Lavoro impresa corporazione
La denominazione data da Alfredo Rocco alla legge del 3 aprile 1926 – «disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro» – è riduttiva. L’ampiezza del suo raggio di azione è tale per cui non c’è ramo dell’ordinamento che non si intrecci con gli altri per esserne fecondato e fecondare: dal diritto costituzionale al diritto civile, dal diritto processuale al penale e all’amministrativo. È per l’appunto a un’ottica così riccamente articolata che rimanda la posizione assunta dal partito-Stato nei confronti dei problemi giuridici del lavoro.
Viceversa, quando il fascismo conquista il potere, nell’ambiente degli operatori giuridici domina, incontrastata, l’idea che le regole del lavoro dipendente facciano parte integrante del diritto comune. Ma la dotta classificazione (il cui uso si è conservato fino ai nostri giorni) è reticente. Non dice che il diritto comune era sottoposto da tempo all’incessante processo di commercializzazione che si sarebbe completato con la codificazione civile del 1942 (F. Galgano, Storia del diritto commerciale, 1976, pp. 95 e segg.). Un processo che aveva le sue manifestazioni salienti nell’economicizzazione del lavoro deducibile in contratto – in ossequio al principio per cui si considera bene economico tutto ciò che è fonte di arricchimento in una società a ordinamento capitalistico – e nella dimensione sostanzialmente mercatistica del rapporto instaurato dal contratto di lavoro.
Infatti, come non destava scandalo che Cesare Vivante vedesse nell’imprenditore uno «speculatore sul lavoro» (Trattato di diritto commerciale, 1893), cioè un intermediario che si arricchisce lucrando sulla differenza di prezzo tra merci comprate e vendute, così Francesco Carnelutti poteva scrivere: «la differenza fra contratto di lavoro e vendita non sta che nella qualità e forse nell’origine dell’obbietto» (Studi sulle energie come oggetto di rapporti giuridici, «Rivista di diritto commerciale», 1913, 1, p. 353).
Forse. L’avverbio è buttato lì, come se si trattasse di un dettaglio trascurabile. Benché l’esplicita equiparazione del contratto di lavoro alla compravendita mettesse a disagio papi, parroci e timorati di Dio, ciò su cui si riteneva che valesse la pena porre l’accento era soltanto la mercificazione del lavoro che lo rende suscettibile di speculazione.
Visto il primitivismo del punto di partenza, è indubitabile che il secondo, il terzo e il quarto decennio del Novecento costituiscono una stagione durante la quale, come ormai ha assodato concordemente un’avvertita storiografia che ha il suo esponente di spicco in Giovanni Cazzetta (2007), se sono proseguiti discorsi precedenti, tuttavia si sono al tempo stesso poste le basi anche per discorsi futuri. È da allora, infatti, che acquista forza la percezione che il lavoro è un concetto astratto, dietro il quale c’è un soggetto in carne e ossa che rivendica il riconoscimento di una serie in continua espansione di interessi materiali e immateriali, pre- e post-occupazionali. In altri termini, ci si rende conto che non c’è soltanto il tempo di lavoro; c’è, non meno importante, anche quello di non-lavoro, durante il quale, per es., si va a scuola, ci si svaga, si mette su famiglia e si allevano figli. Come dire: non basta regolare il rapporto di lavoro. Ci sono anche le vicende che ne precedono la costituzione e quelle che ne accompagnano lo svolgimento, dando un senso alla vita e incidendo sulla qualità della medesima. E lo Stato, che non può fare finta di nulla, non deve essere assente. Per questo, il corporativismo fascista ruppe deliberatamente con la tradizione.
Se in precedenza si negava al diritto del lavoro la possibilità di spingersi oltre la soglia di un contratto che comporta la cessione di un tempo di vita, il pensiero giuridico corporativo eserciterà una forte pressione al fine di scavalcare la collinetta.
Oltretutto, la tradizionale dicotomia pubblico-privato non poteva non essere demonizzata dalla cultura giuridica del periodo, dal momento che l’ordine fascista – come ha definitivamente chiarito Irene Stolzi (2007) – appariva irrealizzabile in assenza di un’appropriata valorizzazione sul piano giuridico della dimensione sociale per la comprensione della quale era (come tuttora è) necessario abbattere gli steccati tra diritto pubblico e diritto privato, scoprendone le interconnessioni capaci di sollecitare l’elaborazione di paradigmi disciplinari meno ingessati dell’organizzazione accademica del sapere (v. infra, La giuridificazione del collettivo).
Infatti, i giuristi più motivati – «i radicali della nuova dogmatica» (Lanchester 1994) – non ammettevano che lo Stato continuasse a considerare il diritto del lavoro come una provincia dell’impero del diritto privato e giudicavano l’opera di Ludovico Barassi (l contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, 1901) come un reperto preistorico. Per questo, intimarono il trasloco della regolamentazione giuridica del lavoro dipendente. Ma il 'dove' non aveva nome. Era (e sarebbe rimasto) un luogo senza identità. Da individuare con coordinate concettuali mutuate da altri saperi. Senz’altro da quello sociologico, che però era arretratissimo e ostracizzato; e soprattutto da quello pubblicistico, che era sì sviluppato, ma non era mai entrato in contatto con le problematiche del lavoro se non nella sua versione minima di Stato-gendarme. Però, contatti di segno diverso la giuspubblicistica non li stabilirà nemmeno in età corporativa. E non è una stranezza, ma la prova che la rivoluzione politica attuata dal regime non fu accompagnata, né tanto meno seguita, da una parallela rivoluzione sociale. Infatti, non appena giunse a percepire le enormi potenzialità di una direttiva di sviluppo politico-culturale che premiava la naturale vocazione del lavoro – comune, peraltro, a quella di tutti gli istituti-cardine della società civile: dalla famiglia alla proprietà, all’iniziativa economica privata – a intercettare l’evoluzione del costituzionalismo moderno, interagire con essa e orientarla in direzione della rifondazione dello Stato, il fascismo arrestò bruscamente il processo; e l’orgasmo svanì.
È presumibile che anche per questo sia passato inosservato il dato di contrasto che caratterizza la cultura giuridica italiana nel periodo tra le due guerre. Esso consiste in ciò: all’inerzia che intorpidiva il diritto del contratto individuale di lavoro, a causa della repressione di cui era oggetto il diritto collettivo del lavoro, si contrappone l’accentuata vocazione propositiva del diritto costituzionale. La ragione risolutiva risiede in ciò: dal diritto pubblico non arrivavano input per riprogettare le regole del lavoro; e non potevano arrivare a causa del cortocircuito comunicativo che si era prodotto tra giuspubblicistica e giusprivatistica con ricadute frenanti soprattutto sulla cultura giuridica del lavoro. Era come se la giuspubblicistica volasse a 'livello aquila' e la giusprivatistica a 'livello passerotto'.
Il fatto è che il diritto corporativo si occupava della riforma dello Stato e dei suoi rapporti con le rappresentanze degli interessi organizzati; non si occupava, invece, dei rapporti interindividuali. A questi provvedeva la codificazione civile: il codice del 1865, che era sostanzialmente il codice dell’avere, e quello del 1942 che si staccava dal precedente perché era soprattutto il codice del fare, permeato di economicismo e dominato dalle esigenze produttivistiche dell’impresa privata.
I giuspubblicisti dell’età fascista, si è scritto, ergendosi «ben al di sopra della contingenza tirannica italiana», riuscirono a interpretare con accenti di «sincera storicità» il dramma di una forma-Stato che muore e le doglie di quella che sta nascendo (Grossi 2000, p. 219). Verrebbe da dire, perciò, che erano saliti troppo in alto e, da lassù, non si accorsero che, quaggiù, la giusprivatistica si lasciava guidare dalla sola certezza che la costante evolutiva delle regole del lavoro dipendente era, e sarebbe rimasta, la microdiscontinuità. Non posso certamente essere io a ravvisare in ciò un autoinganno (Romagnoli 1995). So però che può produrlo, quando diviene un pretesto per rimpicciolire il ruolo del diritto del lavoro, soffocarne la progettualità politica che è virtualmente capace di esprimere (A. Baylos, Derecho del trabajo: modelo para armar, 1991) e ridurlo a mera tecnica regolativa di immodificabili rapporti tra diseguali. Il che è esattamente quel che di fatto accadde in età corporativa col simultaneo concorso, come appena detto, della disattenzione della giuspubblicistica alla grandiosità dei problemi quotidiani dei comuni mortali e del torpore della giusprivatistica..
La verità nuda e cruda è che giuspubblicistica e giusprivatistica agivano su piani distinti e secondo logiche separate: mentre la prima, proiettata sulle grandi questioni attinenti alla crisi dello Stato monoclasse dell’Ottocento e al governo della società di massa in uno Stato riformato (o, se si preferisce, ritrovato), si muoveva in apicibus, la seconda seguitava a nutrirsi del pragmatismo spalmato sulla casistica giudiziaria. La stessa monografia più importante del ventennio, inserita nella collana di un prestigioso Trattato di diritto civile (P. Greco, Il contratto di lavoro, 1939), attribuisce al precedente giudiziario un’importanza costruttiva superiore a quella dei contratti collettivi e tratta la Carta del lavoro a stregua di un contenitore di principi generali cui l’ermeneutica assegna solitamente un rilievo residuale. In effetti, è toccato alla giurisprudenza fertilizzare il terreno sul quale il codice civile del 1942 avrebbe edificato una figura contrattuale dove la patrimonialità dello scambio perde la sua maschia ruvidezza al contatto con concetti a elevato rendimento emotivo come l’obbligo di collaborare con l’imprenditore, la fedeltà nei confronti del medesimo e la fiducia che, dal lato del creditore di lavoro, deve poter presiedere allo svolgimento del rapporto. Così, mentre le dottrine di diritto pubblico si ingolfavano scompostamente in percorsi senza approdi verificabili, le retrovie del pensiero giuridico erano saldamente occupate da una giurisprudenza che respirava un clima rilassato, perché – addomesticato il sindacato e represso il conflitto– il regime aveva alleggerito la magistratura ordinaria della responsabilità di risolvere problemi d’ordine pubblico finalmente restituiti alla competenza di questori e prefetti. Pertanto, quel che i giudici del regno avevano imparato all’Università, e cioè che il diritto del lavoro era soltanto o prevalentemente il diritto del contratto individuale, era sufficiente per amministrare la giustizia che ci si aspetta da un giudice di pace o giù di lì.
Può darsi che sia stato un bene, o il male minore. Ciò non toglie però che il continuismo culturale prevalse sulle macrodiscontinuità giuridico-istituzionali. Tant’è che Carnelutti – sul primo fascicolo della rivista giuridica fondata e diretta da Giuseppe Bottai – pubblicò un articolo che si apre così: «In massima, non ci sono cose nuove da dire» (Sindacalismo, «Il diritto del lavoro», 1927). Ed è stato ancora questo giurista-scrittore che, non senza sorniona malizia, individuava «uno dei più grandi meriti» del regime «nel non essersi mai lasciato travolgere dall’impeto distruttivo e nell’avere conservato tutto quanto era possibile conservare» (in Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi, Ferrara, 5-8 maggio 1932, 3° vol., 1932, p. 80).
Dunque, nemmeno un legislatore che ci tiene ad apparire 'fiondato come una catapulta' su obiettivi rivoluzionari, e pretende di essere adulato o temuto proprio per questo motivo, è riuscito a sfrattare dalla cabina di regia dell’evoluzione del diritto del lavoro gli interpreti-tessitori che l’occupavano stabilmente (Romagnoli 2009 b, p. 13 e segg.). Il siero che li aveva vaccinati contro il virus dell’ideologia corporativa se lo erano procurato coonestando la communis opinio che comprimeva le regole dello scambio lavoro-retribuzione negli involucri confezionati dai privati nell’esercizio di un potere di autodeterminazione negoziale che l’ipocrisia dei legislatori e la retorica degli interpreti hanno sempre considerato come la più sacra manifestazione dell’individualismo economico e giuridico. Anche Alberto Asquini, il più politico tra gli allievi di Rocco, era del parere che il nuovo corso fosse ininfluente sulla struttura del rapporto individuale di lavoro: «questa struttura resta sempre privata e contrattuale» (Il nuovo diritto del lavoro nel sistema giuridico moderno, «Diritto del lavoro», 1927, 1, p. 914). Infatti, «la mira è a restaurare, assai più che a non erodere, il sistema tradizionale del diritto privato» e a consacrare la «intangibilità dell’ordinamento capitalistico della produzione» (Ungari 1963, p. 78).
Come dire: la coabitazione con il corporativismo non era servita al diritto del lavoro per emanciparsi come disciplina giuridica e acquistare una propria identità (Cazzetta 2007, pp. 171 e segg.). Per questo, il deprimente stop and go di una vicenda para- o pre-costituzionale come quella della Carta del lavoro (N. Rondinone, Storia inedita della codificazione civile, 2003), poco più di un sospirato «vorrei ma non posso» che l’apologetica di giuristi adoranti trasfigurava in una «super-legge» (Romagnoli 1974, pp. 187 e segg.), non è altro che la teatralizzazione della fine precoce di un nuovo inizio.
Avendo in mente un’economia dei produttori, il corporativismo fascista si proponeva soltanto di precostituirne i ruoli di cui garantisce l’ordinata distribuzione. Perciò non poteva non giudicare irricevibile l’obiezione che si trattava di distinzioni simmetriche a differenze sociali, di ceto e di classe, accettate o subite come se fossero un dato di natura. È quindi coerente con i suoi postulati etico-culturali il disegno di una società basata su gerarchie ascritte dall’appartenenza allo status professionale cui si è predestinati dalla nascita. Un disegno che si realizza promuovendo un movimento in direzione opposta a quello descritto da Henry S. Maine per spiegare come la modernità sia nemica dei rapporti fondati sullo status e amica dei rapporti fondati sul contratto, universalmente considerato l’espressione più compiuta della libertà di disporre di sé medesimi. Il contratto di lavoro, però, per i corporativisti si limitava a certificare l’appartenenza a uno status professionale; la certificazione contenuta in quell’atto di autonomia contrattale non era altro che il ticket staccato nelle biglietterie di Stato per consentire l’accesso allo status di cittadino in quanto produttore. D’altronde, che lo status occupazionale e professionale acquisibile per contratto sia il prius e lo status di cittadinanza il posterius è un assioma che, per quanto la costituzione del 1948 lo abbia bocciato come un’eresia, neanche lo statuto dei lavoratori del 1970 ha potuto sconfiggere.
Paolo Grossi ha ragione ad affermare: «Alla fine degli anni ’30 è tutto un parlar di impresa» (2000, p. 253). Ma il corporativismo fascista si discostò più a parole che nella sostanza dalla dottrina liberale con la quale polemizzava. Infatti, la concezione politica che assegna il primato all’iniziativa economica privata, e un ruolo sussidiario o suppletivo all’intervento pubblico, è apertamente sponsorizzata dalla Carta del lavoro. Vero è che l’intonazione affabulatoria del testo rimanda, si direbbe oggi, al soft law, ossia a una metodologia regolativa nella quale c’è assai più leggerezza che diritto, e perciò nel testo del 1927 non c’è assolutamente nulla di paragonabile né al rigore tecnico della legge del 1926 – redatta da un decisore politico cui sono familiari gli stilemi della professione giuridica – né alla sfrontata sicurezza di un giocatore di Wimbledon che sta vibrando il colpo con il quale si aggiudicherà tutt’in una volta gioco, partita e incontro. Tuttavia, l’opzione di fondo è netta: «Lo Stato corporativo considera l’iniziativa privata nel campo della produzione come lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della Nazione» (Carta del lavoro, Dichiarazione VII); mentre lo Stato è legittimato ad intervenire
nella produzione economica […] nella forma del controllo, dell’incoraggiamento e della gestione diretta […] soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in gioco interessi politici dello Stato (Carta del lavoro, Dichiarazione IX).
Non può sorprendere, quindi, che anche il corporativismo fascista attribuisse al lavoro l’attitudine propria di un fattore della produzione. Dovette, però, impegnarsi in un’acrobazia dialettica per differenziarsi dalla dottrina liberale. È infatti per disperdere le tracce di una convergenza culturale di per sé imbarazzante che il regime sentirà l’obbligo di perfezionare l’attitudine mistificatoria di cui era largamente dotato. Si deve ammettere che ha potuto adempierlo esattamente anche grazie al contributo di giuristi, in primis Lorenzo Mossa, la cui risolutezza ideologica nel proclamare il vincolo di dipendenza del diritto del lavoro dall’economia, e nel teorizzarne la natura aconflittuale, può spiegarsi soltanto in ragione della loro tendenza a sottovalutare il blocco provocato da una legge che, come quella del 1926, precludeva al diritto individuale del lavoro gli itinerari evolutivi che soltanto la libera misurazione dei rapporti di forza è in grado di tracciare.
In effetti, la credibilità scientifico-culturale del dibattito tra i corporativisti – da una parte, i molti che si attardavano a elogiare il corporativismo realizzato dal regime e, dall’altra, la minoranza che non smise di esaltare la superiorità del corporativismo idealizzato – era compromessa dal rifiuto di confrontare criticamente con la realtà effettuale l’idea di corporativismo che ciascuno dei contendenti professava. Per questo, pur essendo concordi nel diagnosticare che l’astrattezza era la malattia mortale della vecchia cultura liberale, sia i corporativisti 'di destra' che quelli 'di sinistra' finirono tutti per ammalarsi di astrazione e, arrampicatisi gli uni sugli altri fino a inarrivabili vette teoriche, cercarono di salvarsi dalle vertigini rifugiandosi nella mistica, come appare evidente soprattutto in tema di lavoro e di impresa. Per lo stesso motivo, però, risultavano avvantaggiati i giuristi di formazione liberale, ai quali riuscì più facile del previsto ridurre tutti i corporativisti, tanto quelli che idolatravano il regime quanto quelli che lo incitavano a ingerire maggiori dosi di 'vero' corporativismo, al ruolo di parlanti che fanno della solitudine la propria compagna. Erano considerati dei diversi non solo perché avevano perso la fede che il diritto fosse scisso dalla politica, ma anche e soprattutto perché confondevano il diritto con un onirico immaginario.
La mistificazione principale di cui la costellazione delle successive costituisce uno sviluppo deduttivo consiste nella funzionalizzazione in senso forte degli interessi in gioco. Eccola.
L’imprenditore agisce non per soddisfare un interesse egoistico, bensì per realizzare l’interesse dell’impresa in sé – dell’Unternehmen an sich, dicevano i giuristi tedeschi del periodo prenazista – ossia l’interesse all’efficienza dell’organizzazione produttiva; un interesse che il singolo lavoratore, indipendentemente dalla sua collocazione nell’organigramma dell’impresa, non può non condividere. Costui non è soltanto un debitore di lavoro; piuttosto, è un soggetto che, soddisfatto della propria subalternità, presta la propria attività «in qualità di elemento facente parte di un complesso di persone operante per un unico scopo produttivo» (P. Gasparri, L’azienda nel diritto del lavoro, 1937, pp. 11-12).
La costruzione ideologica sarebbe stata facilmente smontabile se non fosse stata tenuta insieme da un collante a effetto le cui componenti servivano per ridefinire nozioni fondamentali dell’economia classica: poiché l’impresa corporativa era uno strumento della collettività nazionale, il profitto come remunerazione del rischio d’impresa veniva pudicamente espunto dal discorso giuridico – anzi, lo scopo lucrativo non comparirà nemmeno nella definizione legale dell’imprenditore (art. 2082) – e l’imprenditore era un lavoratore come ogni altro, ma meritevole di speciale considerazione perché si deve al suo titanismo creativo il compiersi del fatto tecnico della produzione – e segnatamente della produzione su larga scala – secondo le regole della razionalità economica. Come dire: il potere di comando nell’impresa si correlava unicamente all’esigenza di gestire l’ordine produttivo e costruire il successo dell’impresa sul mercato.
Insomma, poiché «L’organizzazione privata della produzione [è] una funzione di interesse nazionale» (Dichiarazione VII della Carta del lavoro) e poiché
nei beni o servizi forniti dall’imprenditore al mercato sono incorporati non solo il lavoro esecutivo e i capitali impiegati, ma anche il lavoro organizzativo e creativo dell’imprenditore (A. Asquini, Profili dell’impresa, «Rivista di diritto commerciale», 1943, 1, p. 3),
si conviene che d’ora in avanti il profitto si chiamerà retribuzione del lavoro di organizzazione e in conseguenza il potere direttivo sarà considerato il contenuto di una mansione la cui esecuzione presuppone una tecno-struttura organizzativa rigidamente gerarchizzata, dove pochi pensano e molti, invece, obbediscono senza (la libertà, ma neanche il dovere di) pensare.
Le cose, ovviamente, non potevano cambiare cambiandone il nome. Intanto, però, a livello d’immagine
L’imprenditore cessa[va] di occupare la posizione di colui che amministra i propri interessi per presentarsi come l’amministratore di interessi altrui: degli interessi di quella più vasta comunità di lavoro della quale egli [era] soltanto uno dei membri (F. Galgano, Le istituzioni dell’economia capitalistica. Società per azioni, Stato e classi sociali, 19802, p. 224).
Erano gli interessi della 'società naturale' tra imprenditore e dipendenti vagheggiata da Mossa che, già nel 1922, ne parla anticipando svolgimenti legislativi futuri. Vero è che più tardi ne criticherà acerbamente la cautela. Ma ciò significa semplicemente che era un giurista-intellettuale particolarmente esoso. A lui, cioè, non bastava che, pur componendosi di centinaia di disposizioni che riguardano il lavoro organizzativo, ancorché delegato a manager o svolto nell’ambito di entità complesse dove, come nelle società di capitali, esso si disarticola nelle competenze ripartite tra una pluralità di organismi, il libro V del codice civile del 1942 fosse intitolato Del lavoro; che la norma d’esordio di questa partizione del codice fosse programmaticamente diretta a tutelare il lavoro «in tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali» (art. 2060); che l’art. 2082 definisse imprenditore «chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi» e che, secondo l’art. 2086, egli fosse «il capo dell’impresa» da cui «dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori».
A ogni modo, nell’enfatizzazione dell’interesse tecnico-organizzativo ed economico dell’impresa – che giustifica l’insindacabilità delle unilaterali decisioni aziendali – non c’è soltanto la furia ideologica dei corporativisti. O meglio, ce n’è meno di quanto non possa apparire, perché non si tratta di acquisizioni interamente ascrivibili a una temperie culturale storicamente e politicamente definita. Infatti, l’incipit del documento fondativo della Repubblica non sarebbe stato approvato dall’Assemblea costituente se il grande tessitore che presiedette la 'Commissione dei 75', Meuccio Ruini, non avesse fatto ricorso all’argomento che l’imprenditore è un lavoratore «qualificato che organizza la produzione» (in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, 1970, 1° vol., p. 577).
Con il senso della storia che scarseggiava alla maggior parte degli operatori giuridici, come in genere alla classe dirigente, del periodo anteriore, il diritto corporativo muove dalla condivisibile premessa che il capitalismo industriale non poteva più sostenersi su di una capocchia di spillo come il contratto di lavoro con il quale si baloccava una giusprivatistica indifferente all’impatto sui paradigmi disciplinari della dissociazione che si stava consumando sotto i suoi stessi occhi tra l’economia capitalistica e l’individualismo. C’è voluto del tempo per rendersi conto che si trattava più che altro di furbi ammiccamenti, ma una frustata alla pigrizia mentale dei giuristi il corporativismo fascista l’ha data ugualmente. È toccato infatti alla cultura giuridica del periodo tenere a battesimo l’annessione del collettivo.
Questo inedito predicato del diritto doveva essere la risorsa ordinante per ristrutturare la compagine statuale a misura della realtà sociale emersa dal Novecento rompendo secolari equilibri; invece, è rimasto quel che era in precedenza: una minaccia. Per questo, lo Stato ha riconosciuto l’esistenza del collettivo in chiave autoritaria, incorporando cioè le sue entità esponenziali – a cominciare dal sindacato – proprio per consentirgli di «ribadire il carattere seccamente autoreferenziale del suo potere» (Stolzi 2007, p. 44). Infatti, il riconoscimento giuridico di una zona intermedia tra privato-contrattuale (o privato-sociale) e pubblico statuale l’ha confinata nel limbo dove la religione cattolica confina le anime dei candidi, senza riuscire a testimoniare la necessità di rivedere la ripartizione di ambiti tra privato e pubblico. Pertanto, sebbene fosse uscito dall’indeterminatezza del pre-giuridico per fare irruzione nell’ordinamento dello Stato, il collettivo ha dovuto fare i conti con la concezione individualistica della convivenza sociale le cui radici nessuno voleva recidere, sembrando essa un’espressione irrinunciabile della civiltà. In effetti, il collettivo è tuttora il nodo irrisolto del pensiero giuridico. Quello corporativo, però, ha tentato di dare alla massima ubi societas ibi ius, che in buon italiano vuol dire che la società non può fare a meno del diritto, una traduzione dialettale del tipo 'anche la società produce diritto'.
Così, invitato a tenere un 'corso di coltura per funzionari sindacali' intorno alla metà degli anni Trenta Francesco Santoro Passarelli non esitò a esporre la tesi per cui,
assisa la produzione economica sull’iniziativa privata (dich. VII e IX della Carta del lavoro), subordinata la costituzione dei rapporti individuali di lavoro all’incontro delle volontà dei datori di lavoro e dei lavoratori, la disciplina di questi rapporti è una disciplina privatistica (Legislazione del lavoro, 1936, p. 2).
L’episodio è paradigmatico. Sfidato dal tifone che stava scuotendo l’ordinamento dalle fondamenta, il giusprivatista non lo guardò in faccia: lo schivò. Infatti, per non contaminare il suo statuto epistemologico, preferì lo «smistamento del nuovo sotto le caselle note» (Stolzi 2007, p. 57).
Quindi, nella sua disadorna semplicità l’episodio svela con grande chiarezza che il diritto del lavoro non uscì dall’orizzonte di senso fissato dalle categorie logico-dogmatiche del diritto privato. Al punto che, secondo un giusprivatista di razza, persino il contratto collettivo cui la legge ’fascistissima‘ del 1926 aveva rifatto in profondità il maquillage vincolerebbe i suoi destinatari solamente perché essi medesimi lo hanno voluto attraverso i propri rappresentanti – come se, allora, la democrazia partecipativa che era del tutto sconosciuta nel Paese fosse praticabile dentro il sindacato unico di Stato – e perciò conserverebbe inalterata la natura originaria di un 'autocomando' (F. Santoro Passarelli, Legislazione del lavoro, cit., pp. 5-6).
È difficile stabilire se il candore fosse più protervo o più disarmante; è sicuro, in ogni caso, che produsse una forzatura interpretativa dello ius positum identica a quella che Irene Stolzi ha individuato nelle pagine di Sergio Panunzio: «La legge stessa del 3 aprile parla di volontaria adesione. Questo significa che il sindacato non è una costruzione che lo Stato compie dall’alto, ma è un prodotto spontaneo» dell’associazionismo; e ancora: «lo Stato non sostituisce la propria volontà a quella del sindacato, non l’annulla: la colloca soltanto nella dovuta subordinazione» (Stolzi 2007, p. 147).
Se Santoro Passarelli finisce per «avallare interpretazioni in bonam partem del fascismo al potere» (Stolzi 2007, p. 165), non è tuttavia casuale. L’involontaria convergenza è dovuta alla percezione, comune a entrambi, della bipolarità del sindacato che fa di lui un soggetto munito del potere di gestire interessi altrui sulla base di un mandato associativo identico a quello disciplinato dal codice civile e, al tempo stesso, l’incaricato di una funzione di pubblica utilità. Un giurista 'puro' si rifiuta di valutare l’ibridazione genetica; Panunzio, invece, la valuta come un’anomalia più da valorizzare cha da espungere, nel tentativo di soddisfare l’esigenza di tutelare gli interessi degli individui con riguardo non tanto alla loro eventuale veste di iscritti ad un sindacato quanto piuttosto a quella – che de iure non possono dismettere – di destinatari finali degli effetti dell’azione sindacale.
Ad ogni modo, il giusprivatista non sembra preoccupato dall’incidente di percorso. Quel che realmente gli preme è mostrarsi fedele alle personali certezze piuttosto che al dettato legislativo e alla sua ratio. E questo è un atteggiamento largamente diffuso della cultura giuridica corporativa. Non diversa, infatti, è la posizione di Carnelutti nei confronti della legislazione processuale sulla risoluzione delle controversie di lavoro. Vero è che il rito del lavoro introdotto nel 1928 concedeva uno spazio inusuale alla dimensione collettiva delle liti individuali. Tuttavia, l’interprete sosteneva che le controversie derivanti dall’applicazione del contratto collettivo sono 'pseudocollettive' in quanto non possono riguardare che i singoli titolari dei singoli rapporti di lavoro. Per questo, in caso di inosservanza del contratto collettivo da parte degli imprenditori, a suo parere i sindacati firmatari erano legittimati a promuovere azioni giudiziarie di solo accertamento, mai di condanna: alle sentenze costitutive di condanna si poteva arrivare – come adesso, del resto – soltanto al termine di processi individuali (Romagnoli 2009a, pp. 378, 382 e segg.). In definitiva, la chiave di lettura e lo schema argomentativo adottati non erano cambiati rispetto a quelli d’uso corrente nelle aule giudiziarie dell’Europa che si stava industrializzando: accolta in primo grado, la domanda avanzata dal sindacato dei tessitori di Chauffailles d’ester en justice venne respinta dalla Corte d’appello di Dijon e dalla Cassazione, perché «il ne peut en son nom exercer les droits et les actions qui appartiennent individuellement et personellement» ai danneggiati (Romagnoli 1969, p. 90 e segg.).
Se la predilezione del regime a istituzionalizzare tutto ciò che toccava (o soltanto fantasticava) è indiscutibile, la sua capacità di attenuare il rischio dell’implosione di istituzioni pensate e volute per sfidare i secoli era assai limitata. In definitiva, solamente la legge del 1926 che aveva aperto l’era corporativa non tradì le attese. E non tanto perché fosse tecnicamente ben fatta, bensì perché la sua fase applicativa era implementata dall’azione occhiuta degli apparati polizieschi e sostenuta da un vasto consenso sociale che non si incrinò significativamente se non dopo lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Ciononostante, anch’essa venne sfiorata dall’insuccesso, ancorché meno travolgente di quello subito dall’organizzazione corporativa dell’economia.
Ciò che sul piano storiografico unisce alla corporazione la magistratura del lavoro è la straordinaria sproporzione tra il volume delle aspettative suscitate e l’esiguità dei risultati prodotti in concreto: ossia, la distanza tra «entusiasmo ideologico» e «delusione pratica» (Gagliardi 2010, p. 106 e segg.).
Tra le promesse fatte da Benito Mussolini, quella che stava più a cuore ai liberali fu anche quella più correttamente adempiuta: il ripristino dell’ordine nelle piazze e soprattutto il riassestamento del rapporto tra Stato e sfera economica in una direzione che – predefinite le condizioni d’esercizio per cui tutto ciò che può essere oggetto di sfruttamento, e produce ricchezza, deve essere lasciato all’iniziativa privata (cfr. supra, Lavoro e impresa) – va verso uno Stato coercitivamente forte a sostegno del business, sia pure inteso non più come affare privato, bensì conforme all’interesse della nazione.
Per mantenere la parola data, il fascismo sacrificò del suo. Anzitutto, mise la museruola al suo stesso sindacalismo. Facendogli ingoiare il cosiddetto sbloccamento, nel 1928 segmentò l’unica confederazione che il movimento si era data; le tolse la partnership contrattuale e, in omaggio al principio della totale identità tra il politico e lo statuale (Ornaghi 1984), ne azzerò ogni velleità di agire come «uno Stato nello Stato» (Cassese 2010, pp. 105-06). Ma ciò non poteva bastare. Infatti, il regime fu costretto a dare di più.
Nel corporativismo delle origini non c’era l’idea di uno Stato minimo, con funzioni neutre come quelle di un semaforo stradale, ma di uno Stato disposto a dare una mano ai più deboli nello scontro fra gli interessi organizzati. «Fra gli ideali giuridici immanenti al nostro diritto del lavoro», scriveva Mario Casanova, «sussiste l’elevazione delle classi più numerose a migliori condizioni di vita» (Studi sul diritto del lavoro, 1929, p. 29). Se l’opinione era diventata in fretta un topos, ciò dipese anche dall’appoggio dato dallo stesso Mussolini alla proposta di Rocco di istituire la magistratura del lavoro, che il guardasigilli giudicava un pilastro dello Stato fascista.
Il lineamento più innovativo della speciale giurisdizione era dovuto alla sua configurazione non tanto come istanza d’appello nelle controversie individuali, quanto piuttosto come strumento di composizione di tutte le controversie collettive, sia di quelle nascenti nella fase dell’applicazione dei contratti collettivi sia di quelle causate dalla richiesta di nuove condizioni di lavoro. Infatti, l’utilità della magistratura del lavoro avrebbe dovuto manifestarsi soprattutto quando le rivendicazioni sindacali avessero incontrato le insuperabili resistenze della controparte. In tali casi, il contrasto sarebbe stato risolto mediante una sentenza provvista ex lege della medesima efficacia dei contratti collettivi.
Per questo, l’istituzione della magistratura del lavoro non era gradita alla Confindustria.
Infatti, una volta vietato penalmente lo sciopero, un congegno tecnico-processuale legittimato a comporre i conflitti collettivi non poteva più avere alcun interesse per gli imprenditori; anzi, la sua attivazione poteva danneggiarli. Toccò quindi a Mussolini affermare, in un rigurgito di equità sociale, che l’obbligatorietà della mediazione giudiziaria era la sola soluzione capace di sottrarre al padronato la facoltà di far fallire i negoziati senza possibilità di replica sindacale. Insomma, sarebbe stato ingiusto legare il destino delle trattative alla discrezionalità di una parte sola. In effetti, per lavoratori e sindacati essa costituiva una misura di compensazione dell’impossibilità giuridica di azionare gli strumenti dell’autotutela collettiva (M.G. Garofalo, Le ambiguità del corporativismo e il sindacato fascista, «Rivista giuridica del lavoro», 1992, p. 91 e segg.). L’argomento era ragionevole, ma non avrebbe potuto persuadere la Confindustria se il governo complessivo del Paese non le avesse fornito la più solida garanzia che il giudice si sarebbe comportato da vestale dell’impalpabile interesse superiore della produzione nazionale, nel presupposto che lavoratori e sindacati hanno diritto solamente a «ciò che possono avere senza che ne rimanga pregiudicata la capacità produttiva dell’azienda» (F. Carnelutti, Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, 1927, p. 98). Niente di meno, ma neanche niente di più.
Comunque, la temuta intrusione dell’organismo giudiziario nella dinamica dei rapporti collettivi di lavoro non ci fu.
Nel corso dei primi dieci anni della sua attività, quelli del più compatto consenso al regime, le controversie collettive risolte con sentenza furono appena sedici. Perciò, la devoluzione alla competenza giudiziaria della conflittualità sindacale si rivelò utile più che altro per ragioni di estetica del sistema normativo: gli conferiva completezza e organicità sul piano teorico nella misura in cui l’assolutezza del divieto legale di scioperare ci guadagnava in termini di logica linearità e piena aderenza alla filosofia del corporativismo. Tuttavia, ha ragione Irene Stolzi a sconsigliare di leggere nell’esiguità del ruolo svolto dalla magistratura del lavoro un indizio di sconfitta (2007, pp. 90-91). Dopotutto, il ricorso alla magistratura del lavoro era stato pensato dallo stesso Rocco come un’extrema ratio. Meno ricorsi c’erano, insomma, e meglio era, perché il contenzioso testimoniava la persistente possibilità di turbative della pax corporativa e l’incomponibilità su base consensuale dei contrasti d’interesse (cfr. G.C. Jocteau, La magistratura e i conflitti di lavoro durante il fascismo. 1926-1934, 1978, p. 99). Nondimeno, se, da un lato, la modestia quantitativa dell’attività giudiziaria era il segnale di un successo ideologico, dall’altro, essa era la spia di una deformazione funzionale delle strutture corporative dello Stato-apparato. Svuotate della funzione di dirigere l’economia, furono piegate all’esigenza di negoziare conciliazioni a oltranza, operando così da filtro stragiudiziale di controversie rientranti nella competenza della magistratura del lavoro. Come dire: le corporazioni dovevano volare a 'livello-aquila'; volarono invece a 'livello-passerotto', anche loro.
Secondo la vulgata dominante, fascismo e corporativismo non potevano che andare a braccetto (F. Ercole, La funzione del partito nell’ordinamento corporativo dello Stato, «Archivio di studi corporativi, 1931, pp. 42-43). Già la legge del 1926, infatti, prevedeva la costituzione di «organi centrali di collegamento» tra le associazioni sindacali – che il regolamento attuativo definirà «corporazioni» – e li qualificava come organi dell’amministrazione statale alla diretta dipendenza del ministro per le Corporazioni. Era un’anticipazione di futuro. Che si dispiegherà negli anni Trenta, assumendo la forma del Consiglio nazionale delle corporazioni.
Le sue funzioni erano miste: non solo conciliative, ma anche consultive, e normative, nel campo sia dei rapporti di lavoro che nei rapporti economici; non ché di controllo ed emendamento degli accordi sindacali. Nonostante i reiterati interventi di manutenzione e riassetto istituzionale, tuttavia, le complicate procedure di mediazione degli interessi non funzionarono mai in maniera decente. Scarse le decisioni adottate e, «quando vi furono, erano il risultato della prevalenza del gruppo più forte o, più spesso, dell’intervento di organi estranei al principio corporativo» (S. Cassese, Corporazioni e intervento pubblico nell’economia, «Quaderni storici delle Marche», 1968, p. 430). Di infimo rilievo anche le ordinanze emanate: si ricordano soltanto quelle attinenti al settore dello spettacolo o le tariffe di alcune categorie di professionisti (Gagliardi 2010, p. 81 e segg.).
Alla fine dei conti, il solo organismo corporativo vitale fu il sindacato e l’attuazione dei principi corporativi ebbe continuità soprattutto attraverso la contrattazione collettiva. Ma il sindacato non poteva agire come il «sensore sociale privilegiato» reclamizzato da Bottai (Stolzi 2007, p. 136). Non poteva agire che come una lobby piazzata nei paraggi dei circuiti del potere politico, esposta alle pressioni del dittatore e del partito ai quali, però, imparò contemporaneamente anche a sollecitare favori di natura inevitabilmente clientelare. Dal canto suo, la contrattazione collettiva era esuberante, ma inautentica. E non perché fosse condizionata dal presenzialismo delle corporazioni. I limiti reali della contrattazione collettiva erano rapportabili soprattutto agli eccessi del centralismo burocratizzante dell’organizzazione sindacale, i cui dirigenti erano portati a enfatizzare il ruolo del garantismo legalitario nell'amministrazione dei rapporti di lavoro, e al deficit di contatti con i luoghi di lavoro (G. Giugni, Esperienze corporative e post-corporative nei rapporti collettivi di lavoro, «il Mulino», 1956, p. 3 e segg.), oltreché, ovviamente, a un regime liberticida di cui il divieto penale di scioperare era soltanto la punta dell’iceberg.
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