Lavoro e culture sindacali nel Mezzogiorno
Il termine modernizzazione è stato la parola chiave nei primi due decenni del secondo dopoguerra per la ricerca delle scienze sociali sulle aree del mondo segnate dall’arretratezza politico-sociale e dal sottosviluppo. In quegli anni ha acquisito, con le scontate avversioni politiche e culturali, molti significati ideologici trascinati dalla divisione del mondo in blocchi contrapposti e dalle pretese e ambizioni (non solo economiche) del capitalismo occidentale. Oggi la parola modernizzazione dovrebbe riferirsi alla rappresentazione e alla sintesi di una vasta gamma di problemi che riguardano il cambiamento sociale, economico, politico. Già allora il termine indicava un insieme complesso di connessioni e conseguenze che andavano dall’affermazione e dal consolidamento dei sistemi politici democratici, ai ritmi di industrializzazione, al superamento delle strutture sociali più disgregate, al riconoscimento dei ruoli decisivi che avrebbero dovuto assumere le pubbliche istituzioni, capaci di favorire l’azione delle élites industrializzanti. In questo processo, come emerge dalle ricerche più rilevanti (Kerr, Dunlop, Harbison, Myers 1960), una componente importante e necessaria era rappresentata dalla diffusione del lavoro industriale con le connesse culture sindacali in grado di contribuire all’affermazione di relazioni industriali capaci di regolare il rapporto di lavoro senza aspri conflitti e senza quelle proteste ricorrenti potenzialmente dannose al funzionamento delle democrazie.
Il processo di modernizzazione, con i suoi successi e i suoi fallimenti, ha pienamente riguardato le regioni del Mezzogiorno d’Italia nei lunghi decenni del dopoguerra. Di tale processo ritroviamo tutte le necessità e tutte le componenti, ma in questa sede verrà considerato soprattutto il ruolo giocato dalla diffusione del moderno lavoro industriale e di culture sindacali in grado di rappresentare e interpretare le necessità dell’industria in un contesto per nulla favorevole. Un contesto ben articolato in una delle opere di narrativa più emblematiche della cosiddetta letteratura industriale, frutto dell’esperienza dell’autore presso l’Olivetti di Pozzuoli, raro caso di moderna e avanzata esperienza industriale nel Mezzogiorno: «In questa zona industriale, l’industria vive arroccata, goccia nel mare o nella sabbia di una civiltà di pescatori senza barca e di contadini senza terra. Nessun tessuto lega una fabbrica e l’altra, non c’è proletariato. La disoccupazione non unisce, ma sempre divide, tranne quando esplode» (O. Ottieri, Donnarumma all’assalto, 1959, p. 151).
L’industria, la sua ‘invenzione’, la sua diffusione, le sue tensioni, le sue speranze, le sue delusioni, i suoi fallimenti, i suoi riflessi sulle trasformazioni del lavoro e delle culture sindacali sono al centro di questo capitolo, in buona parte costruito attraverso una fonte inconsueta, di norma trascurata dai non pochi studi meridionalistici che sono comparsi attorno a questi temi nel lungo arco di più di mezzo secolo. La fonte, si potrebbe dire il giacimento, è costituita dalle ricerche sociologiche che, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, sono state condotte sulle nuove realtà industriali del Mezzogiorno e che hanno riguardato tutti i principali settori produttivi dell’industria moderna, dalla chimica e petrolchimica di Gela, Siracusa e Brindisi, alla siderurgia di Taranto e Bagnoli, all’automotive di Pomigliano e Melfi (per ricordare solo alcune fra le ricerche più importanti). È un patrimonio di ricerca pressoché unico sul lavoro italiano; non si dispone infatti di una fonte di tale rilievo per le altre esperienze industriali, da quelle più antiche del triangolo industriale (Milano, Torino, Genova), a quelle più recenti legate alla diffusione della produzione di massa nelle regioni del Nord-Est. Le ricerche dei primi due decenni (condotte fra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta), sia pure su scala più modesta, bene avrebbero potuto essere collocate all’interno del poderoso progetto di studi americani condotto (con dovizia non casuale di risorse) sulla industrializzazione e sul lavoro industriale (Inter-university study of labor problems in economic development) di cui il ricordato testo di Kerr e colleghi costituisce il libro ‘bandiera’ (e riassuntivo). Il lavoro industriale viene considerato nei suoi effetti sulla composizione della struttura sociale, le culture sindacali sono collocate sullo sfondo della tradizione derivante dall’esperienza italiana, messa alla prova nei decenni del dopoguerra dai problemi posti prima dalla ricostruzione e poi dallo sviluppo del Mezzogiorno.
Proprio sulle culture sindacali è però necessario un chiarimento in quanto la dizione ‘cultura’ in tema di esperienze sindacali non è comune. Si usa invece abitualmente l’espressione cultura politica, e ciò non è irrilevante, in quanto sembra che il termine cultura sia riservato dagli intellettuali e dalla storiografia a qualcosa di più nobile e di più conosciuto del sindacato, ritenuto in modo esplicito o implicito come una vicenda minore, da una parte derivata dalla politica, dall’altra frutto delle stratificazioni materiali e valoriali delle diverse esperienze lavorative, privo quindi di una sua autonomia. Seguendo questa consuetudine però si perderebbero di vista aspetti rilevanti dello sviluppo del Mezzogiorno, che sono in qualche modo riconducibili al ruolo delle culture sindacali, per es. il relativo successo iniziale della integrazione dell’industria nel tessuto sociale, e non si coglierebbero gli apporti a favore del cambiamento nelle relazioni fra realtà locali e istituzioni politiche, come nelle vicende più recenti dei patti territoriali.
Certo, il legame fra la materialità delle condizioni di lavoro e le culture sindacali è operante nelle diverse fasi della storia industriale. Nei periodi precedenti il diffondersi dell’industria meccanizzata a produzione di massa si evidenzia il prevalere dei sindacati di mestiere con la connessa pratica dell’autoregolazione del rapporto di lavoro. Una fase questa piuttosto debole nell’esperienza italiana a cavallo fra Ottocento e Novecento, e quasi assente nel Mezzogiorno. L’avvento dell’industria moderna condurrà all’affermarsi del sindacato industriale, l’attore principe del sindacalismo moderno, animato dalla logica e dalla pratica della contrattazione collettiva. La presenza di un mercato del lavoro con una significativa presenza di forza lavoro agricola e del proletariato edile spiega il diffondersi delle forme di rappresentanza sindacale territoriale, con minori o maggiori capacità di controllo del mercato stesso. Ed è questa la rappresentanza, più o meno trasformata in senso assistenziale-istituzionale, che vedremo prevalere nelle regioni meridionali più segnate dalla forte presenza del lavoro bracciantile. Ma si potrebbe scoprire poi come le forme organizzative della rappresentanza, imposte dalla diversità delle condizioni materiali del lavoro, non sempre identificano in modo plausibile e convincente proposte e politiche sindacali omogenee. È proprio in questo scarto fra le condizioni materiali e le istanze proposte che si ritrovano all’opera diverse culture sindacali, considerate come l’ambito o l’antefatto delle richieste e delle rivendicazioni, ovvero come una sorta di collegamento fra gli aspetti concreti delle attività di rappresentanza sindacale (quelli fortemente plasmati dalle condizioni produttive) e il più ampio riferimento alla società e alle sue trasformazioni. In questo significato il termine cultura esprime la capacità di ricezione delle dinamiche sociali esterne, con finalità di integrazione nelle relazioni sociali stesse. Vedremo così il costituirsi delle culture sindacali anche sulla base delle visioni dello sviluppo del Mezzogiorno e dell’accettazione delle relazioni industriali innescate dai processi di modernizzazione degli apparati produttivi.
La diffusione del lavoro operaio industriale nel Mezzogiorno è considerata, nelle diverse interpretazioni e talvolta con sovraccarichi politico-ideologici, come un decisivo elemento di cambiamento delle strutture sociali e delle forme di partecipazione all’impegno e alle lotte politiche. Nella cultura politica di ascendenza marxista l’avvento di una vera e propria classe operaia, sia pure con nuove forme di alleanza con il proletariato agricolo, era considerato decisivo per il rovesciamento delle condizioni di sfruttamento capitalistico da cui erano gravate le regioni meridionali. Per la cultura politica del meridionalismo riformista, nelle sue varie componenti, la presenza sempre più ampia di strati di operai industriali poteva rappresentare un decisivo fattore per quella modernizzazione delle strutture di stratificazione sociale che sarebbe stata necessaria per il rafforzamento dei ritmi di sviluppo economico. In entrambe le culture, unite almeno in questo, la diffusione del lavoro operaio industriale avrebbe costituito una opportunità rilevante per il superamento delle condizioni disgregate e frammentate delle strutture sociali meridionali e delle (diremmo oggi) sue dotazioni inadeguate di capitale sociale. Una frammentazione e una debolezza che avrebbero lasciato nella società meridionale facile terreno all’intervento mediatorio e clientelare dei gruppi opportunisti della piccola borghesia, più o meno legati alle reti istituzionali e della rappresentanza politica, come aveva ricordato con parole sferzanti Gaetano Salvemini (1873-1967) fin dai primi decenni del secolo scorso: «gli spostati della piccola borghesia intellettuale finiscono quasi tutti col diventare professionisti della politica, e della politica peggiore» (La piccola borghesia intellettuale nel Mezzogiorno d’Italia, «La Voce», 16 maggio 1911, poi in Problemi educativi e sociali dell’Italia d’oggi, 1922, ora in Caizzi 1975, p. 379). Sono giudizi che si ritroveranno, sia pure inseriti in analisi talvolta contrastanti, in tutte le migliori riflessioni apparse nei decenni del secondo dopoguerra, fino ai giorni nostri (Pugliese 1979; Trigilia 1992 e 2012).
Una struttura sociale frammentata e disgregata che non lascia molto spazio a durature azioni e mobilitazioni di solidarietà. È questa la condizione che traspare nella celebre sentenza di Antonio Gramsci (1891-1937): «Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale; i contadini che costituiscono la maggioranza della sua popolazione non hanno nessuna coesione tra loro» (Note sulla questione meridionale, «Stato operaio», 1930, poi in «Rinascita», 1945, ora in Caizzi 1975, p. 435). È uno scritto segnato da un eccessivo carico politico e ideologico, ma che certo ha lasciato traccia. L’assenza di coesione sociale può essere letta attraverso la debolezza di stabili legami associativi, una debolezza che non impedisce la mobilitazione e la protesta (come nelle lotte contadine), ma che ostacola la formazione di un’organizzazione pluralista della società. Una debolezza che possiamo interpretare attraverso la categoria del «familismo amorale», emersa dal celebre scritto dello scienziato politico americano Edward C. Banfield (1916-1999), apparso nel 1958 con il titolo The moral basis of a backward society e tradotto in italiano la prima volta nel 1961 con il più neutrale titolo Una comunità del Mezzogiorno. Si tratta di una ricerca che egli condusse a metà degli anni Cinquanta nel borgo lucano di Chiaromonte (Montegrano nella ricerca).
Pochi altri scritti hanno lasciato un segno così profondo nella riflessione delle scienze sociali nel dopoguerra italiano, e non solo. La categoria del «familismo amorale», che era la chiave interpretativa della ricerca, entrò da allora, quasi come una maledizione (‘la maledizione di Banfield’), nel linguaggio comune che rappresenta e interpreta le relazioni sociali nel Mezzogiorno. Mezzo secolo di critiche, di analisi in grana più fine, di puntualizzazioni in chiave storica e sociologica hanno ridimensionato, ma non cancellato, la portata interpretativa della categoria di Banfield la cui validità persiste almeno nel ricordarci la debolezza organizzativa e la ritrosia associativa così diffusa in non poche situazioni sociali delle regioni meridionali, laddove emerge «l’incapacità degli abitanti di agire insieme per il bene comune o, addirittura, per qualsivoglia fine che trascenda l’interesse immediato della famiglia nucleare» (E.C. Banfield, The moral basis, cit., trad. it. Le basi morali di una società arretrata, 2006, p. 39). Una base morale tipica della cultura di molte situazioni di arretratezza, non solo in Italia, che avrebbe vanificato ogni sforzo di modernizzazione. Moderne culture sindacali avrebbero potuto costruire il cammino per ovviare a questa ‘maledizione’.
Sulla debolezza di moderne culture sindacali si è consumata un’altra delle tante differenze fra le regioni meridionali e il Settentrione del Paese. Nel Mezzogiorno questa debolezza, se non questa assenza, ha contribuito alla scarsità delle «risorse di identità e di organizzazione» (Trigilia 1992, p. 10), non solo quando nei primi anni del Novecento la mobilitazione collettiva, animata dalla cultura socialista e cristiano-sociale, raggiungeva nel Nord i primi traguardi associativi, ma anche quando essa nei primi due decenni del secondo dopoguerra, superati gli aspri conflitti fra le maggiori confederazioni sindacali, contribuiva alla costruzione, negli anni finali del miracolo economico, delle basi di un moderno sistema di relazioni industriali. In questi anni la diffusione del lavoro industriale segnalava la comparsa del lavoro stabile, di carriere operaie e impiegatizie dotate di coerenza e prevedibilità, di forme di regolazione della prestazione lavorativa legate alle condizioni tecnologiche e organizzative della produzione (dagli incentivi fino alla job evaluation), di un minimo di protezione sociale, di occasioni di partecipazione sindacale non solo attraverso i processi di contrattazione collettiva ma anche nella realizzazione di una vera e propria cittadinanza industriale, come componente necessaria della cittadinanza politica.
Il contributo alla nascita di moderne culture sindacali, che nel Mezzogiorno poteva derivare dallo sviluppo delle culture materiali del lavoro, era modesto. Il Mezzogiorno poteva contare solo sugli apporti derivanti dalla tradizione del sindacalismo bracciantile. Una tradizione – talvolta trascurata dalla storiografia – che, alimentata dalle estese dimensioni del proletariato agricolo, costituisce un vero carattere peculiare del movimento sindacale italiano (S. Musso, Gli operai nella storiografia contemporanea. Rapporti di lavoro e relazioni sociali, in Tra fabbrica e società, 1999, p. XVI). È una peculiarità che ritroviamo bene evidenziata in un testo sul sindacalismo italiano che merita sempre di essere riscoperto, dove si inizia proprio con «l’eccezionale espansione dell’unionismo nelle campagne, a differenza di quanto avveniva negli altri paesi capitalistici, dove i lavoratori della terra restavano estranei all’organizzazione, salvo brevi periodi di intensa tensione sociale» (I. Barbadoro, Storia del sindacalismo italiano, 1° vol., La Federterra, 1973, p. XIII). Nel Mezzogiorno, nei primi anni del secondo dopoguerra, il sindacalismo bracciantile animò le lotte per trasformare le strutture della proprietà agraria e per rendere più operativi ed efficaci i provvedimenti, ancorché timidi e limitati, della riforma fondiaria del 1950, impegnandosi in una dura competizione per il raggiungimento dell’egemonia di rappresentanza sindacale (e politica) del mondo del lavoro agricolo (Garufi 2012, pp. 19-29). Lotte che non raramente incontrarono esiti tragici per la repressione delle forze di polizia, in quel quadro di labour exclusion entro il quale erano sospinte le rivendicazioni e le lotte sindacali nel primo quindicennio della storia repubblicana (con qualche coda persino verso il finale del decennio Sessanta).
La tradizione del sindacalismo bracciantile non poteva però fornire un grosso contributo alla nascita di moderne culture sindacali, e questo non solo per le condizioni di arretratezza dell’agricoltura meridionale, nonostante alcuni significativi interventi di riforma, ma anche per la culture politiche che da esso traevano una più o meno strumentale ispirazione. Di queste condizioni e su queste culture, con il corrispondente ruolo conservatore dei ceti intellettuali, si può ritrovare una testimonianza esemplare nella raccolta delle lettere di un grande meridionalista come Manlio Rossi-Doria (Una vita per il Sud. Dialoghi epistolari 1944-1987, 2011).
La cultura sindacale derivante dal lavoro in agricoltura si rivelava piuttosto, nel contesto politico e sociale delle regioni meridionali, come la protagonista di una curiosa trasformazione verso un sindacalismo istituzionale-assistenziale, favorita dagli interventi legislativi rivolti al sostegno delle prerogative sindacali, primo fra tutti la l. 27 dic. 1973 nr. 852, che introduceva la possibilità di riscuotere le deleghe di iscrizione ai sindacati con le richieste dei sussidi di disoccupazione. Una prerogativa che permise uno straordinario aumento della sindacalizzazione del lavoro agricolo e che costituì una sorta di variante anomala, nel Mezzogiorno d’Italia, di un modello di organizzazione sindacale che trovava (e trova tuttora sia pure con sensibili ridimensionamenti) piena applicazione nei contesti industriali avanzati del Nord-Europa e che è riconosciuto nella letteratura delle relazioni industriali come il modello del Ghent system (dal nome della città belga dove tale sistema fu istituito nel 1901), ovvero la forma di tutela che prevede un’ampia integrazione dei sussidi pubblici di disoccupazione attraverso l’iscrizione ai sindacati.
In agricoltura gli iscritti ai sindacati nel Sud e nelle Isole quasi raddoppiarono passando, per le due maggiori confederazioni la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) e la Confederazione italiana sindacati lavoratori (CISL), dai 449.480 del 1973 agli 818.288 del 1977 (La sindacalizzazione tra ideologia e pratica, 1980, 2° vol., p. 236). Questo straordinario aumento della sindacalizzazione si accompagna a una trasformazione sensibile della cultura sindacale, del tutto spostata sui compiti assistenziali. È una realtà che vediamo emergere con efficacia nella ricerca curata da Giuseppe Della Rocca sul comprensorio di Crotone: «l’attività dell’assistenza è preponderante nell’attività del sindacato nelle comunità agricole, mentre di minore importanza è quella di propaganda e mobilitazione» (Potere e democrazia nel sindacato, 1979, p. 183). A questa attività si accompagna quella di controllo del collocamento, con l’inserimento istituzionale nelle commissioni create dalla legge. Nei sindacati si crea un corpo di funzionari a tempo pieno dedicato all’attività assistenziale, in stretta dipendenza dai maggiori partiti politici, senza sensibili differenze fra CISL e CGIL, con compiti di mediatore e di garante, per la gestione delle richieste di assistenza e il riconoscimento delle giornate di lavoro. Si è compiuta una «involuzione da sindacato di tipo solidaristico ad uno di tipo assistenziale» (p. 199), che configura un grado di legittimazione dei dirigenti sindacali «tutto esterno più che interno all’organizzazione sindacale stessa» (p. 211), non lontano dalle tradizionali procedure del clientelismo.
Una realtà non molto diversa da quella che emerge da un’altra indagine, condotta da Rosa Giolitti e Michele Lepore, nell’ambito della stessa ricerca e dedicata alle strutture della CGIL nella provincia di Reggio Calabria, anch’essa caratterizzata da una vistosa ascesa della sindacalizzazione fra il 1971 e il 1976. Per quanto attiene ai modelli di rappresentanza e alla cultura sindacale, le conclusioni non sono molto diverse da quelle della ricerca su Crotone; ci si trova di fronte infatti a «un’organizzazione sindacale che si propone come elemento di controllo sociale, in quanto tramite con lo Stato per la risoluzione di una serie di contraddizioni sociali mediante interventi assistenziali, e addirittura che pone se stessa come istituzione, sostituendosi ad organismi pubblici inefficienti» (p. 237). Nell’insieme, dalle culture materiali del lavoro, nel contesto socio-politico delle regioni meridionali, non ci si poteva attendere la nascita di culture sindacali capaci di contribuire a una moderna e innovativa organizzazione pluralista della società.
In conseguenza di questa scarsa promozione da parte delle culture materiali, nell’assenza di uno sviluppo industriale, i primi decenni del secondo dopoguerra videro all’opera, sulle questioni del Mezzogiorno, le culture sindacali che animavano il caso italiano in quella competizione talvolta così aspra da impedire che, fra queste, se ne affermasse una su tutte. La prima cultura messa alla prova è quella della classe o delle politiche di classe, ovvero la cultura che forma l’esperienza della CGIL per buona parte del secondo dopoguerra. È la cultura che propone e anima la rappresentanza del lavoro, o del «popolo lavoratore» come usava dire Giuseppe Di Vittorio (1892-1957), e che mal si adatta a rappresentare in primo luogo gli iscritti all’organizzazione. Lo stesso Di Vittorio, un leader coraggioso e lungimirante, non aveva difficoltà a comprendere come tale orientamento potesse condurre, soprattutto nel Mezzogiorno, a un’eccessiva debolezza e all’instabilità delle strutture organizzative. Nel marzo 1957, al primo convegno nazionale della CGIL sull’azione sindacale nel Mezzogiorno, si ammetteva che andava superato «il carattere di “movimento” che in molte località ha avuto per lungo tempo, ed ha ancora oggi, l’organizzazione sindacale meridionale» (Sindacato e Mezzogiorno, 1981, p. 208). Ma nello stesso tempo si continuava a diffidare della contrattazione collettiva come strumento fondamentale per la regolazione delle condizioni di lavoro, interpretandola piuttosto come un mezzo fra gli altri per la mobilitazione e la promozione del lavoro.
È una cultura segnata da due preoccupazioni, talvolta in contrasto, dato che l’eccesso di rilievo concesso alla prima può condurre al manifestarsi degli eventi temuti dalla seconda. La prima è rivolta verso i particolarismi e l’articolazione delle rivendicazioni (sostenuta dalla CISL), e segnala il timore che l’espressione di interessi specifici riesca a mettere in pericolo l’unità e l’unicità del lavoro, della classe lavoratrice, delle masse popolari. Nelle politiche economiche tale preoccupazione si è tradotta inizialmente – come si apprende da un deliberato della segreteria confederale del 1961 sulla situazione economico-sindacale del Mezzogiorno (Sindacato e Mezzogiorno, 1981, p. 247) – addirittura in un’avversione verso la realizzazione di poli di sviluppo industriale, ritenuta segno di «subordinazione della spesa pubblica ai gruppi privati che operano nel Mezzogiorno», incapace di «promuovere uno sviluppo generale delle economie regionali e di tutto il Mezzogiorno». La seconda richiama una sorta di timore del distacco; è la preoccupazione di evitare fratture, o anche solo incomprensioni, con il proprio ambito sociale di riferimento. Un segno della permanenza di questa preoccupazione lo vediamo nella costante insofferenza della CGIL verso ogni forma, anche contrattuale, di regolamentazione dello sciopero o di composizione delle controversie. Un timore che vediamo riconfermato (anche in anni recenti nella vicenda FIAT di Pomigliano) in contesti, come quelli meridionali, che forse potrebbero trarre qualche vantaggio da una maggiore disponibilità collaborativa da parte sindacale. Sono evidenti i margini potenziali di contrasto (non sempre nella storia della CGIL risolti con successo dai gruppi dirigenti) fra questi due timori, dato che il mancato riconoscimento dei ‘particolarismi’ può condurre verso episodi di disimpegno, se non di abbandono delle file sindacali. L’integrazione nella società, e la sua rappresentazione, non è influenzata solo da queste preoccupazioni ma anche da un’ambizione, o una pretesa: quella di voler essere sempre qualcosa di più di un sindacato e soprattutto di un’associazione sindacale. La pretesa di collocarsi come un tramite non rinunciabile fra classe (o lavoro) e sviluppo capitalistico, descritto non raramente, in modo rituale, con il ricorso al fatidico aggettivo ‘monopolistico’. Con una tale rappresentazione era ostacolata la nascita di una cultura industriale atta ad accompagnare il processo di industrializzazione del Mezzogiorno. Anche il Piano del lavoro presentato dalla CGIL nel 1949-50, pur nell’assunzione di preveggenti tratti keynesiani, non avrà richiami significativi alle esigenze della logica della produzione industriale, e soprattutto dell’impresa, ovvero del luogo ottimale per la formazione della cultura industriale.
Con la cultura della classe (o per la classe), nei decenni del dopoguerra e soprattutto negli anni decisivi dell’avvento e della diffusione dell’industria di massa si confrontò la cultura del pluralismo o della contrattazione, espressa dalla CISL, sia pure con accenti sensibilmente diversi nelle fasi che si susseguono nel dopoguerra e nelle differenti entità organizzative. È la cultura che ritrova alimento e ispirazione nelle esperienze del sindacalismo britannico e americano, sostenuta ma non ispirata dalla dottrina sociale cattolica. È la prima fra le culture sindacali italiane dell’ultimo sessantennio a esprimere una vera e propria cultura delle relazioni industriali, riscoprendo, sia pure in modo implicito, motivi caratterizzanti l’esperienza della vecchia Confederazione generale del lavoro nei primi due decenni del 20° secolo. La contrattazione non è solo lo strumento principe dell’azione sindacale, non rinunciabile in alcun senso, ma è soprattutto un modo di integrare una parte (il lavoro e la sua condizione) nel tutto (la società e il suo sviluppo industriale). Si pensi agli accenti posti sugli effetti positivi della contrattazione stessa sullo sviluppo industriale, sul progresso tecnologico, sui meccanismi di accumulazione, sui circuiti più virtuosi di politica economica.
Entro questa cultura l’industria è ritenuta il solo contesto nel quale può affermarsi il sindacalismo moderno. Così sostiene Giulio Pastore (1902-1969), in esplicita sintonia con la relazione di Pasquale Saraceno (1903-1991), a quel convegno promosso nel 1953 dalla Cassa per il Mezzogiorno, che costituì una tappa storica per l’espressione del Nuovo meridionalismo: «Il fenomeno industriale è alla radice stessa del sindacato. In linea di massima l’ambiente agricolo o prevalentemente agricolo, a ragione della sua composizione economica e sociale, non è ambiente favorevole, se non è addirittura negativo, per lo sviluppo del sindacato» (Sindacato e Mezzogiorno, 1981, p. 106). Una visione ripetuta in quella risoluzione approvata dal consiglio generale della confederazione nel luglio 1954 che forse costituisce la riflessione più compiuta della CISL sull’azione sindacale per lo sviluppo del Mezzogiorno. Sono molteplici, si afferma, le condizioni che nel Mezzogiorno rendono «innaturale» la presenza del sindacato: «queste sono soprattutto il basso livello dell’industrializzazione, cui fa riscontro una mano d’opera scarsamente desiderosa di tutelare collettivamente le condizioni di impiego, la eccedenza permanente dell’offerta sulla domanda di lavoro, che rende estremamente difficile la funzione sindacale di controllo dell’offerta con la conseguente impressione di inutilità dell’associazionismo dei lavoratori, la inesistenza dei gruppi professionali operai ben individuati che costituiscono l’ossatura tradizionale del sindacalismo, ecc.» (p. 124).
Sulla contrattazione, almeno nelle federazioni industriali, si costruiva un’identità associativa, con il rifiuto esplicito (almeno nell’immagine) di qualsiasi richiamo ideologico o partitico; si fondava la propria rappresentanza attraverso reti di solidarietà verticale ben differenti dalla solidarietà orizzontale auspicata dalla CGIL; si strutturava l’organizzazione con un’attenzione continua a tutti i luoghi direttamente coinvolti da responsabilità contrattuali. Al tempo stesso, secondo la tradizione pluralista, si affermava un atteggiamento diffidente, se non ostile, nei confronti degli interventi legislativi sui temi oggetto delle relazioni contrattuali. L’impresa industriale occupa un posto centrale in questa cultura, che ha successo nell’elaborazione di schemi rivendicativi legati agli incrementi della produttività e nella proposta-accettazione di forme di classificazione professionale direttamente legate alle condizioni organizzative e tecnologiche della produzione (la job analysis e la job evaluation), come scopriremo, per es., dalle esperienze dei nuovi insediamenti industriali nel Mezzogiorno, come l’Italsider di Taranto.
Il ruolo di un gruppo di intellettuali (economisti, giuristi, ingegneri) sarà decisivo nella nascita di questa cultura, anche attraverso uno sforzo formativo dei quadri dell’organizzazione di cui non si trovano molti altri precedenti nel caso italiano. Uno sforzo agli inizi, negli anni Cinquanta, sostenuto da istituzioni e associazioni americane nel quadro delle politiche di modernizzazione, nonché di promozione delle componenti sindacali e politiche che competevano con la cultura e le forze ‘social-comuniste’. Il tutto con la mediazione originale della straordinaria figura di Mario Romani (1917-1975), professore di storia economica all’Università Cattolica che ritroviamo dietro l’elaborazione di molte linee d’intervento della CISL, anche sui temi del Mezzogiorno. Alcuni appartenenti a questo gruppo parteciparono poi (nel decennio a cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta) alla predisposizione della politica innovativa nelle relazioni industriali lanciata dal sistema delle aziende a partecipazione statale attraverso le proprie organizzazioni di rappresentanza, Intersind e Asap (Impresa e sindacato, 1996). È difficile sottovalutare il ruolo giocato da questa vera e propria élite modernizzante, imprenditoriale ma anche sindacale, attraverso l’aspirazione al pluralismo, la disponibilità alla contrattazione, l’accettazione del conflitto nella ricerca della sua composizione, l’esplicita ambizione riformatrice non aliena da tensioni etiche. Non sono mancate interpretazioni, non sempre ben fondate, che hanno sottolineato gli obiettivi politico-partitici di questo ruolo, giocato in prevalenza dai settori della sinistra democristiana orientati alla riconquista elettorale delle regioni meridionali, scosse dalla reazione ai (timidi) interventi di riforma fondiaria. Resta comunque che, con l’azione decisiva di questa élite, luoghi significativi della nuova industrializzazione del Mezzogiorno (per es. le aziende Italsider) sono stati coinvolti nelle trasformazioni indotte dalla logica e dalla pratica delle relazioni industriali.
Nell’esperienza italiana, con il raggiungimento del culmine di sviluppo dell’età industriale, con l’estendersi delle pratiche comuni nella contrattazione collettiva, con il connesso riconoscimento delle controparti e l’aumento delle occasioni di cooperazione organizzativa, si sono diffusi processi di contaminazione fra le due culture, quella ‘di classe’ e quella ‘pluralista’, e in taluni momenti è parso che la seconda, potesse orientare la trasformazione culturale complessiva del sindacalismo italiano. Ma quando questi processi sono diventati ‘invadenti’, i gruppi dirigenti delle maggiori confederazioni italiane hanno ritenuto opportuno riproporre confini e distinzioni, allo scopo di riconfermare la propria identità e i propri ruoli organizzativi. Sulle questioni dello sviluppo del Mezzogiorno gli avvicinamenti fra le due culture, almeno dalla seconda metà degli anni Cinquanta, sono stati rilevanti, sia pure con sensibili distanze nei giudizi verso le nuove politiche della Cassa e con incomprensioni rilevanti, anche se non sono mancati significativi sforzi della cultura CGIL per valorizzare i punti di contatto.
Ciò è stato palese, per es., nel commento di Bruno Trentin (1926-2007) a seguito dei due convegni meridionali di CGIL e CISL tenutisi a Napoli nel corso del 1957 (Sindacato e Mezzogiorno, 1981, pp. 210-224). E non deve sorprendere questo commento, proprio perché proviene da quell’intellettuale-dirigente che nel 1962, al convegno di Roma dell’Istituto Gramsci sulle Tendenze del capitalismo italiano fornì, non senza suscitare avversioni e insofferenze nella tradizionale cultura comunista, l’interpretazione più convincente e informata non solo sulle tendenze del neocapitalismo e sul nuovo intervento dello Stato nelle politiche di sviluppo, ma anche sulle ambizioni e proposte della CISL. Per cogliere quanto di unitario e innovativo proverrà dalle culture sindacali delle regioni meridionali, bisogna a questo punto rifarsi alle trasformazioni indotte dalla diffusione del lavoro industriale, a seguito delle politiche ordinarie e straordinarie delle istituzioni pubbliche (Cassa del Mezzogiorno in primo luogo).
L’industria chimica (e petrolchimica) ha costituito, assieme alla siderurgia, il settore privilegiato dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, ovvero della modernizzazione industriale guidata dalle élites politiche con alleanze, più o meno virtuose, fra quelle imprenditoriali pubbliche e private. Gli insediamenti, nel corso di meno di un ventennio, si diffusero in Sicilia, in Sardegna, in Calabria, in Puglia. Tale privilegio è in buona parte comprensibile attraverso le caratteristiche tecnico-produttive dell’industria chimica, che non richiede la presenza di connesse reti di imprese (se non nelle fasi di costruzioni degli impianti) e di mercati locali per la commercializzazione dei prodotti. Un privilegio che non teneva in considerazione (come era scontato in quegli anni) le esternalità negative di queste produzioni sulla salute e sull’ambiente. Certamente non fu una storia di successi, e si iscrisse nel generale fallimento dell’industria chimica nazionale. Ma ciò non deve impedire di cogliere gli effetti positivi di questa storia sull’affermazione di una cultura del lavoro industriale in aree da sempre escluse dallo sviluppo.
Il polo industriale di Priolo-Augusta. Uno dei primi poli di sviluppo industriale riconducibili alla politica di incentivazione statale nelle aree meno sviluppate del Mezzogiorno è quello nel settore chimico e petrolchimico localizzato nella Sicilia orientale, in un’area geografica compresa tra i comuni di Augusta e Priolo-Melilli. In quest’area, in virtù della localizzazione strategica situata sulla rotta del greggio tra il canale di Suez e Gibilterra e per l’ampia disponibilità di manodopera a basso costo, tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Sessanta furono costruiti diversi impianti industriali, alcuni dei quali tra loro collegati da processi di trasformazione dei prodotti di base, insieme a una piccola rete di imprese edili di supporto agli impianti principali.
Il primo grande insediamento industriale privato, che diede il via al processo di sviluppo economico indotto, sorse nel 1949 con la costruzione nel territorio di Augusta della Raffineria siciliana oli minerali (Ra.Si.O.M.), azienda con 750 addetti destinata a diventare negli anni successivi uno dei maggiori gruppi nel settore chimico e petrolchimico nell’area mediterranea. Alla raffineria si aggiunse la costruzione della centrale termoelettrica Tifeo (poi ENEL, Ente nazionale per l’energia elettrica), alimentata mediante un oleodotto dalla Ra.Si.O.M. e in grado di soddisfare da sola il 60% dell’intero fabbisogno energetico della Sicilia. La fase di industrializzazione nell’area proseguì nel 1956 con la costruzione nel comune di Priolo della S.In.Cat. (Società industriale catanese), azienda specializzata nella produzione di prodotti chimici e fertilizzanti con un’occupazione di oltre 3000 dipendenti. All’iniziativa privata si aggiunse poi l’intervento diretto dello Stato con la costruzione nel 1960, da parte dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), di un altro grande insediamento industriale petrolchimico destinato a sfruttare il petrolio scoperto nell’area di Gela. La struttura produttiva del nuovo impianto a partecipazione statale riguardava la raffinazione del petrolio, la chimica organica e quella inorganica con la produzione di acido solforico, ammoniaca, cloro e concimi complessi.
Nell’arco di un decennio la vocazione dell’area si trasformò radicalmente, con il passaggio da un’economia tradizionalmente basata sull’agricoltura, sulla pastorizia, sulla pesca, a una nuova realtà produttiva marcatamente orientata all’industria. Tale processo innescò una fase di cambiamento sociale mai sperimentato in precedenza in quei territori, generando nella popolazione dei comuni situati nelle aree di insediamento industriale, aspettative di vantaggi e benefici in termini di sicurezza e sviluppo occupazionali, di crescita del reddito e dei consumi.
La descrizione più completa sullo sviluppo del polo industriale nell’area di Priolo-Augusta e del conseguente impatto sui lavoratori e sui territori interessati è quella di F. Leonardi (1964) sulle «nuove forze del lavoro industriale nell’area siracusana». L’analisi, basata su un’accurata ricerca sociologica condotta dall’ottobre 1960 al marzo 1962 su un campione stratificato di 336 operai rispetto all’universo di 3314 casi individuati, propone una lettura dal basso del processo di industrializzazione e del conseguente mutamento sociale a esso riconducibile, avendo come protagonisti i ‘nuovi’ operai quali soggetti attivi del cambiamento. Proprio a partire dalla disamina delle caratteristiche e della composizione della forza lavoro impiegata nelle industrie dell’area possiamo comprendere la natura e la portata della trasformazione. In particolare, rispetto alla provenienza dei lavoratori la ricerca ha evidenziato che solo una parte (il 20%) degli operai assunti proveniva direttamente dal settore agricolo, mentre oltre la metà proveniva da occupazioni precarie e saltuarie nel settore industriale e nel terziario. Occorre inoltre rilevare che solo il 5% del totale degli addetti era in cerca di prima occupazione. In altre parole, il passaggio dal settore primario all’industria era in qualche misura già avviato con la scelta di attività precarie nel settore secondario, per es. nelle imprese cui era stato affidato il compito di realizzare gli impianti industriali.
La provenienza da settori differenti, associata a diversi livelli di istruzione, si traduceva in una particolare struttura e gerarchia interna alla fabbrica. I lavoratori precedentemente occupati in agricoltura fornivano il maggior numero di operai generici, poco o affatto istruiti, mentre quelli con una precedente occupazione nel settore secondario e nel terziario, mediamente istruiti, costituivano il gruppo degli operai specializzati e qualificati. La scelta del lavoro nelle industrie era, nella maggior parte dei casi (oltre il 60%), legata alla sicurezza di tale impiego, all’insufficienza del reddito delle occupazioni precedenti (29,6%), al maggior reddito del nuovo lavoro (25,5%). A fronte delle numerose domande di assunzione pervenute, il processo di reclutamento della forza lavoro da parte delle aziende ha operato una rigida selezione guidata dalla natura non manifatturiera delle attività (ad alta intensità di capitale), ma soprattutto dall’elevato livello tecnologico degli impianti, che richiedevano determinate caratteristiche professionali da parte dell’operaio. Date queste condizioni, non potendo contare nella maggior parte dei casi sulla qualificazione professionale, i lavoratori locali hanno attivato altri meccanismi di natura relazionale. Come rileva Leonardi (1964, p. 39), «chi aspira all’assunzione è costretto a basare le sue chances non su quello “che sa fare”, ma sul prestigio e sull’autorità di “chi” può efficacemente “premere” sulle direzioni aziendali e dare testimonianza dello stato di bisogno, della buona volontà, dell’onestà, probità, “indipendenza” dall’attivismo sindacale dell’aspirante operaio». Raramente i lavoratori furono assunti tramite gli uffici di collocamento, laddove più influenti furono invece le pressioni e le segnalazioni da parte delle organizzazioni sindacali e dei sindaci dei comuni interessati. Rispetto alle esperienze iniziali e alla fase di avvio della produzione, negli anni successivi si registra una maggiore attenzione ai processi di reclutamento e selezione dei lavoratori, generalmente più giovani (22-23 anni) e con un più elevato livello di istruzione. Inoltre, la ricerca restituisce un’elevata mobilità interna delle qualifiche professionali rispetto al momento dell’assunzione, legata probabilmente anche al progressivo adeguamento dei lavoratori alle tecnologie utilizzate; nella primavera 1961 il 51% dei lavoratori aveva la medesima qualifica di assunzione, mentre per gli altri c’era stato un avanzamento nella carriera di un grado (32%), due gradi (12%) e per il 4% di tre gradi, con un corrispondente aumento del livello salariale. Ciononostante, il management (soprattutto i dirigenti e i capi intermedi di provenienza settentrionale) denuncia rispetto agli operai meridionali una mancanza di «curiosità ad apprendere», considerata invece un requisito fondamentale per la crescita professionale. Tuttavia, a dispetto di alcuni stereotipi e pregiudizi territoriali, il clima organizzativo è positivo e le relazioni di lavoro in azienda sono orientate alla collaborazione sia tra colleghi sia con i superiori. Complessivamente gli operai sono integrati nel sistema aziendale e la maggior parte di essi è soddisfatta (64%) o abbastanza soddisfatta (18,1%) del lavoro che svolge. Tra coloro che esprimono un giudizio più critico sono soprattutto i giovani e i neoassunti al primo impatto con il lavoro industriale.
L’integrazione degli operai nel sistema aziendale rappresenta solo una parte del processo di socializzazione al lavoro industriale e di formazione di una cultura operaia. Un altro aspetto particolarmente importante è rappresentato dal grado di coinvolgimento più o meno esplicito e attivo dei lavoratori alle forme previste di partecipazione collettiva nei luoghi di lavoro. Al riguardo, il rapporto tra gli operai e gli organismi di rappresentanza collettiva appare problematico. La commissione interna, cioè l’organismo sindacale più vicino ai lavoratori e preposto alla tutela dei loro interessi comuni, è presente in tutte le aziende, ma è percepito come distante dai lavoratori e oltre la metà (il 55,5%) del campione intervistato, non partecipa né si interessa alle attività della commissione. Al contrario, solo il 15% segue attivamente e si informa sull’operato e sulle attività dell’organismo di base. Tra quanti si disinteressano alle attività della commissione, oltre la metà ritiene che le condizioni di lavoro sarebbero migliori anche in assenza di questo organismo, mentre altri ne rilevano l’importanza teorica ma ne evidenziano i limiti nell’esperienza concreta nei luoghi di lavoro. L’orientamento prevalente degli operai nei confronti della commissione interna è dunque la sfiducia legata alla convinzione diffusa che essa rappresenti uno strumento subordinato alle logiche del management. La situazione non cambia per quanto riguarda il rapporto con il sindacato: solo il 9,8% degli operai segue le attività delle organizzazioni di rappresentanza e tale percentuale riguarda prevalentemente gli operai qualificati e con una maggiore anzianità aziendale. Nonostante timidi segnali di una consapevolezza che sembra maturare con il tempo, in questa fase manca ancora quel sentimento del ‘noi’, quel senso di comune appartenenza alla ‘classe operaia’ che è alla base della partecipazione collettiva e del rapporto con il sindacato. Un sindacato che appare comunque debole, con un limitato potere contrattuale nei confronti delle direzioni aziendali, ma soprattutto incapace di cogliere la sfida e adeguarsi al contesto specifico cercando di sostenere attraverso la mobilitazione efficaci strategie negoziali.
Il petrolchimico di Brindisi. Le politiche di incentivazione statale per gli interventi nel Mezzogiorno furono alla base della decisione della principale industria chimica italiana, la Montecatini, di avviare alla fine degli anni Cinquanta l’operazione Monteshell e la costruzione a Brindisi nel 1959 dell’impianto Polymer, con un investimento complessivo di oltre 180 miliardi di lire. La costruzione dell’impianto a elevato contenuto tecnologico avrebbe richiesto, a pieno regime di funzionamento, oltre 4000 addetti da reperire principalmente nei comuni dell’area brindisina e delle province limitrofe di Bari, Lecce e Taranto. L’impianto era destinato alla produzione di materie plastiche (quali polipropilene, polietilene, solventi organici) per complessive 700.000 tonnellate all’anno di derivati dal petrolio. Intorno al nucleo industriale originario furono progettate e costruite altre infrastrutture, tra cui una potente centrale termoelettrica, prevedendo uno sviluppo industriale dell’area in grado di creare occupazione per oltre 15.000 lavoratori. In piena sintonia con la logica del tempo, l’arrivo di una grande industria esterna avrebbe dovuto fungere da volano per l’intera economia del territorio che, a differenza di altre regioni meridionali, si era già affrancato dall’arretratezza della dimensione tipicamente rurale.
La società brindisina si caratterizzava, infatti, per una certa dinamicità che ruotava intorno ad un assetto ‘preindustriale-urbano’ caratterizzato dalla proliferazione di attività nella piccola industria (edilizia e meccanica), nei settori del commercio e dell’artigianato. In particolare, come ben si evince dalla ricerca di Franco Crespi (1964) sull’analisi del processo di industrializzazione nell’area brindisina, l’investimento nella grande industria si inserisce in un contesto che è potenzialmente già pronto a recepire le innovazioni sociali, tecniche e organizzative alla base del nuovo modello centrato sulla fabbrica. Ricorrendo a una metodologia qualitativa (interviste libere a dirigenti e capi del personale) e quantitativa (analisi dei dati relativi a 2073 lavoratori, con un approfondimento basato su un campione di 501 operai) la ricerca di Crespi alla Montecatini di Brindisi si pone come obiettivo principale quello di investigare, a partire dagli operai e dall’azienda, il legame tra l’industria e l’ambiente sociale in cui essa è inserita e opera, per coglierne gli elementi di continuità e di innovazione più significativi rispetto alla fase precedente.
Il primo effetto significativo dell’industrializzazione nell’area considerata è relativo al massiccio incremento di lavoratori mobilitati, dapprima nelle numerose imprese edili (ben 99) incaricate della costruzione dell’impianto e, progressivamente, all’interno della Montecatini, sconvolgendo la tradizionale struttura dell’occupazione. I dati evidenziano una graduale crescita degli addetti nelle imprese appaltatrici che superano le 6500 unità nel 1962, per poi diminuire nei mesi successivi in favore di una crescita degli occupati nello stabilimento, fino al raggiungimento dei circa 4500 dipendenti nel 1964. La maggioranza (54%) dei lavoratori assunti è relativamente giovane e si colloca nella fascia di età 21-30 anni, ai quali si aggiunge un ulteriore 11% di lavoratori sotto i vent’anni. Anche l’analisi del livello di istruzione rivela che i giovani operai sono mediamente istruiti per gli standard dell’epoca, con il possesso della licenza elementare (67,8%) o media inferiore (27,9%). Tali caratteristiche della forza lavoro appaiono più che adeguate rispetto alle caratteristiche tecniche dello stabilimento e alle mansioni da svolgere, legate prevalentemente alla sorveglianza e manutenzione degli impianti. Si trattava quindi di un lavoro privo di contenuti professionali, spesso noioso, svolto soprattutto all’esterno e in piccoli gruppi separati fisicamente gli uni dagli altri. La fase iniziale, definita da Crespi come «presenza organizzante», è dunque caratterizzata dalla delusione delle aspettative iniziali dei lavoratori, alimentata dalla difficoltà di adeguarsi ai tempi di lavoro e soprattutto ai turni imposti dalla lavorazione continua, anche di notte e nei giorni festivi. Tutto ciò si traduce spesso in un aumento dell’assenteismo e delle assenze ingiustificate, specialmente in concomitanza con i periodi della raccolta nei campi dei prodotti agricoli. Le difficoltà iniziali di adattamento al lavoro industriale di una parte degli operai sono evidenziate anche dal discreto numero di dimissioni nei primi due anni di attività da parte di 309 dipendenti (di cui 214 nei primi sei mesi), legate principalmente alla ricerca di un lavoro migliore (21,7%), oppure all’insoddisfazione nei confronti del tipo di lavoro svolto (15,9%).
La situazione muta tuttavia con il consolidamento dell’esperienza industriale; infatti l’indagine svolta nel 1964 evidenzia un maggiore adattamento al lavoro in fabbrica, oggetto di prevalenti indicazioni positive. Le difficoltà principali, oltre alla già menzionata resistenza alla turnazione (26,1%), si riferiscono alle difficoltà tecniche (26,8%), soprattutto per coloro che provengono da precedenti occupazioni nell’agricoltura e in assenza di una formazione specifica preliminare da parte della direzione sui contenuti del lavoro, mentre un lavoratore su quattro non rileva alcuna difficoltà. In merito alle relazioni di lavoro in azienda esse appaiono sostanzialmente buone; il rapporto con l’autorità e con i capi intermedi è positivo e basato sull’aperta collaborazione, mentre tra gli operai la partecipazione è prevalentemente formale e superficiale.
Tra i miglioramenti auspicati dagli operai si ritrovano aspetti diversi, quali una migliore abitazione, un salario più elevato, più tempo libero, una maggiore preparazione tecnica. Dalla rilevazione non emerge, se non limitatamente, il bisogno di un’appartenenza a organizzazioni sindacali per la tutela dei propri diritti. Al riguardo solo 11% degli operai del campione dichiarano di essere iscritti a organizzazioni di natura politico-sindacale. L’adesione al sindacato da parte degli operai, per tutti gli anni Sessanta è infatti piuttosto modesta, a testimonianza di un percorso in salita per difficoltà legate in parte alla diffidenza dei lavoratori, ma soprattutto all’ostilità della direzione nei confronti delle organizzazioni sindacali. Ciononostante nel periodo 1963-1966 l’azione sindacale manifesta una certa vivacità; in particolare tra la primavera e l’estate del 1963 gli operai della Montecatini aprirono un intenso ciclo di lotte per la soluzione dei problemi legati alla tutela degli impianti a ciclo continuo durante gli scioperi, con la conseguente determinazione del numero di personale da mettere in ‘comandata’ (operazione che presuppone, come in siderurgia, la presenza di un minimo di personale per mantenere in attività gli impianti durante i periodi di astensione dal lavoro dei dipendenti). Tali eventi costituiscono il preludio alle mobilitazioni successive del 1969 e dei primi anni Settanta che porteranno gradualmente all’affermazione di una cultura operaia e sindacale nelle industrie del polo brindisino. Complessivamente l’impressione generale che si ricava dalla ricerca è quella di un graduale adeguamento dei nuovi aspetti legati alla modernizzazione industriale nel vecchio quadro socioculturale.
La produzione siderurgica costituisce per molti aspetti l’attività centrale dell’era industriale, quella in grado di rappresentare tutte le fasi dello sviluppo tecnologico e organizzativo e di vantare la fabbricazione della materia, l’acciaio, che si rivela addirittura il simbolo dell’industria e della sua capacità di invadenza in tutti i settori della vita economica e sociale. Il lavoro operaio percorre in siderurgia tutte le tappe della sua evoluzione: dalla fase del mestiere a quella della meccanizzazione fino al punto d’arrivo dell’automazione. Un’evoluzione tuttavia sempre segnata da quella gravità e da quella pesantezza lavorativa che restano come i caratteri inscindibili dalla produzione siderurgica. Una produzione che entra in rapporti problematici con l’ambiente interno ed esterno, fino agli effetti più drammatici nei confronti della salute dei lavoratori e degli abitanti delle zone coinvolte nelle attività siderurgiche. Ma anche una produzione che più di ogni altra segna il declino delle aree più antiche dello sviluppo industriale, in Europa e in Nord America, nell’età dell’avvento dei mercati globali. L’acciaio, insomma, rappresenta tutto della modernizzazione industriale: il progresso e le speranze, i limiti e i danni, il declino per molti tratti inarrestabile delle localizzazioni produttive tradizionali. Ritroveremo tutti questi passaggi nelle vicende della produzione siderurgica nel Mezzogiorno nell’ultimo mezzo secolo, vicende che si possono assumere quasi come emblematiche dell’intera storia della sua modernizzazione industriale.
Per ricostruire le trasformazioni del lavoro e delle culture sindacali disponiamo di due importanti ricerche sociologiche, condotte a un ventennio di distanza l’una dall’altra nei due centri di produzione siderurgica a ciclo integrale collocati nelle regioni meridionali, Taranto e Bagnoli. La prima, svolta nel 1966-1967 (Baglioni, Cella, Manghi 1969), quando lo stabilimento di Taranto (il quarto centro Italsider) aveva ormai superato la fase iniziale e si avviava verso la piena capacità produttiva, che poi verrà più che raddoppiata nei decenni successivi. La seconda (Conte, Di Gennaro, Pizzuti 1990), condotta nel 1986, nell’altro centro produttivo integrale dell’Italsider collocato nel Mezzogiorno, appena terminato il lungo processo di ristrutturazione che aveva portato alla Nuova Italsider. Una realizzazione che, come sappiamo, avrà vita breve, fino alla totale dismissione dello stabilimento, consumata nei primi anni Novanta.
L’Italsider di Taranto. L’insediamento di Taranto, avviato nel 1960, rientrava nella linea dei poli di sviluppo e corrispondeva sia a una scelta di opportunità politica, la localizzazione in un’area del Mezzogiorno del quarto centro produttivo, sia a una valutazione delle economie esterne che, anche se non ottimali, erano in grado di compensare almeno in parte i costi della scelta politica. Fu certamente il più importante intervento di industrializzazione del Mezzogiorno, e fu in buona parte una ‘storia di successo’, se è lecito prescindere dalle conseguenze anche tragiche sul piano dell’inquinamento ambientale di cui si iniziò ad avvertire piena coscienza, dopo segnali e sospetti più antichi, un quarantennio dopo l’avvio dell’impianto. Le economie esterne non derivavano solo dalla particolare localizzazione costiera e dalla buona attrezzatura portuale, ma anche dalle caratteristiche sociali e culturali della città che poteva vantare, caso non comune nel Mezzogiorno, una tradizione industriale di rilievo, dovuta alla presenza dei cantieri navali e dell’arsenale della marina militare. Ma certo la rilevanza dell’insediamento e la sua portata andavano ben oltre i confini di questa tradizione, legittimando in parte l’immagine retorica («acciaio fra gli ulivi») utilizzata con intenti promozionali dalle élites industrializzanti (i vertici delle Partecipazioni statali) e con venature nostalgico-critiche dai ceti intellettuali restii a cogliere in quegli anni, e non solo nel Mezzogiorno, le potenzialità legate alla affermazione della cultura e della cittadinanza industriali.
Quando la ricerca veniva condotta (nel 1967) lo stabilimento contava già più di 5500 dipendenti, di cui quasi 4400 operai. La rilevazione centrale (attraverso il questionario somministrato) riguardava un campione stratificato di 300 operai, ripartiti secondo le caratteristiche del lavoro siderurgico (fusione, laminazione, manutenzione e servizi). A questa si aggiunsero altre rilevazioni sui dirigenti aziendali e sindacali, sui capiturno, sui dipendenti considerati resistenti all’integrazione nella cultura e nella pratica di un’impresa industriale (definiti allora come disadattati). Come di norma accade per insediamenti di questo tipo, la prima gravosa incombenza per il management riguardava le assunzioni. Fu difficile raccogliere informazioni precise, ma nello stabilimento si parlava di oltre 70.000 domande di assunzione. Ai criteri ‘oggettivi’ (età fra i 18 e i 35 anni; grado soddisfacente di istruzione scolastica; requisiti fisici e attitudinali) si aggiunsero sicuramente criteri selettivi sulla base delle appartenenze politiche, come emergeva dalle interviste ai testimoni privilegiati, e come era allora prassi diffusa delle grandi aziende italiane, anche di quelle a partecipazione statale. All’Italsider di Taranto un ruolo di rilievo nelle politiche di assunzione fu nei fatti assunto dalla CISL che, anche per la posizione di gran lunga dominante occupata nella commissione interna, portava quasi a configurare un caso (anomalo nell’esperienza italiana) di union shop (pratica in forza della quale l’iscrizione al sindacato diviene condizione per l’occupazione).
L’ipotesi di partenza della ricerca riguardava l’operare di un processo di ‘socializzazione anticipatoria’ nel quale sarebbero stati coinvolti gli operai Italsider, al pari di quanto accadeva ai flussi di immigrati che da molte zone del Paese si rivolgevano verso le aree tradizionali della produzione industriale. La modernizzazione era già in corso e la cultura industriale non era più vissuta come del tutto estranea, specie nell’ambiente cittadino di Taranto. I risultati della ricerca, si scriveva allora, «non confortano l’immagine del lavoratore Italsider di estrazione rurale o culturalmente inadeguato rispetto ai requisiti richiesti dalla nuova occupazione, praticamente ai margini dei processi di mutamento e di innovazione presenti nella società italiana» (Baglioni, Cella, Manghi 1969, p. 25). Da questo punto di vista non si ha di fronte la figura dell’operaio ‘nuovo’, per riandare al titolo della ricerca siciliana condotta solo qualche anno prima. Di ciò i ricercatori erano allora abbastanza convinti, anche se non era un’opinione molto condivisa: «La dicotomia convenzionale acciaio-ulivi che potrebbe esprimere chiaramente il contrasto industria-ruralità o modernizzazione-arretratezza, non è applicabile alla popolazione da noi studiata» (p. 27). La ricerca fu dunque un’occasione per respingere molte valutazioni ricorrenti, da quelle con venature prometeiche del management a quelle nostalgiche di non pochi ambienti politici e intellettuali (non dissimili da quelle che incontravano il dissenso di Rossi-Doria).
La cultura industriale del gruppo operaio che emerge dall’indagine è per alcuni tratti sorprendente. Alla domanda su quali fossero gli operai da premiare con una retribuzione più alta il 45% ha risposto scegliendo il criterio della maggiore responsabilità, e solo il 12% ha preferito il criterio della faticosità della prestazione, una quota addirittura inferiore nel gruppo degli addetti ai reparti (cokeria, altoforno, acciaieria) più segnati dalla pesantezza delle condizioni lavorative. Altra domanda chiave si rivelò quella riguardante la preferenza per il salario a incentivo (in uno stabilimento nel quale la diffusione degli incentivi era uno dei vanti del management): gradito dal 42% (maggiore nelle qualifiche più elevate) rispetto alla preferenza del 52% per il salario fisso. I provenienti dall’agricoltura o dal terziario tendevano a preferire il secondo, quelli provenienti dall’industria si esprimevano in maggior numero per il salario a incentivo. Altro aspetto decisivo riguardava il giudizio sul metodo di classificazione (job analysis) e di retribuzione (job evaluation) in vigore all’Italsider, quel metodo che nel decennio successivo doveva essere sostituito, non senza conflitti, dall’inquadramento unico. Le difficoltà di comprensione del metodo certo non sono irrilevanti, e tuttavia non si rilevò un diffuso atteggiamento di rifiuto. Sul giudizio complessivo il gruppo operaio si spaccò nettamente: il 48% (in misura maggiore nelle qualifiche più elevate e fra i meno insoddisfatti del loro salario) lo giudicava come un metodo che, pur non esente da imperfezioni, permetteva di stabilire i salari in modo equo e obiettivo; il 47% esprimeva invece un giudizio negativo, ritenendolo solo nominalmente moderno e obiettivo. Apprezzamento generale la job analysis suscitava invece per quanto riguardava gli aspetti conoscitivi dei propri compiti lavorativi, dei contenuti della mansione, in una generale aspirazione alla sicurezza che caratterizzava tutto il gruppo operaio.
Anche sul tema sociologico classico della soddisfazione del lavoro i risultati apparvero molto interessanti, confermati negli anni successivi da ricerche condotte in altri ambienti di più consolidate tradizioni industriali. I soggetti intervistati tendevano infatti a mantenere distinto il giudizio nei confronti degli aspetti retributivi dal giudizio sul contenuto professionale del proprio impegno lavorativo. Il primo derivava da un confronto salario-bisogni, il secondo dal rapporto fra le caratteristiche tecnico-mansionali del posto di lavoro e le aspettative dei soggetti per quanto riguardava l’interesse professionale e lo sviluppo delle proprie capacità, aspettative accompagnate spesso da notevole autostima. In conclusione l’insoddisfazione salariale si accompagnava a una notevole soddisfazione per gli aspetti professionali del proprio lavoro. Il commento di allora resta alquanto significativo per il tema di questo capitolo: «il manifestarsi di un atteggiamento positivo verso il proprio lavoro, indipendentemente dalla soddisfazione salariale, indica che ci troviamo di fronte ad una cultura operaia piuttosto dinamica, una cultura che ha fatto propri i valori tipici della cultura industriale moderna» (p. 100). In tale prospettiva la modernizzazione industriale aveva avuto rapidamente successo.
Da questa cultura del lavoro trae origine in forme abbastanza coerenti una corrispondente cultura sindacale. Nella ricerca si utilizzava la terminologia di Alain Touraine e si rilevava come al gruppo operaio dell’Italsider di Taranto corrispondesse una spiccata «coscienza di identità», traducibile in concreti comportamenti di solidarietà. Risultava nettamente superata «quella mentalità individualistica che, con troppa facilità, viene attribuita alla gente del Sud e, da taluno, agli stessi dipendenti della Italsider» (p. 47). Difettava invece una «coscienza di opposizione» ovvero la percezione della necessità di un impegno conflittuale per contrastare i comportamenti e le azioni di altri gruppi sociali (l’azienda soprattutto), o per competere con essi. Con una certa enfasi (tipica di quegli anni) si notava come l’operaio Italsider fosse solamente «alle premesse della coscienza di classe, sia in senso marxista sia in senso trade-unionista». Ma erano premesse comunque non scontate per la formazione delle identità sociali nel Mezzogiorno.
Non ci si sorprendeva poi tanto, di conseguenza, della considerazione del sindacato soprattutto come istituzione, come una entità di servizio e di assistenza. La sindacalizzazione degli operai era piuttosto elevata: quasi il 67% degli intervistati si dichiarava iscritto. La prevalenza degli iscritti alla CISL era nettissima, minoritaria la presenza della Unione italiana del lavoro (UIL) e della CGIL, e questo, va ricordato, anche in conseguenza delle politiche selettive di assunzione. Questa selettività tuttavia non comportava un favore concesso a un sindacato accomodante e deferente, isolato dalla mobilitazione collettiva che aveva intensamente animato soprattutto la categoria dei metalmeccanici in quegli anni Sessanta. La cultura sindacale della CISL era stata senza dubbio favorita dall’azienda, anche come effetto indiretto della partecipazione di questa cultura alle iniziative modernizzanti delle partecipazioni statali, ma questa cultura per esprimere tutte le sue potenzialità avrebbe richiesto, da parte operaia, un sostegno e un’alimentazione che ancora stentavano a manifestarsi. La commissione interna era l’organismo che interpretava questo ruolo istituzionale, con prestigio e riconoscimento da parte aziendale. Nel giudizio dei lavoratori la valutazione era positiva nettamente per il 40%, ma non mancavano accuse di debolezza o di incapacità (il 22%). Solo un altro 22% accusava la commissione interna di connivenza con la direzione aziendale o di indifferenza ai problemi degli operai. Nell’insieme i giudizi negativi, o le critiche, apparivano rivolti non tanto verso un organismo sindacale, conflittuale e competitivo, quanto verso la minore o maggiore efficienza di una istituzione di rappresentanza e di protezione.
Globalmente la ricerca aveva mostrato l’emergere di diffusi atteggiamenti coerenti con le esigenze del lavoro e dell’impresa industriali, in un ambiente che si era mostrato più favorevole di quanto fosse previsto dagli osservatori e dai testimoni privilegiati. Per l’attività sindacale l’ambiente delle Partecipazioni statali era di certo più favorevole rispetto all’industria privata, ma ciò non toglie che anche nel caso di Taranto la rapidità dell’insediamento e della sua crescita e l’assoluto predominio aziendale nel mercato del lavoro locale abbiano impedito quell’assestarsi di legami stabili nel gruppo operaio che sono una condizione necessaria per l’espressione di una partecipazione sindacale attiva e disposta alla competizione (e al conflitto) con le controparti. Anche la cultura sindacale del pluralismo e della contrattazione non può prescindere da questa partecipazione.
L’Ilva-Italsider di Bagnoli. L’altro impianto siderurgico a ciclo integrale del Mezzogiorno era collocato in un’area di più antica industrializzazione, Bagnoli (nel circondario napoletano), le cui origini risalivano addirittura al primo decennio del Novecento. Le sue vicende non rientravano perciò nelle politiche dei poli di sviluppo rivolte alla modernizzazione, anche se i cospicui interventi di espansione (nell’ambito del Piano Sinigaglia per la siderurgia pubblica) e di ristrutturazione, nonché la sua stessa fine (la totale dismissione negli anni Novanta) bene possono rappresentare la rapida e tormentata parabola della industrializzazione nelle regioni meridionali a partire dal secondo dopoguerra. Lo stabilimento di Bagnoli, il più rilevante impianto industriale dell’area napoletana, è stato oggetto (nel 1964) di un paio di indagini psicosociologiche precedenti alla ricerca del 1990 (Conte, Di Gennaro, Pizzuti 1990) che verrà considerata in questa occasione. Di queste indagini viene fornita una descrizione e una interpretazione in un saggio storico (Chianese 1984) che affronta il tema del processo di modernizzazione attraverso le tensioni fra i modelli comunitari e i nuovi rapporti sociali imposti dall’industria moderna. I mutamenti nella cultura del lavoro operaio sono al centro di questa ricostruzione: «è possibile ipotizzare un conflitto tra i modelli culturali operai, dove permane un forte substrato comunitario, e le trasformazioni tecnologiche dell’azienda, che presuppongono un più moderno sistema di relazioni interpersonali e lavorative» (Chianese 1984, p. 204). Un elemento decisivo si rivelò anche in questo caso la politica delle assunzioni condotta dall’azienda, ma se nel caso di Taranto la selezione si traduceva soprattutto in un premio attribuito a un’appartenenza politico-sindacale, nel caso napoletano risultava effettuata in prevalenza attraverso criteri di tipo clientelare, conducendo alla persistenza dei legami comunitari all’interno dell’organizzazione aziendale, legami che creavano tensioni e conflitti con le logiche e le pratiche dell’organizzazione sindacale. A Taranto la selezione aveva favorito almeno le premesse di una cultura sindacale moderna, a Bagnoli aveva permesso che si affiancassero alla dominante cultura della CGIL componenti di ribellismo se non anche «istanze di jacquerie» (p. 207), che rendevano problematico e incerto il procedere della modernizzazione, sia aziendale sia sindacale. Possediamo perciò degli antefatti opportuni per utilizzare la poderosa ricerca di Conte, Di Gennaro, Pizzuti, dettagliata e accurata come poche altre indagini sociologiche sulle condizioni di lavoro nell’esperienza italiana (non solo del Mezzogiorno), anche se di ardua interpretazione sintetica.
La ricerca si presenta con una prestigiosa prefazione di Alain Touraine che, non a caso, resta colpito soprattutto dalla rappresentazione del declino: «un esempio notevole di analisi sociologiche del declino della società industriale e dunque della classe operaia» (Prefazione a Conte, Di Gennaro, Pizzuti 1990, p. XIII). I segnali di declino erano tutti presenti già nel 1990, e la dismissione totale avrà luogo pochi anni più tardi. I percorsi di ricerca prescelti riguardavano la dinamica dell’innovazione tecnologica nel quadro di ristrutturazione dell’intera siderurgia europea; le dinamiche di cooperazione-conflitto fra i lavoratori e il management, e fra i lavoratori e il sindacato nell’ambito delle strategie di relazioni industriali; gli orientamenti culturali prevalenti in un gruppo di lavoratori che rimaneva legato ai vincoli comunitari e che stentava a integrarsi pienamente nella cultura della moderna impresa industriale.
La forza lavoro complessiva dello stabilimento nel 1986 era di 4074 addetti, rispetto ai 7734 del 1975. Il processo di ristrutturazione realizzato dalla Nuova Italsider aveva colpito duramente: in poco più di un decennio gli organici si erano quasi dimezzati. Il campione rappresentativo stratificato era composto per il 67% da operai e per il 33% da impiegati, con un’età media piuttosto elevata (il 55% con più di 42 anni) e con origine familiare in prevalenza dai settori industriali (il 60% ha il padre proveniente dall’industria con la qualifica di operaio comune o qualificato). Nell’insieme era un gruppo operaio di età avanzata e con origini industriali, molto diverso da quello di Taranto, definibile come un gruppo operaio in formazione, giovane, di meno netta provenienza industriale.
La ristrutturazione, condotta fra il 1979 e il 1986, aveva inciso profondamente sul lavoro operaio: «ci troviamo dinnanzi ad una trasformazione produttiva fondata su un’innovazione tecnologica che rompe un sistema lavorativo imperniato sulla prevalenza del lavoro singolo, di estesi controlli del proprio compito lavorativo, di prevalenti qualifiche medio/basse, su una professionalità dalle prevalenti caratteristiche empiriste ottenuta per accumulazione di padronanza e dimestichezza del proprio mestiere» (Conte, Di Gennaro, Pizzuti 1990, p. 167). Un sistema professionale che si reggeva anche sul ruolo gerarchico dei capi intermedi e sull’incertezza di definizione sia degli obiettivi di risultato sia degli input produttivi. Il tutto inserito in una rete di vincoli comunitari che, più che all’espansione della cultura del mestiere sulla comunità esterna (tipica dei siti tradizionali del lavoro siderurgico), faceva pensare all’intromissione dei vincoli sociali esterni all’interno dell’organizzazione del lavoro. È una rete che, in un contesto organizzativo e tecnologico del tutto differente, vedremo comparire anche nel caso dell’Alfasud a Pomigliano.
Questo processo di ristrutturazione è il banco di prova sul quale vengono misurate la consistenza e le capacità delle culture sindacali rilevabili nello stabilimento. Il tasso di sindacalizzazione è elevato (54% per la forza lavoro complessiva), anche se in discesa rispetto agli anni di inizio del processo di ristrutturazione, proprio per l’espulsione delle categorie lavorative più sindacalizzate. La quasi totalità delle iscrizioni si riferisce alla Federazione unitaria dei metalmeccanici (FLM), in quegli anni alle sue battute finali, e solo un’esigua minoranza detiene anche una tessera delle differenti confederazioni. Per la descrizione delle forme di partecipazione e di identificazione nell’attività sindacale, gli autori individuano «modelli sindacali di riferimento» per i lavoratori che sono molto vicini alle culture sindacali definite più sopra, e che sono molto interessanti in quanto non immediatamente riconducibili alle sigle confederali tradizionali. Il primo modello è quello del sindacato unionista, fondato sulla difesa degli interessi collettivi tramite la rivendicazione, la contrattazione, la pressione sulle controparti. Il secondo è quello del sindacato di classe, centrato sull’identificazione ideologica, non riducibile alla pressione a fini contrattuali. Il terzo richiama il sindacato riformista, disponibile anche al coinvolgimento nelle politiche di concertazione nazionale istituzionalizzata. Nelle motivazioni delle adesioni al sindacato il 33% (36% fra gli operai) è riconducibile al modello unionista e il 29% (39% fra gli impiegati) al modello di classe. Ma nelle conclusioni della ricerca si profila la comparsa, alla prova della ristrutturazione, di un modello più comprensivo, sia pure non univoco, riconducibile ad una sorta di «cooperazione antagonistica», che ricomprende «processi di integrazione, estraneazione e conflitto» (p. 306) attorno agli obiettivi di difesa dell’occupazione e della sopravvivenza dell’azienda (anche a livello CEE). La prospettiva del declino verrà colta dagli autori con accenti che si richiamamo a Touraine, nel timore che la posta in gioco del conflitto industriale sia ormai il conflitto stesso e la sopravvivenza degli attori collettivi: «il declino di una industria, che è anche il declino di una presenza operaia, vissuta come un rischio ed un assillo incombente, segna la parabola di una fase dell’industrializzazione» (p. 311).
La parabola si chiuderà definitivamente, dopo meno di un decennio dall’anno di conduzione della ricerca, con la totale dismissione di un impianto che aveva raggiunto, con rilevanti investimenti, i livelli più avanzati nella tecnologia della produzione siderurgica (per es., nella colata continua). La drammaticità della fine dello stabilimento è resa con struggente efficacia nelle pagine del romanzo-inchiesta-documento di Ermanno Rea La dismissione (2002), che ha come protagonista Vincenzo Buonocore, un ex operaio diventato tecnico specializzato, massimo conoscitore dell’impianto delle colate continue, destinato allo smantellamento per la cessione all’industria siderurgica cinese. Una figura che ha tutti i caratteri per entrare nella galleria, non molto affollata, dei personaggi della ‘letteratura industriale’ accanto, un quarantennio dopo, all’Antonio Annarumma della vicina Pozzuoli, protagonista del romanzo-diario di Ottieri.
Il settore metalmeccanico e, di riflesso, l’automotive, rappresentano un banco di analisi privilegiato per osservare e valutare le diverse culture sindacali che si sono manifestate in periodi differenti lungo tutto l’arco del secolo scorso e fino ai nostri giorni. In particolare, con il mutamento nel tempo dell’organizzazione del lavoro e della produzione si nota una lenta e graduale evoluzione (non lineare e non priva di contraddizioni) delle organizzazioni sindacali moderne tipiche dell’industrialismo e con essa il susseguirsi di una pluralità di culture sindacali che impediscono, nel contesto italiano, di parlare di un vero e proprio modello nazionale di sindacalismo.
Le pagine che seguono analizzano i processi di industrializzazione e affermazione delle culture sindacali nel settore meccanico in due regioni meridionali, la Campania e la Basilicata, in periodi distanti tra loro poco più di un ventennio, a partire da due casi particolarmente rilevanti nella storia dell’industria meridionale e nello sviluppo delle relazioni industriali. Il primo caso si riferisce all’esperienza dell’Alfasud a Pomigliano d’Arco, nell’hinterland napoletano, sul finire degli anni Sessanta. A tal fine la ricerca del 1983 (Conte, Di Gennaro, Pizzuti, Russo 1983), basata su un campione di 143 delegati nei consigli di fabbrica, fornisce informazioni preziose sulla cultura operaia, sulle dinamiche tra lavoratori, azienda e sindacato, sul rapporto tra la fabbrica e il territorio. Il secondo caso, più recente, si riferisce alla localizzazione nei primi anni Novanta dello stabilimento FIAT-SATA nell’area di Melfi, in Basilicata. La nostra analisi trae origine dalla ricerca condotta nel 2007 (Fortunato 2008) sulle condizioni di lavoro e sulle relazioni industriali in fabbrica. La ricerca alla FIAT è stata svolta attraverso una metodologia qualitativa (interviste a manager, rappresentanti del sindacato territoriale e aziendale, operai) e quantitativa mediante una survey su un campione di lavoratori. In dettaglio, sono stati distribuiti 4983 questionari di cui 4588 agli operai e 395 agli impiegati. Di questi ne sono stati restituiti 1744, pari al 35% dell’universo di cui 1608 questionari validi, pari a circa il 32,3% dei lavoratori.
L’Alfasud di Pomigliano. La lettura dell’esperienza Alfa Romeo nell’area campana può essere orientata alla luce di due considerazioni preliminari: il contesto temporale in cui si sceglie di investire e costruire al Sud una fabbrica destinata a rilanciare l’industria e l’occupazione di un’intera area, e il particolare contesto territoriale (con presenza di insediamenti industriali più antichi) in cui il progetto trova la sua concreta realizzazione. Unitamente agli eventi riconducibili al ciclo di lotte 1968-1973, il condizionamento del contesto sugli attori (management e sindacato) e sull’evoluzione delle relazioni industriali è chiaro fin dall’inizio, mediante un imprinting che influenzerà ogni fase della vita dentro e fuori dallo stabilimento fino ai giorni nostri.
In particolare, le intenzioni del management della casa di Arese di costruire un nuovo impianto destinato alla produzione di auto di piccola e media cilindrata (l’Alfasud) ben si sposavano con la logica politica dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno. Lo stabilimento nasce nel gennaio del 1968 mediante la costituzione di una società ad hoc guidata da Giuseppe Luraghi (1905-1991), l’Industria napoletana costruzione autoveicoli Alfa Romeo Alfa Sud (INCA), distinta e autonoma dal centro rappresentato dalla sede di Arese. L’investimento complessivo era pari a circa 300 miliardi di cui 100 finanziati dall’IRI, 45 dalla Cassa per il Mezzogiorno e il resto dall’azienda con un prestito a tasso agevolato.
Lo stabilimento è completato alla fine del 1971 per poi dare avvio alla produzione nell’anno successivo. Si tratta di una fabbrica altamente meccanizzata, realizzata in piena sintonia con la filosofia organizzativa dettata dal paradigma taylor-fordista, ovvero mansioni parcellizzate e bassa qualificazione professionale, ampio ricorso alle tecnologie disponibili, elevati volumi produttivi ed economie di scala. Ciò si sarebbe dovuto tradurre in una popolazione a regime di oltre 15.000 dipendenti e un volume produttivo previsto superiore alle 200.000 vetture l’anno. In realtà, fin dalla fase iniziale la produzione giornaliera non supererà mai le 300 unità rispetto alle 1000 previste, evidenziando una serie di limiti strutturali, ma soprattutto di natura organizzativa e gestionale. In particolare, alla fisiologica complessità dell’investimento industriale si aggiunse la crisi degli attori istituzionali, incapaci di comprendere la portata delle trasformazioni in atto e dunque di governare un sistema complesso e allo stesso tempo così fragile e vulnerabile come quello progettato a Pomigliano.
Oltre alle caratteristiche dell’ambiente locale, la tecnologia e le grandi dimensioni della fabbrica condizionavano la socializzazione industriale dei lavoratori, fino ad allora prevalentemente disoccupati o provenienti da altre occupazioni, contribuendo a renderli meno docili nei confronti della direzione e più conflittuali. A Pomigliano non si realizza un processo compiuto di socializzazione al lavoro industriale, di addestramento alle nuove semplici mansioni richieste dall’organizzazione del lavoro taylorista. Non mancano tentativi in tale senso da parte della direzione aziendale mediante una strategia inizialmente orientata a circoscrivere il bacino di reclutamento dei lavoratori (entro i 45 minuti dalla fabbrica), a scoraggiare l’insediamento abitativo, a ricercare determinate competenze professionali associate all’età dei neoassunti, a favorire la nascita e la strutturazione del sindacato all’interno della fabbrica. Tuttavia, i tentativi del management di operare mediante un razionale processo di reclutamento e formazione della forza lavoro si scontrano con le pressioni provenienti dal territorio.
Dopo le prime 4000 assunzioni operate dall’azienda, prevalentemente impiegati, operai specializzati, ma anche muratori e carpentieri che avevano costruito lo stabilimento, si realizza un sistema clientelare di distribuzione delle assunzioni ben radicato nelle istituzioni locali e gestito soprattutto dai comuni e dagli uffici di collocamento in base all’equilibrio dei poteri tra le varie correnti politiche, svuotando di significato e razionalità l’azione manageriale. Il sistema basato sulle clientele e sulle appartenenze si ripercuote anche all’interno sotto forma di reti di relazioni informali, meccanismi di comunicazione distorti, comportamenti e abitudini non coerenti con il lavoro da eseguire, creazione di aspettative, in grado di interferire con le strategie e le strutture formali dell’azienda e soprattutto di compromettere l’instaurarsi di un rapporto stabile e fiduciario tra lavoratori e organizzazioni di rappresentanza.
Un ruolo determinante nel processo di socializzazione/disciplinamento dei lavoratori e nella creazione di una cultura del lavoro industriale era attribuibile al management e, in particolare, al meccanismo di reclutamento dei capi e dei quadri tecnici. Il sistema prevalente era infatti basato sulla cooptazione diretta mediante la quale ciascun dirigente di ente o funzione all’interno dello stabilimento sceglieva direttamente i propri collaboratori, ricorrendo spesso a meccanismi fiduciari che privilegiavano la ricerca del consenso rispetto al merito e alla competenza professionale. Numerosi sono gli avvicendamenti al vertice della direzione e lo stesso Luraghi, ideatore del progetto, dovrà lasciare nel 1974 la presidenza dell’Alfasud a seguito della non conferma da parte dell’IRI che deteneva la maggioranza del pacchetto azionario.
Sul versante opposto, il processo di strutturazione del sindacato in fabbrica si consolida nel 1973, dunque nella fase successiva al grande ciclo di lotte. Il sindacato parte da zero e non può contare sulla legittimazione derivante dalla partecipazione diretta a quegli eventi così importanti. Fuori dai meccanismi e dalle logiche nazionali, le organizzazioni sindacali locali si oppongono strenuamente all’importazione di quadri ed esperti ‘formati’ (come avverrà invece nel caso della FIAT a Melfi) provenienti da aree del Paese caratterizzate da una consolidata esperienza industriale e sindacale.
Il territorio, nonostante i precedenti insediamenti industriali nell’area, mantiene ancora elementi di un’economia tradizionale per cui i componenti degli organismi di base come la commissione interna, e successivamente i delegati, sono tutti giovani, privi di una significativa esperienza, benché orientati da una forte connotazione politico-ideologica che si traduce gradualmente nel predominio di iscrizioni alla FIOM-CGIL. L’adesione dei lavoratori al sindacato è comunque un passaggio importante, vissuta dai più come un atto burocratico ‘obbligato’, indipendente dalle strategie e dalle modalità di azione dell’organizzazione alla quale è sempre possibile sottrarre il proprio sostegno. L’adesione opportunistica caratterizza fin dalle prime fasi le relazioni tra forza lavoro e sindacato e orienta verso un modello di socializzazione autonoma della forza lavoro che aderisce al sindacato in ragione del perseguimento dei propri interessi, ricorrendo spesso all’azione diretta e alla microconflittualità nei confronti dell’azienda rispetto all’adesione agli scioperi indetti dal sindacato. Il sindacato, dal canto suo, appare privo di una chiara visione strategica e soprattutto degli strumenti di controllo della forza lavoro. Vari sono i problemi di natura organizzativa interna legati alle caratteristiche dei delegati, privi di esperienza e scarsamente gratificati in termini di incentivi e di status, soprattutto in assenza di un accordo forte tra i delegati stessi e le strutture esecutive dei consigli di fabbrica, il coordinamento e le commissioni.
Il tema della rappresentanza e il rapporto tra operai, delegati e apparati sindacali assumono una rilevanza strategica nell’esperienza di Pomigliano. In particolare si consolida l’immagine del delegato come diretta espressione della base ovvero del gruppo omogeneo dei lavoratori rispetto alla sua vicinanza agli apparati sindacali, alla direzione, agli stessi partiti. Come si evince dalla ricerca già richiamata (Conte, Di Gennaro, Pizzuti, Russo 1983, p. 64), la funzione del delegato in fabbrica si delinea più come un canale di informazione e comunicazione delle domande (e delle insoddisfazioni) della base verso i vertici sindacali e aziendali che non come un soggetto rilevante in grado di esprimere una reale autonomia decisionale e di trainare e mobilitare il gruppo operaio. Alcuni elementi importanti emergono anche dall’analisi delle principali linee strategiche e delle politiche perseguite dal sindacato in fabbrica. Tra queste, particolare enfasi è dedicata ai temi dell’organizzazione del lavoro (19,8%), all’incremento del salario (16%), seguiti da una grande attenzione ad aspetti sociali ed economici ‘esterni’ alla dimensione del luogo di lavoro.
All’interno dello scenario appena delineato, in un quadro di incertezza, domina la strategia della non-decisione da parte di organizzazioni sindacali deboli e in competizione tra loro. Le prime vere esperienze di contrattazione, nel 1974 e soprattutto nel 1975, evidenziano i limiti dell’azione sindacale e contribuiscono a spiegare la sua difficoltà di regolazione e controllo sulla forza lavoro che ha ormai quasi raggiunto il pieno organico. Con la vertenza del 1974, in un quadro relativamente stabile, emergono i caratteri fondamentali del modello di relazioni industriali dell’Alfasud. Su iniziativa del sindacato la trattativa si trasferisce dall’azienda di Pomigliano a livello di gruppo, con il conseguente accentramento di funzioni e competenze negoziali ai vertici Alfa Romeo e con l’intermediazione del governo.
Anche il sindacato dell’Alfasud subisce profonde interferenze esterne da parte delle organizzazioni provinciali, ma anche dalle federazioni nazionali e dalle confederazioni in cui prevalgono motivazioni politiche e ideologiche che difficilmente si coniugano con il sostegno alle esigenze dello stabilimento campano. Infatti, il passaggio al livello nazionale fa emergere con forza il maggior peso strategico e organizzativo del sindacato delle realtà industriali del Nord e della sede Alfa di Arese, contribuendo a un’ulteriore delegittimazione del sindacato dell’Alfasud che non riesce a imporsi come protagonista della fase negoziale né a tradurre in risultati concreti le istanze specifiche e le aspettative dei lavoratori. Nei mesi successivi all’accordo aumentano gli episodi di microconflittualità e l’assenteismo, ai quali fanno seguito la crescita dei provvedimenti disciplinari da parte dell’azienda e il conseguente incremento delle affiliazioni alle organizzazioni sindacali. La natura opportunistica delle adesioni al sindacato trova conferma nella crescita delle affiliazioni alle quali non corrisponde tuttavia una partecipazione elevata agli scioperi indetti dal sindacato.
Analoghi risultati seguono all’accordo aziendale del marzo 1975 e di gruppo dell’ottobre dello stesso anno. Nel primo caso la direzione aziendale prova unilateralmente a ridare slancio alle relazioni industriali nello stabilimento mediante il riconoscimento e il sostegno esplicito al sindacato in fabbrica. Nonostante l’approvazione rapida e senza alcuno sciopero indetto dal sindacato delle maggiorazioni salariali e di circa 6000 passaggi di categoria, prosegue, nella fase successiva alla negoziazione, la microconflittualità non controllata dalle organizzazioni sindacali con circa 488 casi di scioperi attuati in piccoli gruppi e della durata inferiore a un’ora. Tanto più il sindacato è accomodante tanto più i lavoratori esprimono la loro conflittualità. Con l’accordo di gruppo, negoziato direttamente dai leader della Federazione dei lavoratori metalmeccanici, furono stabilite invece alcune condizioni particolarmente penalizzanti per lo stabilimento di Pomigliano e per il sindacato locale che, in cambio della cessazione al ricorso alla cassa integrazione e alla garanzia del mantenimento dei livelli occupazionali, accettava lo scorporo e la delocalizzazione di alcune fasi della lavorazione in favore di altre aziende, unitamente alla mobilità di un numero cospicuo di lavoratori.
Nella sostanza, il quadro che emerge dall’analisi di queste fasi ed esperienze importanti delle relazioni industriali all’Alfasud testimonia il protagonismo degli operai a scapito degli attori istituzionali e degli stessi delegati di fabbrica, i quali non esercitano alcun controllo sui lavoratori. A partire dalla metà degli anni Settanta si definiscono e si assestano i caratteri delle relazioni industriali basate sulla strutturazione genetica del conflitto come fenomeno esogeno e indipendente dalla contrattazione. Come è stato rilevato, «in bilico tra due modelli e due strategie, le relazioni industriali Alfasud sembrano paradossalmente controllate dall’oggetto del controllo: la forza lavoro» (Salerni 1980, p. 114). Nonostante i mutamenti nella politica e nell’economia e, soprattutto, le profonde trasformazioni che hanno interessato lo stabilimento negli anni successivi, i tratti genetici che contraddistinguono il modello di relazioni industriali nella fabbrica di Pomigliano permarranno e faranno sentire i propri effetti anche in seguito. Dalla privatizzazione dell’Alfa Romeo e la cessione alla FIAT nel 1986 fino alle recenti ristrutturazioni industriali, lo stabilimento cambierà più volte denominazione e assetto organizzativo, ma resteranno tutte quelle caratteristiche prevalentemente culturali e sociali che ancora oggi contribuiscono a renderlo unico e difficilmente inquadrabile nel campo degli studi organizzativi e delle relazioni industriali.
La FIAT-SATA a Melfi. Con la lenta e graduale trasformazione dello stabilimento di Pomigliano si chiude la fase del gigantismo industriale tipicamente fordista basato su imprese verticalmente integrate con un’elevata concentrazione di lavoratori, specializzate nella produzione di grandi quantità di prodotti standardizzati, di basso costo e generalmente di modesta qualità, per lasciare il posto a un altro modello di sviluppo industriale, caratterizzato da imprese reticolari dalle dimensioni più contenute, più flessibili, orientate alla differenziazione dei prodotti e al miglioramento della qualità della produzione. In Italia la prima sperimentazione della fabbrica ‘snella’ o integrata (lean production), ispirata al sistema di produzione Toyota, risale agli inizi degli anni Novanta con la costruzione in Basilicata da parte della FIAT dello stabilimento SATA (Società Automobilistica Tecnologie Avanzate), destinato originariamente alla produzione dei modelli FIAT Punto e Lancia Y. Nella scelta di costruire a Melfi il primo impianto italiano ed europeo per la produzione di automobili, concepito e realizzato secondo i principi della nuova filosofia organizzativa, hanno sostanzialmente influito due aspetti fondamentali.
Innanzitutto le consistenti agevolazioni statali legate al contratto di programma siglato il 18 apr. 1991 tra il Gruppo FIAT e il ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno, mediante il quale la casa torinese si impegnava a realizzare investimenti in Basilicata per un valore di 6672,3 miliardi di lire, di cui 3100 a carico dell’intervento straordinario. In secondo luogo, la costruzione ex novo dello stabilimento in un’area del Mezzogiorno a vocazione agricola comportava notevoli vantaggi, soprattutto l’abbondanza di forza lavoro giovane mediamente scolarizzata in cerca di occupazione che poteva essere facilmente formata e addestrata per rispondere al meglio alle esigenze previste dalla nuova organizzazione del lavoro. Prima che la Fiat annunciasse la sua decisione di investire in Basilicata, il quadro che emergeva era quello di un’economia regionale debole e frammentata, non toccata dall’industrializzazione, un contesto vergine prevalentemente basato sull’agricoltura (SVIMEZ 1993, p. 148). Nel 1991 il numero degli iscritti presso gli uffici di collocamento della regione ammontava a 88.040 unità, con un trend in ascesa. Tra questi, la maggioranza (64,5%) erano giovani di età inferiore ai 29 anni, di cui solo il 45% uomini.
Oltre alle caratteristiche sociodemografiche e del mercato del lavoro locale, l’assenza di una cultura industriale e sindacale rendeva i nuovi lavoratori più flessibili e malleabili, aperti all’apprendimento delle nuove mansioni, ma soprattutto più ‘docili’ alle richieste dell’azienda, una condizione impensabile per altri stabilimenti del gruppo torinese, dove le logiche tradizionali erano ormai consolidate e più forte era la resistenza operaia al cambiamento. La costruzione di un nuovo stabilimento garantiva, fin dall’inizio, un layout degli spazi e degli impianti tale da ottimizzare i flussi interni tra le quattro unità operative e, all’interno delle singole unità, fra le varie Unità tecnologiche elementari (UTE), dando vita al principio del cosiddetto flusso teso, cioè un processo sequenziale continuo a ‘zero scorte’ con indotto comprensoriale di 23 fornitori di prima fascia nell’area limitrofa allo stabilimento, e sistema di approvvigionamento just in time. A sottolineare ulteriormente la volontà della FIAT di rompere con il passato e di partire su basi nuove, lo stabilimento di Melfi nasce come proprietà di una nuova società che, pur essendo completamente controllata dal gruppo Fiat, impediva di trasferire alla fabbrica di Melfi il sistema di accordi e i meccanismi retributivi vigenti negli altri stabilimenti del gruppo.
Al di là delle innovazioni organizzative, l’accordo FIAT dell’11 giugno 1993 ha rappresentato la base per un nuovo modello di relazioni industriali orientate al superamento della contrattazione tradizionale favorendo meccanismi di partecipazione stabile. L’elemento di novità è rappresentato dal fatto che all’interno del nuovo paradigma organizzativo il sindacato è ‘istituzionalmente’ coinvolto attraverso un articolato sistema di commissioni paritetiche (a livello aziendale, di stabilimento e di unità operativa) composte da responsabili aziendali e da rappresentanti delle organizzazioni sindacali firmatarie degli accordi. Nelle commissioni si affrontano argomenti diversi quali la composizione dei conflitti, il monitoraggio del premio di competitività, la formazione, la sicurezza sul lavoro, la gestione delle criticità. Per ciascuna area di competenza esse hanno sostanzialmente potere di informazione, consultazione e, soprattutto, potere propositivo, mentre non hanno nessun potere contrattuale diretto che è lasciato alle rappresentanze sindacali di base.
Dalla ricerca condotta alla FIAT-SATA emerge, tuttavia, che con il consolidamento dell’esperienza industriale e con la crescita del sindacato (sia in fabbrica sia di quello territoriale), rispetto alla fase pionieristica degli anni Novanta, il modello di relazioni industriali ha subito nel tempo delle trasformazioni, non tanto nella sua articolazione quanto negli equilibri tra le parti e nella qualità della partecipazione intesa come soluzione più efficace per risolvere i problemi. Rispetto al tema nevralgico della partecipazione sindacale, per es., uno degli obiettivi della rilevazione è stato quello di verificare se e in quale misura le commissioni paritetiche rivestissero un ruolo centrale nel risolvere i problemi ed evitare i conflitti. L’analisi evidenzia chiaramente che le commissioni non si riuniscono più con la stessa frequenza rispetto agli anni precedenti, ma soprattutto che da parte dei lavoratori non vi è la percezione che i problemi affrontati in quelle sedi vengano effettivamente e concretamente risolti. Un altro aspetto importante dell’indagine è quello dell’asimmetria nelle relazioni di potere tra azienda e sindacato che relega di fatto i rappresentanti collettivi dei lavoratori a un ruolo di subalternità nei confronti del management. Infatti, il 22,5% sottolinea che nelle commissioni i delegati non hanno alcun potere di incidere direttamente nel processo decisionale; al contrario, le commissioni servono a comunicare decisioni già assunte in altre sedi senza alcun coinvolgimento sindacale. Non mancano coloro che esprimono il loro disappunto in merito al funzionamento delle commissioni affermando che esse non rappresentano uno strumento efficace per la risoluzione dei problemi (12,1%). Ci sono, tuttavia, rappresentazioni positive: circa il 10% dei lavoratori ritiene che le commissioni funzionino e che i problemi siano concretamente risolti.
Complessivamente i lavoratori della FIAT-SATA esprimono un giudizio particolarmente critico sul tema della partecipazione e, più in generale, sul modello di relazioni industriali così come disegnato nella sua impalcatura iniziale. Oltre un terzo del campione, iscritti e non al sindacato, sostiene come, al momento in cui è stata svolta la ricerca, non sia possibile parlare di partecipazione tra azienda e sindacato. In realtà è evidente una leadership molto forte della direzione che si limita a ratificare decisioni già assunte, solo da implementare. Nelle rappresentazioni di gran parte degli intervistati il sindacato agisce nell’interesse dei lavoratori e in modo coerente ai propri valori fondativi, tuttavia oltre il 34% concorda sul fatto che il sindacato, pur impegnandosi nelle varie sedi e in vario modo, non riesce ad ottenere risultati significativi. Non mancano le valutazioni critiche che enfatizzano l’atteggiamento autoreferenziale del sindacato, interessato soprattutto alla sua legittimazione interna, al consolidamento dell’organizzazione e al perseguimento dei propri interessi. La valutazione varia sostanzialmente in funzione dell’appartenenza alle differenti federazioni; la Federazione italiana metalmeccanici (FIM), l’Unione italiana lavoratori metalmeccanici (UILM) e la Federazione italiana sindacati metalmeccanici e industrie collegate (FISMIC) sono tradizionalmente partecipative. Diversamente, la Federazione impiegati operai metalmeccanici (FIOM), la Federazione autonoma italiana lavoratori metalmeccanici servizi (FAILMS) e l’Unione generale del lavoro (UGL) sono organizzazioni più conflittuali, orientate alla contrapposizione, talvolta ideologica, rispetto alle politiche aziendali.
A partire da tali considerazioni in merito al ruolo e all’azione del sindacato in azienda, gli operai hanno indicato i temi fondamentali su cui concentrare maggiormente l’azione rivendicativa per rispondere ai bisogni percepiti come prioritari. Dall’analisi dei temi emerge la necessità di una protezione forte degli aspetti fondamentali del lavoro nella grande industria, quali la tutela dei diritti di base, la garanzia e il mantenimento dei livelli occupazionali, l’attenzione alle condizioni e agli ambienti di lavoro.
Dal punto di vista della cultura sindacale, il sindacato in fabbrica assume caratteristiche particolari, diverse rispetto alle esperienze precedenti, caratterizzate da un livello elevato di conflittualità e dall’opposizione agli interessi del management. Grazie alla localizzazione in un ambiente green field l’azienda è stata in grado di controllare e plasmare il movimento sindacale fin dalla sua formazione all’interno della fabbrica. La scelta della FIAT, infatti, non è mai stata esplicitamente antisindacato, ma ha favorito soprattutto quelle organizzazioni che hanno intrapreso la strada della partecipazione e del dialogo con l’azienda. Ne deriva un sindacato che, soprattutto nei primi anni di attività, agisce quasi come un prolungamento del management. Pur essendo coinvolto e presente nelle varie commissioni, il sindacato subisce le decisioni o interviene attivamente solo sui temi per i quali l’azienda lascia lo spazio per operare. È un sindacato corresponsabilizzato dalla direzione e coinvolto nella gestione di temi specifici che non riguardano tanto la progettazione congiunta degli aspetti organizzativi, quanto soprattutto la gestione delle criticità e dei problemi che si verificano nello svolgimento dell’attività lavorativa sui luoghi di produzione. La partecipazione, quindi, è un elemento importante, ma appare debole o subalterna, caratterizzata dal predominio dell’azienda sul sindacato che tende a trasformarsi sempre più in un’organizzazione con caratteristiche vicine a quelle dell’esperienza giapponese.
Non bisogna, comunque, trascurare l’emergere di nuove e più strategiche (a volte combinate a quelle tradizionali) forme di disaffezione dei lavoratori quali, per es., la non partecipazione alle attività di miglioramento continuo della qualità (con termine giapponese kaizen), la crescita significativa dell’assenteismo (dal 2,3% del 1995 al 6,7 del 1999, fino a sfiorare successivamente il 20%), il lavoro secondo la rigida osservazione delle regole (work to rule).
All’evoluzione del sistema, dal punto di vista organizzativo e strutturale, ha fatto seguito un’evoluzione altrettanto significativa delle relazioni sindacali. In particolare, il ‘prato verde’ organizzativo e delle relazioni industriali nel tempo ha lasciato il posto a una realtà completamente nuova quale risultato della sedimentazione di una cultura industriale e sindacale legittimata prepotentemente dagli scioperi avvenuti nella primavera del 2004. La mobilitazione operaia che ha interessato lo stabilimento FIAT-SATA dal 17 aprile all’8 maggio del 2004 ha segnato un punto di svolta per i lavoratori, per l’azienda e soprattutto per le organizzazioni sindacali, evidenziando la necessità di ripensare le relazioni industriali e di lavoro all’interno della fabbrica. Alla base della protesta, nata spontaneamente dai lavoratori, troviamo una crescente difficoltà del management nella gestione delle relazioni di lavoro e nella qualità del dialogo con le organizzazioni sindacali. A questi problemi se ne aggiungevano altri legati alla disparità oggettiva di trattamento salariale tra i lavoratori della SATA e quelli degli altri stabilimenti del gruppo, il particolare sistema di turnazione, il ricorso a una metrica del lavoro più gravosa.
Tutto ciò ha generato una conflittualità fino ad allora sconosciuta per lo stabilimento di Melfi e la rivendicazione di migliori condizioni di lavoro e salariali da parte dei lavoratori. A fronte della mobilitazione autonoma dei lavoratori, occorre sottolineare la non univocità dell’azione sindacale, che si divide di fronte alla strada da percorrere per ricomporre la frattura tra la direzione aziendale e la maggioranza dei lavoratori. Le lotte sembrano produrre i risultati sperati e la protesta si conclude, dopo tre settimane di incontri e manifestazioni, con la negoziazione di un nuovo accordo che introduce maggiorazioni salariali e un nuovo orario di lavoro ripartito su 17 turni e con il rientro in fabbrica degli operai. Tuttavia, a distanza di alcuni anni, la maggioranza dei lavoratori intervistati (41,4%) ha rielaborato criticamente la vicenda dei ‘21 giorni’, riconoscendo solo un parziale miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nello stabilimento. Dagli eventi del 2004 emerge la consapevolezza di una centralità dei lavoratori che va oltre la mera gestione dei processi produttivi. I lavoratori della FIAT-SATA percepiscono la loro forza come gruppo organizzato, fanno sentire la propria voce nei confronti della direzione aziendale e inviano un chiaro messaggio anche alle organizzazioni sindacali. Ciò rimanda al tema nevralgico della formazione di una nuova identità operaia a Melfi e nel Mezzogiorno. I cosiddetti metal-mezzadri, che per anni hanno rappresentato lo stereotipo dell’operaio-contadino della SATA di Melfi, hanno lasciato il posto a una nuova figura che si emancipa, si affranca dalla passività e dall’accondiscendenza del passato, ponendo al centro dell’attenzione la fabbrica e il luogo di lavoro. La fabbrica e la sua organizzazione si trasformano ancora nel 2006 con la sperimentazione da parte del management del programma World class manufacturing (WCM) in tutti gli stabilimenti del gruppo FIAT. L’implementazione del WCM nella fabbrica di Melfi assume una valenza strategica rispetto agli altri stabilimenti del gruppo torinese, poiché dà il via a una nuova fase dopo un periodo di incertezza e di chiusura del dialogo con i lavoratori e buona parte delle organizzazioni sindacali a seguito della mobilitazione dei ‘21 giorni’. Si tratta, quindi, di ricostruire dalle fondamenta un modello non più aderente alla realtà della fabbrica e di avviare nuove forme di consultazione e partecipazione attiva che, laddove possibile, favoriscano il coinvolgimento del sindacato. In questo quadro di profonda trasformazione, il ruolo del sindacato è cruciale nella misura in cui è chiamato a collaborare e a partecipare al cambiamento e alla ristrutturazione organizzativa.
L’importanza e la necessità di buone relazioni industriali si avvertono, quindi, ancora oggi, probabilmente in misura maggiore rispetto al passato. Nella lean production e nella sua evoluzione verso il World class manufacturing un dato è evidente: cambia la natura del sindacato e con esso l’idea della contrattazione. In particolare, si passa dalla contrattazione-conflitto alla contrattazione-gestione che si realizza, innanzitutto, attraverso un processo di ‘personalizzazione’ del conflitto in base al quale il sindacato ha la funzione principale di acquisire il disagio del lavoratore e di cercare di dare una risposta individuale, impedendo che il problema si estenda e assuma una dimensione collettiva. A questa funzione primaria si deve aggiungere la responsabilizzazione del sindacato nella gestione concordata di alcuni temi trattati soprattutto all’interno delle commissioni paritetiche.
Tale modello ha di fatto ancora favorito il prevalere di un sindacato partecipativo più vicino all’esperienza del sindacalismo d’impresa che alla tradizione del sindacalismo industriale conflittuale europeo, coinvolto dall’azienda nella gestione di alcuni aspetti della vita dello stabilimento in cambio di un controllo strategico sui lavoratori e della prevenzione di ogni forma di conflittualità. Ciò ruota intorno alla creazione (riproduzione) da parte del management FIAT nel contesto specifico di quegli elementi di azienda-comunità fondamentali per comprendere e spiegare il successo delle imprese giapponesi. Anche le tecnologie e soprattutto le caratteristiche del nuovo modello di organizzazione del lavoro e della produzione influiscono sul tipo di sindacato che si afferma e sul suo modo di operare. Polivalenza, lavoro di gruppo, problem solving, migliore ergonomia delle postazioni, maggiore sicurezza sul lavoro, opportunità di crescita professionale e variabilità del salario, e più in generale l’enfasi sulla qualità dei prodotti e dei processi che ruota intorno alla centralità del lavoratore, contribuiscono a delineare un rapporto nuovo tra i lavoratori e il sindacato, concepito in un’ottica diversa, meno antagonista e maggiormente integrato nella governance della fabbrica. In questa logica, il vero problema e la sfida per il futuro del sindacato e delle relazioni industriali pluraliste sono rappresentati dalla frammentazione delle organizzazioni sindacali nazionali e dalla loro diversa impostazione legata a tradizioni e culture differenti, particolarmente evidenti dai primi anni Duemila) e acuite dalla crisi e dalla competizione internazionale.
Le culture sindacali emergenti, in un contesto di declino più o meno generalizzato della sindacalizzazione e di incertezza sul futuro delle relazioni industriali quali strumento principale di regolazione del lavoro, rappresentano una sorta di adattamento funzionale alla sopravvivenza delle grandi organizzazioni di rappresentanza, assumendo i caratteri del sindacalismo dei diritti (evoluzione del sindacato di classe) contrapposto al sindacalismo partecipativo o responsabile. Il pluralismo tipico delle organizzazioni moderate, rispetto al modello della tutela incondizionata dei diritti, sembrerebbe essere quello che meglio si adatta alle esigenze di ristrutturazione avviate dalla grande industria e dal management, che ricerca nel sindacato un interlocutore stabile. Ancora una volta l’incontro fra le culture sindacali e le culture industriali è un evento del tutto incerto e problematico.
La vicenda della modernizzazione delle regioni meridionali attraverso l’industrializzazione ha per molti aspetti compiuto il suo corso o, meglio, la sua parabola. La diffusione del lavoro industriale e di moderne culture sindacali ha lasciato traccia nella struttura sociale e nelle forme di organizzazione della protesta e della mobilitazione collettiva. Lo si è rilevato attraverso le ricerche sociologiche che lungo un arco di più di un quarantennio si sono dedicate allo studio dei più importanti insediamenti industriali del Mezzogiorno, inizialmente per analizzare i problemi di adattamento ai nuovi compiti produttivi di una forza lavoro priva di adeguata tradizione e di consolidate competenze professionali, in seguito per cogliere le reazioni e gli atteggiamenti nei confronti del mutamento tecnologico e organizzativo di produzioni già avviate e inserite ormai nel destino più complessivo dell’età industriale. Da nessuna ricerca sono emersi vistosi fenomeni di rifiuto o di disagio nei confronti della cultura industriale, anche se le differenze fra i diversi contesti produttivi non sono mancate. Nell’insieme però colpisce una sostanziale accettazione dell’impresa industriale e dei suoi requisiti, dalle politiche di gestione del personale legate alle variabili tecnologiche e organizzative, alla responsabilità verso gli impianti stessi (percepita con vigore nella chimica e in siderurgia). Le politiche di gestione, va ricordato, non sempre hanno corrisposto alle ambizioni innovative delle élites imprenditoriali (specie sul versante delle assunzioni dei dipendenti), che raramente hanno saputo evitare procedure improprie di selezione, spesso con il ricorso ai canali clientelari tipici della mediazione sociale nel Mezzogiorno, talvolta con l’adozione di criteri di selettività politico-sindacali (diffusi peraltro anche in altre aree di antico sviluppo). Un argomento tipico della ricerca sociologica, la soddisfazione del lavoro, ha aiutato inoltre a comprendere come l’accettazione e la comprensione del lavoro industriale si siano rivelati per molti aspetti omogenei con quelli di altri contesti di consolidata industrializzazione.
L’effetto della diffusione del lavoro operaio sulla modernizzazione delle strutture sociali, quell’effetto tante volte invocato lungo tutto l’arco del 20° sec. dai migliori osservatori delle vicende meridionali è sicuramente rilevabile, se con l‘aggettivo ‘moderno’ intendiamo rifarci a strutture fondate su gruppi e strati, inseriti nel sistema della cittadinanza, in grado di perseguire con autonomia i propri interessi e di affermare le proprie identità. Le strutture sociali tradizionali, più o meno intrecciate con le ambizioni della modernità, si sono fatte sentire soprattutto nei momenti dell’insediamento degli impianti e delle assunzioni, in seguito la cultura industriale ha lasciato il segno.
Le culture sindacali hanno contribuito a sostenere l’effetto di modernizzazione dell’industria. Poco di innovativo poteva del resto derivare dalla tradizione, sia pur generosa, del sindacalismo bracciantile, una tradizione che negli anni Settanta si convertì rapidamente verso un modello, del tutto peculiare, di sindacalismo istituzionale-assistenziale. Il primo banco di prova fu il sostegno alle politiche dell’intervento straordinario, iniziate nella seconda metà degli anni Cinquanta, accettate pienamente dalla cultura del pluralismo e della contrattazione (la CISL), accettate con molti distinguo se non subite dalla cultura del sindacato di classe (la CGIL). Ma nella realtà dei luoghi di lavoro, anche nel Mezzogiorno, il quarantennio di cooperazione (con qualche frattura) fra le grandi centrali sindacali seguito all’affermazione agli inizi degli anni Sessanta di un moderno sistema di relazioni industriali, con l’apporto decisivo delle imprese a partecipazione statale, ha fatto compiere significativi passi in direzione dell’organizzazione pluralista della società, sia a livello di impresa sia nelle relazioni fra i gruppi. Questo anche se le culture dominanti nella competizione sindacale italiana non hanno forse fornito nel Mezzogiorno il meglio delle loro espressioni; la cultura della CISL ha assunto talvolta venature troppo istituzionali (come nell’esperienza di Taranto) o aziendalistiche (come nel caso di Melfi), non sempre coerenti con i caratteri del moderno sindacato industriale; la cultura della CGIL non raramente si è fatta tentare (come nell’area napoletana) da istanze di ribellismo o da ambizioni operaistiche, a fatica ricomposte all’interno del disegno di rappresentanza generale tipico di questo sindacato.
Purtroppo, per le regioni meridionali, il cammino della industrializzazione ha raggiunto il suo culmine, e poi il suo declino, senza poter dispiegare tutte le sue potenzialità. Una cocente delusione, negli anni dell’avvento dei mercati globali, delle profonde ristrutturazioni, dell’emersione dei problemi di esternalità sull’ambiente e sulla salute, ha colpito le molte e giustificate speranze sorte più di mezzo secolo addietro. Gli insediamenti della chimica e della petrolchimica hanno seguito il disastro complessivo dell’industria chimica italiana; la siderurgia, già segnata dalla dismissione (per alcuni tratti incomprensibile) dell’impianto di Bagnoli ha incontrato le ‘scelte tragiche’ (fra lavoro e salute) del complesso di Taranto; la produzione automobilistica ha dovuto affrontare sia la pesante ristrutturazione dello stabilimento di Pomigliano (con un radicale conflitto intersindacale), sia le continue incertezze del pur avanzato complesso di Melfi, per tacere della chiusura (subita da tutti i sindacati) dell’impianto di Termini Imerese. L’ombra della criminalità organizzata ha addirittura messo in pregiudizio, come nel tragico rogo (marzo 2013) della Città della scienza nell’area di Bagnoli, le possibilità di riconversione e di sopravvivenza dei resti (e delle memorie) dell’età industriale. Il Mezzogiorno dovrà ancora una volta attendere per la sua compiuta modernizzazione, ma l’era dell’intervento dei grandi complessi industriali è certamente finita.
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