Abstract
Viene esaminata la nozione e la disciplina del lavoro a domicilio, regolato dalla l. 18.12.1973, n. 877. La voce oltre a prendere in considerazione le tradizionali attività di lavoro manifatturiero analizza anche quelle cd. mente-fatturiere, mettendo in luce che il vero limite di applicazione della l. n. 877/1973 consiste nella natura creativa dell’attività di lavoro. Viene dedicato anche un paragrafo alla distinzione a fini previdenziali tra lavoro a domicilio e lavoratore artigiano senza dipendenti.
Nell’anno 2000, la Corte costituzionale ha avuto modo di chiarire che il principio costituzionale secondo cui «la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, co. 1, Cost.) rende doverosa «una tutela del lavoro non già generica ed indistinta, ma articolata e coerente con la specificità delle varie forme (o applicazioni) del lavoro»; ciò fermo restando che «i modi e le forme dell’attuazione della tutela costituzionale sono (...) rimessi alla discrezionalità del legislatore, cosicché le leggi attraverso le quali di volta in volta si realizza la tutela del lavoro, nelle sue diverse manifestazioni, pur essendo costituzionalmente necessarie, non sono a contenuto vincolato» (C. cost., 7.2.2000, n. 49). Da questa premessa si ricava la conseguenza che, se la tutela del lavoro a domicilio – che è prescritta anche dalla Convenzione OIL sul lavoro a domicilio n. 177 del 20.6.1996, nonché alla Raccomandazione n. 184 adottata lo stesso giorno (peraltro ancora in attesa di ratifica) – fosse prevista solo sulla base dell’art. 2128 c.c. il quale contempla un giudizio di compatibilità, il quadro legislativo non rispetterebbe la volontà della Costituzione. L’opportunità di una legislazione speciale è, infine, dimostrata dal fatto che l’art. 2128 c.c. non ha mai giocato un ruolo rilevante neppure nel periodo storico in cui esso rappresentava l‘unica norma di regolazione del lavoro a domicilio; periodo che andò dall’approvazione del codice civile fino alla l. 13.3.1958, n. 264.
Secondo una parte della dottrina l’adozione della l. n. 877/1973 ha reso irrilevante la questione della sopravvivenza dell’art. 2128 c.c., dal momento che le norme sul lavoro subordinato sarebbero comunque applicabili alla fattispecie speciale, in quanto compatibili, in virtù dei principi generali (Offeddu, M., Il lavoro a domicilio, in Tratt. Rescigno, vol. XV, t. 1o, Torino, 1986, 688-689), mentre, per altri Autori, soltanto con la l. n. 877/1973 la norma del codice è stata riempita di contenuti reali, divenendo tecnicamente applicabile (Mariucci, L., Il lavoro decentrato, Milano, 1979, 136; Nogler, L., Lavoro a domicilio, Milano, 2000, 220, che tuttavia individua tre elementi costitutivi della fattispecie prevista dal codice civile: l’obbligazione di facere, la piena disponibilità del luogo di lavoro da parte del lavoratore, la natura imprenditoriale del committente; sugli artt. del c.c. applicabili al lavoro a domicilio v. Bonaretti, L., Il lavoro a domicilio illustrato dalla giurisprudenza e dai contratti collettivi, Milano, 1993, 31 e ss.). Una parte della dottrina ritiene che la fattispecie lavoro a domicilio individuata dalla l. n. 877/1973 avrebbe reso affatto marginale l’ipotesi del lavoro a domicilio autonomo (Mariucci, L., Il lavoro decentrato, cit. 59; Offeddu, M., Il lavoro a domicilio, cit., 681; se il caso concreto è di difficile qualificazione il giudice deve ritenere sussistente lo speciale rapporto di lavoro a domicilio subordinato: Cass., 3.4.1992, n. 4118, in Giur. it. Rep., 92, v. Lavoro (Rapporto), n. 482).
Il 1° co. dell’art. 1 della l. n. 877/1973 – così come modificato dall’art. 2 della l. 18.12.1980, n. 858 – formula la seguente definizione di lavoratore a domicilio: «è lavoratore a domicilio chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in locale di cui abbia disponibilità, anche con l’aiuto accessorio di membri della famiglia conviventi e a carico, ma con esclusione di manodopera salariata e di apprendisti, lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie prime o accessorie e attrezzature proprie o dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi». Il 2° co. della disposizione fornisce, quindi, la fondamentale definizione del «vincolo di subordinazione» affermando che «la subordinazione, agli effetti della presente legge e in deroga a quanto stabilito dall’art. 2094 del c.c., ricorre quando il lavoratore a domicilio è tenuto ad osservare le direttive dell’imprenditore circa le modalità di esecuzione, le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere nella esecuzione parziale, nel completamento o nell’intera lavorazione di prodotti oggetto dell’attività dell’imprenditore committente». La dottrina concorda sul fatto che l’ulteriore rapporto di lavoro del socio-lavoratore possa essere – anche perché esso risulta configurabile in «qualsiasi altra forma» – un rapporto di lavoro a domicilio regolato dalla l. n. 877 del 1973 (cfr. per indicazioni Nogler, L., Il principio del doppio rapporto e le tipologie lavorative, in Nogler L.-Tremolada, M.-Zoli, C., a cura di, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Nuove leggi civ., 2002, 365).
In prima approssimazione si può affermare che la fattispecie di cui alla l. n. 877/1973 riguarda quelle forme particolari di lavoro a domicilio manifatturiero che sono caratterizzate dall’aiuto solo accessorio di membri della famiglia (conviventi e a carico), dall’esclusione di manodopera salariata e di apprendisti, dal fatto che il committente sia un imprenditore nonché dal fatto che l’attività consista nella lavorazione di un bene materiale o di una parte dello stesso (Nogler, L., Lavoro a domicilio, cit., 168 ss. il quale precisa che restano esclusi dall’ambito applicativo della l. n. 877/1973 i casi in cui il lavoratore contribuisce ad ideare il prodotto oppure opera in modo creativo o originale; si pensi ai casi dell’attività di amministrazione a domicilio dell’azienda oppure il caso dell’architetto, o dell’avvocato che svolge attività di consulenza giuridica online). Più in specifico, la giurisprudenza afferma costantemente che la l. n. 877/1973 presuppone che il lavoro a domicilio realizzi una forma di decentramento produttivo (Cass., 21.10.2010, n. 21625), caratterizzata dal fatto che l’oggetto della prestazione del lavoratore viene in rilievo non come risultato, ma come energie lavorative, utilizzate in funzione complementare e sostitutiva del lavoro eseguito all'interno dell’azienda. Il vincolo della subordinazione sarebbe pertanto qualificato, non tanto dall’elemento della collaborazione, inteso come svolgimento di attività per il conseguimento dei fini dell’impresa, quanto da quello tipico, dell’inserimento dell’attività lavorativa nel ciclo produttivo dell’azienda, del quale il lavoratore a domicilio diviene elemento, sia pure esterno (Cass., 12.3.2007, n. 5693; Cass., 14.3.2007, n. 5913; sulle difficoltà applicative di questo criterio cfr. però Santini, F., La subordinazione nel lavoro a domicilio: una questione ancora aperta, in Riv. it. dir. lav., 2004, II, 43-44). Per la realizzazione di tale condizione è sufficiente che il lavoratore a domicilio esegua lavorazioni analoghe a quelle che si effettuano all’interno dell’azienda (Cass., 24.4.2013, n. 10007), sotto le direttive dell'imprenditore (Cass., 13.1.2001, n. 438). Tuttavia, le direttive riguardanti le modalità di esecuzione delle lavorazioni non debbano essere necessariamente specifiche e reiterate, essendo sufficiente che esse siano inizialmente impartite una volta per tutte (oltre a Cass., 13.11.2014, n. 24223; Cass., 19.10.2007, n. 21954; Cass., 24.2.2005, n., 3835, relativa all’attività di assemblaggio di componenti elettrici; Cass., 13.1.2001, n. 438 cfr., tra le molte, Cass., 23.9.1998, n. 9516; Cass., 4.2.1991, n. 1361, Cass., 20.2.1987, n. 7745). Le direttive possono pure essere impartite con la semplice consegna di un modello. L’importante è che al lavoratore siano comunicati i requisiti del lavoro da svolgere. Anche i controlli possono limitarsi alla verifica della buona riuscita della lavorazione (Cass., 22.4.2002, n. 5804). Si configura, invece, la fattispecie del lavoro autonomo, quando sia riscontrabile nel soggetto, al quale l’imprenditore affida l’esecuzione di una determinata opera, una distinta organizzazione, a proprio rischio, dei mezzi produttivi ed una struttura di tipo imprenditoriale (Cass., 4.10.2006, n. 21341; Cass., 18.6.1999, n. 6150; Cass., 23.9.1998, n. 9516; Cass., 3.4.1992, n. 4118). Si concorda poi sul fatto che la sussistenza della fattispecie legale di lavoro a domicilio, è perfettamente compatibile con la piena libertà del lavoratore circa il tempo ed il ritmo di lavoro e le modalità organizzative, e finanche tecniche (Nogler, L., Lavoro a domicilio, cit., 142), di svolgimento della prestazione di lavoro, nonché l’assenza di controlli durante lo svolgimento della prestazione stessa (cosiddetta autonomia personale: cfr. De Cristofaro, M., Il lavoro a domicilio, Padova, 1978, 272 che predilige parlare di «sfera di autodeterminazione del lavoratore a domicilio»).
Al contrario, la configurabilità della subordinazione, sia pure attenuata, che caratterizza il lavoro a domicilio deve escludersi allorquando il lavoratore goda di piena libertà di accettare o rifiutare il lavoro commessogli (principio ormai consolidato cfr. Cass., 16.10.2006, n. 22129) ovvero abbia piena discrezionalità in ordine ai tempi di consegna del lavoro stesso. Tali modalità della prestazione escludono, infatti, un effettivo inserimento del lavoratore a domicilio nel ciclo produttivo aziendale che comporta una piena e sicura disponibilità del prestatore di lavoro ad eseguire i compiti affidatigli e a soddisfare le esigenze e le finalità programmate dall’impresa (Cass., 11.5.2002, n. 6803).
Non valgono, di per sé, ad escludere l’individuazione della fattispecie del lavoro a domicilio l’iscrizione del prestatore di lavoro nell’albo delle imprese artigiane (in quanto ad una iscrizione formale, priva di valore costitutivo, può non corrispondere l’effettiva esplicazione di attività lavorativa autonoma) ovvero l’emissione di fatture per il pagamento delle prestazioni lavorative eseguite (potendo tale formalità essere finalizzata proprio all’elusione della normativa legale citata in precedenza), oppure la circostanza che il lavoratore svolga la sua attività per una pluralità di committenti (Cass., 13.11.2014, n. 24223; Cass., 15.11.2004, n. 21594; la Suprema Corte ha confermato la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto sussistente – con motivazione immune da vizi logici e giuridici – il rapporto di lavoro subordinato di due lavoratrici a domicilio “carteggiatrici” di mobili sulla base della loro sottoposizione alle direttive date dalla società, dell’inserimento di esse nel ciclo produttivo della società stessa, del non alto contenuto professionale delle loro prestazioni, della emissione sistematica e periodica di fatture da parte delle lavoratrici a scadenza mensile e sempre alla fine del mese; v. anche Cass., 11.11.2004, n. 21449). Secondo una parte della giurisprudenza, di contro alla tesi della coesistenza, tutte le volte in cui ricorrano i presupposti del lavoro subordinato a domicilio, occorre disporre la cancellazione dell’iscrizione del lavoratore dall’albo delle imprese artigiane (Cass., 22.5.2002 n. 7524).
Si segnala, inoltre, che la giurisprudenza riteneva, tradizionalmente, che le circostanze emerse in sede istruttoria dovessero essere valutate secondo il canone interpretativo di ritenere, nel dubbio, sussistente lo speciale rapporto di lavoro a domicilio (Cass., 18.6.1999, n. 6150; Cass., 3.4.1992, n. 4118). Si è, tuttavia, conclusivamente affermato l’orientamento secondo il quale nei casi in cui l’accertamento e la valutazione delle modalità in argomento lascino spazi di incertezza e ambiguità, è utile avere riguardo anche alla volontà delle parti, espressa nella regolamentazione del loro rapporto, nonché ad altri elementi da sempre ritenuti capaci di caratterizzare il rapporto in termini di subordinazione o autonomia, quale il possesso da parte del lavoratore a domicilio di macchinari e attrezzature idonei ad attestare l'esistenza di una piccola impresa e/o la sua natura artigianale (Cass., 11.5.2002, n. 6803; sulla volontà delle parti insiste anche Cass., 16.10.2006, n. 22129). Tuttavia, di tanto in tanto si registrano anche sentenze che sono nel senso che in difetto di sufficienti indici rivelatori della sussistenza di un vincolo di subordinazione, il cui onere probatorio incombe a chi lo deduce, deve essere esclusa l’applicabilità al lavoro a domicilio della disciplina del lavoro subordinato (Cass., 6.3.2006, n. 4761). Si segnala, infine, l’art. 59 della l. 27.12.1997, n. 449 il quale afferma che «gli scultori, i pantografisti, i tornitori a mano, i pittori, i decoratori e i rifinitori aventi sede nelle zone di montagna che esercitano la loro attività artistico-tradizionale in forma di ditta individuale sono considerati lavoratori autonomi ai fini della legge 18 dicembre 1973 n. 877 e successive modificazioni e integrazioni e, conseguentemente sono sottoposti, alla aliquota contributiva prevista dal presente comma per la relativa gestione pensionistica» (v. Trib. Bolzano, 10.6.2002, n. 227 inedita sul carattere non retroattivo della disposizione).
La l. n. 877/1973 regola alcuni profili di diritto privato attinenti ai diritti ed agli obblighi delle parti del rapporto di lavoro a domicilio, nonché un sistema, ormai largamente inattuale, di controllo pubblico del fenomeno. Sul primo piano, assume una rilevanza prioritaria il fatto che la retribuzione dei lavoratori a domicilio debba essere calcolata con il metodo del cottimo pieno (art. 8, l. n. 877/1973), e cioè determinata esclusivamente in base alla quantità di lavoro prestato. Come risulta dall’analisi dei contratti collettivi nazionali di categoria, i parametri di riferimento per la determinazione della tariffa oraria e delle varie indennità aggiuntive sono costituiti: dal trattamento economico salariale (quantificato su base oraria) degli operai interni all'azienda; dalla misurazione tecnica del tempo normalmente necessario ad un lavoratore di normale capacità per eseguire l’operazione o il gruppo di operazioni ad esso richieste. Tali parametri debbono essere utilizzati per la retribuzione del lavoratore che presta la propria opera nel proprio domicilio, riportando sul libretto di controllo in possesso di ciascun lavoratore i dati relativi alla data di consegna dei diversi materiali, la retribuzione per ciascuna unità prodotta ed il numero complessivo di pezzi finiti consegnati al datore di lavoro.
La l. n. 877/1973 contempla poi il divieto di «esecuzione di lavoro a domicilio per attività le quali comportino l’impiego di sostanze o materiali nocivi o pericolosi per la salute o l’incolumità del lavoratore e dei suoi familiari» (art. 2, 1° co.). Al fine della certezza del diritto, sarebbe tuttavia necessario introdurre un meccanismo di fissazione delle ipotesi in cui si sussistono «attività le quali comportino l’impiego di sostanze o materiali nocivi o pericolosi per la salute o l’incolumità del lavoratore e dei suoi familiari». Trattandosi di una valutazione relativa ad un diritto della persona (quale la salute del lavoratore) e di carattere tecnico non pare opportuno rinviare alla contrattazione collettiva (che tra l’altro non è per nulla rappresentativa dei lavoratore a domicilio). Sarebbe forse più adeguato un decreto ministeriale integrabile su impulso degli ispettorati del lavoro.
L’art. 2, co. 2, l. n. 877/1973 prevede ulteriormente che è «fatto divieto alle aziende interessate da programmi di ristrutturazione, riorganizzazione e di conversione (?) che abbiano comportato licenziamenti o sospensioni dal lavoro, di affidare lavoro a domicilio per la durata di un anno rispettivamente dall’ultimo provvedimento di licenziamento e dalla cessazione delle sospensioni». È l’esempio paradigmatico della ratio ispiratrice della l. n. 877/1973: tutela dell’insider (l’operaio interno) a scapito dell’outsider (il lavoratore a domicilio). L’inopportunità di questa contrapposizione è dimostrata dai contratti collettivi secondo cui, come ad esempio in quello sulla produzione degli ombrelli, si prevede che, «su specifica richiesta della delegazione della associazione italiana manifatture ombrelli, le organizzazioni sindacali dei lavoratori, vista la precarietà del lavoro a domicilio per il quale manca una completa forma di assistenza (Cig e festività, ferie ed anzianità erogate in base al lavoro prestato) ed in riferimento all’art. 14, parte operai, del Ccnl, ritengono di aderire a che gli industriali fabbricanti ombrelli, in presenza di riduzioni di orario o sospensioni, possano ugualmente dare lavoro a domicilio previo consenso delle RSA purché i lavoranti a domicilio siano in forza da almeno sei mesi».
Passando ora a considerare brevemente il sistema di controllo pubblico del lavoro a domicilio sono senz’altro obsoleti gli artt. 2 (co. 2 e 3), 3, 4, 5, 6 e 7 della l. n. 877/1973. D’altronde la commissione centrale per il lavoro a domicilio è stata soppressa nel 1998 (d.m. 30.6.1998 e art. 41, co. 1, l. n. 449/1997), mentre le funzioni delle restanti commissioni previste in tali norme sono state riassorbite dagli organi generali del mercato del lavoro contemplati d.lgs. 23.12.1997, n. 469. Il registro dei committenti e il relativo obbligo di iscrizione sono stati, infine, abrogati dall’art. 39, co. 9; ciò vale anche per il registro speciale di cui all’art. 3, co. 5, l. n. 877/1973.
Il sistema dei libri obbligatori risulta ora molto semplificato ed anche per i lavoratori a domicilio si fa ora riferimento al libretto unico del lavoro (l. 6.8.2008, n. 133).
La giurisprudenza ha risolto i due casi più rilevanti di vuoto di disciplina non richiamandosi né all’art. 2128 c.c. né alla l. n. 877/1973. Essa ha, infatti, semplicemente affermato che la disciplina limitativa dei licenziamenti si applica allorché sussista il requisito, desumibile per accordo delle parti o dallo svolgimento del rapporto, di una qualificata e ragionevole continuatività delle prestazioni lavorative (Cass., 17.3.1981 n. 1570; Cass., 2.2.1989, n. 628). Sicché è possibile rapporto di lavoro il quale, pur essendo qualificabile come di lavoro a domicilio (e quindi soggetto all’applicazione della l. n. 877/1973), non possiede però le più complesse caratteristiche richieste per l’applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti. In tal senso si afferma che la fattispecie del lavoro a domicilio prevista dalla l. n. 877/1973 è «compatibile con modalità di prestazione intrinsecamente precarie» (Cass., 21.10.2010 n. 21625)
La stessa impostazione è stata poi riproposta dalla giurisprudenza in relazione alla normativa sull’indennità di mobilità (Cass., S.U., 12.3.2001, n. 106; per un’analisi della giurisprudenza precedente v. Nogler, L., Indennità di mobilità e rapporto di lavoro a domicilio continuativo, in Mass. giur. lav., 2001, 741 ss.); infatti le Sezioni Unite hanno sostenuto la tesi che la spettanza dell’indennità di mobilità ai lavoratori a domicilio non può essere decisa «astrattamente». Nella sentenza si privilegia, invece, un metodo valutativo che sappia tener conto delle «peculiarità della situazione concreta» e modulare in ragione di queste particolarità la spettabilità o meno dell'indennità di mobilità. E su questo punto, la sentenza stessa giunge alla conclusione, che la possibile precarietà del rapporto di lavoro a domicilio definito dall’art. 1 l. n. 877/1973 «non esclude che lo stesso si attui, in concreto, con modalità tali da conferirgli una continuità qualificata e ragionevole e da renderlo pienamente assoggettabile anche alla disciplina limitativa del potere di recesso», così come, più in generale, alle norme protettive del lavoratore subordinato ex art. 2094 c.c., ovviamente reinterpretate in senso funzionale. Solo nell’ipotesi in cui sussista effettivamente siffatta continuità, si può poi ritenere che l’indennità di mobilità spetti al lavoratore a domicilio.
La rilevanza di questi orientamenti giurisprudenziali è, infine, confermata dal fatto che proprio l’orientamento che prospetta la possibilità di due forme di lavoro a domicilio (rispettivamente, precario e continuativo), la cui disciplina è comune per quanto riguarda la l. n. 877/1973 ma differenziata su altri aspetti non regolati dalla legge, è stata accolta dallo stesso legislatore al co. 3 dell’art. 4 della l. 12.3.1999, n. 68 che, nel determinare i criteri di computo delle quote di riserva per i lavoratori disabili, contempla espressamente l’ipotesi dei lavoratori a domicilio con prestazione continuativa (sul punto cfr. Nogler, L., Quote di riserva, soglie occupazionali e relativi criteri di computo, in Cinelli, M.-Sandulli, P., a cura di, Diritto al lavoro dei disabili, Torino, 2000, 253 ss.). Il criterio in parola è stato, infine, valorizzato dalla giurisprudenza di merito anche al fine di decidere se la prescrizione decorra o meno in costanza di rapporto (Trib. Bassano del Grappa, 22.10.2005, in Guida lav., 2006, 19, 38).
Si segnala per completezza che in un’occasione la Cassazione ha affermato, in modo più secco, che in tema di lavoro a domicilio, per applicare le norme sul lavoro subordinato non occorre accertare se sussistano i caratteri propri di questo, essendo invece necessario e sufficiente che ricorrano i requisiti indicati dall'art. 1 della legge (Cass., 4.5.2002, n. 6405).
Sul piano fiscale la risoluzione n. 52/E del 2.5.2005 dell’Agenzia delle entrate ritiene, con un lungo passo che merita di essere integralmente riprodotto, «che i lavoratori a domicilio (al verificarsi di tutti gli altri requisiti richiesti dalla norma) possano essere considerati nel novero dei lavoratori agevolabili ai sensi dell’art. 7 della l. n. 388 del 2000, in quanto gli stessi possono essere considerati dipendenti a tempo indeterminato. La natura di “contratto di lavoro a tempo indeterminato” del contratto di lavoro a domicilio si desume, oltre che dalla lettera dell’art. 1 della l. 18 dicembre 1973, n. 877 (recante «Nuove norme per la tutela del lavoro a domicilio), anche dalla copiosa giurisprudenza della Corte di Cassazione. La sentenza Cass. s. u. 12 marzo 2001 n. 106 afferma, ad esempio, che “anche i lavoratori a domicilio hanno diritto all’indennità di mobilità..., ove possano far valere... una dipendenza di almeno dodici mesi dalla medesima azienda (di cui almeno sei di lavoro effettivamente prestato, ivi compresi i periodi di sospensione per ferie, festività e infortuni), con un rapporto di lavoro a carattere continuativo o comunque non a termine». In tal senso si esprime anche la Cass. 23 marzo 2002 n. 4192. Il contratto di lavoro a domicilio costituisce un contratto di lavoro a tempo determinato esclusivamente nel caso in cui la durata limitata sia espressamente prevista dal contratto individuale, alle condizioni fissate dalla disciplina del contratto a termine. Una volta verificato il requisito richiesto dal comma 1 dell’art. 7 della l. n. 388 del 2000, si può affermare che, ai fini della quantificazione del credito spettante, ciascun lavoratore a domicilio assunto a tempo indeterminato, nella misura in cui rappresenti un incremento rilevante della base occupazionale, è potenzialmente in grado di generare il credito d'imposta nelle misure previste prima dall’art. 7 della l. n. 388 del 2000, e successivamente dall’art. 63 della l. 27 dicembre 2002, n. 289. Per quantificare il bonus effettivamente spettante per ciascun lavoratore a domicilio, è necessario, però, considerare i meccanismi di funzionamento di tale particolare tipologia di lavoro. (…) Considerata la stretta connessione tra valutazione del lavoro a domicilio ed il lavoro interno all'azienda, si ritiene che il credito d’imposta per incrementi occupazionali generato da lavoratori a domicilio debba essere attribuito, per ciascun mese di calcolo, sulla base del raffronto tra le ore di lavoro prestate nel corso del mese stesso dal lavoratore a domicilio e le ore di lavoro mensilmente previste dal contratto collettivo nazionale per i lavoratori interni all'azienda. In sostanza, è necessario che il lavoro retribuito sulla base delle commesse sia convertito da «ore impiegate per la realizzazione della commessa» in «ore mensilmente previste per i lavoratori interni»». La risoluzione propone, infine, una serie di esemplificazioni concrete.
La norma più importante, dal punto di vista della disciplina, di tutta la l. n. 877/1973 è senz’altro l’art. 9 secondo cui ai lavoratori a domicilio si applicano le norme vigenti per i lavoratori subordinati in materia di assicurazioni sociali e di assegni familiari, fatta eccezione di quelle in materia di integrazione salariale. Orbene, il contenzioso in materia di lavoro a domicilio origina, pressoché sempre, da ispezioni dell’Inps. Sul punto occorre tener presente che l’attuale legislazione previdenziale presuppone la possibilità di distinguere il lavoratore a domicilio dall’artigiano. Tuttavia, siccome anche il lavoratore a domicilio di cui all’art. 1 l. n. 877/1973 può essere munito di un proprio nucleo organizzativo dal momento che egli può possedere le materie prime o accessorie nonché le attrezzature di lavoro ed, inoltre, avvalersi di un aiuto accessorio di terzi e godere dell’autonomia personale che gli deriva dal fatto di svolgere l’attività lavorativa in un luogo che rientra nella sua disponibilità, è difficilissimo, se non impossibile, distinguere tra loro il lavoratore a domicilio e l’artigiano senza dipendenti (sul punto cfr. da ultimo Cass., 16.10.2006, n. 22129). Pertanto, quest’ultimo rischia costantemente di venir ri-qualificato dall’ente previdenziale come lavoratore a domicilio al fine di poter riscuotere una somma più alta (più o meno il doppio) a titolo di contribuzione previdenziale. I casi più noti di riqualificazione sono stati quelli della Benetton (Cass., 19.11.1996, n. 10104) e della Longart di Belluno (produzione di occhiali; Cass., 15.12.1999, n. 14120). Invero, proprio per risolvere questi casi, l’art. 1 l. 17.3.1993, n. 63 aveva, a suo tempo, previsto che «le commissioni provinciali per l’artigianato, nell’esercizio delle loro funzioni esclusive attinenti alla tenuta dell’albo delle imprese artigiane di cui alla l. 8 agosto 1985, n. 443 e degli elenchi nominativi degli assistibili di cui alla l. 29 dicembre 1956, n. 1533 (...) provvedano d’ufficio, ovvero su richiesta del soggetto iscritto o della pubblica amministrazione interessata, alla verifica della sussistenza dei requisiti di qualifica artigiana del titolare e dell’impresa con dipendenti, adottando provvedimento vincolante a tutti i fini previdenziali e assistenziali, impugnabile ai sensi delle procedure previste dall’art. 7 della citata l. n. 433 del 1985». Tuttavia, l’Inps non è andato oltre la constatazione secondo cui «per la qualificazione del rapporto, le sedi dovranno attenersi alla circostanza dell’avvenuta iscrizione all’albo provinciale delle imprese artigiane, sollevando eccezioni nei casi in cui, valutata la non rispondenza ai criteri sopraindicati, ci si trovi in presenza di evidenti ed oggettive condizioni che determinino inequivocabilmente un giudizio di riconducibilità della fattispecie allo schema del lavoro a domicilio» (circ. Inps, 26.3.1997, n. 79). Nei fatti l’ente previdenziale ha perseverato nella pratica di emettere direttamente decreti ingiuntivi ed in sede di giudizio di opposizione, dove riveste comunque (malgrado la posizione di ingiungente-opposto) la veste di attore, ad invocare la disapplicazione dell’atto d’iscrizione all’albo delle imprese artigiane, trovando notevole seguito nella giurisprudenza di merito che non ha quasi mai tenuto conto della novità introdotta dalla l. n. 63/1993. Di qui la richiesta generalizzata di nuovo intervento normativo che stenta ad essere approvato dal Parlamento. Ma a tal proposito, è stato rilevato che l’orientamento della Cassazione il quale ritiene possibile la coesistenza della doppia qualificazione come artigiano e come lavoratore a domicilio fa sì, in realtà, che l’Inps non debba neppure, preliminarmente, contestare la natura artigiana delle imprese di cui questi ultimi sono titolari (Nogler, L., Lavoro a domicilio e artigiano senza dipendenti, in Giur. comm., 2000, 547 ss.).
Inopportuna è la scelta legislativa di qualificare come autonome le attività svolte in determinate contesti (ad esempio, gli scultori, tornitori a mano, pittori etc. contemplati all’art. 59, co. 15, l. 27.12.1997 n. 449). Ciò non può, in ragione di un noto orientamento della giurisprudenza costituzionale (C. cost., 29.3.1993, n. 121; C. cost., 31.3.1994, n. 15) al giudice di qualificare il rapporto come subordinato (così in relazione alla l. n. 449/1997; Cass., 16.10.2006, n. 22129, ed in precedenza App. Trento, sez. dist. Bolzano, 12.1.2004, n. 71, in Inf. prev., 2004, 154).
Invero, occorrerebbe prendere atto dell’inopportunità di un sistema previdenziale basato sulla netta distinzione tra il lavoratore a domicilio e l’artigiano (senza dipendenti) trattandosi di fattispecie che rischiano frequentemente di sovrapporsi.
Un’ultima questione previdenziale riguarda i periodi di inattività che eventualmente intercorrano tra successive commissioni di lavoro a domicilio i quali, attualmente, non sono da considerare periodi di disoccupazione indennizzabile. Si ha notizia del fatto che a volte l’indennità di disoccupazione viene, comunque, erogata allorché la sosta abbia oltrepassato gli otto giorni. La giurisprudenza ha, tuttavia, avuto buon gioco a sostenere che «ciò non serve a configurare praeter legem (o contra?), un diritto soggettivo del lavoratore a domicilio a tale copertura per i periodi di intervallo nelle commesse» (Pret. Pistoia, 25.9.1995, in Foro it., 1996, I, 1100). La questione dovrebbe, quindi, essere risolta in via legislativa.
Fin dalla primissima esegesi del testo della l. n. 877/1973 apparve naturale ritenere che la formula della «lavorazione di prodotti», fosse stata utilizzata dal legislatore del 1973 tenendo a mente il prototipo sociale dell’operaia decentrata. Si ritenne, pertanto, che tale requisito si sostanziasse nel carattere prettamente manifatturiero dell’attività svolta a domicilio che – così si espressero i primi autorevoli interpreti della legge – avrebbe dovuto necessariamente riguardare la produzione di un «bene materiale o di una sua parte» (De Cristofaro, M., Il lavoro a domicilio, cit., 128). Tale assunto comportava coerentemente che le prestazioni impiegatizie, e più in generale la produzione di servizi, dovessero essere escluse dall’ambito di applicazione della l. n. 877/1973 che riguarderebbe unicamente la produzione di beni materiali ovvero il lavoro a domicilio industriale in senso stretto. A definitiva prova dell’assunto si richiamava l’obbligatorietà del cottimo incompatibile con le caratteristiche di tali prestazioni (così ancora De Cristofaro, M., Il lavoro a domicilio, cit., 130-131).
Sennonché, già la storia giurisprudenziale relativa alla precedente l. n. 264/1958, avrebbe dovuto suggerire una maggior cautela interpretativa. Invero, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, si presentò il caso dei cosiddetti farmacisti cd. “tariffatori” a domicilio che svolgevano, a favore dell’associazione chimica farmaceutica lombarda titolari di farmacia, l’attività di controllo dell’esattezza e della compiutezza degli adempimenti posti a carico delle farmacie, ed in particolare la prescrivibilità dei prodotti, evidenziando le ricette non ammissibili al pagamento, per snellire i tempi e le procedure per la liquidazione dei rimborsi da parte degli enti mutualistici. La sezione milanese di detta associazione attribuiva la commessa ad un’ottantina di farmacisti, in massima parte donne, tale “tariffazione” a domicilio delle ricette, fornendo loro il materiale necessario e corrispondendogli un compenso forfetario commisurato al valore ed al numero delle ricette o dei singoli prodotti farmaceutici nelle stesse prescritti. Le lavoranti a domicilio si impegnavano a loro volta a tariffare, entro termini prestabiliti di consegna, un numero minimo medio di ricette mensili benché fosse loro rimessa «la determinazione in concreto delle ore della giornata in cui svolgere la propria attività di lavoro». In relazione a questo caso, la giurisprudenza ritenne che la disciplina del lavoro a domicilio non contemplasse «alcuna esplicita preclusione nei confronti del settore impiegatizio, per cui non sembra dubbio che nella relativa regolamentazione sia compreso anche il settore predetto» (Pret. Milano, 19.5.1970, in Foro it., 1970, II, c. 372). In precedenza v. nel medesimo senso Trib. Milano, 17.4.1969, in Foro it., 1969, I, c. 3296 con analoghe argomentazioni rispetto ad un caso in cui era emerso che il tariffatore si faceva aiutare dai propri familiari. Sempre nello stesso senso v. Pret. Palermo, 13.7.1967, in Giur. it., 1968, II, c. 86 poiché i lavoranti a domicilio esplicano in via continuativa un lavoro che rientrava nell’attività normale dell’ufficio fiduciario. Risale, invece, agli inizi degli anni Sessanta l’ulteriore caso del lavoratore che curava nel proprio domicilio la contabilità dell’azienda ricevendo ogni due o tre giorni elementi da contabilizzare. Il caso si presentò quando era ancora vigente la l. n. 264/1958 (App. Milano, 19.9.1961, in Orient. giur. lav., 1962, 63 (m) in cui il lavoratore a domicilio registrava le fatture sui fogli e sui cartellini intestati alle varie clienti e controllava i pagamenti delle fatture medesime; App. Caltanisetta, 28.3.1962, in Orient. giur. lav., 964, 192; App. Firenze, 20.6.1962, in Toscana lav. giur., 1963, 504; Cass., 3.3.1965, n. 351).
Casi analoghi emergono anche nella giurisprudenza successiva alla l. n. 877/1973. Si pensi, anzitutto, all’attività del correttore di bozze. Questo caso è stato affrontato da tre sentenze di merito, tutte nel senso della sussistenza della fattispecie del lavoro a domicilio (Pret. Cassino, 7.3.1981, in Riv. giur. lav., 1983, II, 432; Pret. Firenze, 9.6.1989, n. 637, in Toscana lav. giur, 1989, 384; Pret. Bolzano, 17.7.1975, in Riv. giur. lav., 1975, II, 1108). Vanno quindi rammentati anche i casi del traduttore (Cass., 22.5.1976, n. 1850) e del lavoratore che redige a domicilio i moduli dm/10 Inps (Pret. Pisa, 9.4.1993, in Inf. Prev., 1993, 820). In tutti questi casi, l’attività lavorativa ha ad oggetto, non un’opera manifatturiera bensì, un servizio o, per dirla con un neologismo dottrinale (Nogler, L., Lavoro a domicilio, cit., cap. I°) accolto dalla giurisprudenza (Cass., 7.6.2003, n. 9168) un’attività mentefatturiera. Pertanto, si può affermare che nella giurisprudenza si sta affermando un’interpretazione evolutiva del testo legislativo per cui la «norma ha maturato un esito sociale ulteriore ancorché non inintenzionale» (Betti, E., Diritto Metodo Ermeneutica, Milano, 1991, 572). Il confine tra attività incluse o escluse dall’ambito regolativo della l. n. 877/1973 va ormai ricercato nella «creazione o ideazione del servizio e prodotto» (App. Trento, 30.1.2004, n. 73 inedita relativa al caso dei cd. pantografisti dei quali si nega la natura artistico-tradizionale; cfr. anche Santini, F., La subordinazione nel lavoro a domicilio: una questione ancora aperta, cit., 44-45). Questa tendenza evolutiva stenta ad affermarsi a livello amministrativo. Ad esempio, la sede INPS regionale del Trentino-Alto Adige con nt. di data 17.1.2005 del direttore regionale ha criticabilmente negato l’applicazione della legge sul lavoro a domicilio all’attività di assistenza dell’infanzia (Tagesmutter). Di contro, l’ufficio provinciale del lavoro di Bolzano ha condivisibilmente fornito una risposta positiva (v. nt. del 12.4.2005).
Lo stesso orientamento affermatosi in giurisprudenza è stato sostenuto a più riprese in dottrina (Gaeta, L., Lavoro a distanza e subordinazione, Napoli, 1993, 81), nonché sempre nel senso dell’inclusione nella fattispecie legale del lavoro a domicilio anche delle prestazioni che si concretano in un servizio puro (Manaccio G., La subordinazione nel lavoro a domicilio, in Dir. e prat. lav., 1988, 389 e Zaccarelli, L., La subordinazione del lavoro a domicilio, in Dir. prat. lav., 1996, 747).
Si discute, infine, sulla riconducibilità o meno alla fattispecie legale di cui alla l. n. 877/1973, del telelavoro a domicilio (cfr. Gaeta, L.-Pascucci, P., a cura di, Telelavoro e diritto, Torino, 1998; Nogler, L., Lavoro a domicilio, cit., 511ss.) ad esso accomunato dal fatto di svolgersi in un luogo che è nella disponibilità del lavoratore ma che è relativo, non alla produzione di un bene materiale, bensì alla rielaborazione in via informatica del bene immateriale dell’informazione. Malgrado il diverso avviso della direzione provinciale del lavoro di Milano, condiviso dalla direzione regionale e dalla direzione provinciale del lavoro di Cremona (v. Guida prat. lav. 1999, n. 4, 17) e dell’orientamento prevalente della dottrina (De Cristofaro, M.,Contratti speciali di lavoro, cit., 320; Pizzi, P., Brevi considerazioni sulla qualificazione giuridica del telelavoro, in Riv. giur. lav., 1997, 227; Sani, J., Il telelavoro, in Riv. crit. dir. lav., 33) una parte minoritaria degli interpreti esclude la riconducibilità del telelavoro domiciliare alla fattispecie dell’art. 1 della l. n. 877/1973 poiché quest’ultima fu pensata per la produzione di beni materiali quantificabili e fungibili mentre il telelavoro si riferisce alla produzione di beni immateriali e infungibili (Flammia, R., Telelavoro, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1993, 4; Nogler, L., Lavoro a domicilio, cit., 531 che svaluta comunque la questione considerata l’inapplicabilità di gran parte della disciplina della l. n. 877/1973). Si segnala, infine, che il telelavoro a domicilio svolto a favore della pubblica amministrazione è oggetto di una specifica disciplina (d.P.R. 8.3.1999, n. 70, cfr. Nogler, L., Lavoro a domicilio, cit., 581 ss.).
Art. 2128 c.c.; l. 18.12.1973, n. 877.
Amirante, F., Lavoro a domicilio, in Lavoro decentrato, interessi dei lavoratori, organizzazione delle imprese, Bari, 1996, 208 ss.; Balandi, G., La vecchia e la nuova legge sul lavoro a domicilio, in Riv. giur. lav., 1975, I, 581 ss.; Bologna, S.-Fumagalli, A., Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del post-fordismo in Italia, Bologna, 1997; De Cristoforo, M., Il lavoro a domicilio, Padova, 1978; De Cristoforo, M., Contratti speciali di lavoro, in Suppiej, G.-De Cristoforo M.-Cester, C., Diritto del lavoro. Il rapporto individuale, Padova, 1998, 313 ss.; Dell’Olio, M., voce Lavoro a domicilio, in N.D.I., vol. IV, Torino, 1983, 710 ss.; Flammia, R., voce Telelavoro, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1993, 4 ss.; Gaeta, L., Lavoro a distanza e subordinazione, Napoli, 1993; Gaeta, L.-Pascucci, P., a cura di, Telelavoro e diritto, Torino, 1998; Gottardi, D., voce Lavoro a domicilio, Dig. comm., vol. VIII, Torino, 1992, 182; Manaccio G., La subordinazione nel lavoro a domicilio, in Dir. e prat. lav., 1988/7, 389; Mariucci, L., Il lavoro decentrato. Discipline legislative e contrattuali, Milano, 1979; Nogler, L., Lavoro a domicilio, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 2000; Nogler, L., Lavoro a domicilio e artigiano senza dipendenti, in Giur. comm., 2000, 524 ss.; Nogler, L. Quote di riserva, soglie occupazionali e relativi criteri di computo, in Cinelli, M.- Sandulli, P., Diritto al lavoro dei disabili, Torino, 2000, 231 ss.; Nogler, L., Indennità di mobilità e rapporto di lavoro a domicilio continuativo, in Mass. giur. lav., 2001, 743 ss.; Nogler, L., Il principio del doppio rapporto e le tipologie lavorative, in Nogler, L.-Tremolada, M.-Zoli, C., a cura di, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Nuove leggi civ., 2002, 365 ss.; Offeddu, M., Il lavoro a domicilio, in Tratt. Rescigno, 15, Impresa e lavoro, I, Torino, 1986, 676 ss.; Pizzi, P., Brevi considerazioni sulla qualificazione giuridica del telelavoro, in Riv. giur. lav., 1997, I, 227; Sani, J., Il telelavoro, in Riv. crit. dir. lav., 1997, 37; Santini, F., La subordinazione nel lavoro a domicilio: una questione ancora aperta, in Riv. it. dir. lav., 2004, II, 41 ss.; Zaccarelli, L., La subordinazione del lavoro a domicilio, in Dir. prat. lav., 1996/12, 747.