle estremità delle fondamenta, per un po' resistono all'urto, ma tale è la spinta che devono retrocedere. Per arginare l'impeto delle donne e ottenere che alcune di loro parlino "con sufficiente moderazione", giungono rinforzi; considerata l'inutilità delle esortazioni a desistere, un'operaia, distintasi per la violenza delle minacce, è arrestata, ma tali sono "gli strilli, il dimenamento, l'opposizione di quella furibonda" che si crede opportuno sospendere l'arresto. Non vi sono stati - assicura l'ispettore di pubblica sicurezza - atti scorretti da parte dei suoi agenti "contro quelle inermi bensì, ma infuriate scioperanti"(185).
Abbandonato l'atteggiamento prudente, in seguito anche al radicalizzarsi delle lotte nei primi anni del Novecento, guardie e militari non esiteranno a fronteggiarle armati e a scontrarsi fisicamente con loro.
I partiti contrapposti socialista e cattolico si propongono di controllare la combattività femminile, riconducendola alle forme di lotta e alle organizzazioni del movimento operaio i primi, placandola nell'ideologia dell'armonizzazione tra le classi i secondi. La nascita di leghe "rosse" e "bianche" e l'antagonismo tra le une e le altre che caratterizza gli scioperi del Novecento ne sono la conseguenza.
Le prime a rispondere sono le tabacchine: l'atto di nascita della loro lega è lo sciopero del 1901 quando 500 di loro intervengono all'assemblea che si tiene alla trattoria "Alle Barche" ai Tolentini; dopo l'on. Fradeletto, che apre con un discorso in dialetto, prendono la parola alcune operaie lamentando punizioni, licenziamenti e i magri assegni di "valetudinarietà". "Mi go dito […] gavè magnà tanti ani de le mie carni, tegnive anca i ossi", dice un'operaia che, consumata dal male, chiede inutilmente di essere collocata a riposo dopo tanti anni di lavoro(186). Il loro comportamento viene criticato dal giornale socialista che contrappone la tendenza femminile al pettegolezzo al "contegno ammirabile degli operai: l'espressione netta e dignitosa della loro volontà di uomini liberi"(187). Ora finalmente, fondata la lega, potranno far valere i loro diritti "in modo legale e cosciente", usando con "giudizio" lo sciopero come fanno i lavoratori. Il monito risulterà vano, combattività e spontaneismo continueranno a contrassegnare l'azione delle tabacchine, pur essendo le operaie più sindacalizzate.
Nei primi mesi del 1904 scioperano 14 giorni contro il rigore di un caporeparto di cui chiedono l'allontanamento, ma poiché la risposta alle loro richieste tarda a venire, si trincerano all'interno della Manifattura con l'intenzione di passarvi la notte. La fabbrica viene messa in stato d'assedio da guardie di pubblica sicurezza e carabinieri. I dirigenti socialisti - Marangoni del "Secolo Nuovo" e Tommasi segretario della Camera del lavoro - faticano non poco a convincerle ad uscire, ma il giorno seguente il cancello d'ingresso è sbarrato e le operaie sono accusate di aver compromesso la loro posizione con "l'azione amorfa e impulsiva, col ridicolo ammutinamento", offrendo il pretesto per la serrata; loro rispondono accogliendo con fischi i dirigenti contrari allo sciopero(188). Per tutta la durata della vertenza si verificano cacce alle "krumire", tafferugli e scontri con le guardie. Sorde ai continui inviti alla calma, continuano la loro lotta pretendendo risposte immediate e risultati concreti. Cercano una vittoria almeno simbolica: la restituzione da parte della direzione del vessillo della vecchia associazione operaia pagato da loro. Sembrano compiacersi - e anche divertirsi - di partecipare in tante all'assemblea dove possono sfogarsi, commentare, farsi beffe di giornalisti e arringatori. Né schede, né mani alzate per il loro esercizio di democrazia (più del 50% non sa scrivere), lo sciopero viene votato col sistema dei fagioli: un fagiolo bianco (pace) o un fagiolo rosso (guerra) è deposto in un'urna di cartone. Risultato: 823 fagioli rossi, 13 bianchi. L'urlo scoppia clamoroso: "Viva la resistenza. Viva lo sciopero!"(189). "Toccò ai dirigenti sopire la temeraria risolutezza di quelle donne", scrive il giornale socialista, "che si levavano in un grande impeto di ribellione e non volevano saperne di calma e di prudenza finché non fosse loro garantito per l'avvenire un trattamento umano e civile". Alla fine vogliono tornare alla Manifattura, non a piccoli sciami ciarlieri come avviene di solito, ma tutte assieme in corteo, "colla fronte alta, la fierezza negli occhi e la vittoria in pugno", cantando l'Inno dei lavoratori e sventolando il riconquistato vessillo. Con questa marcia trionfale vengono finalmente accolte tra le fila del proletariato e d'ora in poi saranno additate alle altre operaie come esempio da seguire(190).
Tra il 1902 e il 1910 nascono varie leghe di resistenza aderenti alla Camera del lavoro: cotonieri (1902), sarte (1903), perlaie (1904), fiammiferaie (1904), cernitrici di conteria e tagliatrici (1908), maestri (1909). Ma le leghe, che sorgono nei periodi di agitazione e in occasione di scioperi, hanno vita breve o comunque alterna; gli scioperi, che nel primo decennio del Novecento si susseguono con ritmo incalzante, conservano un carattere spontaneo, la maggior parte delle lavoratrici è restia ad organizzarsi in maniera continuativa e a frequentare luoghi politicamente connotati.
Problematico risulta stabilire un rapporto organico con il movimento operaio e con il partito socialista, il cui atteggiamento nei loro confronti oscilla tra il caloroso appello alla fratellanza e il rimprovero per comportamenti irriducibili alla disciplina; l'insistente invito a far parte di un unico partito di classe confligge con il permanere di una visione tradizionale dei rapporti di genere che produce ambiguità irrisolte e rifiuti aperti. Gli operai dell'Arsenale protestano quando viene concesso un aumento di salario anche alle donne, sostenendo che meglio sarebbe far avanzare i giovani. Perché - rispondono le operaie con ironia pungente - non siamo anche noi della grande classe lavoratrice? Non abbiamo gli stessi diritti dei giovani(191)? Quando in applicazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli l'orario viene ridotto da 12 a 11 ore, gli operai del reparto filatura del Cotonificio, che lavorano a cottimo, protestano per riportarlo a 12 ore; il contrasto viene risolto chiedendo il contemporaneo aumento delle tariffe(192).
La specificità della condizione delle donne lavoratrici richiede un'autonoma organizzazione che dia visibilità ai loro bisogni e rappresenti i loro diritti: è quanto vengono affermando le attiviste, consapevoli della refrattarietà delle donne ad accostarsi ad organizzazioni maschili e ad adottarne pratiche e linguaggi. All'interno del partito socialista tuttavia il separatismo femminista è tacciato di essere borghese. Quando un'autrice anonima accusa il "Secolo Nuovo" di occuparsi poco delle lavoratrici e lo invita a farsi promotore di una Lega femminile delle sartine, su esempio delle piscinine milanesi(193), il giornale si difende sostenendo di aver sempre fatto propaganda per organizzare le operaie degli opifici, ma dichiara che le "leghe femministe" non sono il suo "ideale", essendo la questione femminile un aspetto della più vasta questione sociale(194).
Nel 1904 gli scioperi delle donne tengono la scena per lunghi mesi, culminando con lo sciopero generale di settembre: le agitazioni delle tabacchine, delle sarte e delle cotoniere, il movimento delle impiraresse, la partecipazione delle mogli dei muratori scioperanti ai comizi, rendono più che mai attuale il problema del rapporto donna-socialismo e il "Secolo Nuovo" vi dedica alcuni interventi. In polemica con gli antifemministi che definiscono "paradossale" la lotta tra i sessi, una voce femminile sostiene che "il peggior nemico" della donna è l'uomo, il quale pensa con terrore alla possibilità che lei possa ottenere il diritto di voto e che si occupi di politica. Non sono soltanto gli ignoranti, i preti e i conservatori, ma persino i compagni socialisti, che a parole si fanno propugnatori dei diritti della donna, i primi a condannarla quando reclama ciò che è giusto. Il colpo inferto è duro e la risposta, altrettanto dura, taccia le veneziane di "misoneismo", di essere vittime di un'educazione meschina per cui non sanno concepire per il loro sesso altra funzione che la maternità, rimanendo confinate nella ristretta cerchia domestica ove l'eco della battaglia per il progresso non giunge e dove gli uomini devono affrontare madri e sorelle che li vogliono allontanare dal socialismo. Nonostante abbiano dato prova di saper lottare con una determinazione ritenuta perfino eccessiva, le donne vengono accusate di essere addormentate e moderatrici degli entusiasmi maschili(195).
Le reciproche accuse di mancanza di responsabilità trovano provvisoria composizione nell'invito alle donne colte di adoperarsi per intensificare la propaganda e per costituire una sezione femminile del partito. Nei mesi seguenti compaiono infatti con maggior frequenza sul giornale articoli che invitano compagne di lavoro, mogli, sorelle, madri di operai a scuotersi dall'indifferenza, a "sollevare la fronte umilmente dimessa" e volgerla al socialismo, con un linguaggio che parla anche di diritti, primo tra tutti il diritto di partecipare all'elaborazione di quelle leggi che pure loro devono rispettare. Sono questi gli anni della battaglia suffragista che culmina nel 1910 col manifesto comune di tutti i gruppi femministi per il voto alle donne; appelli vengono rivolti dal giornale alle veneziane che, escluse dal diritto di voto, possono segretamente contribuire alla vittoria del proletariato spronando mariti, fratelli, figli, fidanzati a votare per il partito socialista(196). Un episodio provoca però l'allarme dei socialisti sull'influenza che i preti esercitano sulle donne e rinfocola dubbi e polemiche da parte di quanti ritengono prematuro, se non dannoso, il suffragio femminile: all'elezione dei probiviri delle industrie del vetro partecipano anche operaie presenti con proprie liste come elette e come elettrici, esercitando per la prima volta, come fa osservare il "Secolo Nuovo", una "funzione civile". A elezioni avvenute il commento cambia completamente tono: ha vinto la lista di monsignor Cerutti grazie ai voti delle "beghine" nell'unica sezione femminile, mentre le due sezioni maschili hanno votato le liste della Camera del lavoro(197).
A differenza dei socialisti, i cattolici scelgono decisamente la linea del separatismo che sembra incontrare i favori delle donne. Si rivolgono in particolar modo alle ragazze lavoratrici, offrendo loro protezione e soccorso, poiché considerano la promiscuità dei laboratori fonte di pericolo per la giovinezza irrequieta ed eccitabile: "i misteri confidati", i pettegolezzi ascoltati con "curiosità morbosa", alimentano invidie, fantasie e desideri di felicità irraggiungibili(198).
La Società nazionale di patronato e mutuo soccorso per le giovani operaie, con sede centrale a Torino, fondata a Venezia all'inizio del Novecento, in pochi anni arriva a contare più di 4.000 socie tra la città, Murano e Mestre. Signore del patriziato e dell'alta borghesia vi figurano come patronesse e svolgono attività varie dalla raccolta dei fondi, all'organizzazione di pesche di beneficenza, all'accoglienza delle socie nelle loro ville e palazzi dove offrono rinfreschi. Con questo atteggiamento intendono sottolineare il concetto cattolico di mutuo soccorso fondato non sulla rivendicazione delle operaie, ma sulla carità delle signore: sono loro a portare il sussidio alla socia ammalata e questo permette "di penetrare nelle umili case […], di avvicinare i parenti, di sorprendere tanti lati intimi che forse si vorrebbero tener nascosti, di conoscerne le condizioni morali e materiali; ne nasce quindi un naturale e benefico ravvicinamento di classe" con il duplice scopo che la patronessa può constatare personalmente i bisogni delle classi inferiori e dall'animo dell'umile operaia "sgorga la gratitudine" per la parola consolatrice(199).
L'"ufficio materno" non si limita al sussidio per malattia, ma comprende varie iniziative per la salute delle operaie, dall'ambulatorio medico alle villeggiature e alle cure marittime. Vi è poi, ad affiancare la cura del corpo, l'attività educativa - conferenze domenicali di morale, igiene, economia domestica e storia patria -, ma sono i momenti di svago che entusiasmano le operaie: i ricreatori festivi sono frequentatissimi, vi si tengono recite, spettacoli cinematografici, ascolto di musiche al fonografo, si organizzano fiere gastronomiche durante il Carnevale e serenate in barca nelle sere estive. Un impegno che tende ad un controllo totale della vita delle socie, fornendo loro un modello di comportamento volto a contrastare "l'atteggiamento emancipato, libero nel contegno, nelle abitudini, nei gusti delle giovani moderne"(200). Le operaie che si rifiutano di fare sciopero sono additate alle altre come esempio di coraggio e di saggezza. Le visite di contesse, principesse e regine sono studiate rappresentazioni che, offrendo vantaggi materiali e compensi simbolici, suscitando sentimenti di amore e riconoscenza, riaffermano l'inevitabilità delle differenze di classe. L'inaugurazione della bandiera della società si tiene a S. Marco alla presenza delle autorità e della donatrice, la principessa Letizia di Savoia, che indossa uno splendido vestito di merletto di Burano su fondo di tela d'oro "per fare onore alle piccole dita delle giovani merlettaie"; al suono dell'inno della società e della marcia reale s'avanzano tra due ali di folla a manifestare la loro gratitudine la sigaraia Maria Barbini, l'operaia Amabile Donà, ricamatrice della bandiera, e la stiratrice Luigia Campagnol, nota per la sua spigliatezza, che recita una poesia in dialetto suscitando il commosso compiacimento delle presenti(201).
L'azione dei cattolici risulta particolarmente efficace tra le lavoratrici a domicilio e tra le donne delle isole, baluardo della fede. A Murano l'attivissimo don Cerutti, fondatore della prima cassa operaia cattolica, usa il pulpito per dire la sua in merito a questioni riguardanti il lavoro e diffonde un giornaletto clericale, "La Fiaccola"(202). A Burano il parroco don Dario Costantini scrive alla contessa Elena Da Persico, teorizzatrice dei sindacati femminili cattolici, invitandola ad accorrere in soccorso perché da un po' di tempo circola in paese "una certa aria di sovversivismo che potrebbe essere fatale per le giovani merlettaie", un movimento anticristiano che rischia di turbare la religiosa comunità. Proponendosi di organizzare le 1.000 operaie, tiene una riunione con le più convinte dove si decide la costituzione di un'Unione popolare femminile sotto gli auspici di s. Barbara, con un programma che mescola aspetti religiosi - festa patronale, conferenze mensili del parroco, esercizi spirituali - e aspetti materiali come il mutuo soccorso e le grazie dotali. In seguito all'intervento della Da Persico 400 operaie vi s'iscrivono(203).
La società cerca di dar vita a unioni professionali nelle fabbriche - fiammiferi, cereria, Cotonificio -, ma è soprattutto nel tabacchificio dove il contrasto tra Lega aderente alla Federazione nazionale dei lavoratori dello Stato e Lega cattolica diventa scontro aperto e vede anche la partecipazione di personalità di rilievo: due figure di spicco del femminismo socialista - le maestre Emilia Mariani e Linda Malnati presenti a Venezia nel 1901 per partecipare al Congresso dell'educazione femminile - intervengono in un'assemblea delle tabacchine. L'evento suscita l'allarmismo della "Gazzetta" che mette in guardia contro i "sobillamenti" delle "piovre socialiste"; il patriarca, recatosi in visita alla Manifattura, ammonisce le operaie a non fidarsi di persone estranee e a dare vita a un'associazione di cui si offre di essere il protettore(204). Nasce così la Lega aderente alla Società per le giovani operaie che si prefigge di ottenere miglioramenti delle loro condizioni "purché siano giustificati dai reali bisogni", senza ricorre allo sciopero, ma mediante accordi con la direzione, "allo scopo di trarre la gioventù dalle ingannevoli spire del socialismo, [...] di allontanare la donna operaia dalla nefasta scuola di coloro che fomentano l'odio di classe, la ribellione sistematica all'autorità, togliendo alle masse veramente incoscienti ogni principio di retta educazione morale"(205).
La leader delle tabacchine Maria Trevisan accusa la Società "addomesticata" e "crumira" di spionaggio e tradimento con la scusa di salvare le ragazze dai pericoli della bestemmia(206). Accuse reciproche e scontri verbali avvengono all'ingresso della fabbrica e questo offre il pretesto alla direzione per decidere orari d'ingresso diversi per le anziane e per le giovani, in modo da impedire a queste qualsiasi contatto con la lega "sovversiva". Reclutando il personale giovane e inesperto, si crea divisione e antagonismo tra le operaie "a scapito del sentimento fraterno" e si limita il diritto di associazione, protesta la Federazione(207). La ricevitrice Pina Argentin, ad esempio, è stata invitata a denunciare le compagne, lei invece è entrata nella Lega diventandone una leader: da quel momento viene perseguitata, sorvegliata come anarchica pericolosa, retrocessa a operaia semplice; per "metterla a posto" è persino chiamato il marito, ma lui risponde che la moglie, organizzando le compagne, non fa che il suo dovere(208). Buona ma energica, l'Argentin - "la Fradeletto delle tabacchine" - sa trovare le parole per parlare alle operaie ed è molto amata dalle giovani. Spiegando le ragioni dello sciopero del 1904 agli increduli socialisti, dice che il motivo "non è materiale ma morale", si tratta cioè della loro dignità di "donne oneste" che non vogliono essere spiate: dove ci sono tante ragazze deve esserci moralità(209).
In tutte le fabbriche sorveglianti eccessivamente severi, cui si attribuiscono appellativi come "aguzzini" e "belve umane", maltrattano le giovani operaie con ricatti, imposizioni e usano persino le mani: non sono infrequenti gli episodi di ragazze schiaffeggiate e malmenate. Le belle ragazze invece godono dei favori dei capi dai quali ottengono più lavoro; esasperate da ciò le cernitrici fondano una lega e proclamano uno sciopero(210). Più ricattabili, le apprendiste non sono meno combattive: 200 giovani operaie del Cotonificio addette agli aspatoi danno inizio nel 1898 ad una delle vertenze più dure, con serrata della direzione, scontri e cariche delle guardie; sospeso il lavoro invadono i reparti rovesciando cataste di materiale, fermando le macchine e schernendo gli uomini che continuano a lavorare cantando: "El sciopero à scominsià / e i piavoli de pilidori / no gà gnancora molà"; 100 fanciulle scioperano nel 1905 per chiedere un aumento di tariffa, minacciate di licenziamento tornano al lavoro senza ottenere nulla; ma di lì a qualche mese riesplode la protesta e 77 di loro, licenziate, vengono riammesse grazie alla solidarietà di tutte le maestranze(211).
Vivace è lo scontro tra opposte leghe in occasione dello sciopero delle impiraresse del 1904. Quando le infilatrici si recano alla Camera del lavoro per costituire la lega, interviene il parroco di Castello invitandole a ricorrere a lui e dà vita ad una unione cattolica tra operaie e maestre. Queste non danno lavoro alle aderenti alla lega e diventano il bersaglio della protesta delle impiraresse, le quali chiedono, oltre alla diminuzione dell'orario nelle scuole e all'aumento delle tariffe, l'abolizione delle intermediarie e la sostituzione con agenzie di distribuzione. Più di 1.000 donne risultano iscritte alla lega di cui è segretario un uomo, De Toffoli, posizione la sua a dir poco difficile. Per tutta la durata della vertenza infatti le lavoratrici conservano un comportamento fortemente autonomo, con i caratteri della rivolta popolare più che dello sciopero organizzato. Il loro invadere la città in gruppo, con atteggiamento risoluto ma divertito, rappresenta quasi una sfida per quanti temono la rivolta femminile, incontenibile, indomabile, irruente. Sono donne che dominano il territorio dei sestieri popolari dove gli uomini sono spesso assenti, socializzando tra loro, intessendo legami tra parenti e vicine che conferiscono alla loro esistenza una dimensione collettiva. Uscite dal consueto spazio delle calli, vanno per la città insieme, donne di tutte le età, madri e figlie, amiche e vicine, esortandosi e incoraggiandosi a vicenda; da Castello, da Cannaregio, dalla Giudecca accorrono numerose alle assemblee, invadono rumorosamente la sala del Ridotto, accolgono con battimani le compagne, cantano e ballano persino. I giornali parlano di loro paragonandole alle api che sciamano, al fiume in piena, alle cicale stridule e assordanti, metafore che definiscono una collettività indistinta e minacciosa, una inquietante naturalità incivilizzata. Inutilmente i dirigenti socialisti contrari allo sciopero deplorano "i baccani" ai quali si lasciano andare perché rischiano di perdere l'appoggio dei cittadini che pure conoscono le loro tristi condizioni(212). Vengono irrisi e scherniti. Ma la rabbia delle infilatrici si scaglia soprattutto contro le mistre, accusate di sfruttamento, di essere delle usuraie; infuriate assaltano le loro case e magazzini, rovesciano casse di perle, strappano di mano le sessole alle lavoranti. Per tutta la durata dello sciopero - 40 giorni - si spostano a gruppi da un capo all'altro della città - da Castello a Cannaregio e persino a Murano -, scompaiono tra le calli al sopraggiungere delle guardie e ricompaiono altrove. Gli industriali infine concedono un significativo aumento del 30% delle tariffe e promettono l'apertura di magazzini di distribuzione, promessa che non manterranno. Le polemiche tra scioperanti e appartenenti alla lega "clericale", le cui aderenti sono accusate di aver ottenuto anch'esse gli aumenti pur avendo contrastato lo sciopero, non si placano(213).
Particolarmente intransigente e a tratti anche violento è l'atteggiamento delle donne scioperanti nei confronti di coloro - maestre e "crumire" - con le quali dividono ansie e dolori quotidiani, ma che, rompendo il patto di solidarietà tra compagne, sono considerate traditrici. Contro di loro si sfoga l'esasperazione accumulata, non si risparmiano accuse e ingiurie, minacce e intimidazioni, 'armi' della violenza femminile. Quando nella Manifattura Tabacchi la maestra Azzola sospende un'operaia - vedova e madre di parecchi figli - perché cantava una canzone dialettale, le operaie l'attendono fuori, le stanno addosso "furiosamente, urlando e fischiando" e scortate da guardie e curiosi la inseguono fino a casa: uno spettacolo "poco civile", commenta il giornalista che assiste. Ma il giorno dopo la scena si ripete e a stento le guardie trattengono "l'onda delle irate tabacchine". Alla guardia che vuole arrestarla una di loro si rivolge dicendo: "El meta so le man che no xe creanza!"(214). Lo scherno è l'arma di offesa usata contro i simboli di quel potere maschile a loro estraneo, siano essi capi, guardie, preti di passaggio, giornalisti o dirigenti politici. Ma non esitano a brandire come arma un ombrello, una borsa o uno zoccolo sfilato dal piede, e a colpire. Alla Baschiera in sciopero si verifica un vero corpo a corpo tra operaie e guardie: una donna incinta gettata a terra grida e le compagne circondano l'agente minacciose; un'operaia colpisce una guardia sulla guancia con lo zoccolo applaudita dalla folla(215).
Le cotoniere sono di nuovo protagoniste, nel 1906, di uno degli scioperi più duri e violenti, scoppiato in seguito ai maltrattamenti del controllore Guidi nei confronti di una ragazzina quattordicenne, condotto ad oltranza non per ragioni economiche, ma per la tutela della loro "dignità". La vicenda assume un carattere politico - il riconoscimento dei rappresentanti della Camera del lavoro da parte della direzione e l'allontanamento di Guidi - e ha una risonanza cittadina. L'operaia in questione, Maria Venturini, querela Guidi e si celebra un processo nel quale, ascoltate come testimoni davanti a una folla accaldata e accalcata, le giovanissime compagne raccontano i maltrattamenti subiti, gli schiaffi, le offese; ma nessun valore si dà alla loro testimonianza: con una "sentenza di classe" che lascia sbalorditi, Guidi viene assolto per mancanza di prove(216). Invocando la sentenza, il sindaco Grimani, sollecitato da una interrogazione in consiglio comunale di Elia Musatti, si rifiuta di intervenire in qualità di mediatore e la direzione assume un atteggiamento intransigente: per riaprire i cancelli della fabbrica pretende di licenziare i capi della lega e le operaie che hanno testimoniato. Quando i cotonieri, dopo 35 giorni di sciopero, tornano al lavoro "sconfitti ma dignitosi", trovano invece il controllore al suo posto, più arrogante e provocatore di prima, e la reazione è inevitabile: appena varca l'ingresso del reparto, piovono sulla sua testa oggetti, strumenti, pezzi di legno; per sgomberare i reparti la direzione chiama la forza pubblica e giunge perfino la fanteria a baionetta innestata. Si scatena una "caccia selvaggia", le operaie, travolte e malmenate, fuggono con i vestiti in disordine e gli scialli strappati, piangendo e gridando(217).
Se i capi della lega sono tutti maschi, sono i corpi delle donne ad essere al centro della mischia; se la parola è lo strumento politico maschile - nei comizi, nelle trattative con la direzione, negli ordini del giorno, nelle cronache giornalistiche -, le donne usano il linguaggio del corpo, con tutta la sua eloquenza e potenza simbolica: mostrano il petto alle baionette, circondano minacciose le guardie. Sfogano volentieri la loro propensione ad una naturale teatralità: le infilaperle inscenano funerali delle mistre e appendono in calle uno scialle nero con su scritto "L'agonia delle mistre" e una croce. Durante uno sciopero le cotoniere improvvisano fuori della fabbrica una rappresentazione burlesca: indossando un grande scialle ed un cappello a vivaci colori, un'operaia imita una dama suscitando le risa delle compagne(218). Signore, patronesse e "beghine", assieme ai sorveglianti e ai padroni, sono il bersaglio preferito. Il momento della protesta si connota quindi anche di tratti trasgressivi e si configura come rovesciamento dell'ordine della fabbrica, ma anche delle gerarchie sociali.
Non rinunciando al divertimento prodotto dalla libertà di movimento riacquistata, le scioperanti rifiutano di assumere le regole della protesta ritualizzata alla quale le invitano i politici. Ascoltano con commenti salaci i dirigenti della Camera del lavoro che accorrono ai loro comizi per esortarle all'unità, alla calma, alla coscienza e a convincerle della necessità di un'organizzazione unitaria. Sono feroci contro i parlamentari democratici che sono contrari ai loro scioperi: "No semo miga omeni [li minacciano] no gavemo miga el voto", altrimenti non lo darebbero certo a loro! Un giornalista dell'"Adriatico" che osa presentarsi a un'assemblea, è insultato e cacciato(219). Esponenti nazionali del partito socialista portano il saluto alle operaie in sciopero e spiegano a loro, che non sanno cosa sia quello che chiamano "ciucialismo", che senza "i ciucialisti" faranno belle dimostrazioni senza concludere nulla(220).
Durante le manifestazioni sembrano accogliere simboli socialisti come elemento di autoriconoscimento, ma privati della loro sacralità: alle assemblee le impiraresse agitano un drappo rosso ed un cartello su cui è scritto "Viva il socialismo, abbasso le mistre". Portano fiocchi e coccarde rossi, ma l'effetto è curioso e persino comico: una delle cape, di età abbastanza avanzata, grassoccia, cinge ai fianchi una fascia colorata, puntate sul petto ha due rose artificiali e un nodo di nastro rosso. Precedute da un ombrellino rosso sfollano dal Ridotto, accompagnate da curiosi e dalle immancabili guardie, sempre cantando(221).
Le canzoni, più che i discorsi, sembrano raggiungere il loro immaginario, fornire le parole che traducono e rappresentano i loro sentimenti. Cantano l'Inno dei lavoratori, che parla anche di lavoratrici, ma cambiano volentieri le parole e inventano canzoni: "Semo tute impiraresse, semo qua de vita piene, tuto fogo ne le vene [urlano in coro le infilatrici per infondersi coraggio, per sfogare la rabbia]. No ghe gnente che ne tegna / quando furie deventemo". Improvvisano anche rime con cui canzonare le nemiche: "Ciò lupe maledete, sarè presto ste scuole / lassè che ve la canta, che diga do parole". Anche le operaie del Cotonificio hanno la loro canzone: "Povare filandine / desfortunae che semo, / la paga che ciapemo / i ne la vol magnar", è il loro lamento; ma subito dopo maledicono l'odiato sorvegliante: "E anca el caposala / che non xe bon da gnente / ghe vegna un acidente / su la punta del cuor"(222).
L'adesione al movimento socialista ha carattere fortemente emotivo ed è determinata dal clima particolare che si viene a creare in quegli anni in cui raggiunge un ampio consenso popolare. "Mio fio el xe mato per ste robe", esclama quasi a giustificare la sua nuova passione la più anziana delle infilaperle, una vecchietta ultraottantenne che incita le compagne con le braccia alzate(223). I momenti culminanti dello sciopero, quando intervengono le guardie ed è scontro, vedono la solidarietà e la partecipazione della popolazione del sestiere, soprattutto nelle "repubbliche socialiste" di S. Margherita, S. Marta e Castello.
Angelica Balabanoff, presente a Venezia per la campagna elettorale del 1904-1905, racconta di comizi tenuti nei sestieri popolari ai quali le donne si recano numerose avvolte negli scialli neri, con i vestiti a brandelli, portando in mano torce. Montata sopra un tavolo, la "piccola signora vestita di nero" parla di giustizia, di dignità, vede allora i loro occhi illuminarsi e alla fine la folla l'accompagna in un corteo quasi trionfale(224).
Alla Camera del lavoro si discute di come organizzare il proletariato femminile, riconoscendo che deve avere una certa autonomia e una specifica propaganda; viene nominato per questo un comitato e si valuta un progetto di segretariato, in un locale proprio, a capo del quale potrebbe essere la Balabanoff stessa. Sarebbe il primo in Italia, ma non se ne fa nulla(225).
In questi anni il problema dell'organizzazione femminile è dibattuto all'interno del partito socialista anche sul piano nazionale; nel congresso di Milano del 1910 la Kuliscioff, che accusa i compagni di indifferenza verso la questione femminile, ottiene di metterla all'ordine del giorno e durante la discussione è avanzata la proposta di un giornale di propaganda tra le lavoratrici. L'anno successivo - il 1911 - nasce a Venezia "Su, Compagne!", "giornale per le lavoratrici italiane", supplemento del "Secolo Nuovo". Lasciando in secondo piano la cronaca locale, il giornale mira invece all'educazione della "donna socialista": una donna che concili la missione materna con la sua emancipazione. Abbandonata l'influenza dei pulpiti, che la rende schiava dell'ignoranza e della superstizione, sollevata la fronte e presa coscienza come madre e come lavoratrice del suo valore sociale, deve rivendicare tempo da dedicare ai figli, dal momento che è sulle sue spalle che grava l'educazione dei cittadini futuri. Sul ruolo educativo della donna si insiste molto - non poche delle autrici sono maestre -, enfatizzando la funzione culturale della maternità; poiché è in casa che avviene la prima educazione, i genitori devono dare esempi di solidarietà, di fierezza, di giustizia, di dignità personale, educazione che deve poi proseguire tra i banchi di scuola. Più che di diritti, il giornale parla di doveri(226).
Non possiamo dire come sia stato accolto dalle lavoratrici - tra le abbonate risultano anche la Lega delle tabacchine e delle fiammiferaie -, ma contenuti e linguaggio sono lontani dai loro immediati bisogni; la diffusione infatti è scarsa e non sostenuta dalle sezioni. L'anno dopo al congresso di Reggio Emilia nasce l'Unione femminile socialista e nuovi sforzi vengono investiti nella nascita di un giornale unitario, "La Difesa delle Lavoratrici", con il quale "Su, Compagne!" si fonde. I tentativi di dare vita a una sezione femminile del partito socialista a Venezia non hanno successo. La massa delle lavoratrici accorre volentieri alle feste da ballo organizzate alla Camera del lavoro, diserta invece le riunioni politiche: al comizio delle donne socialiste del marzo 1914 partecipano molti uomini e qualche donna(227)!
Soltanto le tabacchine sono ancora una volta protagoniste nella primavera del 1914 di un grande sciopero generale della categoria, voluto soprattutto dalle giovani, che si protrae per due lunghi mesi per migliorare cottimi, ambiente di lavoro, regolamenti. Le 400 operaie della Manifattura Tabacchi sono le uniche donne iscritte alla Camera del lavoro e la loro leader, Anita Mezzalira, è accanto ai dirigenti all'inaugurazione della nuova sede nel 1915(228).
Entrata in Manifattura giovanissima nel 1901, nel clima arroventato degli scioperi del 1904 Anita inizia la sua attività come leader sindacale delle tabacchine, che la porterà ad iscriversi al partito socialista nel 1910 e ad essere presente nelle vicende politiche del Novecento: considerata sovversiva, subisce una denuncia ed è licenziata nel 1927; negli anni del fascismo rimane a casa sorvegliata speciale, sostenuta dalla solidarietà delle compagne che si tassano per lei; riassunta a guerra finita, il suo impegno si esplica sia come leader sindacale all'interno della fabbrica che nel sociale: con l'Unione donne italiane, che contribuisce a fondare, assiste gli ex internati e gestisce una mensa per i poveri. Nelle prime libere elezioni comunali è eletta nella lista del partito comunista ed entra a far parte della giunta di Giobatta Gianquinto come assessore all'alimentazione, "tessitrice" anche in quella veste di relazioni umane oltre che politiche(229).
Le vicende biografiche di Anita ricollegano idealmente la tradizione libertaria risorgimentale - il padre fu volontario garibaldino - all'antifascismo novecentesco, la volontà di riscatto delle classi popolari veneziane alla realizzazione di politiche sociali delle giunte democratiche del secondo dopoguerra. E se la sua è la storia singolare di una donna che ha scelto la politica identificandola con la vita stessa, non poche saranno le donne che seguiranno analoghi percorsi: "Sei una Mezzalira" è l'epiteto che le madri veneziane attribuiscono alle figlie vivaci e ribelli.
Lo sviluppo industriale veneziano dei decenni postunitari, in sintonia con quanto avviene a livello nazionale, si avvale di una mano d'opera femminile e minorile disponibile ad impiegarsi a basso costo e con una accentuata flessibilità. Questo dato viene usato dai conservatori, ma anche dai liberali, per sostenere la richiesta di protezionismo economico da parte dello Stato e degli enti pubblici locali nei confronti delle imprese - sovvenzionate e sostenute in vario modo - e per limitare i cambiamenti conseguenti ai processi di industrializzazione e conservare rapporti sociali tradizionali. Nell'intento di caratterizzare lo sviluppo capitalistico veneziano in continuità piuttosto che in discontinuità col passato, vengono rivitalizzate le antiche manifatture e sostenute le "industrie casalinghe", svolte a domicilio o nei pressi dell'abitazione, in modo che l'impiego di mano d'opera femminile lasci inalterata un'identità centrata sulla sfera domestica.
La profusione di discorsi sulla tutela delle donne lavoratrici e dei fanciulli serve a riaffermare il modello patriarcale estendendolo a tutti i livelli sociali, dal patronato, all'associazionismo di mestiere, al mutualismo, all'organizzazione del lavoro, mantenendo una minorità femminile che può invocare protezione, non diritti.
All'interno dei rapporti familiari invece la donna riveste un ruolo importante, poiché è in buona parte sulle sue spalle il peso della sopravvivenza quotidiana della famiglia, laddove gli impieghi maschili risentono di periodi di inattività e soffrono di esiguità dei salari. In tale contesto le strategie familiari prevedono l'uscita precoce dei figli maschi dalla famiglia, l'impiego altrettanto precoce delle figlie femmine in un qualche lavoro, prolungando l'età del matrimonio e sobbarcandosi l'accudimento dei membri improduttivi: fratellini, familiari inabili e genitori anziani. È comprensibile quindi come il sogno delle ragazze sia contrarre matrimonio con un uomo in grado di mantenerle, ma raramente dispongono della dote per poterlo realizzare. Un numero consistente di donne, soprattutto giovani, guarda alla fabbrica come un'opportunità nuova e, se molte l'abbandonano all'età del matrimonio o dopo la nascita dei figli, non poche sono coloro che vi investono un progetto di vita, imparando un mestiere, divenendo abili al punto di raggiungere cottimi produttivi e rimanendovi a lungo. Le occupazioni di servizio, tradizionale sbocco lavorativo delle ragazze povere, vengono assunte dalle giovani immigrate provenienti dalla campagna per sfuggire al duro lavoro agricolo.
Le operaie, pur esistenti in passato, acquistano sul finire del secolo XIX rilevanza sociale, sia per consistenza quantitativa che per la vocazione protestataria, attraverso la quale trasferiscono sulla scena pubblica i loro modi di essere, di comunicare, di socializzare: un mondo femminile viene alla luce suscitando reazioni contrapposte ma sostanzialmente riconducibili al desiderio di controllo.
Pur verificandosi nella biografia delle lavoratrici passaggi da una occupazione ad un'altra, andirivieni tra lavoro esterno e lavoro a domicilio, vi è divaricazione di immagine tra donna che lavora - merlettaia, perlaia, sarta, serva - e operaia di fabbrica: si tratta di un'identità femminile 'diversa' perché fondata sulla separazione tra sfera produttiva e riproduttiva, avvertita come inquietante e respinta dai conservatori come sovvertitrice dell'ordine.
La rilevanza quantitativa della mano d'opera femminile conferisce caratteristiche del tutto peculiari agli scioperi e al movimento operaio veneziano e registra un forte protagonismo delle donne nella protesta sociale; la grande massa delle lavoratrici rimane però, a parte alcune eccezioni, ai margini della politica organizzata. Il sindacalismo ripropone un simbolismo bipolare che contrappone l'ordine della ragione maschile al disordine del corpo femminile e invita le donne ad aderire al modello virile per esserne incluse. Ma le donne non hanno dimestichezza con la democrazia formale e con la rappresentanza: la loro partecipazione è diretta, fisica e corale.
Il corpo femminile in pubblico rappresenta dunque quel nucleo irriducibile della differenza, visibile e tangibile, che impedisce di considerarle cittadine. L'immagine della "donna disordinata", che emerge dai discorsi e dai racconti, è dunque usata per richiamare al rispetto della norma; ma se assumiamo l'interpretazione della storica Natalie Zemon Davis, non sempre questo serve a tenere le donne a bada: si tratta infatti di "un'immagine polivalente, capace di ampliare le scelte della donna dentro e fuori il matrimonio, come pure di giustificare la rivolta e la disubbidienza politica per entrambi i sessi"(230). Non vi è dubbio che i mariti lascino protestare le mogli in piazza, le madri e i padri le figlie, quando la vertenza lo richiede: possiamo ritenere che questo produca cambiamenti difficilmente reversibili nel modo di percepirsi e di autorappresentarsi.
La riluttanza a disciplinarsi all'interno della fabbrica, a non accettare gerarchie spersonalizzanti e autoritarismi gratuiti, può essere interpretata come resistenza all'imposizione di processi capitalistici, che richiedono un cambiamento radicale nei tempi e modi di vita, negli spazi, nei rapporti e come persistenza di forme relazionali basate sulla solidarietà di gruppo e di sestiere, sulle quali si innesta la solidarietà di classe: "una cultura popolare originale che si oppone al modernismo unificatore", come ha osservato Michelle Perrot(231). Ma vi è anche la percezione soggettiva del proprio valore e della propria dignità da difendere che si traduce progressivamente in consapevolezza di esigere dei diritti.
Per queste caratteristiche che contraddistinguono la classe operaia veneziana gli industriali preferiscono i lavoratori di terraferma, considerati più laboriosi, più onesti e devoti, più refrattari alle idee libertarie e socialiste(232). La nascita di Porto Marghera - come è noto - si inserisce in una strategia mirante a limitare l'impiego di mano d'opera cittadina in favore di quella rurale, reclutando uomini dalle circostanti campagne(233). La discontinuità del Novecento, il cui spartiacque è la prima guerra mondiale, vede il profilarsi di una classe operaia in prevalenza maschile.
La guerra e il fascismo annullano le conquiste delle donne, riportandole a battersi e ad affannarsi quotidianamente per la sopravvivenza loro e dei loro familiari(234). Tornano ad impiegarsi all'interno delle case e se ancora scendono in piazza è per chiedere pane e lavoro. Spazzate via le leghe di resistenza, negli anni del primo dopoguerra molte sono invece le lavoratrici aderenti alle organizzazioni sindacali cattoliche(235). Non poche tuttavia aderiscono all'antifascismo e sono attive nella Resistenza, come le tabacchine Giovanna Tramontin e Pina Boldrin, e la giudecchina operaia della Junghans Tosca Siviero.
Soltanto in una prospettiva di lungo periodo, che si spinga a Novecento inoltrato, possiamo leggere i cambiamenti nella vita e nell'identità delle lavoratrici veneziane, di nuovo protagoniste di lotte nel secondo dopoguerra. Nei racconti delle testimoni la "memoria lunga" si dilata fino a riconnettere la scelta politica e la soggettività antagonista maturate nel presente a quei lontani anni di inizio secolo in cui madri e padri avevano iniziato a sollevare la fronte(236).
1. Virginia Olper Monis, Come la Zanze trovò marito, in Racconti veneziani e novelle sentimentali, Milano 1893, p. 103; le citazioni successive sono alle pp. 113 e 125.
2. Pietro Manfrin, L'avvenire di Venezia. Studio, Treviso 1877, p. 68.
3. Domenico Giuseppe Bernoni, Canti popolari veneziani, Venezia 1872.
4. Lucia Pagano Briganti, Figure femminili del teatro veneziano. Goldoni, Sugana, Selvatico, Gallina, Roma 1913, p. 64; Guido Cadorin, Tabacchine, olio, 1920, Roma, Palazzo del Quirinale.
5. Amelia Rosselli, El socio de papà. Commedia in tre atti, Milano 1912, p. 7; rappresentata la prima volta la sera del 17 febbraio 1911 al Teatro Goldoni, protagonista Ferruccio Benini.
6. Alberto Errera, Le istituzioni popolari nella Venezia, "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", ser. III, 13, 1867-1868, p. 459 (pp. 441-599); v. Luca Pes, L'economia delle classi popolari a Venezia (1866-1881), in Cent'anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 235-246.
7. Jacopo Bernardi, Venezia dopo trent'anni. Impressioni e speranze, "Atti dell'Ateneo Veneto", ser. III, 2, 1879, p. 106 (pp. 99-111).
8. Id., Della costituzione delle famiglie segnatamente popolane in Venezia e di alcuni mezzi a promuovere il lavoro, la previdenza, il risparmio, ibid., 3, 1880, p. 203 (pp. 195-208).
9. Cesare Musatti, Dello insegnamento dell'igiene specialmente per le classi operaie. Lezione popolare tenuta al Veneto Ateneo nel decembre 1874, Venezia 1875, p. 20.
10. Demetrio Carlo Finocchietti, I bambini poveri, "Ateneo Veneto", gennaio 1882, vol. II, p. 18 (pp. 1-19).
11. Id., Ancora dei bambini poveri, ibid., maggio 1882, vol. II, p. 266 (pp. 265-283).
12. Atto verbale dell'adunanza straordinaria del 24 marzo 1881, "Atti dell'Ateneo Veneto", ser. III, 4, 1881, p. 121 (pp. 121-125).
13. Giulio Sacerdoti, Le fanciulle povere, Firenze 1883, pp. 4-5.
14. Comune di Venezia, Statistica della popolazione, Venezia 1911, p. 66 (il dato viene spiegato con la maggior mortalità maschile e con l'immigrazione femminile); anche nei precedenti censimenti - 1872, 1882, 1901 - le femmine superano i maschi; v. Diego Rallo, Immigrazione, sviluppo industriale e composizione della manodopera, in Lavoro ed emigrazione minorile dall'Unità alla Grande guerra, a cura di Bruna Bianchi-Adriana Lotto, Venezia 2000, pp. 187-213; Francesca Peccolo, Immigrazione ed assistenza a Venezia dalla fine dell'Ottocento al primo ventennio del Novecento, ibid., pp. 214-247.
15. Serve veneziane. Tipi dal vero del signor Stella, "Illustrazione Italiana", 17 marzo 1878, nr. 11, p. 181.
16. Infamie, "L'Adriatico", 13 luglio 1880.
17. Cesare Della Vida, L'Istituto Manin di Venezia e l'educazione degli operai, "Rivista della Beneficenza Pubblica e degli Istituti di Previdenza", 5, 1877, p. 445 (pp. 420-457); sulle violenze subite dalle piccole serve v. Annarita Buttafuoco, Le Mariuccine. Storia di un'istituzione laica. L'asilo Mariuccia, Milano 1985.
18. L. Pes, L'economia delle classi popolari, p. 243 n. 26.
19. A.S.V., Questura Generale, LXXXI, 1884, rapporto sullo spirito pubblico, II sem. 1883; su 49 case autorizzate, 16 tenutarie di case clandestine sono denunciate, 175 prostitute iscritte d'ufficio, 11 minorenni riconsegnate ai parenti, 13 rimpatriate, 37 diffidate a trovare un'occupazione, 15 rilasciate su garanzia, per un totale di 251 scoperte. Nel rapporto del 1° luglio 1884 si dice che il maggior contingente è fornito dal sestiere di Cannaregio, le cui donne "si distinguono per floridezza e formosità su tutte le veneziane".
20. Regia commissione per lo studio delle questioni relative alla prostituzione e ai provvedimenti per la morale e l'igiene pubblica, Firenze 1885.
21. Venezia, Archivio Storico delle Istituzioni di Ricovero ed Educazione, Presidiale, b. 20, fasc. 144, protocollo allegato all'atto della riunione dei Pii Istituti, 13 luglio 1868; v. Maria Luciana Granzotto, Le penitenti di San Giobbe. Un'istituzione per ex prostitute a Venezia dalla Restaurazione alla Prima Guerra Mondiale, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1999-2000; F. Peccolo, Immigrazione ed assistenza, pp. 235 ss.
22. Venezia, Archivio Storico delle Istituzioni di Ricovero ed Educazione, Presidiale, b. 25, fasc. 55, relazione dell'ispettore generale Pericoli, 15 maggio 1910-11 giugno 1911.
23. Luca Pes, Le classi popolari, in questi volumi; v. anche Stuart J. Woolf, Porca miseria. Poveri e assistenza nell'età moderna, Roma-Bari 1988.
24. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1870-1874, VI-2.
25. Un dramma della miseria, "Il Giornaletto", 8 giugno 1906.
26. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1860-1869, VI-2-23; le citazioni seguenti sono tratte ibid., 1880-1884, VI-2-2 e VI-2-3.
27. Ibid., 1870-1874, VI-2-6.
28. Ivi, Archivio Storico delle Istituzioni di Ricovero ed Educazione, Presidiale, b. 20, fascc. 147-148.
29. Ivi, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1880-1884, VI-2-2.
30. Franca Cosmai, L'infanzia abbandonata a Santa Maria della Pietà nell'Ottocento, in La scoperta dell'infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, p. 9 (pp. 3-21).
31. Marzio Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna 1984, pp. 25 e 484; Massimo Livi Bacci, Donna, fecondità e figli. Due secoli di storia demografica in Italia, Bologna 1980, pp. 150-152. Età media al matrimonio, per sesso, a Venezia nel periodo 1901-1904: F. 26,8; M. 30,1; sulla famiglia v. Stefano Musso, La famiglia operaia, in La famiglia italiana dall'Ottocento a oggi, a cura di Piero Melograni, Bari 1988, pp. 61-106.
32. Renzo Derosas, Appesi a un filo. I bambini veneziani di fronte alla morte (1850-1900), in La scoperta dell'infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, p. 47 (pp. 39-53).
33. Angela Groppi, Mercato del lavoro e mercato dell'assistenza. Le opportunità delle donne nella Roma pontificia, "Memoria. Rivista di Storia delle Donne", 3, 1990, nr. 30, p. 23 (pp. 4-32); v. anche Vanna Nuti, Discoli e derelitti. L'infanzia povera dopo l'Unità, Firenze 1992.
34. Cit. in Maria Caterina Minosso, La casa d'Industria a Venezia dal Regno Italico alla Restaurazione, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1990-1991, pp. 59 e 142.
35. F. Cosmai, L'infanzia abbandonata, p. 6.
36. Venezia, Archivio Storico delle Istituzioni di Ricovero ed Educazione, Presidiale, b. 49, fasc. 5, relazione della direttrice suor Rosalia Piazza, 11 febbraio 1898; sugli istituti v. Pisana Visconti, L'assistenza educativa a Venezia nella seconda metà dell'Ottocento, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1993-1994; Ead., L'infanzia nelle istituzioni. Gli orfanotrofi e l'Istituto Manin, in La scoperta dell'infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 151-165.
37. C. Della Vida, L'Istituto Manin di Venezia, pp. 444-445.
38. Fondato nel 1559 da Benedetto Valmio della Compagnia di Gesù per salvare le giovanette povere di condizione "civile" esposte al pericolo della seduzione e sopravvissuto nel tempo ad alterne vicende, nel 1867 passa sotto la gestione della congregazione di carità; v. P. Visconti, L'assistenza educativa, pp. 162-163.
39. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Primaria e Normale, 1884-1902, b. 67, relazione dell'ispettrice Bastianelli, marzo 1892.
40. Piano disciplinare della casa d'asilo onde custodire le giovanette povere, Venezia 1851, cit. in Liviana Gazzetta, 'Il ben ammaestrare i fanciulli è riformare il mondo'. Gli istituti educativi cattolici nell'Ottocento, in La scoperta dell'infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, p. 134 (pp. 127-140).
41. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Primaria e Normale, 1884-1902, b. 67, relazione dell'ispettrice Bastianelli.
42. Venezia, Archivio Storico delle Istituzioni di Ricovero ed Educazione, Presidiale, b. 49, fasc. 3, resoconto morale dell'Istituto Catecumeni dell'anno 1896-97.
43. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Primaria e Normale, 1884-1902, b. 67, relazione di G. Fojanesi Rapisardi, Venezia 10 agosto 1900.
44. Gualberta Alaide Beccari, Delle scuole professionali femminili, "La Donna. Periodico d'Educazione", ser. II, 4, 1872, nr. 178, p. 941 (pp. 941-943).
45. Venezia, Archivio Storico delle Istituzioni di Ricovero ed Educazione, Presidiale, b. 16, lettera del direttore del Cotonificio Veneziano, 6 giugno 1882.
46. Ibid., deliberazione del Consiglio, 12 giugno 1882, e lettera del direttore del Cotonificio Veneziano, 8 giugno 1882.
47. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Primaria e Normale, 1884-1902, b. 67, fasc. 55b.
48. Venezia, Archivio Storico delle Istituzioni di Ricovero ed Educazione, Presidiale, b. 20, fasc. 147, atto, 12 ottobre 1870, referente la priora.
49. Ivi, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1905-1909, VII-10-55, lettera al sindaco, 21 giugno 1909 e opuscolo allegato: Elisa Meloncini, L'insegnamento dei lavori donneschi nelle scuole femminili, specie nelle classi V-VI, Venezia 1908.
50. La Società contro l'accattonaggio, promossa tra gli altri da Filippo Nani Mocenigo e dal conte Girolamo Marcello, nasce nel 1903 con lo scopo di soccorrere i "veri poveri" distinguendoli dai "falsi poveri", "La Difesa", 15-16 aprile 1903; Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1910-1914, VII-10-28, Società contro l'accattonaggio, richiesta per ottenere i locali per un laboratorio popolare, relazione di Ottavia Ghe, aprile 1910.
51. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1910-1914, VII-10-28, Laboratorio popolare femminile, relazione di Elisa Meloncini.
52. Laura Goretti Veruda, Distribuzione dei premi delle scuole elementari di Venezia, Venezia 1881, p. 21; Ead., Il lavoro femminile nelle scuole comunali di Venezia, Venezia 1879.
53. Ead., Distribuzione dei premi agli alunni ed alle alunne delle scuole elementari festive comunali nei giorni 28 e 29 agosto 1882, Venezia 1882, p. 13.
54. Giulio Sacerdoti, Pensieri di riforma educativa per il miglioramento delle arti industriali, estr. dalla "Gazzetta di Venezia", 1881, nrr. 54-55-56, p. 30; Id., Scuole professionali femminili, estr. da "Ateneo Veneto", giugno-luglio 1889.
55. Emanuele Celesia, Scuole professionali femminili, Genova 1869; v. Brunella Dalla Casa, Istruzione, lavoro ed emancipazione femminile nel mutualismo operaio di fine ottocento. Alcune considerazioni, in La sfera pubblica femminile, a cura di Dianella Gagliani-Mariuccia Salvati, Bologna 1992, p. 103 (pp. 101-112).
56. Spigolando, "La Donna. Periodico d'Educazione", 10 ottobre 1883, cit. in Liviana Gazzetta, La rivoluzione pacifica: istruzione lavoro ed emancipazione femminile nella rivista "La donna", "Bollettino del Museo Civico di Padova", 84, 1995, p. 261 (pp. 249-270).
57. Rosa Piazza, Della educazione ed istruzione della donna italiana, Padova 1870; Ead., Dell'educazione ed istruzione delle donne, Venezia 1876, p. 18; prima abilitata in Pedagogia all'Università di Padova, la Piazza insegna nella scuola superiore femminile di Venezia.
58. Ead.-Guglielmo Stella, Progetto per la fondazione di una scuola professionale femminile in Venezia, Venezia 1885.
59. Relazione e regolamento per la scuola professionale femminile, Venezia 1891, p. 3; istituita nel 1891 e aperta nell'ottobre del 1893, ha carattere di scuola postelementare inferiore e superiore, vi sono ammesse fanciulle che hanno compiuto i 12 anni fino ai 18; gli indirizzi sono due: industriale e commerciale.
60. La scuola superiore femminile di Venezia. Monografia pubblicata per cura del Municipio, Venezia 1873, p. 7.
61. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1865-1869, VII-7-15; Guglielmo Berchet, Condizioni generali della istruzione primaria, Venezia 1867.
62. M.C. Minosso, La casa d'Industria, pp. 57-58 e 46-47; La beneficenza veneziana. Note e memorie, Venezia 1900, p. 179. Nel 1812 su 439 lavoranti 274 sono donne, di cui 104 a fattura, 88 donne e 23 ragazze a giornata, 44 in addestramento, 15 maestre e ispettrici.
63. Casoni parla di un'officina per la fabbricazione di vele e bandiere: "Vasto salone sul di cui pavimento vengono delineate le vele e se ne traccia la vera configurazione. Molte donne si occupano della loro cucitura, e costruiscono altresì le tante bandiere, segnali e paviglioni, che al marittimo servigio sono aderenti", Giovanni Casoni, Guida per l'Arsenale di Venezia, Venezia 1829, p. 74. La mia ipotesi è che il "bagno delle vergini" sia un locale all'interno dell'"Ergastolo delle Vergini", ex convento di monache trasformato in carcere militare in un'isola adiacente all'Arsenale al quale è annesso. Nel 1869 nel reparto vele e bandiere risultano 35 tra donne e fanciulli, 40 tessono la tela di canapa nella Casa d'industria, Alberto Errera, Storia e statistica delle industrie venete e accenni al loro avvenire, Venezia 1870.
64. Cit. in M.C. Minosso, La casa d'Industria, p. 74.
65. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1860-1869, VI-4.
66. Ivi, Archivio Storico delle Istituzioni di Ricovero ed Educazione, Processi verbali, sedute del 5 e 12 febbraio 1866; la sottrazione di perle era una pratica diffusa, v. L. Pes, L'economia delle classi popolari, p. 238.
67. Venezia, Archivio Storico delle Istituzioni di Ricovero ed Educazione, Presidiale, b. 22-2, Comitato promotore per l'attivazione delle macchine da cucire a vantaggio delle operaie povere, Venezia 31 marzo 1874.
68. Ivi, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1975-1979, VI-8-4, lettera al Municipio, 14 marzo 1874.
69. Rosa Piazza, La sala di lavoro aperta dalla Congregazione di Carità, "Gazzetta di Venezia", 6 ottobre 1876.
70. Gualberta Alaide Beccari, Delle scuole professionali femminili, "La Donna. Periodico d'Educazione", ser. II, 4, 1872, nr. 175, p. 893 (pp. 893-895). Anche Maria Montessori, nelle sue conferenze in giro per l'Italia, esalta "le macchine che suppliscono al lavoro della donna", cit. in Valeria P. Babini-Luisa Lama, Una 'donna nuova'. Il femminismo scientifico di Maria Montessori, Milano 2000, p. 136.
71. Dei mezzi pratici per migliorare la sorte delle operaie libere, "La Donna. Periodico d'Educazione", ser. II, 4, 1872, nr. 189, pp. 1115-1116.
72. Simonetta Ortaggi, Condizione femminile e industrializzazione tra Ottocento e Novecento, Milano 1999, p. 141.
73. Venezia, Archivio Storico delle Istituzioni di Ricovero ed Educazione, Presidiale, b. 22-2.
74. Alberto S. De Kiriaki, La beneficenza elemosiniera, sotto il reggimento veneto e fino al 1876, in La beneficenza veneziana. Note e memorie, Venezia 1900, p. 45 (pp. 11-68).
75. Ibid.
76. Venezia, Archivio Storico delle Istituzioni di Ricovero ed Educazione, Presidiale, b. 49, 7 gennaio 1907.
77. Ibid., b. 20, lettera, 5 agosto 1903.
78. Ibid., 31 gennaio 1917.
79. Ibid., lettera della direttrice Luisa Da Villa Zanetti, 19 ottobre 1908.
80. Ibid., lettera di R. Gamberini, 4 febbraio 1912.
81. Jacopo Bernardi, Della costituzione delle famiglie segnatamente popolane in Venezia e di alcuni mezzi a promuovere il lavoro, la previdenza, il risparmio, "Atti dell'Ateneo Veneto", ser. III, 3, 1880, pp. 200-201 (pp. 195-208).
82. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Società per i lavori di cartonaggio, b. B, promemoria dell'istanza presentata dalla direzione della Società al ministro delle Finanze, maggio 1869, e b. A, fasc. "Statuto e carte varie", norme per l'istituzione dei lavori in cartonaggi; v. Stefano Sorteni, Bambini e lavoro, in La scoperta dell'infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 229-230 (pp. 221-233).
83. Madile Gambier, Testimonianze sulla lavorazione del merletto nella Repubblica di Venezia, in Comune di Venezia-Consorzio dei merletti di Burano-Fondazione A. Marcello, La scuola dei merletti di Burano, catalogo della mostra, Venezia 1981, p. 31 (pp. 21-33).
84. Paulo Fambri, La storia della conquista di due medaglie d'oro (i merletti di Venezia nel 1878), "Giornale degli Economisti", 4, agosto-settembre 1878, p. 369 (pp. 365-379).
85. Id., I merletti una volta ed oggi, discorso tenuto l'11 dicembre 1873, riportato in Id., Industria dei merletti nella provincia di Venezia, ibid., 2, luglio 1876, p. 353 (pp. 345-367).
86. Michelangelo Jesurum, Sull'industria dei merletti a Pellestrina, Venezia 1878, pp. 4 e 5; v. anche Alberto Errera, Atti della Commissione municipale di Venezia per le piccole industrie, Venezia 1876, pp. 132-133.
87. Michelangelo Jesurum, Cenni storici e statistici sull'industria dei merletti, Venezia 1873, p. 39.
88. Giuseppe Toniolo, Sulla economia delle piccole industrie, Padova 1874, p. 31.
89. Io [Emilia Mariani], Le merlettaie di Burano, "Il Secolo Nuovo", 31 agosto 1901.
90. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero Agricoltura Industria Commercio, Divisione Generale Credito e Previdenza, b. 340, fasc. 1785, relazione, 18 aprile 1875.
91. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1880-1884, VI-7-12, la giunta delibera un sussidio di L. 2.000, 23 aprile 1879.
92. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero Agricoltura Industria Commercio, Divisione Industria e Commercio, b. 408A, Scuole professionali femminili, 1885-1886; v. anche Mario Morasso, L'arte dei merletti a Venezia, "Emporium", vol. XVI, maggio 1902.
93. Simonetta Soldani, Il libro e la matassa. Scuole per 'lavori donneschi' nell'Italia da costruire, in L'educazione delle donne: scuole e modelli di vita femminile nell'Italia dell'Ottocento, a cura di Ead., Milano 1989, pp. 88-89 (pp. 87-129).
94. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1880-1884, VI-7-12, lettera di P. Fambri allegata alla domanda di contributo.
95. P. Manfrin, L'avvenire di Venezia, p. 169.
96. P. Fambri, La storia della conquista, p. 376.
97. Id., Industria dei merletti, p. 360.
98. M. Jesurum, Sull'industria dei merletti, pp. 6 e 7.
99. Le benemerenze clerico-semite del signor Jesurum, "Il Secolo Nuovo", 18 maggio 1907.
100. P. Fambri, Industria dei merletti, p. 362.
101. Lettera della contessa A. Marcello al sindaco di Burano, Schio 22 giugno 1877, in Comune di Venezia-Consorzio dei merletti di Burano-Fondazione A. Marcello, La scuola dei merletti di Burano, catalogo della mostra, Venezia 1981, p. 70.
102. Alessandra Mottola Molfino, I merletti della scuola di Burano tra Ottocento e Novecento, ibid., p. 49 (pp. 37-56). Anche a Murano e a Chioggia le scuole di merletto sono affidate a suore.
103. Maria Pezzè Pascolato, Industrie femminili venete antiche e moderne, in Le industrie femminili italiane, Milano 1906, pp. 71-89.
104. Comune di Venezia, Censimento della popolazione 10 febbraio 1901, Venezia 1904; Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1900-1904, XII-1-7, circoscrizione del Comune di Venezia, sesso maschile e femminile, diviso per anno di nascita.
105. Sulle distorsioni nella lettura dei censimenti v. Alessandra Pescarolo, I mestieri femminili. Continuità e spostamenti di confine nel corso dell'industrializzazione, "Memoria. Rivista di Storia delle Donne", 3, 1990, nr. 30, pp. 55-68.
106. Angela Groppi, Introduzione a Storia delle donne in Italia. Il lavoro delle donne, a cura di Ead., Roma-Bari 1996, p. VI (pp. V-XVI); v. inoltre Joan W. Scott-Louise Tilly, Donne lavoro e famiglia nell'evoluzione della società capitalistica, Bari 1981, p. 160 (le autrici parlano di "forza lavoro secondaria" e "mercato informale del lavoro" che sfugge alle statistiche); Joan W. Scott, La donna lavoratrice nel XIX secolo, in Georges Duby-Michelle Perrot, Storia delle donne in occidente. L'Ottocento, a cura di Geneviève Fraisse-Michelle Perrot, Roma-Bari 1991, pp. 355-385.
107. Gino Bertolini, 'Italia', II, L'ambiente fisico e psichico. Storia sociale del secolo ventesimo, Venezia 1912, p. 214; Daniela Perco, Balie da latte e balie asciutte. Figure femminili nelle famiglie aristocratiche e borghesi di Venezia, in La scoperta dell'infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 23-37; F. Peccolo, Immigrazione ed assistenza.
108. Luigi Sormani Moretti, La Provincia di Venezia. Monografia statistica, economica, amministrativa, Venezia 1880-1881, p. 251.
109. Roberto Greci, Donne e corporazioni: la fluidità di un rapporto, in Storia delle donne in Italia. Il lavoro delle donne, a cura di Angela Groppi, Roma-Bari 1996, p. 79 (pp. 71-91); v. Giovanni Monticolo, I capitolari delle arti veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, I-III, Roma 1896-1914; A.S.V., Mestieri e Arti a Venezia, Venezia 1986.
110. Cit. in Angela Groppi, Lavoro e proprietà delle donne in età moderna, in Storia delle donne in Italia. Il lavoro delle donne, a cura di Ead., Roma-Bari 1996, p. 126 (pp. 119-163).
111. A.S.V., Inquisitori di stato, b. 819, cit. in Elena Bertagnolli-Maria Teresa Sega-Rossana Urbani De Gheltof, Perle veneziane, Venezia s.a. [ma 1991], p. 79.
112. Francesca Trivellato, Fondamenta dei vetrai. Lavoro, tecnologia e mercato a Venezia tra Sei e Settecento, Roma 2000, pp. 173 e 186.
113. Nel 1762 si registrano 3.284 donne nelle industrie, di cui la metà nella categoria dei tessitori di panni di seta e oro, 221 in quella dei tesseri, 220 degli specchieri, 212 dei margariteri, 153 dei peateri, 112 dei coroneri, 100 dei baretteri; figurano anche tra i fioreri, i battioro, i frittoleri, i cappelleri, i calegheri. Nel successivo censimento delle Arti del 1773 il numero delle donne impiegate nel settore della seta sale a 5.718, in Luigi Dal Pane, Storia del lavoro in Italia (dal sec. XVIII al 1815), Milano 1944, pp. 135-137.
114. Da una relazione del 1781 cit. in Richard T. Rapp, Industria e decadenza economica a Venezia nel XVII secolo, Roma 1986, p. 72; F. Trivellato, Fondamenta dei vetrai, p. 185.
115. L. Dal Pane, Storia del lavoro in Italia, p. 135.
116. Venezia città industriale. Gli insediamenti produttivi del 19° secolo, Venezia 1980, pp. 68-69. Le manifatture dei tabacchi, esistenti negli antichi Stati italiani, dopo l'Unità vengono centralizzate dalla Regia cointeressata, società appaltatrice, e dal 1883 direttamente dal Ministero delle Finanze.
117. Relazione e bilancio di esercizio della Regia cointeressata, giugno 1870, cit. in Paola Nava, La fabbrica dell'emancipazione. Operaie della Manifattura Tabacchi di Modena: storie di vita e di lavoro, Roma 1986, p. 56; su un costo della materia prima di L. 1.150.000, la mano d'opera maschile costa L. 290.000, su un costo della materia di L. 1.350.000 quella femminile costa L. 195.000, con una differenza di L. 295.000.
118. Alberto Errera, L'abolizione del portofranco e le industrie di Venezia, "Gazzetta di Venezia", 4 aprile 1872.
119. Tra questi figurano: Banca Veneta di Padova, barone Eugenio Cantoni (maggior azionista), Banca Generale di Roma, Ditta Jacob Levi, Moisè Errera, Eugenio Forti, conti Nicolò e Angelo Papadopoli, Vincenzo Breda, Alessandro Rossi: Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero Agricoltura Industria Commercio, Divisione Generale Credito e Previdenza, b. 340, fasc. 1788; v. Maurizio Reberschak, L'economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 237 ss. (pp. 227-298).
120. Venezia città industriale, p. 78.
121. La Herion nel primo dopoguerra dà lavoro a 180 operaie, Sicinio Bonfanti, La Giudecca nella storia, nell'arte, nella vita, Venezia 1930, p. 265; la Junghans ha il suo maggior sviluppo negli anni Trenta con 500 addetti, la metà donne, Venezia città industriale, p. 115.
122. Anna Bellavitis, In fabbrica e in casa. Il lavoro femminile nelle 'conterie' a Venezia, in Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra '800 e '900, catalogo della mostra storico-documentaria, a cura di Ead.-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Venezia 1990, p. 11 (pp. 9-21).
123. Il fatto produce la protesta dei tagliatori con esempi di distruzione delle macchine, ibid.
124. "La Voce di Murano", 30 marzo 1883.
125. V. Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra '800 e '900, catalogo della mostra storico-documentaria, a cura di Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Venezia 1990; Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Un lavoro a domicilio a Venezia: l'infilatrice di perle, in Comune di Carpi, Operaie, serve, maestre, impiegate, a cura di Paola Nava, Torino 1992, pp. 179-190.
126. A.S.V., Camera di Commercio, b. 410, lettera della Commissione di vigilanza alle fabbriche ed arti della città di Venezia, 2 aprile 1868, e verbale della discussione.
127. Cit. in A. Bellavitis, In fabbrica e in casa, p. 12.
128. A. Errera, Storia e statistica delle industrie venete, pp. 145 ss.; v. Stefania Moronato, 'Manifatture e industrie' tra crisi della moda e trasformazione. Note sui 'mestieri della moda' nell'Ottocento, in Comune di Venezia, I mestieri della moda a Venezia dal XIII al XVIII secolo, Venezia 1988, pp. 129-136.
129. A.S.V., Camera di Commercio, b. 410, rapporto alla segreteria, 27 giugno 1869; Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1875-1879, VI-2-21, lettera al sindaco, 5 dicembre 1872; dal 1871 viene erogata la somma di L. 150 annue per allievo per 5 anni.
130. Antonella Rossi, Industrializzazione e capitale estero a Venezia fra '800 e '900. La tessitura serica 'Luigi Bevilacqua', tesi di laurea, Università degli Studi di Udine, a.a. 1997-1998, pp. 176-179; Rossi desume le considerazioni da testimonianze orali e dai libri matricola consultati nell'archivio Bevilacqua. Ringrazio il sig. Rodolfo Bevilacqua per avermi consentito di visitare i locali della manifattura dove le tessitrici lavorano ancor oggi con i telai di legno originali con la tecnica manuale di cent'anni fa, un "museo vivente" che è anche una fiorente impresa.
131. C. Musatti, Dello insegnamento dell'igiene, p. 10.
132. Dora Marucco, Luigi Luzzatti e gli esordi della legislazione sociale, in Luigi Luzzatti e il suo tempo. Atti del convegno, a cura di Pier Luigi Ballini-Paolo Pecorari, Venezia 1994, p. 424 (pp. 409-424).
133. Renata Allio, Luigi Luzzatti e il dibattito sul lavoro minorile, ibid., pp. 391-408; v. inoltre Luigi Luzzatti, La libertà economica ed il lavoro dei fanciulli e delle donne nelle fabbriche, "Giornale degli Economisti", 1, agosto 1875, pp. 367-373; Alessandro Rossi, Perché una legge? Osservazioni e proposte sul progetto di legge per regolare il lavoro delle donne e dei fanciulli, Firenze 1880.
134. Sul lavoro delle donne e dei fanciulli nelle industrie manifatturiere di Venezia e sopra alcuni criteri di legislazione industriale in Italia, "Giornale degli Economisti", 2, novembre 1876, pp. 115-116 (pp. 109-127); MAIC, Sul lavoro dei fanciulli e delle donne, "Annali dell'Industria e del Commercio", 1880, nr. 15.
135. Francesco Ballarini, Relazione dell'inchiesta sul lavoro industriale dei fanciulli e delle donne presentata il 20 novembre 1875 ed approvata nell'adunanza dell'8 dicembre 1875 tenuta dal comitato di Bologna dell'Associazione per il progresso degli studi economici, "Giornale degli Economisti", 2, febbraio 1876, pp. 375-379 (pt. II; la pt. I e la pt. III sono rispettivamente ibid., gennaio 1876, pp. 309-321, e marzo 1876, pp. 494-502).
136. I versi della poesia Le tabacchine di Riccardo Selvatico recitano: "[…] Le xe lore, le ze tose, / Le ga el viso fresco e tondo, Le vien via sfidando el mondo, Imbriagae de zoventù. // Zavatando per i ponti, Le vien zoso a quatro in riga, Par che a tuti le ghe ziga: Largo, indrio, che semo nu! […]". Ad essi si ispira il quadro di Felice Castagnaro Le tabacchine, in cui "le belle ragazze scendono il ponte con quel fare tra civettuolo e spavaldo, con quell'agilità, con quel brio, con quella sprezzatura birichina di scialli e di capelli che le rendono tanto seducenti ed amabili", "Il Gazzettino", 31 agosto 1903. Si tratta di una rappresentazione alimentata dall'immaginario popolare che associa le tabacchine a Carmen, la protagonista dell'omonima opera di Bizet, tuttavia non del tutto lontana dall'autorappresentazione, come rilevano le testimonianze orali da me raccolte.
137. Renzo Paris, Il mito del proletariato nel romanzo italiano, Milano 1977.
138. Alberto Errera, A proposito di un progetto di legge italiano sul lavoro delle donne e dei fanciulli, Napoli 1880 (estr. da "Filangieri", marzo-aprile 1880).
139. C. dr. M. [Cesare Musatti], La legge sul lavoro dei fanciulli, "L'Igiene Infantile", 2, 1° settembre 1879, nr. 7; v. Nelli Elena Vanzan Marchini, La difesa del grembo e la mistica della maternità, in Nascere a Venezia: dalla Serenissima alla prima guerra mondiale, a cura di Lia Chinosi, Torino 1985, pp. 41-48.
140. I figlioli delle operaie nelle fabbriche tabacchi, "L'Igiene Infantile", 1, 15 agosto 1878, nr. 6, pp. 43-44; Il tabacco e la mortalità dei bambini, ibid., 1° ottobre 1878, nr. 9, pp. 43-44.
141. Cesare Musatti, I presepi in Italia. Proposta di nuovamente fondarne almeno uno in Venezia, Venezia 1877, pp. 17-18; v. Nadia M. Filippini, 'Come tenere pianticelle'. L'educazione della prima infanzia: asili di carità, giardinetti, asili per lattanti, in La scoperta dell'infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Ead.-Tiziana Plebani, Venezia 1999, p. 92 (pp. 91-112).
142. C. dott. M. [Cesare Musatti], Al Cotonificio veneziano, "L'Igiene Infantile", 6, 1°-15 dicembre 1883, nrr. 9-10, p. 75.
143. La legge dell'11 febbraio 1886 vieta di ammettere i fanciulli al lavoro negli opifici al di sotto dei 9 anni; viene applicata a opifici che impiegano più di 10 operai.
144. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Divisione Generale Sanità Pubblica, 1907-1909, Atti parlamentari, Camera dei deputati, relazione sull'applicazione della legge 11 febbraio 1886; MAIC, Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Venezia, "Annali di Statistica", ser. IV, 1886, fasc. II, nr. 5.
145. Disgrazia al Cotonificio, "Gazzetta di Venezia", 21 settembre 1886, cit. in F. Peccolo, Immigrazione ed assistenza, p. 232; v. anche D. Rallo, Immigrazione, pp. 191-195.
146. Disgrazia, "Gazzetta di Venezia", 8 aprile 1886.
147. A.S.V., Camera di Commercio, 1886-1912, b. 152, lettera del direttore Giacomo Zwicky, 6 giugno 1887.
148. Giacomo Zwicky, Sul lavoro notturno nelle fabbriche, Venezia 1896, p. 6.
149. A.S.V., Camera di Commercio, 1886-1912, b. 152, protesta degli industriali cotonieri contro il voto dell'assemblea dell'Associazione cotoniera per l'abolizione del lavoro notturno delle donne del 15 dicembre 1896; a Venezia è abolito nel 1887 perché poco remunerativo e compensato con l'aumento del numero dei fusi, Cotonificio Veneziano, anno VI, 1887, relazione e bilancio, Venezia 1888.
150. A.S.V., Camera di Commercio, 1886-1912, b. 152, lettera del 2 febbraio 1896; Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto, Rapporti dei prefetti 1882-1894, b. 23, fasc. 67 "Rapporto circa lo spirito pubblico", I sem. 1882.
151. A.S.V., Camera di Commercio, 1886-1912, b. 152, lettera al prefetto, 5 febbraio 1896.
152. Sul lavoro delle donne e dei fanciulli nelle industrie manifatturiere di Venezia, p. 110. Dalle denunce delle ditte in applicazione alla legge Carcano del 1902 risultano tra le altre impiegare donne e fanciulli: Magazzini Bocconi (15 d. magg. e 17 min.), cereria Gavazzi (7 fanciulli, 9 d. min. e 18 magg.); Bevilacqua (20 d. magg. e 7 min.); pastificio Antonelli (8 d. magg. e 2 min.); Stucky (6 d.); Società per l'industria delle conterie (18 fanciulli, 27 d. min. e 245 magg.); Herion (22 d. magg. e 34 min.); Scuola dei merletti di Burano (260 d. magg., 180 min., 85 fanciulle); Cotonificio Veneziano (60 fanciulle e 30 fanciulli tra i 12 e i 14 anni); farmaceutico Negri (19 d. magg. e 11 min.); A.S.V., Camera di Commercio, 1886-1912, b. 152, risposte alla circolare inviata alle ditte, 14 luglio 1903.
153. Per una ricostruzione dell'iter della legge Carcano, nr. 242, 1902, v. Maria Vittoria Ballestrero, La protezione concessa e l'eguaglianza negata: il lavoro femminile nella legislazione italiana, in Storia delle donne in Italia. Il lavoro delle donne, a cura di Angela Groppi, Roma-Bari 1996, pp. 445-469; Ministero Pubblica Istruzione, "Bollettino Ufficiale", 16 e 23 dicembre 1909, nrr. 51-52; dal censimento del 1911, risulta che il 42% dell'occupazione femminile in Italia è costituito da minorenni: Bruna Bianchi, Crescere in tempo di guerra. Il lavoro e la protesta dei ragazzi in Italia 1915-1918, Venezia 1995, pp. 28-30.
154. A.S.V., Camera di Commercio, 1886-1912, b. 152, lettera, 17 agosto 1903.
155. Motta Ermolao, Sartine, "Il Secolo Nuovo", 12 settembre 1903; Le stiratrici, ibid., 6 agosto 1904.
156. Negli scannatoi di Venezia, ibid., 28 agosto 1909.
157. Nel 1886 le ragazze sotto i 15 anni nell'industria cotoniera a Venezia sono il 21,13% e il 13,19 nel 1900: dati del Ministero Agricoltura Industria Commercio analizzati da Gianni A. Cisotto, Appunti su condizione femminile e mondo del lavoro nel Veneto tra Ottocento e Novecento, in Trasformazioni economiche e sociali nel Veneto fra XIX e XX secolo. Atti del convegno, a cura di Antonio Lazzarini, Vicenza 1984, pp. 693-710; i dati relativi alle tabacchine sono ricavati da Anna Bellavitis, Condizioni di lavoro e lotte delle operaie. La Manifattura tabacchi di Venezia tra Otto e Novecento, "Venetica", 11, 1994, nr. 3, pp. 41-53; nel 1905 il salario medio è tra 0,75 e 1,50, superiore a quello delle fabbriche private.
158. I dati sono ricavati da Angelo Celli, Sulle condizioni igieniche e sanitarie dell'industria del tabacco in Italia, Roma 1908; v. A. Bellavitis, Condizioni di lavoro e lotte delle operaie.
159. Venezia, Archivio della Manifattura Tabacchi, lettera della direzione alla Manifattura Tabacchi di Modena, Venezia 12 settembre 1903. Ho potuto ave- re copia dei documenti utilizzati da Anna Bellavitis che ha visitato l'archivio della Manifattura Tabacchi quand'era ancora funzionante. Sul controllo esercitato dallo Stato v. Simonetta Soldani, Strade maestre e cammini tortuosi. Lo stato liberale e la questione del lavoro femminile, in Comune di Carpi, Operaie, serve, maestre, impiegate, a cura di Paola Nava, Torino 1992, p. 296 (pp. 289-352).
160. Venezia, Archivio della Manifattura Tabacchi, Atti di protocollo riservato 1890-1920, lettera del direttore alla questura, 11 dicembre 1900; lettera del questore alla direzione, 20 dicembre 1900; lettera di Candi Teresa al direttore, s.d.; v. anche Loretta Giovanelli, Vita di fabbrica delle sigaraie modenesi tra Otto e Novecento. Una ricerca sui registri disciplinari, in Comune di Carpi, Operaie, serve, maestre, impiegate, a cura di Paola Nava, Torino 1992, pp. 363-376.
161. A. Celli, Sulle condizioni igieniche, p. 264.
162. Raffaello Vivante, La tubercolosi polmonare in Venezia, Venezia 1904, p. 20; prima dei 20 anni su 100 maschi ne muoiono 21, su 100 femmine 28; percentuali di morti nella categoria: lavandaie 11,59, domestiche 11,82, maestre 12,82, casalinghe 13,01, sarte e modiste 14,13, sigaraie 18,82, operaie in genere 23,28, perlaie 23,84, infilaperle 26,31, operaie al Cotonificio 35,48; v. anche S. Ortaggi, Condizione femminile, pp. 160-161.
163. Iniziative rivolte alle ragazze sono: l'Opera Zita per l'assistenza alle domestiche e la scuola di lavoro fondata nel 1884 da Elena Silvestri; la stessa aveva fondato, con Bartolomeo Sandri, la Società veneziana delle donne per gli interessi cattolici, di impronta intransigente; v. Silvio Tramontin, Il movimento cattolico, in La chiesa veneziana dal 1849 alle soglie del Novecento, a cura di Gabriele Ingegneri, Venezia 1987, p. 173 (pp. 165-188); Bruno Bertoli, La pastorale di fronte ai mutamenti culturali e politici della società veneziana, ibid., p. 66 (pp. 57-92); Id., Le origini del movimento cattolico a Venezia, Brescia 1965.
164. Giorgio Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma 1961, p. 267.
165. A Milano hanno vita breve le leghe di lavoro femminili, aderenti alla linea progressista del cristianesimo democratico, di cui è espressione la rivista di Adelaide Coari "Pensiero e Azione"; a Vicenza va segnalato l'impegno nei confronti delle operaie di Elisa Salerno, direttrice del quindicinale "Le Donne e il Lavoro" dal 24 dicembre 1909 al 29 novembre 1918; v. Gianni A. Cisotto, Il femminismo cristiano di Elisa Salerno, "Bollettino dell'Archivio per la Storia del Movimento Sociale Cattolico in Italia", 1984, nr. 1, pp. 32-48.
166. Marina Sassu, L'associazionismo femminile cattolico e la forma cooperativa, in L'audacia insolente. La cooperazione femminile 1886-1986, Venezia 1986, p. 114 (pp. 111-130); v. anche Paola Gaiotti De Biase, Le origini del movimento cattolico femminile, Brescia 1963; Francesca Cavazzana Romanelli, Le società operaie confessionali di mutuo soccorso. Itinerari storiografici negli archivi ecclesiastici veneziani, in Ministero per i Beni e le Attività Culturali-Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Le società di mutuo soccorso italiane e i loro archivi, Roma 1999, pp. 197-208.
167. Roberta Fossati, Élites femminili e nuovi modelli religiosi nell'Italia tra Otto e Novecento, Urbino 1997; David Levi-Morenos, Per un'opera di educazione sociale, Venezia 1910; del giornale del Circolo, "Cronache del Rinascimento Etico-Sociale", ho trovato soltanto 3 numeri a partire da 2, 23 gennaio 1898, nr. 1.
168. La Giacomelli è una delle protagoniste di spicco del movimento modernista, la Pezzè Pascolato, insegnante di inglese, traduce tra l'altro le opere di John Ruskin e ne divulga nella "Rivista per le Signorine" l'ideale estetico unito a una motivazione religiosa nell'adempimento dei piccoli doveri quotidiani, in R. Fossati, Élites femminili, p. 143. È interessante notare che al "socialismo" umanitario e romantico di Ruskin si deve anche l'adesione al socialismo di Margherita Grassini Sarfatti.
169. La donna e la propaganda umanitaria, "Cronache del Rinascimento Etico-Sociale" 2, 24 marzo 1898, nr. 3. Il riferimento teorico è a Giuseppe Mazzini di cui viene ampiamente citato I doveri dell'uomo, in particolare il concetto di "Unità umana".
170. Franca Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile in Italia (1892-1922), Milano 1974, pp. 36-37; Annarita Buttafuoco, Cronache femminili. Temi e momenti della stampa emancipazionista in Italia dall'Unità al fascismo, Arezzo 1988; la rivista delle Leghe è "Vita Femminile"; Virginia Olper Monis, scrittrice ebrea veneziana attenta alle condizioni delle lavoratrici, vi pubblica Scene di clinica medica, ibid., 1, 1895, nr. 2, storia di una signora che visita in ospedale ambulanti, cucitrici, ecc., rovinate dal lavoro; v. Rosanna de Longis, Scienza come politica: "Vita femminile (1895-1897)", "Nuova DWF", 1982, nr. 21, pp. 35-51.
171. Elisabetta Padoa, Relazione letta nell'Adunanza del 14 febbraio 1895, in cui fu discusso ed approvato lo Statuto della Lega, Torino 1895.
172. "Il Secolo Nuovo", 20 aprile 1901.
173. Annarita Buttafuoco, Questioni di cittadinanza. Donne e diritti sociali nell'Italia liberale, Siena 1997 [1995], p. 41.
174. Luca Pes, Sei schede sulle società di mutuo soccorso a Venezia (1849-1881), in Venezia nell'Ottocento, a cura di Massimo Costantini, "Cheiron", 6-7, 1989-1990, nrr. 12-13, p. 128 (pp. 115-145).
175. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1860-1869, VI-2-28, verbali delle sedute, 2 e 9 febbraio 1867. La Società generale, di iniziativa padronale, trova l'opposizione degli operai e non viene costituita.
176. A. Errera, Le istituzioni popolari, p. 528.
177. F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, p. 72.
178. Cit. in Daniele Resini, Cronologia, in Cent'anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Id., Venezia 1992, p. 335 (pp. 317-509).
179. Sulla figura e la vita della Sarfatti v. Philip V. Cannistraro-Brian R. Sullivan, Margherita Sarfatti. L'altra donna del Duce, Milano 1993.
180. Una veneziana, Per la donna e per il fanciullo un'altra campana, "Il Secolo Nuovo", 30 marzo e 6 aprile 1901.
181. Ead., A le done, ibid., 12 gennaio 1901. La legge sarà poi approvata, con sostanziali modifiche, nel 1902.
182. Sugli scioperi delle donne v. il mio 'Compagne di lotta, maestre di civiltà'. Il movimento delle lavoratrici a Venezia nel primo Novecento, "Venetica", 11, 1994, nr. 3, pp. 59-100; Nadia M. Filippini, 'Su compagne!'. Lavoro e lotte delle donne dall'Unità al fascismo, in Cent'anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 253 ss. (pp. 247-262); D. Resini, Cronologia; più in generale, Emilio Franzina, Una 'belle époque' socialista: venezianità e localismo in età giolittiana, ibid., p. 281 (pp. 275-306).
183. "Gazzetta di Venezia", 18 agosto e 3-4-5 settembre 1872.
184. A.S.V., Questura Generale, vol. LXXXI, 1884, fasc. 2069, lettera, 16 dicembre 1884.
185. Ibid., rapporto dell'ispettore di pubblica sicurezza al prefetto, 19 dicembre 1884.
186. "Il Gazzettino", 11 ottobre 1901. L'assegno di valetudinarietà veniva dato a chi lasciava la fabbrica dopo 35 anni se inabile al lavoro. Le operaie lottano per aumentarlo e in seguito per ottenere la pensione. V. A. Bellavitis, Condizioni di lavoro e lotte delle operaie.
187. "Il Secolo Nuovo", 30 novembre 1901; la citazione seguente è ibid., 31 agosto 1901.
188. L'agitazione delle tabacchine, ibid., 20 febbraio 1904.
189. "Il Gazzettino", 25 febbraio 1904.
190. Dopo lo sciopero, "Il Secolo Nuovo", 12 marzo 1904.
191. Le Operaie dell'Arsenale, Una protesta di donne, "Il Gazzettino", 7 agosto 1903.
192. Lo sciopero al Cotonificio, ibid., 1° agosto 1903.
193. Sfruttamento femminile, "Il Secolo Nuovo", 6 giugno 1903; 400 aiutanti di sartoria tra i 9 e i 12 anni (piscinine) scioperano a Milano nel giugno 1902 appoggiate dall'Unione femminile, S. Ortaggi, Condizione femminile, p. 150.
194. Sfruttamento femminile, "Il Secolo Nuovo", 29 agosto 1903.
195. La donna dorme, "Il Giornaletto", 7 dicembre 1905; lo stesso articolo compare a firma di Filippo Turati in "La Donna Socialista", 22 luglio 1905; Il problema femminile, "Il Secolo Nuovo", 11 giugno 1904; Consuelo, La donna, ibid., 23 gennaio 1904; Natalina Zannini Lorenzoni, Alle operaie veneziane, ibid., 30 luglio 1904; Su compagne!, ibid., 28 ottobre 1904; Alle operaie veneziane, ibid., 3 novembre 1904.
196. "Il Secolo Nuovo", 25 gennaio, 11 giugno, 24 giugno, 30 luglio, 1° ottobre, 28 ottobre, 3 novembre 1904.
197. Ibid., 28 marzo 1908; La vittoria delle beghine, ibid., 7 novembre 1908.
198. Paola Ferrari, Conferenza sull'industria privata femminile veneziana, Venezia 1911, p. 11.
199. Società Nazionale di Patronato e Mutuo Soccorso per le Giovani Operaie, Relazione morale e rendiconto finanziario anno 1910, Venezia 1911, p. 3; la Società ha 40.000 socie in 30 città.
200. Molte notizie su questi aspetti si trovano nel giornale della Società, "La Lavoratrice", il cui primo numero uscì il 15 gennaio 1902, con corrispondenze da Venezia; La donna lavoratrice, "La Lavoratrice", 7, 15 gennaio 1908.
201. Ibid., 6, 15 giugno 1907.
202. "Il Secolo Nuovo", 7 marzo 1908; v. Silvio Tramontin, La figura e l'opera sociale di Luigi Cerutti. Aspetti e momenti del movimento cattolico nel Veneto, Brescia 1968; F. Cavazzana Romanelli, Le società operaie, pp. 203-204.
203. Il carteggio si trova nell'Archivio Da Persico, cit. in Silvio Tramontin, Iniziative sociali dei cattolici fra Ottocento e Novecento, in La chiesa di Venezia nel primo Novecento, a cura di Id., Venezia 1995, pp. 125-140.
204. "Gazzetta di Venezia", 27 agosto 1901.
205. Venezia, Archivio della Manifattura Tabacchi, Archivio riservato, lettera al direttore della Manifattura, 7 agosto 1907.
206. "Il Secolo Nuovo", 24 agosto 1907.
207. Venezia, Archivio della Manifattura Tabacchi, Archivio riservato, lettera della Lega aderente alla Federazione italiana operai dello Stato, 5 agosto 1902.
208. Inchiesta alla Manifattura, "Il Secolo Nuovo", 6 febbraio 1904.
209. Lo sciopero generale delle tabacchine, "Il Gazzettino", 29 febbraio 1904.
210. Ibid., 28 luglio 1906; "Il Secolo Nuovo", 29 febbraio 1908.
211. "Il Gazzettino", 13 novembre 1898; "Il Secolo Nuovo", 5 e 12 agosto 1905; D. Resini, Cronologia, p. 342; v. Bruna Bianchi, Scioperi promossi e condotti da ragazzi o prevalentemente dai ragazzi (1905-1916), appendice a Ead., Crescere in tempo di guerra, p. 190 (pp. 189-213).
212. "Il Giornaletto", 29 giugno 1904.
213. Ho raccontato lo sciopero in 'Più perle de le perle che impiré'. Immagine e immaginario dell'impiraressa come tipo della popolana veneziana, in Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra '800 e '900, catalogo della mostra storico-documentaria, a cura di Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Venezia 1990, pp. 47-66.
214. Le tabacchine volevano linciare una loro maestra, "Il Gazzettino", 26 e 27 agosto 1903; Manifattura tabacchi, "Il Secolo Nuovo", 29 agosto 1903.
215. Lo sciopero da Baschiera, "Il Gazzettino", 1° dicembre 1904.
216. Il processo contro 'El Rondon'. Una sentenza di classe, "Il Giornaletto", 12 luglio 1906.
217. Lo sciopero dei cotonieri. La provocazione padronale e la violenza poliziesca, ibid., 15 luglio 1906; Il tumulto al cotonificio, ibid., 3 agosto 1906; Addosso alla carne da macello, ibid., 5 agosto 1906.
218. "L'Adriatico", 13 agosto 1904; "Gazzetta di Venezia", 16 novembre 1902.
219. Il nuovo comizio delle tabacchine, "Il Gazzettino", 24 febbraio 1904; L'agitazione delle sigaraie, "L'Adriatico", 15 marzo 1907.
220. "Il Gazzettino", 23 febbraio 1904.
221. "Gazzetta di Venezia", 10 agosto 1904; "Il Gazzettino", 14 agosto 1904; "L'Adriatico", 14 agosto 1904.
222. Luisa Ronchini, Sentime bona zente. Canti, conte, cante del popolo veneto, Venezia 1990; Canzoni di lotta delle donne a Venezia nei primi del Novecento, appendice a M.T. Sega, 'Compagne di lotta, maestre di civiltà', pp. 92-100.
223. "Il Giornaletto", 29 giugno 1904.
224. Angelica Balabanoff, La mia vita di rivoluzionaria, Milano 1979, pp. 53-54; Camera del Lavoro. Conferenza della dott. Angelica Balabanoff, "L'Adriatico", 18 marzo 1907.
225. D. Resini, Cronologia, p. 376; "Il Secolo Nuovo", 25 dicembre 1909; Giovanni Sbordone, La 'Repubblica' di Santa Margherita. Storia e storie di un grande campo popolare, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 2000-2001.
226. "Su, Compagne!", 1, 1911, nr. 1, supplemento a "Il Secolo Nuovo", 4 giugno 1911; vi scrivono militanti socialiste sia di levatura nazionale che locale, tra cui le maestre Rita Majerotti, Giuseppina Martinuzzi, Gina Giannini; v. Maria Pia Bigaran, Per una donna nuova. Tre giornali di propaganda socialista tra le donne, "Nuova DWF", 1982, nr. 21, pp. 69-72.
227. "La Difesa delle Lavoratrici", 5 maggio 1914; "Il Secolo Nuovo", 4 aprile 1914.
228. A. Bellavitis, Condizioni di lavoro e lotte delle operaie, p. 49.
229. Mario Balladelli, Anita Mezzalira (1886-1962). Una vita per la democrazia e per il socialismo, Venezia s.a.; Da una donna la forza delle donne. Anita Mezzalira (1886-1962). Convegno-Testimonianze, "Quaderni di Storia delle Donne Comuniste", 1984, nr. 4.
230. Natalie Zemon Davis, Le culture del popolo, Torino 1980, p. 182.
231. Michelle Perrot, La popolana ribelle, "Nuova DWF", 1981, nr. 15, p. 131 (pp. 115-136).
232. P. Manfrin, L'avvenire di Venezia, p. 68.
233. Francesco Piva, Contadini in fabbrica. Il caso Marghera: 1920-1945, Roma 1991.
234. V. il saggio di Bruna Bianchi in questi volumi.
235. Negli anni Venti del Novecento risultano i sindacati cattolici delle impiraresse (2.000 iscritte), merlettaie di Burano (1.800), lavoratrici dell'ago (2.000), tessili, tabacchine, S. Tramontin, Iniziative sociali dei cattolici, pp. 133-134.
236. Rimando al mio 'Sensa le done no ghe xè conquiste'. Intervista a tre sindacaliste comuniste degli anni Cinquanta e Sessanta, "Venetica", 11, 1994, pp. 101-129.