Abstract
Nello scritto viene ricostruita l’evoluzione normativa del rapporto di lavoro pubblico, individuando sia i fondamenti costituzionali che lo caratterizzano sia i diversi orientamenti del legislatore nelle diverse fasi di innovazione normativa. Inoltre, per i principali istituti normativi viene sottolineato il contributo della giurisprudenza, nonché le posizioni della più autorevole dottrina.
La regolazione del rapporto di lavoro pubblico (tradizionalmente e ricorrentemente definito anche “pubblico impiego”) ha vissuto nel corso degli ultimi venti anni significativi mutamenti di rotta. Essi hanno condotto dapprima – con la stagione inaugurata dalla legge delega 23.10.1992, n. 421 e dal conseguente d.lgs. 3.2.1993, n. 29, innovato e rieditato nel d.lgs. 30.3.2001, n. 165 – al riconoscimento prevalente e prioritario della fonte contrattuale (cd. contrattualizzazione) rispetto a quella legislativa, favorendo una emancipazione dell’autonomia collettiva ben oltre gli ambiti già riconosciuti dalla l. 29.3.1983, n. 93 e limitata dalle sole materie riservate alla fonte pubblicistica dall’art. 2 della citata legge delega. Successivamente – con la legge delega 4.3.2009, n. 15 e con il d.lgs. 27.10.2009, n. 150 – si è assistito ad un nuovo protagonismo della legge (cd. ripubblicizzazione) che, pur non negando alla contrattazione il ruolo di fonte (considerata, nonostante ciò, primaria in materia retributiva da C. cost., 22.12.2011, n. 339) l’ha sottoposta ad una maggiore rete di autorizzazioni, procedure e controlli tendenti ad evitarne una completa autonomia rispetto a vincoli economici e normativi individuati dallo stesso legislatore.
Del resto, che il rapporto di lavoro pubblico sia costretto costantemente a cercare una propria collocazione in una posizione di mutevole vicinanza al rapporto di lavoro privato (il che, in termini di discipline giuridiche, significa nell’ambito del diritto del lavoro, ma mai troppo lontano dal diritto amministrativo) lo si ricava anche dai riferimenti costituzionali che si è soliti richiamare a proposito delle due fattispecie.
E infatti, va ormai considerata superata la concezione del pubblico impiego quale caratterizzato da uno stato di «subalternità» giuridica nei confronti di un potere pubblico preposto a perseguire interessi generali; per cui il riferimento era agli artt. 28 Cost. in materia di responsabilità, 97 Cost. in materia di riserva legislativa della fonte normativa e accesso tramite concorso e 98 Cost., co. 1, in materia di esclusività del servizio prestato che erano considerati il vero «codice etico» del pubblico dipendente, selezionato tra i migliori tramite concorso, al servizio esclusivo della nazione, con un rapporto di lavoro – al pari degli uffici – regolato per legge, in modo da garantire l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione. Una condizione «di servizio» che lo differenziava nettamente da quella del lavoratore privato, per il quale ci si richiamava ad uno status di «subordinazione» ad un potere privato organizzato per perseguire prioritariamente un interesse proprio seppure socialmente rilevante, per il quale la Costituzione apprestava una specifica tutela rafforzata del contraente debole demandata all’ordinamento giuridico (artt. 36-38 Cost.), ma anche affidata a forme di autotutela collettiva di rappresentanza e negoziale (art. 39 Cost.) o conflittuale (art. 40 Cost.).
Va a questo proposito ricordata la particolare collocazione delle norme riguardanti il pubblico impiego nel dettato costituzionale, strettamente riferita all’azione del Governo (Titolo III) e che assorbe nel profilo del rapporto di lavoro quasi completamente l’intera problematica della pubblica amministrazione (sezione II).
Nel corso dei lavori della Commissione per la Costituzione (seconda sottocommissione, prima sezione), l’esigenza di introdurre nella Costituzione norme riguardanti la pubblica amministrazione furono ravvisate da Mortati (intervenuto nel dibattito su norme proposte da Bozzi) nella necessità di «assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici» in modo da avere, sul modello della Costituzione di Weimar, «un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti».
In questa prospettiva, condivisa dall’intera sottocommissione, si collocavano il principio di esclusività, il principio del concorso “per evitare favoritismi” (seppure non come modalità esclusiva), il principio di responsabilità. Di interesse è ricordare che il problema della fonte legislativa per la regolamentazione del rapporto di lavoro, seppur proposta da Bozzi, nel corso del dibattito fu dapprima relativizzata (sulla base del principio che nulla osta a che potesse essere assunto anche personale per contratto e che il problema potesse porsi anche ricorrendo alla distinzione tra funzionari e impiegati) e poi abbandonato del tutto richiamando la necessità della riserva di legge per la sola dimensione dell’organizzazione degli uffici.
Questo dibattito sta a dimostrare come per i Costituenti le norme sul pubblico impiego non fossero norme speciali di un rapporto di lavoro, quanto piuttosto deroghe specifiche, puntuali e funzionali all’autonomia rispetto ai partiti (non alla politica), alla normativa generale sul rapporto di lavoro regolata dagli artt. 36-40 Cost. Ne sono conferma sia la discussione non più ripresa sul divieto di esercizio del diritto di sciopero (sciopero nel pubblico impiego), sia quella sviluppatasi in Assemblea – anch’essa tralasciata perché considerata assorbita da altre norme costituzionali – su possibili forme di “controllo popolare sulle pubbliche amministrazioni”.
Il percorso di avvicinamento tra i due rapporti di lavoro sotto l’egida della condivisa contrattualizzazione deve quindi considerarsi naturalmente contenuto nella Costituzione, anche se esso si è realizzato lentamente e settorialmente a partire dagli anni ’70 per pressione di diversi fattori quali un mutamento della cultura giuridica nella considerazione del ruolo politico e sociale delle pubbliche amministrazioni che ha contribuito a ridisegnare diversamente anche lo status del dipendente pubblico; la diffusione del fenomeno aggregativo sindacale, che ha finito per rompere la struttura pubblicistica e unilaterale della fonte di regolamentazione del rapporto di lavoro; le esigenze di razionalizzazione delle risorse economiche a disposizione delle pubbliche amministrazioni.
Ma si tratta di un percorso, come accennato, che negli ultimi anni ha fatto segnalare un ripensamento da parte del legislatore che, pur non modificando l’ambito della riserva di legge nella sua dimensione organizzativa, si è concretizzato nella sottoposizione della fonte contrattuale a quella legislativa su importanti istituti normativi del rapporto di lavoro attraverso l’istituto dell’inderogabilità applicato con funzione di controllo dell’autonomia contrattuale dal d.lgs. n. 150/2009; di fatto, ricorrendo alla tecnica della sostituzione automatica delle clausole contrattuali contrarie a disposizioni di legge, almeno nella disciplina dichiarata inderogabile (d.lgs. n. 165/2001, merito e premi, sanzioni e procedure disciplinari), il legislatore si è garantito il governo diretto di quelli che ha considerato gli istituti organizzativamente più sensibili del rapporto di lavoro.
Una volta affermata la natura contrattuale del rapporto di lavoro, bisogna aggiungere che le parti non sono libere di determinarne i contenuti, se non entro limiti ben definiti: da un lato, infatti, fungono da limite le norme imperative di legge con riferimento sia ai contratti collettivi sia a quelli individuali, il cui mancato rispetto produce la sostituzione automatica della clausola difforme (art. 1419 c.c.), dall’altro fungono da limite le norme inderogabili dei contratti collettivi (art. 2113 c.c.). Al principio di inderogabilità della legge da parte della contrattazione collettiva e alla tecnica della sostituzione automatica della clausola contrattuale è in modo deciso ricorso il legislatore delegato nell’ambito del d.lgs. n. 150/2009 individuando nella disciplina del d.lgs. n. 165/2001, in quella sul merito e sui premi (titolo III, d.lgs. n. 150/2009) e in quella sanzionatoria (ora integrata nel d.lgs. n. 165/2001) il corpus di norme assistite da un regime di inderogabilità assoluta da parte della contrattazione collettiva.
In un modello istituzionale ed amministrativo caratterizzato da pluralismi ordinamentali, accentuato soprattutto a seguito della riforma costituzionale del 2001, un delicato aspetto applicativo riguarda il grado di vincolatività della normativa statale rispetto al sistema delle autonomie. Secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, l’impiego pubblico anche regionale deve comunque ricondursi, per i profili privatizzati del rapporto all’ordinamento civile e quindi alla competenza esclusiva statale, mentre i profili pubblicistico-organizzativi rientrano nell’ordinamento e organizzazione amministrativa regionale, e quindi appartengono alla competenza legislativa residuale regionale (da ultimo, C. cost., 7.6.2012, n. 149)
L’assetto di fonti definito dal d.lgs. n. 150/2009 si articola in quattro aree di intervento che ricalcano quelle della precedente normativa (organizzazione delle pubbliche amministrazioni, dirigenza, relazioni sindacali, rapporto di lavoro), anche se le innovazioni apportate non sono di scarso rilievo.
La rilevanza delle autonomie costituzionalmente garantite (D’Auria, G.,) è riconosciuta già nella procedura di approvazione del decreto attuativo della legge delega n. 15/2009 (art. 2, co. 2) e si articola nelle due modalità (intesa e parere) di confronto con la Conferenza Stato - città ed autonomie locali, a seconda che le specifiche disposizioni siano ritenute rientranti nella potestà legislativa esclusiva dello Stato (lett. l ed m, art. 117 Cost.), oppure appartengano ai principi generali dell’ordinamento attuativi dell’art. 97 Cost. (art. 117, co. 3, Cost.) ai quali Regioni, enti locali ed enti del SSN sono chiamati ad adeguarsi, nell’ambito delle rispettive competenze (art. 74 d.lgs. n. 150/2009).
Ulteriori ipotesi di applicazione indiretta o parziale riguardano il personale della Presidenza del Consiglio dei ministri e il personale docente della scuola e delle istituzioni di alta formazione artistica e musicale, nonché i tecnologi e ricercatori degli enti di ricerca per i quali si aspetta uno specifico decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Sono comunque escluse le categorie già non rientranti nell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 165/2001.
Ma questo rispetto per le autonomie si è andato affievolendo, almeno per quanto riguarda la dimensione economica del rapporto di lavoro, con l’incalzare della crisi finanziaria che dal 2008 ha indotto diversi governi dei paesi europei ad erigere barriere di maggior controllo e restrizioni della spesa pubblica. Queste misure hanno finito per incidere anche sui regimi di autonomia delle amministrazioni pubbliche nella regolamentazione del rapporto di lavoro dei propri dipendenti.
In particolare, nel caso italiano, a sensi dell'art. 1, co. 3 della l. 31.12.2009, n.196, l'Istat è tenuto con proprio provvedimento a pubblicare annualmente l'elenco delle unità istituzionali che fanno parte del settore delle amministrazioni pubbliche (Settore S13), i cui conti concorrono alla costruzione del Conto economico consolidato delle Amministrazioni Pubbliche. Ogni unità istituzionale viene classificata sulla base di criteri di natura prevalentemente economica (beni e servizi destinati o no alla vendita sulla base della significatività economica dei prezzi applicati), indipendentemente dal regime giuridico che la governa.
Nonostante la funzione esclusivamente statistica dell’elenco Istat, il legislatore soprattutto a partire dal d.l. 31.5.2010, n. 78 ha sempre più spesso e diffusamente utilizzato le amministrazioni inserite ivi inserite quali destinatarie delle proprie misure di contenimento, in una considerazione omnicomprensiva che ha progressivamente attenuato sul fronte della gestione delle risorse, il regime di autonomia di cui molte amministrazioni godono sul piano istituzionale.
L’obiettivo di integrazione della disciplina tra lavoro pubblico e lavoro privato, nonché l’estensione al lavoro pubblico delle disposizioni del codice civile hanno comportato come naturale conseguenza la devoluzione delle controversie al giudice ordinario. Ma, mentre per le controversie collettive – nonostante alcune sentenze Tar che continuano ad esprimersi in materia – non sussistono dubbi sella completa devoluzione di competenza, per la soluzione delle controversie individuali di lavoro permane una distribuzione di competenza tra giudice ordinario e giudice amministrativo che comporta: a) la permanenza della competenza del giudice amministrativo su tutta la fase precontrattuale del rapporto, sulle progressioni di carriera e sulle materie riservate alla legge dall’art. 2, co. 1, lett. c, della l. 23.10.1992, n. 421; b) la competenza del giudice ordinario per tutte le controversie relative all’instaurazione (a partire dalla stipula del contratto individuale), evoluzione (con esclusione delle controversie relative alle progressioni verticali) e cessazione del rapporto di lavoro; c) la competenza del giudice contabile in materia pensionistica e di responsabilità erariale. La Corte di cassazione a Sezioni Unite (ordinanza del 13.7.2006, n. 15905) ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario per tutte le controversie riguardanti il rapporto di lavoro in ogni sua fase, dall’instaurazione sino all’estinzione, nonché la devoluzione alla giurisdizione del giudice amministrativo delle controversie concernenti «gli atti amministrativi adottati dalle pubbliche amministrazioni nell’esercizio del potere loro conferito aventi a oggetto la fissazione delle linee e dei principi fondamentali delle organizzazioni degli uffici, caratterizzati da uno scopo esclusivamente pubblicistico, sul quale non incide la circostanza che gli stessi, eventualmente, influiscono sullo status di una categoria di dipendenti, ciò costituendo un effetto riflesso, inidoneo e insufficiente a connotarli delle caratteristiche degli atti adottati iure privatorum».
Con altra pronuncia di fondamentale rilievo sistematico, la Corte, preso atto delle conseguenze derivanti dalla scelta del legislatore di ricondurre le posizioni soggettive dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni all’ampia categoria dei diritti (Cass., S.U., 30.5.2000, n. 41), senza che sia possibile operare distinzioni tra norme sostanziali e procedurali, ricava una irreversibile pienezza di competenza del giudice ordinario, estesa a tutte le garanzie procedimentali del rapporto previste dalla legge e dai contratti, compresi anche i vizi formali ed anche quando il vizio formale si traduca nell’inesistenza di un atto amministrativo necessario (Cass., sez. lav., 14.3.2008, n. 6986); e a sua volta, la Corte dei conti (sezione prima giurisdizionale centrale, sentenza 5.8.2008) ha riconosciuto la giurisdizione del giudice del lavoro anche in caso di danno erariale, qualora esso sia conseguenza di una violazione degli obblighi contrattuali (e non dell’esercizio delle funzioni pubbliche).
Il vincolo costituzionale del privilegio accordato alla forma concorsuale per l’accesso differenzia in modo rilevante il rapporto di lavoro pubblico da quello privato fin dalla sua fase genetica, conservandogli un imprimatur pubblicistico che in tutta la fase di selezione del personale caratterizza le fonti, le procedure e la giurisdizione. Come detto all’inizio, i lavori della Costituente contengono senz’altro il principio di concorsualità come garanzia dell’autonomia del lavoratore pubblico dai partiti e a garanzia dell’esclusività del servizio alla nazione, ma non negano la possibilità di altre tipologie di rapporti di lavoro riconducibili al contratto. Ma il principio della concorsualità è stato difeso in modo costante dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (tra le molte, C. cost., 20.1.2004, n. 34 e di recente, C. cost., 12.12.2012, n. 177), soprattutto per arginare le tendenze del legislatore nazionale o regionale a stabilizzare personale assunto attraverso procedure che non garantivano quei criteri di selettività e oggettività della valutazione meritocratica attribuite per definizione al concorso pubblico.
Il principio è stato fortemente ribadito dai criteri di delega contenuti nella l. n. 15/2009 e dalla disciplina delegata che lo ha addirittura reso obbligatorio – seguendo anche in questo caso un orientamento della Consulta (C. cost., 4.1.1999, n. 1) fatto proprio dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass., S.U., 15.10.2003, n. 15403; ma anche di recente, Cass., S.U. 29.5.2012, n. 8522) anche alle progressioni verticali, che dovrebbero più propriamente essere considerate istituti riconducibili alla fase evolutiva di un rapporto di lavoro già costituito.
La normativa legislativa è contenuta nell’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001 che individua nella trasparenza e imparzialità, oltre che nella economicità e celerità delle procedure i principi ai quali le amministrazioni debbano attenersi al momento dell’attivazione di procedure di reclutamento.
Uniche eccezioni previste alla forma concorsuale sono l’avviamento degli iscritti alle liste di collocamento, per qualifiche e profili per i quali sia richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo, salvi gli ulteriori requisiti per specifiche professionalità e il reclutamento delle categorie protette per le quali si applica la normativa della legge 12.3.1999, n. 68. Nella prima fattispecie, la Corte ribadito che in questo caso la selezione avviene tra i candidati avviati numericamente, ha affermato che per i collocati utilmente in graduatoria deriva un diritto soggettivo all’avviamento alla selezione (Cass., 7.3.2012, n. 3549).
Procedure concorsuali o di reclutamento non possono essere attivate se non dopo aver esperito quelle di mobilità (individuale o collettiva; volontaria o obbligatoria) regolate prioritariamente negli artt. 30 e seguenti del d.lgs. n. 165/2001, richiamati anche per la gestione degli esuberi risultanti dalla riduzione delle dotazioni organiche e dal riassetto istituzionale e amministrativo previsti dalla l. 6.7.2012, n. 95.
Sul reclutamento del personale dipendente dalle pubbliche amministrazioni incidono in modo determinante altri principi costituzionali:
a) il principio di esclusività, in ossequio al quale la legge ha da sempre individuato limiti agli incarichi e al cumulo di impieghi per il pubblico dipendente (art. 53 d.lgs. n. 165/2001);
b) il principio di buon andamento che soprattutto influenza il ricorso alle diverse tipologie di lavoro flessibile. La Corte costituzionale ha spesso affermato come assuma particolare valore la preventiva e condizionante valutazione delle esigenze organizzative del personale per l’esercizio delle funzioni pubbliche; tanto che tale esercizio implichi una valutazione oggettiva del personale necessario a svolgerle, per non contraddire il principio di buon andamento ricavabile dall’art. 97 Cost. Da tale orientamento (cfr. C. cost., 26.2.1997, n. 59; C. cost., 17.6.1997, n. 191; C. cost., 21.5.1997, n. 153; C. cost., 8.7.2003, n. 274) è possibile ricavare il principio organizzativo per il quale a funzioni stabili debbano corrispondere rapporti stabili, mentre a funzioni flessibili possano (e debbano) corrispondere rapporti flessibili.
Il principio è fatto proprio dal legislatore che all’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 dispone che alle tipologie di lavoro flessibile si possa ricorrere solo «per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali» e prevede inoltre il divieto di conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato: le diverse tipologie devono trovare una normativa specifica nelle fonti di armonizzazione (prevalentemente contrattuali) consentite dall’art. 2, co. 7-8 della l. n. 95/2012.
Più rigida è la disciplina che regola il ricorso a contratti professionali di collaborazione coordinata e continuativa (art. 7 del d.lgs. n. 165/2001). La particolare severità con la quale la legge regolamenta le collaborazioni coordinate e continuative è dovuta sia al rischio che con questo strumento si possa eludere il vincolo costituzionale dell’accesso tramite concorso, sia alla necessità di contenere la spesa pubblica. Ad un continuo e progressivo irrigidimento della disciplina ha contribuito nel corso degli anni la giurisprudenza della Corte dei conti e, al termine del processo di revisione normativa, attualmente il ricorso a forme di lavoro autonomo è assoggettato a preventivi vincoli procedurali allo scopo di accertare che l’oggetto della prestazione corrisponda alle competenze attribuite dall’ordinamento all’amministrazione conferente e ad obiettivi e progetti specifici e determinati (limitazione organizzativa) e che oggettivamente manchino nell’organizzazione professionalità in grado di svolgere quelle determinate attività (limitazione professionale).
Gli elementi che compongono la struttura della retribuzione sono individuati e regolati dalla contrattazione collettiva, ma il d.lgs. n. 165/2001 dedica molta attenzione alle caratteristiche della retribuzione, soprattutto per garantire l’efficacia della spesa pubblica.
E infatti, mentre il terzo comma dell’art. 2 attribuisce alla contrattazione collettiva il ruolo di prevalente autorità salariale, come è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale già con la sentenza 20.7.2006, n. 308, ma anche dopo l’emanazione del d.lgs. n. 150/2009 con sentenza 22.12.2011, n. 339, l’art. 40, co. 3-ter del d.lgs. n. 165/2001 consente, «al fine di assicurare la continuità e il migliore svolgimento della funzione pubblica, qualora non si raggiunga l'accordo per la stipulazione di un contratto collettivo integrativo», che l'amministrazione provveda, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva sottoscrizione. È evidente che per non rischiare di esautorare il ruolo della fonte contrattuale, l’adozione del provvedimento unilaterale debba essere sottoposto a tre limitazioni: a) limitazioni procedurali: poiché l’atto unilaterale deve essere provvisorio, fino alla successiva sottoscrizione, l’adozione dell’atto unilaterale non chiude il negoziato che potrà proseguire nelle forme definite dalle stesse parti; b) limitazioni di materie: la legge specifica che l’atto unilaterale deve riguardare le «materie oggetto del mancato accordo»; di conseguenza, le materie oggetto dell’atto unilaterale devono essere esclusivamente quelle sulle quali non si è trovato l’accordo e non quelle che facevano parte del tavolo negoziale e che, per esempio, non erano ancora state affrontate o era possibile un accordo separato. Ciò comporta che le parti debbano esplicitare il fallimento del negoziato e le materie oggetto di mancato accordo per consentire la legittimità dell’adozione dell’atto unilaterale; c) limitazioni di legittimità: la legge precisa che l’adozione dell’atto unilaterale deve essere strumentale all’esigenza di garantire la continuità e il miglior funzionamento della funzione pubblica. Ciò significa che non per ogni mancato accordo si può ricorrere all’atto unilaterale, ma solo nel caso in cui, per la specificità delle materie oggetto del disaccordo possa essere messa in discussione la funzione dell’amministrazione. In altri termini, occorre distinguere tra funzione e rapporto di lavoro, anche in termini di conseguenze del mancato accordo. Per le materie che possano pregiudicare la funzione pubblica, sarà possibile ricorrere all’atto unilaterale (ad es. allocazione del personale, ridefinizione dell’orario [[[DOL:Orario di lavoro|orario di lavoro]]]), per le altre ci saranno invece conseguenze civilistiche riferite al mancato rinnovo di un contratto collettivo (ad es. modalità di distribuzione del fondo, criteri sulle progressioni orizzontali).
I principali problemi che si pongono con riferimento alla retribuzione riguardano le modalità di costituzione del fondo per la retribuzione accessoria e quelle per l’erogazione delle relative risorse.
A seguito del d.l. n. 78/2010 che ha congelato l’ammontare del fondo, l’unica modalità di integrazione è costituita dai cd. piani triennali di razionalizzazione previsti dal d.l. 6.7.2011, n. 98 attraverso i quali, come ha chiarito anche la Corte dei conti da ultimo con delibera della Sezione delle autonomie (n. 2/SEZAUT/2013/QMIG), è possibile destinare alla contrattazione integrativa il 50% dei risparmi certificati con attribuzione della metà per finanziare gli istituti premianti la performance individuale di cui agli artt. 19 ss. del d.lgs. n. 150/2009.
Il rapporto tra sistema di valutazione e politica salariale è forse l’aspetto più delicato della nuova disciplina, in quanto ha determinato le maggiori preoccupazioni di restringimento della funzione della contrattazione collettiva. Lo stretto legame che si instaura tra valutazione e retribuzione è esplicitato da due principi, il primo dei quali prevede che il rispetto del ciclo di gestione della performance sia condizione necessaria per l’erogazione dei premi legati al merito e alla performance ed il secondo che afferma che il conseguimento degli obiettivi sia condizione per l’erogazione di incentivi previsti dalla contrattazione collettiva.
La rigidità del meccanismo è stato posto in stand by fino ai prossimi rinnovi contrattuali nazionali dall’art. 5, co, 11-11-sexies che ne affievolisce la funzione premiante individuale privilegiando quella collettiva ed organizzativa.
La normativa cardine delle responsabilità dei lavoratori pubblici è prevista dall’art. 28 Cost. che afferma la loro diretta responsabilità, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti con estensione agli enti di appartenenza in caso di responsabilità civile e dall’art. 97 Cost. per il quale nell’ordinamento degli uffici, ai fini del perseguimento del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione, sono determinate sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità dei funzionari. Ricorrendo al doppio significato che il termine responsabilità assume nel linguaggio comune, potremmo quindi dire che l’art. 28 è orientato a sanzionare la responsabilità/colpa (personale), mentre l’art. 97 è orientato a evidenziare la responsabilità/consapevolezza (organizzativa: buon andamento e imparzialità).
Le sezioni riunite della Corte dei conti (sent. n. 12/07/QM del 27.12.2007) hanno tipizzato i casi di responsabilità del lavoratore pubblico individuando: a) una responsabilità amministrativa per danno, di tipo risarcitorio, che configura una responsabilità generica, nel senso che non è tipizzata né nei comportamenti, né nella quantificazione del debito e che sorge ogniqualvolta vi sia un danno patrimoniale risarcibile, economicamente valutabile, attuale e concreto, sofferto dall’amministrazione pubblica, purché il comportamento del soggetto cui il danno è ricollegabile sia connotato dall’elemento psicologico del dolo o della colpa grave; b) una responsabilità amministrativa a carattere sanzionatorio, tipizzata, in quanto le relative fattispecie devono necessariamente corrispondere al principio di stretta legalità di cui all’art. 25 Cost. Tali fattispecie sono tassative (non sono pertanto suscettibili di interpretazione analogica), e devono essere determinate e specifiche (nel senso che la legge deve molto puntualmente indicare ogni elemento dell’intera fattispecie sanzionatoria). Ad esse si aggiunge la responsabilità penale che presuppone sempre l’accertamento di un fatto costituente reato al fine dell’irrogazione di una pena; ma qualora i fatti che hanno determinato responsabilità penali diano luogo anche a responsabilità amministrativa, il giudizio penale e quello di responsabilità amministrativa sono autonomi e separati. Analoga separazione e autonomia caratterizza anche il rapporto tra responsabilità penale e responsabilità disciplinare, anche se il d.lgs. n. 150/2009 consente alle amministrazioni di portare a termine il procedimento disciplinare se ritengano di non aver bisogno di acquisire ulteriori elementi da quello penale.
Con riferimento specifico alla responsabilità disciplinare, occorre tener presente che con il d.lgs. n. 150/2009 si è realizzata una accentuazione della dimensione sanzionatoria del potere datoriale e soprattutto, quella pubblicistica della normativa disciplinare, con particolare riferimento ad alcune infrazioni che il legislatore qualifica direttamente come reato (false attestazioni di presenza e false certificazioni), collegandoci conseguenze estintive del rapporto di lavoro.
Una caratteristica peculiare del lavoro pubblico è rivestita dal codice di comportamento costituito da un insieme di disposizioni che sono articolazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento e che i contratti collettivi hanno integrato con quello disciplinare. L’ultima versione del codice di comportamento è contenuta nel d.P.R. 16.2.2013, n. 62 aggiornato anche in base alle disposizioni contenute nella legge anticorruzione 6.11.2012, n. 190.
La gestione e ridistribuzione del personale anche in funzione di riequilibrio tra amministrazioni è strettamente collegata alla programmazione triennale di fabbisogno del personale. Nell’intento di contemperare esigenze delle amministrazioni con interessi dei lavoratori, la disciplina prevede il ricorso prioritario alla mobilità volontaria, seguita dalla mobilità d’ufficio e, come ultima istanza in caso di rifiuto della mobilità d’ufficio, il collocamento in disponibilità. Già queste brevi premesse permettono di marcare una significativa differenza con il lavoro privato: la non applicabilità della disciplina sul licenziamento collettivo e di quella sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo (per eccedenza) poiché il percorso tracciato sortisce lo scopo di individualizzare anche le eccedenze collettive e di inserirle nel percorso mobilità/disponibilità tracciato con lo scopo della ricollocazione. La modalità privilegiata dall’ordinamento per la copertura delle carenze in organico è costituita dalla mobilità volontaria; l’art. 30 d.lgs. n. 165/2001 a questo proposito ricorre all’istituto della «cessione del contratto di lavoro» di dipendenti appartenenti alla stessa qualifica che facciano domanda di trasferimento, previo consenso dell’amministrazione di appartenenza.
Ogniqualvolta il passaggio di personale avvenga a seguito di trasferimento o conferimento di funzioni da parte di enti pubblici ad altri soggetti pubblici o privati, si applica la disciplina per il trasferimento di azienda prevista dall’art. 2112 c.c.
Il terzo strumento è costituito dalla mobilità a seguito di dichiarazione di eccedenza e dal collocamento in disponibilità (artt. 33 e 34). A quest’ultimo strumento si riferisce in particolare la l. n. 95/2012 per far fronte ai possibili esuberi conseguenti alla rideterminazione delle dotazioni organiche e alla razionalizzazione istituzionale e amministrativa in attuazione delle politiche di spending review.
Le cause di estinzione del rapporto di lavoro pubblico ricalcano in buona parte quelle del lavoro privato anche se, come abbiamo visto, si differenzia notevolmente in caso di licenziamento disciplinare, fino a contemplare la possibilità di licenziamento come pena accessoria della sentenza penale per gravi reati di corruzione o concussione, nonché nelle ipotesi di dichiarazione di esubero e relativa procedura di collocazione in disponibilità.
Il rapporto di lavoro può estinguersi per scadenza del termine nei contratti che prevedono un termine finale, per recesso del datore di lavoro (licenziamento) o del lavoratore (dimissioni), per morte del lavoratore, per impossibilità sopravvenuta della prestazione (nei casi in cui ad esempio, per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, l’amministrazione non sia riuscita ad assegnarlo a mansioni diverse accettate dal lavoratore), per forza maggiore oppure per accordo tra le parti e, infine, per raggiungimento dell’anzianità anagrafica o lavorativa del dipendente.
La l. 28.6.2012, n. 92, oltre a modificare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e la relativa disciplina giudiziale, è intervenuta in materia di dimissioni del lavoratore. Ma, mentre non sorgono dubbi sull’applicabilità anche al settore pubblico della normativa sulle dimissioni, è molto controversa l’applicabilità ai pubblici dipendenti delle novità riferite al licenziamento. Mancando, infatti, le norme di armonizzazione tra settori ipotizzate dalla stessa l. n. 92/2012, si ritiene per lo più che per il pubblico impiego valga ancora la formulazione originaria dell’articolo 18 dello Statuto, soprattutto per quanto riguarda le forme di tutela.
Costituzione; l. 23.10.1992, n. 421; d.lgs. 3.2.1993, n. 29; d.lgs. 30.3.2001, n. 165; l. 29.3.1983, n. 93; l. delega 4.3.2009, n. 15; d.lgs. 27.10.2009, n. 150; l. 31.12.2009, n. 196; d.l. 31.5.2010, n. 78; l. 6.7.2012, n. 95; d.l. 6.7.2011, n. 98; d.P.R. 16.4.2013, n. 62; l. 6.11.2012, n. 190.
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