Abstract
La nostra Costituzione definisce l’Italia una Repubblica democratica fondata sul lavoro e, quest’ultimo, come ogni attività o funzione diretta al progresso materiale e spirituale della società. Riconosce il diritto al lavoro a tutti i cittadini e, al fine di rendere effettivo questo diritto, dispone a che la Repubblica promuova tutte le condizioni opportune, eliminando gli ostacoli alla concreta partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese e tutela l’interesse economico, la libertà, la dignità e la personalità del lavoratore. Le disposizioni costituzionali vengono esaminate in merito al c.d. principio lavorista, all’inviolabilità dei diritti fondamentali, al principio di uguaglianza, al diritto al lavoro, alla tutela del lavoratore, al diritto alla retribuzione, al lavoro delle categorie più deboli e al primato del diritto europeo nonché, da ultimo, alle nuove frontiere del diritto del lavoro.
La Costituzione si occupa del lavoro fin dall’art. 1, che recita: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (...)». A detto articolo seguono gli artt. 3, co. 2: «E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli (...) che impediscono (...) l'effettiva partecipazione dei lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese»; 4: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto (...)»; 35: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero»; 36: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi»; 37: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore (....). La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione»; 38: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria (...)»; 39: «L'organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce»; 40: «Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano»; 46: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
Gli articoli della Costituzione sopra richiamati evidenziano come la Costituzione italiana conferisca un rilievo particolare al lavoro, tanto da costituirne uno dei principi fondamentali.
In particolare, l’art. 1 della Costituzione sancisce il c.d. principio lavorista, ponendo il lavoro a fondamento della Repubblica. La formula adoperata dall’art. 1 è stata variamente intesa dalla dottrina. Si è detto che il lavoro rappresenti il «segno distintivo dello sviluppo della personalità dell’uomo» (Barile, P., Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, 103), «il più idoneo ad esprimere il pregio della persona» e a valutare la posizione da attribuire ai cittadini nello Stato, poiché non rappresenta soltanto uno strumento per il conseguimento di mezzi di sostentamento, ma «il tramite necessario per l’affermazione della personalità» (Mortati, C., Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1975, 156-157; Id., Il lavoro nella Costituzione, da Il diritto del lavoro, 1954, ora in Raccolta di scritti, vol. III, Milano, 1972, 228, 232; Id., Il diritto al lavoro secondo la Costituzione della Repubblica (Natura giuridica, efficacia, garanzie), dagli Atti della Commissione parlamentare di inchiesta sulla disoccupazione, 1953, ora in Raccolta di scritti, vol. III, Milano, 1972, 145, 149-150). In sostanza, non viene più accettato che i valori “cardine” dei sistemi precedenti possano essere predominanti sulle esigenze di rispetto della personalità e della dignità dell’uomo. A tal proposito basti pensare, ad esempio, a quanto dispone l’art. 41 Cost. che, al primo comma, proclama la libertà di iniziativa economica privata e, al secondo, stabilisce che essa non possa svolgersi in contrasto, dal punto di vista generale, con l’utilità sociale e, dal punto di vista individuale, con la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Il valore di un soggetto non deve, dunque, dipendere da posizioni di privilegio consolidatesi nel tempo (Giannini, M.S., Rilevanza costituzionale del lavoro, in Riv. Giur. del Lavoro, anno I, 1949, n. 1-2, 18) ma dal merito acquisito dalle persone attraverso la propria operosità ed intelligenza, fatta valere con il lavoro, oltre che con lo studio (art. 34, co. 3, Cost.) (Olivetti, M., Art. 1, in Bifulco, Celotto, A.-Olivetti, M., a cura di, Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, 33). Gli autori che tendono a mettere in maggiore risalto il significato giuridico-normativo dell’enunciato considerano il principio lavorista come principio fondamentale, costitutivo e distintivo della forma di Stato e del tipo di democrazia delineato nella Costituzione italiana (Mortati, C., Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1975, 144; Id., Art. 1, in Branca, G., Commentario alla Costituzione, Bologna, 1975, 11), come «valore base, informativo dell’ordinamento» (Martines, T., Diritto costituzionale, XII ed. a cura di G. Silvestri, Milano, 2010, 200), come «strumento di partecipazione politica (cioè di partecipazione democratica) e come primo cardine costituzionale per elevare e commisurare la dignità dell’uomo» (Ventura, L., Introduzione. Valori costituzionali ed unità nazionale, in Ventura, L.-Nicosia, P.-Morelli., A.-Caridà, R., Stato e sovranità, Profili essenziali, Torino 2010, 7; Id., L’irriducibile crisi della democrazia repubblicana, in Studi in onore di Aldo Loiodice, Bari, 2012 e in www.giurcost.org/studi/ventura3.pdf, 3). E contro l’opinione critica di chi sostenesse che si tratta di affermazioni dai connotati meramente ideologici, si richiama lo strumento dell’interpretazione letterale, in combinato disposto, dei primi quattro articoli della Costituzione (Ventura, L., L’irriducibile crisi della democrazia repubblicana, in Studi in onore di Aldo Loiodice, Bari, 2012 e in www.giurcost.org/studi/ventura3.pdf, 3).
Il lavoro a cui si riferisce la formula costituzionale non costituisce «una prerogativa della classe lavoratrice», poiché è da intendere nel senso di “lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, come precisa anche la disposizione di cui all’art. 35 Cost., ed assume valore unitario ed inclusivo, rappresentando «un titolo di appartenenza alla comunità nazionale, alla cittadinanza» (Zagrebelsky, G., Fondata sul lavoro. La solitudine dell’art. 1, Torino 2013, 20-21).
Altri ha precisato che, il proclamato fondamento della Repubblica sul lavoro mira a sancire l’aspetto fondamentale di ogni attività che consente ai cittadini di partecipare positivamente al soddisfacimento dei bisogni della collettività (Amoroso, G., Commento all’art. 1, in Amoroso, G.-Di Cerbo, V.-Maresca, A., Diritto del lavoro. Volume I, La Costituzione, il Codice civile e le leggi speciali, Milano, V ed., 2017, 3-4).
Deve osservarsi, peraltro, (Crisafulli, V.-Paladin, V., Art. 1 e art. 4, in Commentario breve alla Costituzione, Padova, 1990, 6) come la Corte costituzionale di frequente, nelle sue sentenze, non consideri sufficiente a motivare le questioni di legittimità costituzionale l’argomentazione che denunci esclusivamente il contrasto con il “principio lavorista”, ritenendo, piuttosto, che essa possa essere una ragione integrativa di eccezioni basate su altri e più specifici parametri: la Corte, infatti, riconosce che, «in un ordinamento costituzionale come il nostro, che si dichiara lavorista sin dalla sua disposizione di apertura» (sent. 26.1.2004, n. 35), ponendo il lavoro a fondamento della stessa forma di Stato, la Costituzione intende, sì, affermare «la preminenza di ogni attività lavorativa nel sistema dei diritti-doveri spettanti ai cittadini» (sent. 5.5.1967, n. 60) in quanto «valore primario della Repubblica democratica» (sent. 26.7.1979, n. 83) anche per la coscienza sociale, ma, tuttavia, mette ulteriormente in luce come tale disposizione affermi «solo un principio ispiratore della tutela del lavoro» e non voglia, in realtà, «determinare i modi e le forme di questa tutela» (sent. 15.2.1980, n. 16), specificando come al lavoro non possa attribuirsi un significato di esclusività poiché non è «l’unico bene costituzionalmente garantito» (sent. 10.12.1981, n. 185).
Inoltre, il principio lavorista prevede che tutti con il proprio lavoro partecipino al progresso morale e sociale della Repubblica. In particolare, la Corte Cost., con la sent. 27.10.1988, n. 998, ha affermato che «l’occupazione, concepita come bene collettivo in sé e come finalità comprensiva di ogni suo aspetto particolare, è affidata alla responsabilità finale e globale dello Stato» (Pizzorusso, A., Le fonti del diritto del lavoro, in Rivista italiana di diritto del lavoro, Milano, 1990, n. I, 15 ss.).
I diritti inviolabili, sanciti dall’art. 2, sono assoluti, originali, indisponibili, inalienabili, intrasmissibili, irrinunciabili e imprescrittibili (Baldassarre, A., Diritti della persona e valori costituzionali, Torino, 1997). Inoltre, tali diritti sono immediatamente efficaci non solo verso lo Stato, ma anche verso i privati.
La giurisprudenza costituzionale ha escluso, in molteplici pronunce, la “cristallizzabilità” dei diritti inviolabili (C. cost. 8.6.1987, n. 215). Difatti, il Giudice delle Leggi ha notevolmente ampliato tale novero, introducendovi implicitamente il diritto al lavoro, alla previdenza, e all’assistenza: comune a questi diritti è la cd. “intangibilità del loro contenuto essenziale” (C. cost. 24.7.1995, n. 356).
Ha precisato, altresì, che il diritto al lavoro costituisce «fondamentale diritto di libertà della persona umana» (C. cost., 31.3.1994, n. 108) e «valore fondamentale della comunità nazionale» (C. cost., 3.7.1967, n. 78): quindi, può parlarsi di diritto inviolabile, considerato anche che «il lavoro è posto a fondamento della Repubblica» (C. cost., 17.4.1985, n. 105).
Tuttavia, sebbene sia costituzionalmente riconosciuto come fondamentale diritto dei cittadini, il diritto al lavoro, se da una parte «preclude limitazioni nell’accesso al lavoro» (C. cost., 28.7.1976, n. 207), dall’altra parte «non comprende un interesse alla intangibilità di ogni situazione che sia presupposto di conservazione del posto di lavoro» (C. cost., 20.2.1973, n. 9).
Difatti, per quanto concerne la disciplina del recesso dal rapporto lavorativo, il diritto al lavoro comporta che «il legislatore circondi di garanzie e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti» (C. cost., 15.7.1994, n. 304).
È noto, poi, che i diritti inviolabili dell’uomo sono garantiti anche nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità: l’appartenenza dell’individuo a formazioni sociali rappresenta «la più diretta realizzazione del principio di solidarietà, espressione più immediata della primigenia vocazione sociale dell’uomo» (C. cost., 31.12.1993, n. 500).
In riferimento alla disciplina lavorista, le formazioni sociali che possono essere ritenute rilevanti sono l’impresa e il sindacato.
Tuttavia, da una parte, l’attività di impresa, sebbene costituzionalmente garantita (art. 41), non può contrastare la tutela del lavoro e, dall’altra, l’inserimento del lavoratore in associazioni sindacali, tutelate costituzionalmente (art. 39), non offusca né indebolisce i diritti fondamentali individuali del lavoratore medesimo.
Il principio di eguaglianza è stato definito un «principio generale che condiziona tutto l’ordinamento nella sua obiettiva struttura» (C. cost., 23.3.1966, n. 25).
Il principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 e declinato nei due aspetti dell’eguaglianza formale (co. 1) e sostanziale (co. 2), costituisce una base fondamentale per il diritto del lavoro: ciò viene evidenziato dal tortuoso cammino legislativo, giurisprudenziale e dottrinario che ha sottolineato quanto l’eguaglianza si sia manifestata, da un lato, nella necessità di disporre regole uniformi (legali e contrattuali) per tutti i lavoratori al fine di rinforzare le garanzie del soggetto debole del rapporto e tentare di rimuovere ogni discriminazione; dall’altro, nell’esigenza di garantire l’effettività dei diritti sul luogo di lavoro e la pari dignità sociale tra lavoratore e datore di lavoro (Petitti, S., Commento all’art. 3, in Amoroso, G.-Di Cerbo, V.-Maresca, A., op. cit., 22 ss.).
Una ulteriore funzione del principio di eguaglianza è di fungere da «regola di trattamento in situazione di risorse scarse», secondo parametri che esprimono essenzialmente il «profilo differenziatore dell’eguaglianza, quello in base al quale situazioni diverse devono essere trattate in modo diverso e corrispondente alla diversità» (Barbera, A., L’eguaglianza come scudo e l’eguaglianza come spada, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, Roma, 2002, 817).
L’impatto e il valore assai ampi di tale principio nella materia lavoristica si confanno, d’altronde, alle molteplici implicazioni, di contenuto ed effetti, scaturenti dai due profili, dell’eguaglianza formale e sostanziale, in cui il principio si estrinseca.
L’eguaglianza formale corrisponde ad un principio “valutativo” secondo cui il divieto di discriminazione per i motivi enucleati dal co. 1 non esclude, anzi postula l’esistenza di trattamenti differenziati «se risulti che essi siano finalizzati alla realizzazione di interessi costituzionalmente rilevanti».
Per quanto concerne l’eguaglianza sostanziale, si ritiene che questa vada intesa nei risvolti che connettono lo sviluppo della personalità e il godimento effettivo dei diritti di libertà: in altri termini, il lavoro non raffigura soltanto il veicolo dello sviluppo della personalità, ma anche un «mezzo per ottenere il reddito sufficiente per un’esistenza libera e dignitosa e, quindi, garantire il godimento delle libertà fondamentali» (Mazziotti, F., Manuale di diritto del lavoro, II ed., Napoli, 2014, 23).
L’inserimento del diritto al lavoro tra i principi fondamentali della Costituzione implica una ricostruzione attenta tra l’art. 4 e i precedenti tre articoli della Carta costituzionale (Bonifacio, F.P., Il lavoro fondamento della Repubblica democratica, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea costituente, Firenze, 1969, 12 ss.; Prosperetti, U., I principi costituzionali del diritto del lavoro nell’attuazione legislativa e giurisprudenziale, ibidem, 314-315).
Secondo autorevole dottrina, è proprio la natura democratica della Repubblica a richiedere la partecipazione attiva di tutti i cittadini alla vita del Paese, e ciò non può verificarsi senza lo svolgimento di un lavoro, il quale non solo affranca dai bisogni ma è anche strumento di elevazione dei cittadini (Smuraglia, C., La Costituzione e il sistema del diritto del lavoro, Milano, 1958, 46 ss.).
Tradizionalmente, il diritto al lavoro rientra nel gruppo dei c.d. “diritti sociali”; secondo taluni, anzi, è ritenuto il più importante in tale categoria, stante la sua centralità nell’ordinamento democratico (Baldassarre, A., Diritti Sociali, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 14 ss.; Cirillo, F.M., Commento all’art. 4, in Amoroso, G.-Di Cerbo, V.-Maresca, A., op. cit., 63 ss.).
Circa il carattere sociale del diritto al lavoro e sulla sua funzione propulsiva è stato fondamentale il contributo fornito dalla giurisprudenza costituzionale, la quale ha costantemente chiarito, da subito, che l’art. 4 rappresenta «un’affermazione sul piano costituzionale della importanza sociale del lavoro che, senza creare rapporti giuridici perfetti, costituisce un invito al legislatore a che sia favorito il massimo impiego delle attività libere nei rapporti economici» (C. cost., 26.1.1957, n. 3).
La previsione espressa del diritto al lavoro da parte della Costituzione è stata interpretata dalla giurisprudenza costituzionale in termini sostanzialmente “programmatico”, ossia di norma che non implica il diritto azionabile ad avere un posto di lavoro, ma dalla quale portata scaturisce una funzione di stimolo cogente per lo Stato, che deve attivarsi al fine di perseguire l’obiettivo della piena occupazione (Caravita Di Toritto, B., Commento all’art. 4, in Crisafulli, V.-Paladin, L.-Bartole, S.-Bin, R., Commentario breve alla Costituzione, Padova, 2008, 34; Gragnoli, E., Commento all’art. 4, in Grandi, M.-Pera, G.-De Luca Tamajo, R.-Mazzotta, O., a cura di, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, VI ed., 2018, 21).
La stessa Corte costituzionale, infatti, ha affermato che «l’art. 4 non garantisce a ciascun cittadino il diritto al conseguimento di un’occupazione» poiché l’unica situazione giuridica del cittadino che trovi il suo inderogabile fondamento nella norma in esame è quella per cui il diritto al lavoro rappresenta un «fondamentale diritto di libertà della persona umana, che si estrinseca nella scelta e nel modo di esercizio dell’attività lavorativa»; a questa situazione fa riscontro, per quanto riguarda lo Stato, «da una parte il divieto di creare o di lasciar sussistere nell'ordinamento norme che pongano o consentano di porre limiti discriminatori a tale libertà ovvero che direttamente o indirettamente la rinneghino, e dall'altra l'obbligo – il cui adempimento è ritenuto dalla Costituzione essenziale all'effettiva realizzazione del descritto diritto – di indirizzare l'attività di tutti i pubblici poteri, e dello stesso legislatore, alla creazione di condizioni economiche, sociali e giuridiche che consentano l'impiego di tutti i cittadini idonei al lavoro» (sent. 9.6.1965, n. 45).
Tuttavia, il carattere non immediatamente precettivo dell’art. 4 non può comportare la riduzione del diritto al lavoro allo stadio di mera affermazione. Infatti, la dottrina maggioritaria ha enucleato un duplice significato del diritto al lavoro in termini di precetto indefettibile: il primo è positivo e consiste nella pretesa ad ottenere un lavoro, il secondo è negativo e consiste nel dovere di astensione da parte dei pubblici poteri da ogni interferenza nella scelta del lavoro (Mancini, G.F., Commento all’art. 4, in Branca, G., Commentario alla Costituzione, Bologna, 1975, 203 ss.).
Certo, è doveroso evidenziare come nella attuale situazione di crisi economica e finanziaria, da cui è scaturita una grave crisi politica e occupazionale, è difficile ipotizzare in concreto un diritto al lavoro inteso come facoltà di scelta di un’attività che risponda alle inclinazioni e alle aspirazioni dei singoli, così come sembra anacronistico affermare ancora la pretesa negativa di astensione da parte dello Stato dall’esercizio di qualsiasi condizionamento su detta scelta, perché per molti cittadini costituisce un dramma personale e sociale trovare un lavoro, qualsiasi esso sia.
In ogni caso, non ci si può esimere dal richiamo del dettato costituzionale e dell’importantissima forza cogente del medesimo in termini, quanto meno, di politica del lavoro.
Al riguardo, il Legislatore ha cercato di creare nuovi modelli lavorativi, più agili, auspicando di affievolire quanto più possibile il grande problema contemporaneo della disoccupazione.
In questa chiave di lettura, autorevole dottrina ha affermato che, sotto l’aspetto sociale, il mercato del lavoro rappresenta il punto più evidente dello stato di crisi del modello del c.d. “welfare state”, nel senso che la persistente disoccupazione è inconfondibilmente un segno della mancata attuazione del dettato costituzionale (Veneziani, B., La crisi del welfare state e i mutamenti del diritto del lavoro in Italia, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, Roma, 1996, 90 ss.).
Di grande interesse, poi, è il co. 2 dell’art. 4, il quale prevede espressamente il dovere di lavorare: tuttavia, essendo detta disposizione meramente programmatica, la dottrina maggioritaria ha sostenuto che non sia una norma a carattere pienamente giuridico, essendo difficile individuare con sufficiente precisione le conseguenze della violazione di un simile precetto (Crisafulli, V., La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano, 1952, 149-150).
L’art. 35, co. 1, è strettamente connesso all’art. 4, in cui il lavoro viene riconosciuto e tutelato come un diritto fondamentale; nell’art. 35 l’art. 4 trova la sua diretta e immediata applicazione (Paladin, L., Diritto costituzionale, Padova, III ed., 1998, 666).
D’altronde, anche da un punto di vista testuale il co. 1 dell’art. 35 riecheggia l’art. 4, sebbene fornisca una nozione di lavoro più dettagliata rispetto a quella generica prevista dall’art. 4, e, nello specifico, inserisce il lavoro nella dimensione economica.
Nonostante sia evidente la connessione tra i due articoli succitati, è stato affermato che l’art. 35 ha soltanto una «funzione introduttiva alle disposizioni che entrano a far parte di questo [titolo III]»: esso, cioè, non intende «determinare i modi e le forme di tutela del lavoro, ma solo enunciare il criterio ispiratore comune alle disposizioni stesse, nelle quali ultime esclusivamente sono poi da ritrovare le specificazioni degli oggetti della tutela voluta accordare» (C. cost., 9.3.1967, n. 22).
La giurisprudenza costituzionale ha, inoltre, affermato che la generale protezione del lavoro contenuta nell’art. 35 di per sé non osta alla determinazione di limitazioni al diritto al lavoro. Difatti, la C. cost., con la sent. 28.11.1972, n. 165, ha precisato che «se è vero che tutti i cittadini hanno diritto al lavoro e che quest’ultimo è oggetto, nel suo complesso, di apposita garanzia costituzionale, è vero altresì che proprio dall’art. 35, nel suo comma 1, si evince il potere del legislatore ordinario di attuare una distinta protezione delle svariate forme ed applicazioni del lavoro».
Secondo dottrina e giurisprudenza consolidata, l’art. 36, co. 1, è una norma immediatamente precettiva, dotata di generale imperatività e, pertanto, incondizionatamente applicabile a tutti i rapporti di lavoro subordinato (Pugliatti, S., La retribuzione sufficiente e le norme della Costituzione, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, Roma, 1950, vol. I, 187).
Tale precettività immediata dell’art. 36, co. 1, interessa sia il principio di proporzionalità, sia il principio di sufficienza (Cass., 8.8.2000, n. 10465).
Da ciò consegue che l’iniziale accettazione da parte del lavoratore di una retribuzione priva dei requisiti di proporzionalità e sufficienza non preclude allo stesso di domandare successivamente in giudizio l’adeguamento della retribuzione (si veda, ex multis, Cass., 1.2.2006, n. 2245, secondo cui «ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulta inferiore alla soglia minima prevista dall’art. 36 Cost., la clausola contrattuale è nulla e, in applicazione del principio di conservazione, espresso nell’art. 1419, comma 2, c.c., il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri dell’art. 36 Cost., con valutazione discrezionale»).
Bisogna, tuttavia, aggiungere che la norma deve essere intesa come garanzia legale della retribuzione minima e non dell’intero trattamento economico del lavoratore. Detta garanzia è delimitata al cd. “trattamento fondamentale” o “minimo costituzionale”, ossia al quantum strettamente rispondente ai connotati della proporzionalità e della sufficienza – come riferibili ad ogni lavoratore che sia adibito ad una determinata attività – e non investe altre voci retributive comunque riconducibili al rapporto sinallagmatico di lavoro.
Per verificare la conformità di questo ammontare ai principi di proporzionalità e sufficienza in caso di controversia tra le parti del contratto di lavoro, e, quindi, per operare la quantificazione della giusta retribuzione in ogni singolo caso concreto, il principale termine di raffronto, ossia il parametro ritenuto più affidabile, viene identificato nel contratto collettivo, il quale è, secondo la giurisprudenza di legittimità, il più veritiero indicatore delle reali condizioni del mercato del lavoro («né è configurabile la violazione dell'art. 39 Cost., alla stregua dei principi espressi con la sentenza della Corte costituzionale n. 342 del 1992, per via dell'assunzione di efficacia "erga omnes" dei contratti collettivi nazionali, essendo l'estensione limitata - secondo la previsione della legge - alla parte economica dei contratti soltanto in funzione di parametro contributivo minimale comune, idoneo a realizzare le finalità del sistema previdenziale ed a garantire una sostanziale parità dei datori di lavoro nel finanziamento del sistema stesso», così Cass. 2.8.2017, n. 19284).
La tutela differenziata delle donne e dei minori trova fondamento nella loro «specifica condizione di inferiorità socio-economica, nonché all’esigenza di una particolare attenzione all’integrità psico-fisica dei minori ed a particolari occasioni della vita delle donna» (Ghera, E.-Garilli, A.-Garofalo, D., Diritto del lavoro, Torino, II ed. 2015, 207). L’art. 37 ha precisato, riguardo al lavoro, la regola della parità tra i due sessi, già risultante dagli artt. 3, 36, co. 1, 29 e 51. La scelta dei Costituenti di ribadire la parità, specificando che le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della funzione familiare e garantire alla madre e al bambino un’adeguata protezione (C. cost. 24.7.1986, n. 210), pone l’art. 37 sul piano dell’uguaglianza sostanziale (Treu, T., Commento all’art. 37, in Branca, G., Commentario alla Costituzione, Bologna, 1979, 146).
A presidio del principio di parità di trattamento il Legislatore ha previsto, in ogni fase dello svolgimento del rapporto, un’ampia tutela antidiscriminatoria, prima con la l. 9.12.1977, n. 903 e la l. 10.4.1991, n. 125, poi con il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (d.lgs. 11.4.2006, n. 198).
Inoltre, l’art. 37 prevede una riserva di legge per il limite minimo di età, detta al Legislatore il principio della tutela differenziata e pone il precetto della parità di retribuzione a parità di lavoro. Al centro della disciplina speciale voluta dal Costituente per il lavoro minorile vi è il necessario raccordo tra la posizione del minore sul lavoro e lo sviluppo psico-fisico, da un lato, e l’esigenza di formazione culturale e professionale volta al pieno inserimento nel mercato del lavoro, dall’altro (Caretti, P.-Tarli Barbieri, G., I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Torino, IV ed.,2017, 523 ss.).
Sulle tematiche relative agli artt. 38, 39 e 40 si rinvia alle apposite voci di questa Enciclopedia.
Bisogna evidenziare che l’apertura dell’ordinamento nazionale italiano alla ricezione della normativa dell’ordinamento comunitario – resa possibile dall’art. 11 Cost. che consente limitazioni alla sovranità nazionale in condizioni di parità con gli altri Stati, e consacrata dall’art. 117, co. 1 – ruota intorno alla dottrina dell’autonomia dei due ordinamenti coordinati tramite il primato di quello comunitario, espresso nella forma della diretta applicabilità della sua disciplina nell’ordinamento nazionale con conseguente simmetrica non applicabilità della normativa interna con essa confliggente (C. cost., 8.6.1984, n. 170; da ultimo, C. cost., 20.7.2016, n. 187).
Tuttavia, per bilanciare detto assetto tra i due ordinamenti, è stata teorizzata la c.d. “teoria dei controlimiti”: la Corte Costituzionale (sentt. 27.12.1973, n. 183, 21.4.1989, n. 232, 18.12.1985, n. 509) ha riservato a sé il controllo circa l’eventualità che «la normativa comunitaria, anche derivata, contrasti in particolare con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale [o con i] diritti inalienabili della persona umana»: tra detti principi fondamentali vi è sicuramente il principio lavorista e il diritto al lavoro, quale strumento che consenta il progresso materiale o spirituale del singolo nella società (da ultimo, C. cost, 28.11.2012, n. 264 e 22.10.2014, n. 238).
L’importanza assunta nel tempo dal diritto della Comunità Europea, prima, e dell’Unione Europea, poi, deve essere sottolineata. In particolare, alle politiche sociali originariamente era stato dato un rilievo marginale nel processo di instaurazione del mercato comune europeo (si vedano in ogni caso la Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989), ma, successivamente, hanno acquisito un’importanza centrale nella costruzione dell’Unione (v. artt. 9, 151, 152, 153, 154, 155 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea; artt. 15 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati come disposto dall’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea, secondo cui «ogni individuo ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata» (art. 15), «la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione» (art. 23) e gli articoli da 27 a 32.
Merita, in questa sede, una specifica menzione la Strategia europea per l’occupazione e la crescita, cd. “Europa 2020”, tesa al miglioramento della situazione economica europea. In particolare, la nuova strategia prevede diversi punti di partenza per gli Stati membri, nel rispetto delle specificità nazionali, dei diversi livelli di sviluppo e delle diverse esigenze nazionali.
Con tale quadro strategico, la Commissione ha individuato i tre motori di crescita dell’Europa, che sono: 1) la crescita intelligente (tramite l’implementazione di conoscenza, innovazione, istruzione e digitalizzazione); 2) la crescita sostenibile (attraverso l’efficientamento delle risorse e il miglioramento della competitività internazionale); 3) la crescita solidale (mediante incentivi volti alla partecipazione al mercato del lavoro, all’acquisizione di competenze e alla lotta alla povertà).
Una importante svolta al mercato del lavoro è stata posta con la costituzionalizzazione, ex art. 81, co. 1 e 97, co. 1, del pareggio di bilancio e del cd. “fiscal compact”, introdotti dagli artt. 1, 2 e 5, L. cost. 20.4.2012, n. 1.
Questi interventi legislativi hanno reso assai complesso l’intervento statale nel mercato economico-sociale, specialmente occupazionale, poiché questi provvedimenti hanno ostacolato le misure tese all’incremento della domanda (investimenti nei settori produttivi, riduzione dell’onere fiscale, agevolazioni alle imprese); tali riforme, al contempo, hanno reso molto agevole – e forse in modo estremo – operare sul versante dell’offerta di lavoro, rendendo il rapporto di lavoro subordinato (eccessivamente) flessibile.
Frutto di questa riforma del mondo lavorativo è il cd. Jobs Act, che ha avvicinato ancora di più il modello regolatorio italiano del lavoro al modello europeo della cd. flexicurity, che rappresenta un punto di equilibrio tra le esigenze di flessibilità delle imprese e le esigenze di sicurezza dei lavoratori. Tuttavia, è doveroso evidenziare che il modello della flexicurity, a ben guardare la realtà del mercato del lavoro, ha determinato un eccessivo alleggerimento delle tutele all’interno del rapporto e un flebile (e speculare) rafforzamento delle tutele sul mercato.
Più nel dettaglio, il fine ultimo del modello di flexicurity è il superamento dell’originaria impostazione di tutela dei lavoratori basata sulla stabilità dell’occupazione (cd. job property), per giungere ad un sistema in cui tutti i rapporti di lavoro sono denotati dalla necessaria flessibilità, sebbene siano garantiti la continuità del reddito e l’investimento sull’efficace riqualificazione delle persone che – per qualsiasi motivo – restino prive di occupazione.
Un tentativo di far fronte alla precarizzazione del lavoro è stato di recente effettuato con l’adozione del D.L. 12.7.2018, n. 87, conv. con modif. in L. 9.8.2018, n. 96.
Gli effetti di questo recente tentativo potranno essere verificati solo nel tempo unitamente a quelli di eventuali provvedimenti legislativi in materia che potrebbero intervenire in futuro.
Fonti normative
Costituzione artt. 1, 2, 3, 4, 11, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 46, 81, 97, 117
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