Lavoro autonomo non imprenditoriale
Il d.d.l. sul lavoro autonomo non imprenditoriale è animato – pur con i limiti che verranno segnalati – dalla apprezzabile volontà di compiere, attraverso l’ulteriore estensione di alcune forme di tutela e una serie di misure di carattere promozionale appositamente pensate per questo importante (ma trascurato) segmento del mercato del lavoro nazionale, un primo passo nella direzione di un quadro regolativo generale di tutte le forme di lavoro autonomo.
Il d.d.l. as n. 2233 sul lavoro autonomo non imprenditoriale1 (cui è annesso il n. 2229 sul lavoro agile o smart work, oggetto di intervento anche nel capo secondo del progetto di legge qui in esame) viene ad inserirsi in un quadro regolativo profondamente innovato dalla normativa di attuazione della l. 10.12.2014, n. 183 (cd. Jobs act), e in particolare dalle previsioni del d.lgs. 15.6.2015, n. 81 (in materia di riordino delle tipologie contrattuali), di cui è utile dare brevemente conto anche al fine di meglio inquadrare le finalità delle nuove misure cui è specificamente dedicato questo commento.
Come noto, le principali innovazioni ad oggi introdotte dal Jobs act sul versante del lavoro autonomo hanno riguardato, da un lato, l’abrogazione della controversa figura del lavoro a progetto e, dall’altro, una discussa riarticolazione delle collaborazioni coordinate e continuative quali definite dall’art. 409, n. 3, c.p.c.2. Il legislatore delegato ha infatti attuato la direttiva del superamento delle collaborazioni coordinate e continuative, contenuta nella l. delega n. 183/2014, senza in realtà abrogare la previsione dell’art. 409, n. 3, c.p.c., che viene espressamente fatta salva ed anzi in certo senso rivivificata, ma sottraendo dal relativo campo di applicazione, per ricondurli all’area della disciplina del lavoro subordinato, «i rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento al tempo e al luogo di lavoro» (art. 2, co. 1, d.lgs. n. 81/2015). Nella nuova disciplina, le collaborazioni coordinate e continuative non scompaiono, dunque, ma l’area della para-subordinazione viene scomposta in due campi in cui riemerge in qualche modo potenziata la contrapposizione tra autonomia e subordinazione, in una rinnovata prospettiva espansiva del lavoro subordinato come
«forma comune di rapporto di lavoro» (art. 1, d.lgs. n. 81/2015).
Il Jobs act – con una scelta di politica del diritto sotto tale profilo evidentemente diversa rispetto all’impostazione della l. 28.6.2012, n. 92, che aveva irrigidito e al contempo rafforzato la disciplina del lavoro a progetto – ha così rilanciato la classica diade oppositiva autonomia/subordinazione, in una logica polarizzante nella quale non si danno, al momento, graduazioni intermedie di tutela.
Il d.d.l. sul lavoro autonomo non imprenditoriale intende, ora, a completamento di tale disegno di politica del diritto, introdurre uno statuto protettivo minimo pensato a misura delle esigenze dell’intero mondo del lavoro autonomo (colmando così anche il vuoto regolativo che si è determinato sul fronte delle collaborazioni coordinate e continuative “genuine”), con una disciplina che, per una parte, recupera taluni contenuti già presenti nel sistema (e nella stessa legge fornero) e, per un’altra, tratteggia – soprattutto con le disposizioni che andranno a costituire una sorta di “pavimento” legislativo minimo comune a tutte le forme di lavoro autonomo – un quadro normativo indubbiamente innovativo.
Va peraltro osservato che la scelta di fondo di estendere integralmente (sia pure consentendo limitate eccezioni) la disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni organizzate dal committente rimane fonte di criticità sistematiche e di problemi applicativi che il d.d.l. in esame affronta soltanto in parte.
L’art. 14, co. 1, lett. a), del d.d.l., che chiude le previsioni sul lavoro autonomo, non tocca, infatti, l’art. 2 del d. lgs. n. 81/2015, ma ne modifica solo indirettamente il raggio applicativo intervenendo sul testo dell’art. 409, n. 3, c.p.c. («La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo tra le parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa»). La disposizione è chiaramente diretta a delimitare meglio la categoria delle collaborazioni coordinate (e, dunque, indirettamente, quella confinante delle collaborazioni etero-organizzate, che resta definita dall’art. 2, co.1, d.lgs. n. 81/2015). essa, recependo orientamenti interpretativi già emersi nel vivace dibattito suscitato dall’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015, focalizza il concetto di coordinamento (e, specularmente e in negativo, quello di etero-organizzazione) sul profilo della definizione consensuale delle relative modalità, nella consapevolezza che il discrimen tra le due fattispecie dipende, in buona sostanza, dal diverso grado di autonomia del collaboratore rispetto all’organizzazione del committente. tuttavia, anche con tale precisazione, la linea di confine tra prestazione etero-organizzata e collaborazione coordinata e continuativa autonoma pare destinata a rimanere assai sottile e incerta sul piano applicativo, ed è facile prevedere che – specie di fronte alla rigorosa posizione assunta dal ministero del lavoro con la circ. 1.2.2016, n. 3 – l’actio finium regundorum tra autonomia e subordinazione rimarrà fonte di un vasto contenzioso.
Nel definire in positivo il proprio campo di applicazione, il d.d.l. è invece senza dubbio coerente con la finalità di fissare – per la prima volta nell’ordinamento italiano – una regolazione quadro dell’intero universo del lavoro autonomo, diretta a introdurre alcune essenziali misure di tutela di carattere generale comuni, per l’appunto, con la sola esclusione degli imprenditori, a tutte le forme e i rapporti di lavoro autonomo. L’art. 1 del d.d.l. si rivolge, infatti, a tutti i rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo III del Libro V del codice civile, ivi inclusi quelli che hanno una disciplina particolare ai sensi dell’art. 2222. rimangono esclusi solo gli imprenditori, anche quelli piccoli di cui all’art. 2083 c.c. (i quali ultimi, peraltro, in virtù dell’apporto lavorativo personale, costituiscono figure socio-economiche rientranti a pieno titolo nella garanzia dell’art. 35 Cost.).
L’ambizione generalista del d.d.l. è certamente un punto di forza – forse il principale – del disegno riformatore. occorre però esser consapevoli che in questa scelta si annida anche il rischio di trascurare le assai differenziate esigenze di tutela che le diverse categorie di lavoratori autonomi possono esprimere, essendo evidente – per fare solo l’esempio più ovvio – che diverse sono le istanze espresse dal settore delle libere professioni intellettuali e quelle che viceversa provengono dal mondo del lavoro autonomo economicamente dipendente, che richiede forme di tutela ad hoc. e lo sforzo di tenere distinte tali diverse esigenze, pur nel quadro di una regolazione tendenzialmente unitaria, non appare, almeno nel testo del d.d.l., sempre soddisfacente.
Un primo nucleo di misure previsto dal d.d.l. in commento è costituito dalle tutele, già operanti nell’ordinamento nel contesto dei rapporti commerciali di subfornitura, aventi l’obiettivo di rafforzare la posizione contrattuale del lavoratore quale contraente debole, riducendo le asimmetrie di potere che si generano nel mercato in favore delle imprese o delle amministrazioni pubbliche committenti.
L’estensione della disciplina sul ritardo nei pagamenti e la previsione sulle clausole abusive (ma in parte la stessa disposizione sulle invenzioni e la proprietà intellettuale del lavoratore autonomo) si muovono in questa direzione. un secondo nucleo di disposizioni ha una ratio più spiccatamente lavoristica e welfaristica, in quanto attiene ad alcune garanzie di tipo contrattuale e alle forme di tutela previdenziale spettanti in caso di maternità, malattia o infortunio.
Un terzo gruppo di norme, infine, ha una finalità che potremmo definire in senso lato incentivante e promozionale, giacché è diretto a favorire – con diverse misure (le più significative delle quali di natura fiscale) – l’accrescimento e l’aggiornamento del bagaglio professionale e più in generale delle risorse di professionalità del lavoratore autonomo (e dunque il suo principale asset competitivo nel mercato), aprendo al medesimo la possibilità di fruire dei servizi (oltre che delle informazioni) a tal fine necessari e di accedere agli appalti pubblici.
Ai limitati fini della presente analisi, i contenuti del d.d.l. possono essere ancor più schematicamente ripartiti tra norme a contenuto protettivo (cui possono essere ricondotte quelle testé evocate come appartenenti al primo e al secondo nucleo delle previsioni in esame) e norme a contenuto promozionale o incentivante (le ultime richiamate).
Passando ora ad analizzare i contenuti del d.d.l., l’art. 2 dichiara innanzitutto applicabili – in quanto compatibili e fatta salva l’applicazione delle disposizioni più favorevoli – alle transazioni commerciali tra lavoratori autonomi, tra questi e le imprese, ovvero tra lavoratori autonomi e pubbliche amministrazioni, le disposizioni del d.lgs. 9.10.2002, n. 231. si tratta dell’allargamento ai lavoratori autonomi (che in parte significativa, peraltro, vi sono già oggi ricompresi) della disciplina dettata in attuazione della dir. 2000/35/Ce in materia di ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, la quale prevede, tra l’altro, l’automatica decorrenza degli interessi moratori dopo un certo termine nonché una significativa maggiorazione del relativo saggio. La richiamata normativa definisce come transazione commerciale il contratto che comporti, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo. opportuna è stata, nell’opera emendativa della Commissione Lavoro del senato, l’espressa estensione della previsione ai rapporti tra imprese e pubbliche amministrazioni, non prevista nel testo presentato dal governo.
L’art. 3 del d.d.l. prevede l’inefficacia delle clausole che attribuiscano al committente la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali e, nei rapporti a prestazione continuativa, di recedere senza congruo preavviso, e che stabiliscano termini di pagamento superiori a sessanta giorni dalla data di ricevimento della fattura o della richiesta di pagamento (co. 1). La norma, inoltre, qualifica come abusivo il rifiuto del committente di stipulare il contratto in forma scritta (co. 2), stabilendo che, in tutte le ipotesi previste nei commi precedenti, il lavoratore autonomo abbia diritto al risarcimento dei danni (co. 3). nel primo passaggio parlamentare del testo originariamente formulato dal governo si è introdotto, infine, un ulteriore comma nel quale si prevede che ai rapporti contrattuali oggetto della nuova normativa si applichino, in quanto compatibili, le disposizioni dell’art. 9 della l. 18.6.1998, n. 192, in tema di abuso da parte di imprese dello stato di dipendenza economica, cioè della situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa cliente o fornitrice, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi (che può consistere anche nel rifiuto di vendere o di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, oppure nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto), con conseguente nullità del patto attraverso il quale si realizzi l’abuso.
Quanto alle previsioni del primo comma, la stessa terminologia adoperata (che definisce le predette clausole come «abusive») richiama alla mente quella utilizzata dal legislatore del Codice del consumo a proposito della disciplina delle clausole vessatorie, dettata, come noto, per correggere uno squilibrio contrattuale tra le parti. Tale ratio, tuttavia, non sembra attagliarsi ad ogni ipotesi negoziale avente ad oggetto prestazioni di lavoro autonomo e, se ricorre nei rapporti con i collaboratori coordinati e continuativi, non altrettanto può dirsi nel caso di contratti di prestazione d’opera intellettuale stipulati con chi eserciti una professione liberale. anzi, in un’accezione così estesa, la norma sembra porsi in controtendenza rispetto alle disposizioni che, negli scorsi anni, sono intervenute a tutela degli interessi del cliente dei liberi professionisti, sul presupposto che fosse proprio costui la parte debole del rapporto. Altrettanto può dirsi del rinvio alla disciplina dell’abuso dello stato di dipendenza economica.
Del resto, la previsione sul congruo preavviso di recesso, proprio perché costruita nella prospettiva del divieto di comportamenti abusivi da parte del soggetto economicamente più forte, realizza a ben vedere una tutela inferiore a quella che già deriverebbe dall’applicazione dei principi generali del codice civile sul lavoro autonomo in materia di recesso.
E forti perplessità suscita anche la previsione con cui s’intende reprimere la condotta (anch’essa definita, con una certa improprietà di linguaggio, «abusiva») del committente che rifiuti la stipula in forma scritta. Infatti, la disposizione contenuta nel co. 2 dell’art. 3 non sembra disciplinare in senso proprio la forma del contratto, né tanto meno sanzionare con la nullità il contratto concluso oralmente (che rimarrebbe, quindi, valido ed efficace, in assenza, appunto, di un requisito di forma ad substantiam), ma si limita ad attribuire al lavoratore la sola tutela risarcitoria, che tuttavia appare piuttosto inefficace a causa dell’inevitabile difficoltà di dimostrare sia il rifiuto del committente sia l’esistenza del danno risarcibile che ne sarebbe derivato.
L’art. 4 del d.d.l. riconosce al lavoratore autonomo il diritto di sfruttare economicamente – secondo le disposizioni contenute nella l. 22.4.1941, n. 633 (di protezione del diritto d’autore) e dal d.lgs. 10.2.2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale) – gli apporti originali e le invenzioni fatti nell’esecuzione del contratto, salvo il caso in cui l’attività inventiva sia prevista come specifico oggetto del contratto medesimo e, a tale scopo, già compensata dal committente. in ciò, la norma riprende e precisa quanto previsto per i collaboratori a progetto dall’abrogato art. 65 del d.lgs. 10.9.2003, n. 276.
Ma a qualificare il contenuto protettivo del d.d.l. sono ovviamente soprattutto le previsioni di tutela lavoristico-previdenziale. disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità sono in particolare previste dagli artt. 7 (co. da 3 a 7), 12 e 13.
In tema di trattamento economico per congedo parentale, l’art. 7 (Disposizioni sociali e fiscali) prevede alcune importanti novità per la platea dei lavoratori che, non disponendo di una cassa autonoma, siano iscritti alla gestione separata dell’inps, non siano titolari di pensione e siano tenuti al versamento della contribuzione maggiorata di cui all’art. 59, co. 16, l. 27.12.1997, n. 449. in tali casi, il trattamento viene esteso anche ai lavoratori padri e viene ampliata la durata di fruizione della prestazione, passandosi dal periodo massimo attualmente previsto (tre mesi entro il primo anno di vita del bambino) a quello di sei mesi entro i primi tre anni di vita, con l’ulteriore precisazione che i trattamenti fruiti non possano comunque superare per entrambi i genitori il limite complessivo di sei mesi. peraltro, l’ambito di applicazione della norma viene ridotto prevedendosi che la prestazione (calcolata per ciascuna giornata nella misura del trenta per cento del
reddito di lavoro) sia condizionata all’accredito di almeno tre mensilità di contribuzione nei dodici mesi antecedenti il periodo indennizzabile, salvo che si tratti di congedo fruito entro il primo anno di vita del bambino dai lavoratori che abbiano titolo all’indennità di maternità o paternità.
Con riguardo al trattamento in caso di malattia, l’art. 7, co. 8, specifica, inoltre, «per i soli iscritti alla gestione separata di cui all’art. 1, comma 26, della
legge n. 335 del 1995», che i periodi di malattia certificata come conseguente a trattamenti terapeutici di malattie oncologiche o di gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, o che comunque comportino un’inabilità lavorativa temporanea del 100%, siano equiparati alla degenza ospedaliera.
L’art. 12 incide sul co. 2 dell’art. 64 del d.lgs. 26.3.2001, n. 151, relativo alla tutela della maternità delle lavoratrici iscritte alla gestione separata e non iscritte ad altre forme obbligatorie di previdenza, integrandolo con l’importante previsione alla cui stregua l’erogazione della prestazione da parte dell’inps, nei due mesi antecedenti e nei tre successivi al parto, avverrà – come è già previsto per le libere professioniste iscritte alle casse categoriali – indipendentemente dall’effettiva astensione della lavoratrice dalla propria attività3.
Sempre in tema di gravidanza (ma con previsione qui riferita anche ai casi di malattia e infortunio), l’art. 13 prevede, per i lavoratori autonomi che prestino la loro attività in via continuativa in favore del committente (e ne facciano richiesta), la sospensione del rapporto contrattuale, senza diritto al corrispettivo, per un periodo non superiore a centocinquanta giorni per anno solare (co. 1). Non è del tutto chiaro se la locuzione utilizzata dalla nuova disposizione («La gravidanza, la malattia e l’infortunio … non comportano l’estinzione del rapporto di lavoro») precluda almeno implicitamente al committente, durante il periodo di sospensione del rapporto, la facoltà di recedere: sembrerebbe questa la ratio della norma, ma parrebbe opportuno esplicitarne meglio il contenuto precettivo. d’altra parte, non sembra del tutto agevole individuare la platea dei rapporti ai quali ci si riferisce (cioè quelli dei lavoratori autonomi che prestino la loro attività «in via continuativa» per il committente). Si noti che il riferimento al carattere continuativo dell’attività in favore del committente, se evidentemente evoca le forme di lavoro parasubordinato “genuino” di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., non è però idoneo a restringere la norma solo a tali rapporti, visto che, oltre che dalla continuità, essi sono caratterizzati dal carattere prevalentemente personale della prestazione e, soprattutto, dal requisito del coordinamento.
Tra le previsioni di tutela in caso di malattia e infortunio va infine annoverata la “moratoria contributiva” contemplata dal co. 3 dell’art. 13. infatti, in caso di malattia o infortunio di gravità tale da impedire lo svolgimento dell’attività lavorativa per oltre sessanta giorni, si prevede la sospensione del versamento della contribuzione previdenziale fino ad un massimo di due anni, decorsi i quali i contributi maturati dovranno essere versati in rate mensili entro un periodo pari al triplo dei mesi di sospensione.
È dubbio se la moratoria contributiva si debba applicare a tutti i rapporti di lavoro autonomo disciplinati dal capo i del d.d.l. in esame oppure soltanto a quelli indicati nel primo co. dell’art. 13. anche in questo caso appare necessario un intervento chiarificatore in sede di approvazione, che prenda esplicitamente posizione in favore della prima e più ampia opzione interpretativa, la quale appare assolutamente da preferire in ragione dello scopo della tutela, che soddisfa un interesse fondamentale sicuramente riferibile a tutti i lavoratori autonomi.
Venendo ai profili che si sono definiti promozionali del d.d.l., vanno anzitutto menzionati i primi due commi dell’art. 7 e l’art. 8, i quali intervengono sul vigente Testo unico delle imposte sui redditi prevedendo la parziale riformulazione del relativo art. 54 (Determinazione del reddito da lavoro autonomo).
Vi si prevede, innanzitutto, che le spese sostenute per la formazione e l’aggiornamento professionale (corsi, master, convegni e congressi), che prima erano fiscalmente deducibili nella misura del 50%, divengano interamente deducibili entro il limite annuo di € 10.000. Poiché la norma fa esplicito riferimento alle sole spese di iscrizione, sembrerebbero escluse le spese di viaggio e soggiorno, la cui parziale deducibilità, invece, è espressamente prevista nell’attuale formulazione normativa, che sul punto dovrebbe essere fatta salva. Diventeranno, poi, interamente deducibili anche le spese alberghiere e di somministrazione di alimenti e bevande sostenute dall’esercente di arti e professioni per lo svolgimento dell’incarico (laddove, in precedenza, esse erano deducibili nel limite del 75% e, in ogni caso,
per un importo complessivamente non superiore al 2% dell’ammontare dei compensi percepiti nel periodo d’imposta). Infine, vengono contemplate due nuove ipotesi di integrale deducibilità fiscale: quella delle spese sostenute per i servizi di certificazione delle competenze, orientamento, ricerca e sostegno all’auto-imprenditorialità (ma solo entro il limite massimo annuo di 5.000 euro) e quella degli oneri sostenuti per forme assicurative o di solidarietà facoltative stipulate contro il rischio del mancato pagamento delle prestazioni di lavoro.
Anche gli artt. 9 e 11 del d.d.l. hanno – seppure sotto altro profilo – una proiezione di tipo promozionale: essi stabiliscono, infatti, rispettivamente, misure per l’orientamento, la riqualificazione e ricollocazione dei lavoratori autonomi nonché misure dirette a favorire il loro accesso agli appalti pubblici.
In particolare, l’art. 9 prevede l’apertura (anche tramite convenzioni non onerose con gli ordini e gli altri organismi rappresentativi) di uno sportello dedicato al lavoro autonomo presso i centri per l’impiego e gli organismi autorizzati alle attività di intermediazione in materia di lavoro, aventi il compito precipuo di raccogliere le domande e le offerte di lavoro, nonché di fornire un adeguato supporto informativo ai lavoratori sull’avvio o la trasformazione delle attività autonome, e sull’accesso agli appalti, al credito ed alle agevolazioni pubbliche.
L’art. 11 prevede: la promozione dell’accesso dei lavoratori autonomi alle informazioni relative ad appalti pubblici e bandi per l’assegnazione di incarichi di consulenza o ricerca (co. 1); l’equiparazione dei lavoratori autonomi alle piccole e medie imprese per l’accesso ai piani operativi regionali e nazionali a valere sui fondi strutturali europei (co. 2); la possibilità per i professionisti di partecipare agli appalti ed all’aggiudicazione di incarichi anche costituendo reti di professionisti o partecipando a reti di impresa, nonché costituendo consorzi stabili o associazioni temporanee professionali (co. 3). Va peraltro avvertito che entrambe le suddette disposizioni precisano che le previste attività debbano essere svolte senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica ed utilizzando le risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili.
Da ultimo, si segnala che nel testo del d.d.l. presentato all’aula dalla Commissione Lavoro del senato è stato introdotto un cospicuo numero di previsioni (artt. 5, 6 e 10) contenenti altrettante deleghe al governo ad adottare uno o più decreti legislativi rispettivamente in tema di semplificazione e riduzione dei tempi dell’attività delle pubbliche amministrazioni, di rafforzamento delle prestazioni di sicurezza e protezione sociale, e di salute e sicurezza degli studi professionali. Più in particolare, e pur senza scendere nel dettaglio, si prevede che:
a) alcuni atti amministrativi possano essere rimessi agli appartenenti alle professioni ordinistiche e agli stessi possano essere demandati compiti e funzioni finalizzati alla deflazione del contenzioso giudiziario ed alla semplificazione in materia di certificazione di adeguatezza dei fabbricati alle norme di sicurezza ed energetiche;
b) gli enti previdenziali di diritto privato siano abilitati ad attivare anche prestazioni (purché finanziate da apposita contribuzione) di sostegno agli iscritti che abbiano subito una significativa riduzione involontaria del reddito o siano stati colpiti da gravi patologie;
c) siano adottate misure di prevenzione e protezione idonee a garantire la tutela e la sicurezza delle persone che lavorino a qualsiasi titolo in studi professionali, la semplificazione degli adempimenti formali in materia e la razionalizzazione del relativo apparato sanzionatorio.
Come ovvio, la concreta utilità ed efficacia di tali promettenti previsioni – che pure ci sembra di dover ricondurre alla vocazione promozionale del d.d.l. – andrà valutata alla luce della normativa delegata, tenendo sempre conto che in tutte le citate disposizioni è inserita l’immancabile clausola d’invarianza finanziaria.
Le misure contenute nel d.d.l. appaiono certamente animate da un’apprezzabile volontà di valorizzare il ruolo socio-economico del lavoro autonomo nella sua globalità, anche nell’ottica di contrastare quel progressivo e diffuso impoverimento che negli anni della crisi si è manifestato in maniera evidente.
L’ulteriore estensione di alcune forme di tutela tradizionalmente riservate al rapporto di lavoro subordinato rappresenta un passo significativo nella direzione di un sistema di welfare minimo del lavoro autonomo. Soprattutto, è apprezzabile la svolta colturale che è stata compiuta e che dà finalmente dignità ad una platea di oltre due milioni di lavoratori, che produce più del 10% del prodotto interno lordo italiano e che ha duramente pagato gli effetti della lunga crisi.
Non possono tuttavia sottacersi le diverse criticità che sono state già segnalate affrontando sia i temi di contesto generale (in particolare con i problemi aperti dalla disposizione dell’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015, solo tangenzialmente affrontati dal d.d.l.), sia quelli più specifici di contenuto delle singole disposizioni del provvedimento. Qui è opportuno, a conclusione del commento al d.d.l., soffermare l’attenzione su due profili problematici.
Il primo rilievo – di fronte ad un progressivo scivolamento del livello dei redditi che per la verità sembra riguardare, seppure in misure diverse, tutte le categorie dei lavoratori autonomi italiani, anche quelle tradizionalmente considerate più forti (valga l’esempio dell’avvocatura) – attiene alla questione della individuazione di parametri per la determinazione di compensi equi, questione che non viene affrontata dal d.d.l., limitandosi questo, come visto, ad apprestare garanzie contro il ritardo nel pagamento dei compensi. Il tema della giustizia dello scambio contrattuale, con la fissazione di un principio di giusto compenso, non può tuttavia essere eluso, quantomeno per quelle categorie di lavoratori autonomi che agiscono in condizioni di maggiore debolezza e di vera e propria dipendenza economica dal committente monopsonistico.
L’abrogazione della disciplina del lavoro a progetto ha anche comportato la cancellazione della previsione contenuta nell’art. 63 del d.lgs. n. 276/2003, nel testo introdotto dalla l. n. 92/2012, alla cui stregua il compenso dei collaboratori – oltre che proporzionato alla qualità e quantità del lavoro eseguito tenuto conto della particolare natura della prestazione – non avrebbe potuto essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività (sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati) dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria (ovvero, in loro assenza, ai livelli decentrati). Al di là della farraginosità della previsione, di difficile e incerta applicazione, la disposizione ormai abrogata articolava un precetto di equo compenso ritenuto evidentemente coessenziale al completamento dello statuto protettivo del collaboratore autonomo a progetto. E una previsione di analoga ispirazione è stata d’altra parte dettata dall’art. 1 della l. 31.12.2012, n. 233, che fissa un principio di equo compenso (ai sensi dell’art. 36 Cost.) in favore dei giornalisti con rapporto di lavoro autonomo, anche in tal caso attraverso un criterio di coerenza retributiva con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale per i titolari di un rapporto di lavoro subordinato. È dunque discutibile che il disegno di legge eluda completamente un tema di così centrale rilevanza nell’assetto regolativo del lavoro autonomo.
Il secondo (e conclusivo) rilievo problematico attiene al tema del riordino della previdenza del lavoro autonomo. È questo un tema di straordinaria complessità, oltre che di ovvia problematicità, non fosse altro in ragione del fatto che qualunque misura di razionalizzazione venisse prefigurata avrebbe immediati riflessi sui già precari saldi di finanza pubblica.
Non sorprende dunque che il d.d.l. sia, sotto questo profilo, altrettanto elusivo. Taluni degli emendamenti presentati al senato in vista della discussione in aula potrebbero peraltro almeno stimolare una prima riflessione approfondita sulla estrema condizione di criticità in cui versano i lavoratori iscritti alla quarta gestione dell’inps. Al momento è però difficile prevedere interventi organici di riforma su questo delicatissimo versante (salva solo la riduzione a regime dell’aliquota contributiva gravante sui soggetti iscritti in via esclusiva a tale gestione, su cui si registra l’impegno espresso del governo ad intervenire con la legge di bilancio).
Note
1 Al momento della redazione di questa voce, il d.d.l. si trova nella fase di avvio del dibattito parlamentare, onde il contributo è stato redatto sulla base del testo emendato, così come sottoposto all’approvazione dell’aula del senato dalla Commissione Lavoro e previdenza sociale. Il testo proposto dalla Commissione modifica in maniera significativa in più punti quello presentato d’iniziativa del governo, sul quale si rinvia a Giubboni, S., Prime osservazioni sul disegno di legge del Governo in materia di lavoro autonomo non imprenditoriale, in Mass. giur. lav., 2016, 244 ss.
2 V. per tutti Treu, T., Tipologie contrattuali nell’area del lavoro autonomo, in Libro dell’anno del Diritto 2016, Roma, 2016, 335 ss.
3 Nel passaggio in Commissione del d.d.l. è stata prevista la possibilità per le lavoratrici in maternità, previo consenso del committente, di farsi sostituire da familiari o soci (art. 13, co. 2).