Lavoro a tempo determinato e dintorni
Le tipologie contrattuali cosiddette non-standard, tanto nell’area del lavoro subordinato quanto in quella del lavoro autonomo, sono nuovamente al centro delle misure legislative adottate nel corso del 2013 con l’intento prioritario di fronteggiare la crisi occupazionale. Il contributo, nel commentare i contenuti del d.l. 28.6.2013, n. 76, analizza criticamente sopratutto le importanti novità in materia di contratto di lavoro a tempo determinato, le quali si muovono in una logica di ulteriore ampliamento dei già considerevoli margini di flessibilità nell’utilizzo di tale tipologia contrattuale.
1. La ricognizione. Le novità normative sul lavoro flessibile
La “flessibilità al margine”, realizzata mediante l’utilizzo di tipologie contrattuali diverse dalla forma “comune” o “dominante” del contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato (secondo la formula consacrata dall’art. 1, co. 1, lett. a, l. 28.6.2012, n. 92), è nuovamente al centro delle misure legislative adottate con il d.l. 28.6.2013, n. 761, con l’obiettivo prioritario di fronteggiare una delle più drammatiche crisi occupazionali della storia economica dell’Italia repubblicana. Gli interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, e della coesione sociale, realizzati con il d.l. n. 76/2013, seguono – al pari di altre misure minori, adottate sempre sotto la pressione della crisi economica – una logica relativamente lineare, al di là della apparente disorganicità e disomogeneità dei loro contenuti2. La dimensione promozionale e anticongiunturale è infatti essenzialmente affidata a due tipi di misure: da un lato, agli strumenti volti a promuovere l’occupazione, in specie giovanile (prioritariamente nella forma “stabile” o “comune” del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato), mediante incentivi straordinari di natura economica, in particolare sub specie di (temporanea) decontribuzione previdenziale; dall’altro, agli interventi diretti a rimodulare gli incentivi di tipo propriamente normativo all’utilizzo delle principali tipologie contrattuali flessibili, tanto nell’area della subordinazione quanto in quella dell’autonomia.
Questa seconda linea di intervento, che più interessa in questa sede, si sostanzia, al pari di quanto già avvenuto con la l. n. 92/2012, in un insieme piuttosto eterogeneo di misure di diverso segno, talvolta restrittivo ma più spesso espansivo dei margini di flessibilità nell’utilizzo delle tipologie contrattuali non-standard che sono oggetto di (ulteriore) revisione. Al di là del lodevole intento di promuovere l’occupazione, specie giovanile, correggendo a tal fine le misure della l. n. 92/2012 rivelatesi meno efficaci (o senz’altro controproducenti), si stenta così a cogliere, almeno sotto tale profilo, un disegno di riforma realmente coerente, e si ha piuttosto l’impressione di un intervento legislativo ancora una volta caratterizzato da una accentuata contingenza e sperimentalità.
La tipologia contrattuale maggiormente incisa è, nuovamente, quella del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato (e, di riflesso, come già avvenuto con la l. n. 92/2012, della somministrazione a termine). L’intervento del d.l. n. 76/2013 è, al riguardo, univocamente nel segno dell’ampliamento dei già considerevoli margini di utilizzo di tale tipologia contrattuale, il cui impiego, in particolare come prima forma di accesso al mercato del lavoro, viene sostanzialmente liberalizzato.
Benché meno incisive (oltre che di più incerto impatto), appaiono chiaramente orientate a favorire la diffusione di una tipologia contrattuale che ha l’ambizione (ad oggi peraltro largamente frustrata) di diventare la «modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro» (art. 1, co. 1, lett. b, l. n. 92/2012) anche le nuove misure in materia di apprendistato professionalizzante. Di segno essenzialmente opposto è, viceversa, anche nel d.l. n. 76/2013, l’intervento volto a porre ulteriori limiti all’utilizzo, che sembra essersi significativamente diffuso durante la crisi, del lavoro intermittente.
In altri casi, l’intervento del legislatore è più contenuto e più sfumati appaiono, ad ogni modo, gli obiettivi di politica del diritto perseguiti dal legislatore. È quanto può osservarsi – come vedremo più avanti – a proposito del contratto di lavoro a progetto, della associazione in partecipazione con apporto di lavoro e del lavoro accessorio.
L’art. 7, co. 1, lett. a), d.l. n. 76/2013 riformula anzitutto il co. 1-bis dell’art. 1, d.lgs. 6.9.2001, n. 368, quale introdotto dall’art. 1, co. 9, lett. b), l. n. 92/2012. La previsione della «acausalità» del primo rapporto a tempo determinato (ovvero della prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a termine), purché di durata non superiore a dodici mesi, viene mantenuta nella stessa formulazione introdotta dalla l. n. 92/20123. L’ipotesi del primo contratto a termine acausale viene peraltro rafforzata dalla successiva previsione di cui alla lett. b). co. 1, dell’art. 7, d.l. n. 76/2013, che, nell’abrogare il co. 2-bis dell’art. 4, d.lgs. n. 368/2001 (inserito dall’art. 1, co. 9, lett. d, l. n. 92/2012), consente ora espressamente la proroga del termine inizialmente pattuito anche per tale fattispecie contrattuale. La legge di conversione n. 99/2013, fugando i dubbi al riguardo suscitati dal d.l. n. 76, ha opportunamente precisato che la durata massima di dodici mesi, prevista per tale ipotesi, deve intendersi come comprensiva dell’eventuale proroga. Quest’ultima, di converso, deve ritenersi consentita, in assenza di una specifica disciplina, alle stesse condizioni previste in via generale dall’art. 4, d.lgs. n. 368/2001, vale a dire per una sola volta e a condizione che si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il rapporto è stato instaurato a tempo determinato; mentre è più incerto se (ed eventualmente come) debba essere applicato il requisito delle «ragioni oggettive»4, essendosi qui in presenza di un contratto «acasuale», nel quale le parti sono per definizione esonerate, all’atto della stipula, dalla indicazione di qualsivoglia elemento giustificativo di natura obiettiva della prestazione temporanea5.
La più significativa innovazione in materia di contratto di lavoro a tempo determinato instaurabile senza indicazione di ragioni giustificative oggettive concerne, peraltro, l’ipotesi ora regolata dalla lett. b) del co. 1-bis del d.lgs. n. 368/2001. Nella originaria previsione dell’art. 1, co. 9, lett. b), l. n. 92/2012, tale ipotesi era espressamente configurata come alternativa a quella della acausalità di natura temporale, affidandosi ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative il compito di individuarne i presupposti di operatività in luogo della ipotesi principale, appena ricordata. Oltre che configurata come alternativa, tale ipotesi era assoggettata, nella iniziale previsione della l. n. 92/2012, a rilevanti limiti, che ne ridimensionavano la natura propriamente «acausale». La seconda parte del co. 1-bis dell’art. 1, d.lgs. n. 368/2001 prevedeva, infatti, che i contratti collettivi nazionali di lavoro (o, su delega di questi, quelli ai livelli decentrati) potessero derogare al requisito delle ragioni oggettive «generali», di cui al co. 1, solamente nell’ambito di un processo organizzativo determinato dalle «ragioni» già contemplate dall’art. 5, co. 3, dello stesso decreto e, comunque, nel limite complessivo del 6 per cento del totale dei lavoratori occupati nell’unità produttiva.
La farraginosità di questa previsione, gravata da limiti penetranti del tutto assenti nell’ipotesi principale di acausalità temporale, ha di fatto comportato la inoperatività di tale alternativa. Ciò che ha indotto la riforma del 2013 a riconfigurarne integralmente i presupposti di operatività. Ora, in virtù della nuova lett. b) del co. 1-bis dell’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, il requisito di cui al co. 1 non è richiesto, oltre che nei casi contemplati dalla precedente lett. a), «in ogni altra ipotesi individuata dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».
In questa nuova formulazione, la sfera di operatività di tale ipotesi di lavoro a tempo determinato muta in termini sostanziali, espandendo considerevolmente il proprio raggio applicativo. In primo luogo, tale ipotesi diviene ora del tutto autonoma dalla precedente, configurandosi come potenzialmente aggiuntiva (e non più come, di per sé, solo alternativa) rispetto ad essa, alla stregua di quanto prevedranno i contratti collettivi cui la legge delega la facoltà derogatoria. In secondo luogo, tale delega è attribuita dalla legge, in via diretta, anche alla contrattazione collettiva aziendale. In terzo luogo, e soprattutto, vengono meno i limiti di carattere oggettivo e numerico in precedenza espressamente e inderogabilmente previsti dalla legge; per cui saranno i contratti collettivi, in piena libertà, a fissare le condizioni, e gli eventuali limiti, di ricorso a tale nuova ipotesi di contratto a termine sottratta all’applicazione dei requisiti di cui al co. 1 dell’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001.
Siamo quindi in presenza di una «delega in bianco» alla contrattazione collettiva (anche di livello aziendale) analoga a quella a suo tempo prevista – in un contesto normativo peraltro completamente diverso – dall’art. 23 della l. 28.2.1987, n. 56. Le organizzazioni sindacali legittimate all’esercizio del potere di deroga così attribuito dalla legge ben potranno pertanto prevedere ipotesi di natura puramente soggettiva ovvero limitarsi fissare vincoli o tetti di carattere meramente quantitativo (determinando, cioè, semplicemente lo stock complessivo di lavoratori impiegabili, con questa come con altre fattispecie, a tempo determinato nell’impresa o nella relativa unità produttiva, come espressamente suggerito dallo stesso legislatore con l’art. 7, co. 1, lett. d), n. 3, d.l. n. 76/2013, che integra, in questo senso, il testo dell’art. 10, co. 7, d.lgs. n. 368/2001)6. La circostanza che il legislatore si è mosso sulla via già tracciata dall’art. 1, co. 9, lett. d), l. n. 92/2012, in certo senso limitandosi a estendere e a rendere pienamente operativa un’ipotesi già in nuce prevista dal co. 1-bis del d.lgs. 368/2001, non deve peraltro indurre a sottovalutare la radicalità di questa innovazione legislativa. Nei co. 1 e 1-bis dell’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, oggi in vigore, convivono, infatti, grazie a questa innovazione, in modo del tutto inusitato, tutte le principali tecniche regolative cui il legislatore ha nel tempo affidato il compito di ampliare, rendendole maggiormente «flessibili», le condizioni d’uso del contratto di lavoro a tempo determinato: quella della causale a contenuto elastico delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che le parti del rapporto individuale sono chiamate a specificare nel documento contrattuale; quella (derogatoria) della libertà di assunzione a termine senza obbligo di indicazione delle ragioni giustificative nell’ipotesi di primo rapporto a tempo determinato non superiore ai dodici mesi; ed infine quella – sempre di carattere derogatorio rispetto alla regola generale – in cui è senz’altro rimessa all’autonomia collettiva la previsione di ulteriori ipotesi di assunzione a termine sottratte ai requisiti di natura oggettiva contemplati in via generale7.
Tale stratificazione, o meglio la coabitazione di tali tecniche regolative, delinea, nel suo insieme, un ambiente normativo nel quale la facoltà del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato non è mai stata così ampia nel nostro ordinamento giuridico. È vero che la regola generale – enfatizzata dalla formula che vuole il contratto a tempo indeterminato «la forma comune di rapporto di lavoro» (co. 01, art. 1, d.lgs. n. 368/2001, come novellato dalla l. n. 92/2012) – rimane quella dell’ancoraggio della clausola appositiva del termine ad un necessario presupposto giustificativo di tipo oggettivo, quelle di cui alle lett. a) e b) del co. 1-bis configurandosi, formalmente, come eccezioni al principio della «causalità» del contratto a tempo determinato. Ma è altrettanto vero che – stante l’ampiezza del loro raggio applicativo, come ridisegnato dalla riforma del 2013 – quelle eccezioni non tarderanno a divenire, nelle effettive dinamiche di utilizzo di tale tipologia contrattuale, la vera regola operazionale della flessibilità del mercato del lavoro italiano. Quella stratificazione – pur assegnando una formale prevalenza «gerarchica» alla fattispecie del contratto a termine causalmente giustificato – comporta, di fatto, un risultato di sostanziale liberalizzazione del ricorso a tale tipologia contrattuale, la cui attivazione è comunque libera almeno nei casi in cui essa funga da canale d’ingresso nel mercato del lavoro quando la durata del primo rapporto non superi l’anno8.
Anche le altre modifiche alla disciplina del d.lgs. n. 368/2001 si muovono nella direzione dell’ampliamento dei margini di elasticità nell’impiego dei lavoratori a tempo determinato, correggendo o eliminando taluni elementi di rigidità introdotti dalla l. n. 92/2012. L’art. 7, co. 1, lett. c), n. 3, d.l. n. 76/2013 ripristina la vecchia regola sugli intervalli minimi obbligatori tra due contratti a termine successivi tra le stesse parti ex art. 5, co. 3, d.lgs. n. 368/2001, riducendoli a dieci o venti giorni a seconda che il pregresso rapporto abbia avuto una durata sino a sei mesi ovvero superiore9. E con il precedente punto n. 2) viene abrogata la previsione introdotta dalla l. n. 92 al co. 2-bis dell’art 5 del d.lgs. n. 368/2001, che obbligava il datore di lavoro a comunicare al Centro per l’impiego territorialmente competente, entro la scadenza del termine inizialmente fissato, l’eventuale prosecuzione del rapporto di lavoro.
L’art. 7, co. 1, lett. d), n. 1, d.l. n. 76/2013, aggiungendo una lett. c-ter) all’art. 10, co. 1, d.lgs. n. 368/2001, chiarisce, infine, che i rapporti a tempo determinato instaurati con i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità ai sensi dell’art. 8, co. 2, l. 23.7.1991, n. 223, esulano dal campo di applicazione della disciplina sul lavoro a termine di cui allo stesso d.lgs. n. 368, ferme comunque restando – come opportunamente precisato in sede di conversione in legge – le disposizioni ivi dettate agli artt. 6 e 8 in tema, rispettivamente, di principio di non discriminazione e di criteri di computo10.
Il contratto di apprendistato è oggetto di minori interventi nel d.l. n. 76/2013. Le poche (e con ogni probabilità poco incisive) modifiche al d.lgs. 14.9.2011, n. 167, intendono chiaramente muoversi nel senso di fluidificare e rendere più agevole il ricorso all’apprendistato professionalizzante, con l’obiettivo di farne effettivamente il primo canale di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. L’obiettivo – ben presente già nel t.u. del 2011 prima di essere solennemente esplicitato dalla riforma del 2012 – è, però, come noto, rimasto allo stato del mero auspicio, ed è difficile immaginare che i modesti e incerti incentivi normativi introdotti dal d.l. n. 76/2013 possano in qualche modo contribuire a concretizzarlo nel mondo dei fatti. Il corposo pacchetto di incentivi economici all’occupazione giovanile, ed in particolare la decontribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato dei giovani dai diciotto ai ventinove anni di cui all’art. 1 del d.l. n. 76/2013, potrebbe al contrario produrre un effetto di «spiazzamento» del contratto di mestiere, orientando le scelte delle imprese verso altre modalità di assunzione e forme d’impiego, parimenti incentivate dalla riforma.
L’art. 2, co. 2, d.l. n. 76/2013 demanda alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano il compito di adottare, entro il 30.9.2013, linee guida volte a disciplinare il contratto di apprendistato professionalizzante dirette, in particolare, al fine anzidetto, a introdurre talune deroghe al d.lgs. n. 167/2011. Queste ultime potranno riguardare:
a) il piano formativo individuale, la cui obbligatorietà sarà mantenuta esclusivamente in relazione alla formazione per l’acquisizione delle competenze tecnico-professionali e specialistiche;
b) la registrazione della formazione e della qualifica professionale ai fini contrattuali eventualmente conseguita, che potrà essere effettuata nelle forme minimali previste per il modello di libretto formativo del cittadino di cui al d.m. 10.10.2005;
c) la fattispecie delle imprese multilocalizzate, per le quali si prevede che la formazione avvenga nel rispetto della disciplina della Regione ove l’impresa ha la propria sede legale.
Il co. 3 dello stesso art. 2 prevede, poi, che, decorso inutilmente il termine del 30.9.2013 senza che la Conferenza permanente per i rapporti Stato-Regioni abbia adottato le linee-guida di propria competenza, le anzidette previsioni derogatorie del t.u. sull’apprendistato trovino comunque diretta applicazione.
Si tratta di una semplificazione di assai modesto rilievo, a ben vedere già conseguibile nell’ambito della (e in parte addirittura già prevista dalla) vigente disciplina di cui al d.lgs. n. 167/2011. Essa è del resto prevista con tecnica molto discutibile, che di fatto svuota di effettivo rilievo il ruolo della Conferenza permanente per i rapporti Stato-Regioni, interferendo con le competenze legislative di queste ultime in termini che potrebbero sollevare problemi di compatibilità col dettato dell’art. 117 Cost.11.
Parimenti modesta, e non meno discutibile, è d’altra parte la previsione di cui all’art. 9, co. 3, d.l. n. 76/2013, che, aggiungendo un co. 2-bis all’art. 3, d.lgs. n. 167/2011, consente di trasformare l’apprendistato di primo livello in contratto di mestiere successivamente al conseguimento della qualifica o del diploma professionale ai sensi del d.lgs. 17.10.2005, n. 226, sia pure prevedendo che, in tal caso, la durata massima dei due periodi di apprendistato non potrà eccedere quella individuata dalla contrattazione collettiva.
L’intervento correttivo sul lavoro intermittente si pone sulla stessa scia della l. n. 92/2012. L’art. 7, co. 2, lett. a), d.l. n. 76/2013, così come modificato in sede di conversione, stabilisce, infatti, che, fermi restando i presupposti di instaurazione del rapporto (sui quali era già intervenuta in senso restrittivo la l. n. 92/2012) e con l’importante eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore alle quattrocento giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari. In caso di superamento dei tale periodo, il contratto si trasforma – secondo quanto espressamente previsto dalla disposizione (che aggiunge un co. 2-bis all’art. 34 del d.lgs. n. 276/2003) – in un ordinario rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato. Ai fini dell’applicazione della sanzione della «conversione», con conseguente «stabilizzazione» di un rapporto che aveva nel suo effettivo svolgimento già dimostrato di valicare i confini propri della discontinuità, si deve peraltro tener conto della circostanza che il contratto di lavoro intermittente può benissimo essere stipulato, ab origine, come contratto a tempo indeterminato. Ai fini del conteggio dell’anzidetto limite, inoltre, si dovrà tener conto unicamente delle giornate di lavoro effettivamente svolto dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 76/201312. In sede di conversione in legge del decreto, è stata invece soppressa la disposizione inizialmente contenuta nella lett. b) del co. 2 dell’art. 7, la quale attenuava il rigore della sanzione amministrativa prevista dall’art. 35, co. 3-bis, d.lgs. n. 276/2003 (a sua volta inserito dalla l. n. 92/2012), stabilendo che la stessa non avrebbe trovato applicazione qualora, dagli adempimenti di carattere contributivo precedentemente assolti, si fosse evidenziata la volontà datoriale di non occultare la prestazione di lavoro. In pratica, ad evitare l’applicazione della sanzione sarebbe bastato l’effettivo adempimento degli obblighi contributivi. Mentre ora la previsione dell’art. 35, co. 3-bis, d.lgs. n. 276/2003 riacquista il suo draconiano, discutibile rigore, consentendo di sanzionare qualunque omissione nella effettuazione delle comunicazioni prescritte13, a prescindere dalla circostanza che, stante il regolare adempimento degli obblighi contributivi, il datore di lavoro non intendesse occultare l’effettivo impiego del lavoratore intermittente.
Le novità introdotte in materia di lavoro a progetto e di associazione in partecipazione con apporto di lavoro hanno invece carattere in qualche modo ambivalente. Una parte di esse intende senza dubbio attenuare il rigore di talune tra le più controverse previsioni della riforma del 2012.
In materia di lavoro a progetto, questo vale certamente – almeno nelle intenzioni – per la disposizione (art. 7, co. 2, lett. c) che, novellando il testo del co. 1 dell’art. 61, d.lgs. n. 276/2003, come riscritto dalla l. n. 92/2012, sostituisce le parole «esecutivi e ripetitivi» al sintagma «esecutivi o ripetitivi». L’intento palesato dalla introduzione della congiunzione positiva in luogo di quella disgiuntiva precedentemente prevista è evidentemente quello di ampliare le possibilità di ricorso al lavoro a progetto14, vietandolo (fermi gli altri requisiti di validità) soltanto in presenza di compiti che siano, allo stesso tempo, esecutivi e ripetitivi15. È tuttavia lecito dubitare che la nuova formulazione, ceteris paribus, possa effettivamente sortire un tale affetto espansivo, dovendosi considerare che compiti di natura meramente esecutiva e/o ripetitiva mal si conciliano, in ogni caso, con quei caratteri di necessaria autonomia, in funzione del raggiungimento del risultato finale, che debbono sempre improntare la prestazione del lavoratore a progetto.
D’altra parte, in controtendenza rispetto alla modifica appena commentata, la disciplina del contratto di lavoro a progetto subisce un apparente irrigidimento con la previsione dell’art. 7, co. 2, lett. d), d.l. n. 76/2013, che sopprime le parole «ai fini della prova» nell’art. 62, co. 1, alinea, d.lgs. n. 276/2003. I requisiti di forma-contenuto prescritti da tale disposizione debbono pertanto intendersi come senz’altro richiesti ai fini della validità del contratto di lavoro a progetto, con la conseguenza che, nella assenza (o meglio nella inadeguata o incompleta formalizzazione) di tali elementi costitutivi della fattispecie, diventerà sempre applicabile la sanzione della «conversione» in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato prevista dall’art. 69, d.lgs. n. 276/2003 (nei termini rafforzati e, per così dire, «assolutizzati» dalla l. n. 92/2012).
Ed un irrigidimento della disciplina – comune, in questo caso, ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, ed a quelli di associazione in partecipazione con apporto di lavoro, di cui all’art. 2549, co. 2, c.c. – deriva dalla previsione contenuta nell’art. 7, co. 5, lett. d), d.l. n. 76/2013, che estende anche a tali tipologie di rapporti le disposizioni dettate dai co. da 16 a 23 dell’art. 4 della l. n. 92/2012 in materia di convalida delle dimissioni e della risoluzione consensuale del contratto.
Le altre disposizioni dedicate dalla riforma del 2013 ai contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro intendono invece temperare taluni effetti delle rigoristiche previsioni introdotte in materia l’anno prima dalla l. n. 92. La legge di conversione del d.l. n. 76/2013 aggiunge, a tal fine, un ulteriore comma all’art. 2549 c.c., con il quale viene stabilito che le disposizioni del secondo comma di tale articolo non si applicano, limitatamente alle imprese a scopo mutualistico, agli associati individuati mediante elezione dell’organo assembleare di cui all’art. 2540 c.c., il cui contratto sia certificato dagli organismi previsti dall’art. 76, d.lgs. n. 276/2003, nonché in relazione al rapporto fra produttori e artisti, interpreti, esecutori, volto alla realizzazione di registrazioni sonore, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento.
Ma soprattutto, la legge di conversione n. 99/2013 dà alle imprese interessate l’opportunità di procedere ad una «stabilizzazione» dei rapporti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro mediante assunzione degli associati con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (anche di apprendistato), delineando, a tal fine, una articolata procedura con il neointrodotto art. 7-bis del d.l. n. 76/2013. Il perno del percorso di stabilizzazione è costituito dalla stipulazione, con le associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, di specifici contratti collettivi volti a consentire la trasformazione dei rapporti dei prestatori di lavoro coinvolti, i quali, sulla base delle previsioni collettive, saranno chiamati a sottoscrivere, parallelamente alla assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, appositi atti di conciliazione ai sensi degli artt. 410 ss. c.p.c. «con riferimento a tutto quanto riguardante i pregressi rapporti di associazione». L’efficacia di tali atti di conciliazione è risolutivamente condizionata all’adempimento dell’obbligo, gravante sul solo datore di lavoro, del versamento alle gestione separata dell’Inps ex art. 2, co. 26, l. 8.8.1995, n. 335, a titolo di contributo straordinario integrativo finalizzato al miglioramento del trattamento previdenziale, di una somma pari al 5 per cento della quota di contribuzione a carico degli associati per i periodi di vigenza dei contratti di associazione in partecipazione e comunque per un periodo non superiore a sei mesi, riferito a ciascun lavoratore assunto a tempo indeterminato (art. 7 bis, co. 4, d.l. n. 76/2013, quale aggiunto in sede di conversione). È inoltre espressamente previsto che nei sei mesi successivi alle assunzioni con contratto di lavoro subordinato, i datori di lavoro non possano recedere dal rapporto se non per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo (art. 7 bis, co. 3, d.l. n. 76/2013).
Che si tratti di una procedura di stabilizzazione con possibili effetti di regolarizzazione dei rapporti di lavoro coinvolti, è infine fatto palese dalla disposizione di cui al successivo co. 6 dell’art. 7 bis, alla stregua della quale l’accesso alla normativa in parola è consentito anche alle aziende che siano destinatarie di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali non definitivi concernenti la qualificazione dei pregressi rapporti. Coerentemente, gli effetti di tali provvedimenti sono sospesi fino all’esito della verifica prevista dal precedente co. 5 in ordine alla correttezza degli adempimenti, anche contributivi, gravanti sul datore di lavoro interessato al perfezionamento della stabilizzazione (e, dunque, della stessa regolarizzazione) dei rapporti di lavoro in questione.
L’intervento in tema di lavoro accessorio ex art. 70, d.lgs. n. 276/2003 consiste in aggiustamenti marginali della relativa disciplina. Sembra avere infatti un rilievo probabilmente più nominale che propriamente definitorio16 la soppressione, operata con l’art. 7, co. 2, lett. e), d.l. n. 76/2013, delle parole «di natura meramente occasionale» contenute nel co. 1 dell’art. 70 del d.lgs. n. 276/2003.
La riformulazione della definizione del campo di applicazione del lavoro accessorio conferma la linea di sostanziale de-tipizzazione della fattispecie – definita ormai alla stregua di parametri eminentemente economico-quantitativi – da tempo seguita dal legislatore e fatta propria anche dalla l. n. 92/2012. I confini della fattispecie, e il «conseguente accantonamento di ogni problema di distinzione tra lavoro subordinato, autonomo e parasubordinato»17, vengono affidati ai rigorosi massimali di reddito (netto) complessivamente conseguibili dal singolo prestatore nell’arco dell’anno solare mediante la percezione dei buoni orari regolati dall’art. 72, d.lgs. n. 276/2003.
A tale riguardo va segnalato che il co. 4-bis dell’art. 72, come ora riformulato dall’art. 7, co. 2, lett. f), d.l. n. 76/2013, affida ad un apposito decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali il compito di stabilire specifiche condizioni, modalità e importi dei buoni orari in considerazione delle particolari condizioni di specifiche categorie di prestatori di lavoro accessorio (che siano correlate allo stato di disabilità, di detenzione, di tossicodipendenza o di fruizione di ammortizzatori sociali per i quali è prevista la contribuzione figurativa) utilizzati nell’ambito di progetti promossi da amministrazioni pubbliche.
Gli interventi normativi sulle tipologie di lavoro flessibile (subordinato, autonomo e parasubordinato) realizzati con il d.l. n. 76/2013, di cui si è dato conto nell’analisi che precede, possono essere sinteticamente descritti come aggiustamenti o correzioni parziali, più o meno significative, della l. n. 92/2012 ad un anno della sua emanazione. Questa ricalibratura dei contenuti della riforma del mercato del lavoro ha tenuto conto delle principali criticità emerse in sede di prima applicazione della l. n. 92/2012 in una contingenza di gravissima crisi economica e occupazionale del Paese, senza evidentemente alterare le linee di fondo delle opzioni di politica del diritto compiute con quella legge.
Come si è osservato, gli interventi correttivi più incisivi hanno riguardato il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, che si conferma – per usare una metafora «tellurica» – l’epicentro dell’instabile e accidentato campo sismico della flessibilità (numerica) del mercato del lavoro italiano. Le correzioni ad alcune delle previsioni al riguardo introdotte dalla l. n. 92/2012 hanno largamente assecondato sollecitazioni provenienti dagli operatori e dalle stesse parti sociali (si pensi, in particolare, alla riduzione degli intervalli temporali minimi tra due contratti a termine successivi), per cui, almeno da questo punto di vista, esse paiono effettivamente rispondere ad esigenze reali e diffusamente avvertite nella difficilissima fase congiunturale del mercato del lavoro italiano. Si può però obiettare come sia la traiettoria di fondo di queste misure a risultare, in realtà, discutibile, centrata come è – ancora una volta – sulla esasperazione della «flessibilità al margine», di cui vengono spregiudicatamente sfruttate tutte le possibili risorse regolative18. Si è infatti visto come a potenziare (e forse a esasperare) la flessibilità dell’utilizzo del contratto a termine concorrano, ora, tutte le tecniche regolative storicamente sperimentate dal legislatore, rendendo particolarmente difficile la individuazione di un vero principio ordinatore. Quello della necessaria «causalità» del contratto a tempo determinato – ed in particolare del suo necessario ancoraggio, in principio, ad una ragione giustificativa di natura strutturalmente o ontologicamente temporanea – è infatti tale, nel nuovo contesto normativo, solo sulla carta, minacciato com’è dalla forza espansiva di cui sono dotate – nella effettiva logica operazionale delle nuove regole – le fattispecie derogatorie di cui al co. 1-bis del d.lgs. n. 368/2001.
Questa oggettiva deriva deregolativa in materia di contratto a termine potrebbe d’altra parte rinfocolare i dubbi, già suscitati dalla l. n. 92/2012, sulla compatibilità del nuovo assetto normativo con i vincoli posti dalla direttiva 1999/70/CE. Benché possa probabilmente essere comunque giustificato sull’assunto che in tal modo il legislatore nazionale persegue obiettivi di politica sociale e occupazionale che sono liberamente (e, dunque, legittimamente) determinabili, l’arretramento complessivo del livello generale di tutela accordato dall’ordinamento interno al lavoro a termine sembra invero oggi difficilmente contestabile all’esito delle nuove previsioni del d.l. n. 76/2013. Si tratta per la verità di dubbi non nuovi, che il sistema ha, sino ad oggi, dimostrato di poter in buona sostanza assorbire e metabolizzare parallelamente al progressivo sgretolamento delle vecchie rigidità regolative che circondavano il lavoro a termine. Ma sono dubbi persistenti, che investono trasversalmente i molti aspetti tuttora controversi della disorganica disciplina del lavoro a termine in Italia, e che, dopo la riforma del 2013, sembrano con ogni probabilità destinati a riproporsi, magari nell’ambito di uno tanti filoni del rigogliosissimo contenzioso giudiziario in materia19.
1 Convertito, con modificazioni, nella l. 9.8.2013, n. 99.
2 Per un primo commento analitico al cd. “Pacchetto lavoro”, cfr. Tiraboschi, M., a cura di, Interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, e della coesione sociale. Primo commento al decreto legge 28 giugno 2013, n. 76, Adapt Labour Studies, e-Book Series n. 10, e AA.VV., La nuova riforma del lavoro. Guida alle novità del d.l. 28 giugno 2013, n. 76, Milano, 2013.
3 Ciò che comporta pure il permanere di una significativa incertezza sul significato da attribuire all’espressione «primo rapporto a tempo determinato», come noto oggetto di divergenti interpretazioni. Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione generale per l’Attività ispettiva, nel vademecum approvato con lettera circolare del 22.4.2013 ha adottato una posizione mediana, chiarendo che il primo contratto a termine acausale di durata non superiore a 12 mesi può essere stipulato esclusivamente nelle ipotesi in cui non siano intercorsi tra le parti precedenti rapporti di lavoro subordinato, di qualsiasi tipo. Pregressi rapporti di lavoro di natura autonoma tra i medesimi soggetti non precluderebbero, viceversa, il ricorso a tale sottotipo di contratto a termine in deroga alla regola generale della giustificazione oggettiva ex art. 1, co. 1, d.lgs. 6.9.2001, n. 368.
4 Nella circ. 29.8.2913, n. 35, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione generale per l’Attività ispettiva, esclude, in tale caso, l’obbligo della indicazione delle ragioni oggettive.
5 Nel caso di prima missione nell’ambito di una somministrazione a tempo determinato acausale, fermo il predetto limite di durata massima di dodici mesi, la proroga deve ritenersi consentita alla stregua delle condizioni specificamente individuate dall’art. 22, co. 2, d.lgs. 10.9.2003, n. 276, che opera in buona sostanza un rinvio al contratto collettivo applicato dal somministratore.
6 Parimenti, i contratti collettivi, anche aziendali, potranno integrare la fattispecie acausale tipizzata dal legislatore, ad esempio stabilendo che il contratto a termine potrà avere una durata superiore ai dodici mesi ovvero autorizzandone la sottoscrizione anche da parte di soggetti che «abbiano precedentemente avuto un rapporto di lavoro subordinato» (così la citata circ. n. 35/2013).
7 Senza trascurare che rimangono aperti, in capo alla contrattazione collettiva di prossimità, gli ampi poteri derogatori attribuiti, anche in tema di disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, dall’art. 8, d.l. 13.8.2011, n. 138 (convertito, con modificazioni, nella l. n. 148 dello stesso anno). L’art. 9, co. 4, d.l. n. 76/2013 mostrava anzi la volontà di far uscire la disposizione dal limbo applicativo nel quale è rimasta, stabilendo che l’efficacia derogatoria attribuita ai contratti collettivi aziendali e territoriali dalla stessa contemplati dovesse considerarsi subordinata al loro deposito presso la competente Direzione territoriale del lavoro. La disposizione introduceva in tal modo una regola di trasparenza che avrebbe potuto avere ricadute sostanziali sull’effettivo esercizio dell’ampio potere derogatorio concesso alla contrattazione di prossimità. Essa è stata tuttavia soppressa in sede di conversione in legge del decreto.
8 Tanto più se si tiene conto che vale anche per il rapporto a termine acausale ex art. 1, co. 1-bis, il margine di tolleranza, rispettivamente di trenta e cinquanta giorni, previsto dal successivo art. 5, co. 2, d.lgs. n. 368/2001 (come ora modificato dall’art. 7, co. 1, lett. c, n. 1, d.l. n. 76/2013).
9 La regola, peraltro, al pari di quella relativa a due assunzioni a termine immediatamente consecutive, non trova applicazione nei confronti dei lavoratori impiegati nelle attività stagionali di cui al co. 4-ter dello stesso art. 5, d.lgs. n. 368/2001 nonché in relazione alle ipotesi individuate dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
10 La precisazione serve anche a fugare eventuali problemi di contrasto con le previsioni della direttiva 1999/70/CE. A quest’ultimo proposito, va segnalato che l’art. 12, co. 1, l. 6.8.2013, n. 97, ha riformulato il testo dell’art. 8, d.lgs. n. 368/2001 per allinearlo ai parametri imposti dalla direttiva europea, stabilendo che i limiti prescritti per il computo dei dipendenti dall’art. 35, co. 2, l. 20.5.1970, n. 300, debbono basarsi sul numero medio dei lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro.
11 Va peraltro considerato che l’art. 9, co. 3, d.l. n. 76/2013 fa espressamente salva la possibilità di una diversa disciplina in seguito alla successiva adozione delle richiamate linee-guida ovvero in seguito alla emanazione di disposizioni di specie da parte delle singole regioni.
12 V. l’art. 7, co. 3, d.l. n. 76/2013.
13 Sulle modalità di effettuazione di tali comunicazioni v. il d.m. 27.3.2013 e le istruzioni da ultimo fornite dallo stesso Ministero del lavoro con circ. 27.6.2013, n. 27.
14 La medesima osservazione può esser fatta per la previsione, aggiunta in sede di conversione all’art. 61, d.lgs. n. 276/2003 con l’inserimento di un comma 2-bis, alla cui stregua, se il contratto di lavoro a progetto ha per oggetto un’attività di ricerca scientifica e questa viene ampliata per temi connessi o prorogata nel tempo, il progetto prosegue automaticamente.
15 Il significato dei due aggettivi è stato ben chiarito nella circ. 1.12.2012, n. 29, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione generale per l’Attività ispettiva.
16 Va invero tenuto presente che la rubrica del Capo II del Titolo VII del d.lgs. n. 276/2003, in cui è inserito l’art. 70, continua ad essere intitolata alle «prestazioni occasionali di tipo accessorio» rese – ed anche questo è aspetto oramai non del tutto in linea coi contenuti sostanziali della nuova disciplina – «da particolari soggetti».
17 A. Vallebona, La riforma del lavoro 2012, Torino, 2012, 30.
18 Non meno significativa, nella prospettiva dell’esplorazione di risorse di flessibilità del tutto inedite nella tradizione del nostro ordinamento, è l’apertura a fattispecie, sia pure eccezionali, di «codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il contratto di rete», ora contenuta nell’art. 30, co. 4-ter, d.lgs. n. 276/2003, come aggiunto dal d.l. n. 76/2013.
19 Contenzioso che si è di recente arricchito con il primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea operato ex art. 267 TFUE dalla Corte costituzionale italiana nell’ambito di un giudizio di legittimità promosso in via incidentale nella martoriata vicenda del precariato della scuola pubblica. V. la storica ordinanza n. 207/2013, con cui la Corte costituzionale ha chiesto ai giudici di Lussemburgo se la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE debba essere interpretata nel senso che osta all’applicazione dell’art. 4, co. 1 (ultima proposizione) e 11, l. 3.5.1999, n. 124, in materia di personale scolastico, che consente che si faccia ricorso ai contratti a tempo determinato senza indicare tempi certi per l’espletamento dei concorsi pubblici e in una condizione che non prevede il diritto al risarcimento del danno, domandando, in particolare, se le esigenze di organizzazione del sistema scolastico italiano possano costituire ragioni oggettive tali da giustificare un siffatto assetto normativo.