lavoro
Complesso delle energie fisiche e intellettuali che l’uomo traduce nella creazione di oggetti, beni o opere di utilità individuale o collettiva; rappresenta una delle principali chiavi di lettura per comprendere l’evoluzione delle diverse società storiche e della specie umana, più in generale. La definizione stessa di preistoria, delle sue distinte età, si fonda sul valore assegnato per convenzione alla comparsa dei primi utensili. Dalla pietra al ferro, il cammino dell’uomo verso la storia (verso la conquista della scrittura, dell’agricoltura e dell’allevamento, accompagnata dalla nascita dei primi insediamenti) fu già caratterizzato da innovazioni tecniche e dallo sviluppo di nuovi ambiti del sapere, la cui applicazione pratica ebbe il determinato scopo di migliorare la produzione delle risorse necessarie alla sopravvivenza della comunità, accelerando il processo di suddivisione dei ruoli produttivi (anzitutto tra i sessi), e la gerarchizzazione sociale e politica.
La fisionomia delle civiltà più antiche fu contrassegnata da molteplici mansioni lavorative, ovvero da un livello di specializzazione produttiva e intellettuale già elevato. Alla base del sistema economico, sociale e politico si collocò il l. schiavile, fondato sull’esistenza di individui non liberi, considerati proprietà della comunità o di taluni suoi membri; possedere servi garantiva il diritto di esigerne le più varie prestazioni lavorative, in cambio delle garanzie minime di sostentamento. Una consistente parte delle opere pubbliche e monumentali dell’antichità venne realizzata mediante l’impiego di schiavi (dalle fortificazioni ai luoghi di culto, dalle imprese di controllo del regime dei fiumi alla costruzione di porti, edifici amministrativi e arterie viarie), ma questa tipologia di lavoratori, uomini e donne, fu indispensabile anche per lo sviluppo delle attività private (dall’agricoltura ai commerci, dall’artigianato ai lavori domestici), ed ebbe talora impieghi di carattere militare. Gli studi prodotti negli ultimi decenni sono tuttavia orientati a interpretare in modo meno rigido il quadro socioeconomico del mondo antico, e cioè a porre in evidenza il nesso tra il l. dei servi e quello degli uomini liberi, anche sul piano della cooperazione e dell’interscambio materiale, culturale e persino affettivo, specie entro la dimensione familiare, del forno o della bottega. In quest’ottica, il l. poté anche rappresentare una chance di emancipazione dalla schiavitù e di ascesa sociale, ove la legislazione lo consentiva; un fenomeno che è ormai documentato per la civiltà egizia e presso i fenici, come pure in Grecia e a Roma. Il contributo dell’archeologia ha assicurato importanti avanzamenti alla ricerca storica, consentendole di riportare in luce un panorama di mestieri e professioni ben più ricco e articolato di quanto si ritenesse in passato. Per l’Egitto, accanto ai noti profili dell’architetto Kha, del giudice Gemenefherback e di numerosi scribi (funzionari, amministratori), sepolti assieme agli strumenti (reali o figurati) del loro l., possiamo oggi tratteggiare un mondo di agricoltori e allevatori di bestiame, proprietari di miniere e persino di birrifici, di ricchi artigiani, artisti, tessitrici, né mancarono operai e piccoli contadini, miseri ma liberi, impiegati anche per la costruzione di piramidi e grandi opere pubbliche (solo di rado al fianco o in sostituzione degli schiavi). Il codice di Hammurabi (2° millennio a.C.) testimonia l’esistenza di svariate professioni anche in area mesopotamica (legate alla medicina, ai commerci, alla produzione di cibi, bevande, armi e utensili), regolamentate in modo specifico e rigoroso, né vanno dimenticati i maestri d’ascia e i vetrai fenici, gli artisti dell’oreficeria etrusca e quelli della produzione ceramica (dal Mediterraneo alla Cina, già di età protostorica), accanto ai pescatori e ai domatori di animali (Creta) e agli agrimensori (Valle dell’Indo). Anche il mondo ellenico evolse gradualmente verso un assetto socio-economico più largo e più duttile, che in specie a partire dalla costituzione del sistema coloniale giunse a concedere apprezzabili spazi alle professioni e ai mestieri maschili, supportati talora dal l. dei servi e delle donne (nell’artigianato e nel piccolo commercio soprattutto). La società ateniese del 5°-4° sec. a.C. fu animata anche da figure di intellettuali come Socrate, figlio di uno scultore e di una levatrice (in base alla tradizione), o Fidia, emblema del nuovo rilievo conquistato dai grandi artisti. Dai ritrovamenti archeologici e dalle fonti letterarie (si pensi al teatro di Aristofane), emerge d’altro canto un variegato universo di scrittori, sofisti, attori, musici, ginnasti, etère, e poi meteci, individui in prevalenza originari delle colonie (e perciò esclusi dal godimento dei diritti politici), assurti in taluni casi a ruoli di prestigio, mediante l’esercizio delle professioni mercantili, mediche o intellettuali (Ippocrate, Erodoto, Gorgia). La distanza che separava ormai il panorama ateniese dalla società ellenica delle origini, caratterizzata dal prevalente modello della famiglia come autonoma realtà produttiva e da una rigida suddivisione in classi, si coglie bene nel confronto tra Atene e Sparta, città-Stato che conservò istituzioni e costumi di impronta dorica, tradottisi nella forte autorità esercitata dall’aristocrazia guerriera (spartiati) sulle classi lavoratrici che ne garantivano la sopravvivenza materiale: perieci e iloti. Neppure la condizione degli iloti, schiavi di proprietà statale, conobbe variazioni di rilievo, ma a partire dal 5° sec. a.C. si intensificò il fenomeno delle loro periodiche rivolte, un aspetto che appare indissolubilmente intrecciato al declino dell’egemonia spartana. L’età ellenistica fu invece contrassegnata dalla progressiva diminuzione della manodopera servile e dalla diffusione di scuole per le arti, i mestieri e le professioni. Al contrario, nella società romana, l’incidenza della componente schiavile aumentò progressivamente fino agli ultimi secoli dell’impero, suscitando il malcontento della plebe. Rispetto alla cronica piaga della disoccupazione plebea (di larghe fasce della popolazione romana la cui sopravvivenza dipendeva da lavori occasionali o piccoli espedienti), la categoria degli schiavi fu interessata da un intenso processo di suddivisione e specializzazione del lavoro. L’istituto della manumissio prevedeva inoltre che il rapporto tra schiavo e dominus potesse evolvere in quello tra liberto (schiavo liberato) e patronus. A fronte dell’obbligo di prestazioni di l. gratuite, il percorso di emancipazione dei liberti si concluse generalmente nell’acquisizione della cittadinanza romana e fu talora contrassegnato da concessioni tese a favorire l’inserimento di questa categoria in determinati mestieri o ambiti produttivi. Alcuni liberti si distinsero per il successo ottenuto nei commerci, per meriti intellettuali (Fedro, Terenzio), militari o politici. Fu verosimilmente un liberto anche il fornaio Eurisace, il cui sepolcro riproduce dettagli e strumenti anche minuti del mestiere che lo rese un cittadino agiato. Come i fornai, anche gli altri esponenti delle arti meccaniche (artigiani, mercanti, osti, medici, attori) si dotarono di sodalizi con funzioni grosso modo equivalenti a quelle dei collegi delle professioni liberali (i forensi, i gromatici), e con Traiano (98-117), quando l’impero raggiunse la sua massima estensione e la capitale si trasformò in una gigantesca città di consumi, le associazioni di mestiere divennero alcune centinaia. La trasmissione dell’arte avveniva solitamente nell’ambito familiare o dipendeva dalle tradizioni peculiari di alcune regioni, risalenti talora all’epoca preromana (quella della ceramica e della lavorazione del bronzo in Etruria, l’artigianato del vetro in Campania). In questo contesto economico e sociale, si crearono opportunità di iniziativa anche per le donne di condizione plebea, quelle che come Atistia, moglie di Eurisace, affiancarono il consorte nella conduzione dell’attività familiare, o figure come Eumachia, patrona dei fullones e degli infectores di Pompei (lavandai e tintori) che questi ultimi vollero ritratta all’interno del luogo che fu sede del loro mestiere. Più in generale, anche a Roma, il l. femminile rimase prevalentemente legato allo svolgimento delle mansioni domestiche, di alcuni lavori agricoli e alla cura della prole, come spiegano i semplici oggetti di innumerevoli corredi funerari (fusi, rocchetti, stoviglie). Nella sfera pubblica, il l. della donna fu solo eccezionalmente disgiunto da quello dell’uomo (padrone, padre, marito), come nei casi di vedove, levatrici, fattucchiere o prostitute, mentre la donna di condizione aristocratica non svolgeva alcuna mansione di carattere lavorativo al di fuori della domus. Il diritto romano prestò inoltre particolare attenzione alla regolamentazione del l. nelle campagne e dei rapporti socio-economici del mondo agricolo; figure caratteristiche di quest’ultimo furono il libero agricoltore o allevatore (spesso un piccolo proprietario, talora un veterano dell’esercito), il bracciante salariato e la manodopera schiavile (posseduta o affittata in occasione dei raccolti). In questo contesto, a partire dal tardo impero, assunse notevole importanza il colonato, istituto in base al quale i coloni (in origine liberi contadini affittuari di un latifondista) si trasformarono in dipendenti di un dominus, e quindi in manodopera soggetta a prestazioni di l. gratuite.
Tra 5° e 8° sec., nel quadro della transizione verso l’economia curtense, la condizione dei contadini concessionari delle terre del signore (pars massaricia) si avvicinò ulteriormente a quella dei servi di quest’ultimo, variamente impiegati nella pars dominica, cioè la porzione della villa che divenne residenza dello stesso dominus/feudatario e gradualmente attrasse anche artigiani e piccoli amministratori. Il declino del potere imperiale in Occidente e le invasioni barbariche avevano determinato la rapida crisi delle città e del sistema economico tradizionale, incoraggiando il trasferimento della popolazione urbana nelle curtes, centri nevralgici di una nuova economia rurale di sussistenza. Alla contrazione dei commerci, alla pressoché totale scomparsa della mercatura di lungo raggio, si accompagnò un fenomeno che rimane in larga parte oscuro: nel giro di poche generazioni, il prezioso patrimonio di arti e mestieri che aveva caratterizzato la storia romana scomparve. L’archeologia medievale ha variamente attestato la dispersione di questo know-how, che si tradusse soprattutto nella perdita di tutte quelle maestranze specializzate nella manutenzione di strade, ponti, porti, acquedotti, terme e altri edifici pubblici, come pure nella vigilanza notturna e nello spegnimento di incendi (mansioni degli antichi vigiles). Numerose figure dell’amministrazione imperiale vennero invece recuperate all’interno della compagine di governo pontificia, dei regni romano-barbarici e di quello franco, in particolare; giovani realtà politico-statuali il cui rafforzamento dipese in larga misura dal contributo di questi burocrati (tabularii, tabelliones ecc.). Il notaio rappresenta invece un nuovo profilo professionale, all’interno dell’Europa altomedievale, evolutosi nei secoli attraverso l’esercizio di funzioni (di certificazione, interpretazione, archiviazione e conferimento della publica fide) che furono di capitale importanza per lo sviluppo dei commerci, la regolamentazione delle disposizioni ereditarie e degli stessi rapporti di lavoro. Dall’età carolingia alla rinascita tardomedievale, la civiltà europea fu contrassegnata da una lenta ma incessante ripresa economica, sociale e politica, che può essere efficacemente argomentata rimanendo nell’ottica della storia delle arti e delle professioni; un processo in cui tornò a essere protagonista la città. Rispetto alla rigidità normativa che aveva fossilizzato ogni aspetto del l. libero e servile nelle campagne (dal servo della gleba al mezzadro), la crescita dei centri urbani (di impianto romano o di nuova fondazione), la costituzione dei primi circuiti fieristici, la nascita di nuove e potenti associazioni di mestiere, come pure dei collegi professionali (notai, medici) e delle università (anche per le professioni mediche, come a Salerno), sono fenomeni emblematici del dinamismo commerciale, produttivo e intellettuale che investì l’Europa mediterranea e continentale. L’autorità e il prestigio conquistato da alcuni sodalizi di arti e mestieri marcò in modo talora significativo l’architettura e la toponomastica urbana, traducendosi cioè nella realizzazione di edifici (banchi, logge, opifici, luoghi di culto) strettamente connessi all’esercizio di determinati lavori. Anche le committenze artistiche sono una testimonianza preziosa per comprendere l’evoluzione della stessa idea di l., perché consentono di indagare il piano delle appartenenze e delle identità socio-professionali, fino ad attestare la comparsa di atteggiamenti che somigliano a un vero e proprio orgoglio di categoria (Orsanmichele a Firenze, chiesa delle arti).
Nella Napoli del 16° sec., una delle città più ricche e popolose d’Europa, accanto a svariate tipologie di artigiani, mercanti e pubblici ufficiali (tutte quelle figure che caratterizzavano ormai l’articolata fisionomia amministrativa degli Stati moderni, dagli alti magistrati ai semplici scrivani), prosperarono individui che si professarono appartenenti a categorie del tutto nuove, che spesso è anzi impossibile definire se non adottando terminologie ante litteram (la mediazione finanziaria o «arte de far trovar denari»). Questa liberazione di forze ed energie fisiche e intellettuali, anche come rinnovamento delle conoscenze e delle tecniche lavorative e professionali, rappresenta una delle due fondamentali linee interpretative della stessa Età moderna, ed è un processo che investì pure il mestiere delle armi, evolutosi dalle antiche compagnie di mercenari di ventura (in cui militarono contadini e braccianti costretti ad allontanarsi occasionalmente dalle campagne) fino alla nascita dei primi eserciti moderni, composti di specialisti della guerra. Il mercato di queste nuove professionalità non conobbe confini di patria e di cultura, come dimostra il caso dei numerosi esperti di marineria e guerra di corsa reclutati entro la compagine militare dell’impero ottomano. L’altra faccia della medaglia, ossia l’interpretazione (di impostazione marxista) dell’evo moderno come epoca di coercizione dell’uomo, in specie sul piano delle coordinate giuridico-politiche in cui rimasero inscritti i rapporti di l., è ricorrente nella lettura di taluni fenomeni come il ritorno del l. schiavile (introdotto dai colonizzatori europei a danno delle popolazioni indigene e africane nelle Americhe), le rivolte contadine (➔ ) che venarono la storia europea fino al termine dell’antico regime, o l’irrigidimento statutario e l’intensa conflittualità che finirono col caratterizzare la vita delle arti e dei mestieri. Serrate corporative che, in specie a partire dal 17° sec., tesero a salvaguardare i privilegi di categoria (ma anche quelli di maestri e proprietari di bottega rispetto a dipendenti e apprendisti), e che per lo più si tradussero in meccanismi di mutuo soccorso e di cooptazione all’arte tanto ferrei da escludere la possibilità di accesso a essa da parte di individui che vi fossero estranei per nascita. D’altro canto, proprio nel corso della crisi del Seicento, si posero alcune importanti premesse per il definitivo superamento dei tradizionali rapporti di potere che condizionavano i diversi ambiti del l., nelle città e nelle campagne. Il mondo rurale, che incluse oltre l’80% della popolazione europea, fino alla Rivoluzione industriale, sebbene caratterizzato da una maggiore staticità rispetto al panorama urbano, non fu immune da importanti trasformazioni e rivoluzioni. Anzitutto, in Europa occidentale, le antiche corvées vennero gradualmente sostituite dal pagamento di censi in denaro; la definizione di servitù della gleba (la cui effettiva abolizione si colloca al termine dell’Età moderna) risulta in larga parte impropria per descrivere un quadro che almeno a partire dal 16° sec. è sostanzialmente fatto di terre signorili o soggette all’autorità ecclesiastica, e tenures non feudali: quelle demaniali e quelle affittate o possedute da patrizi, notabili borghesi, ma anche da contadini. Alla ricomparsa, dopo secoli, della libera proprietà contadina (come pure di vaste aree di microproprietà, ad agricoltura intensiva) e del bracciantato salariato, si affiancò l’operosità talora caratteristica di altre figure intermedie tra la grande proprietà fondiaria e la manodopera (mezzadri, massari, fittavoli). Figure che in taluni casi seppero trarre vantaggio dalla crisi dei poteri tradizionali (l’indebitamento dell’aristocrazia, l’alienazione del latifondo ecclesiastico, l’allargamento del mercato dei feudi) per incamerare vasti patrimoni terrieri o per avviare processi di modernizzazione delle tecniche agricole o di vera e propria protoindustrializzazione. È un fenomeno illustrato in sommo grado dall’Inghilterra, i cui caratteri economici, sociali e politici furono tali da innescare la Rivoluzione industriale, processo che cambiò radicalmente la storia del l., ponendo termine all’antico regime.
L’avvento del sistema di fabbrica e del capitalismo ha stimolato la nascita della Labour history, ambito della ricerca sociologica, filosofica, giuridica e storiografica che ha assunto il carattere di vera e propria disciplina, nel corso del Novecento (stimolata soprattutto dalla vasta riflessione di K. Marx, e dai contributi di F. Engels, F.M. Eden). Essa ha il compito di studiare il l. in chiave di sviluppo tecnologico e di assetti produttivi, finanziari e sociali (mercato del l. e oscillazioni salariali, condizioni delle classi lavoratrici), accanto al nesso tra l. e storia politica (le riforme sociali, la nascita di associazioni, movimenti, sindacati, camere del l. e partiti degli operai e dei lavoratori). In una panoramica di grande scala, vanno evidenziate anzitutto la scomparsa delle tradizionali corporazioni di mestiere (abolite dal riformismo illuminato del 18° sec. o nel corso dell’Ottocento) e l’abolizione della servitù della gleba anche in Europa orientale, accanto alla crescita dei lavoratori urbani. Le città europee, e in specie i centri di maggiore rilevanza industriale, divennero meta di sostenuti flussi migratori provenienti dalle campagne. Con la prospettiva di esistenze spesso miserabili, uomini, donne e bambini ingrossarono a dismisura le file del ceto salariato, impiegato nelle fabbriche o in altre attività (garzoni, domestici). La conflittualità sociale crebbe rapidamente, con esiti talora drammatici, mentre il capitale, gli strumenti della produzione e inizialmente anche il know-how si separarono dal l., divenendo una prerogativa di datori o supervisori del l. in fabbrica. L’Inghilterra del 19° sec. fu teatro di violente proteste contro le macchine (➔ ), della nascita delle prime organizzazioni sindacali (Trade unions, 1824) e di movimenti come quello cartista (1839), che inaugurarono la strada delle rivendicazioni politiche, da parte di larghe frange di lavoratori, favorendone la coesione e il coordinamento, incoraggiando la formazione di una cultura operaia e di una embrionale coscienza di classe. L’approssimarsi di una nuova fase dell’industrializzazione (la cosiddetta seconda Rivoluzione industriale), corrispondeva all’avvento di un’epoca ormai matura per il graduale accoglimento delle rivendicazioni (economiche ma anche sociali e politiche) avanzate da categorie di lavoratori ora numerose, organizzate e coese. Le spinte economiche del secondo Ottocento, l’esigenza di aumentare in quantità e qualità la produzione di beni e servizi rendevano d’altra parte superato il problema del macchinismo, nel quadro di una costante crescita di valore della manodopera specializzata e delle macchine perfezionate, a un tempo. Una significativa parte della manodopera non specializzata (proveniente in specie da aree scarsamente industrializzate, come il Meridione italiano) produsse invece nuovi fenomeni migratori, ora diretti verso l’Europa continentale e le Americhe. In quegli stessi decenni, la maggior parte degli Stati occidentali dovette pertanto dotarsi di normative atte a disciplinare la durata, le caratteristiche e le modalità del l. salariato, fissando, in taluni casi, i minimi salariali e stipendiali (Inghilterra, 1802, 1867-91; Francia, 1848, 1874; Svizzera, 1874-90; Italia, 1871-1886; USA e Canada, 1867-94). Guardando al piano delle sostanziali conquiste giuridiche, è invece necessario attendere il primo dopoguerra e anzi la fine del secondo conflitto mondiale perché si elabori, in tutto l’Occidente, un diritto del l. conforme al rispetto dell’infanzia e dei fondamentali obiettivi raggiunti da uomini e donne (abolizione del l. minorile, giornata lavorativa di 8 ore, diritto di sciopero, festività, previdenza). Lavoratori su cui anzi specificamente si fonda il dettato costituzionale di alcune tra le più giovani democrazie europee (così nel caso italiano): è il traguardo del l. come diritto inviolabile, da cui derivano diritti ulteriori, celebrato in occasione della festività internazionale del 1° maggio (istituita negli USA, negli anni Ottanta del 19° sec.). Una conquista che scaturì da ennesime battaglie sociali e politiche (il biennio rosso, 1919-20, le agitazioni americane dopo la crisi del 1929), come pure dal rilevante contributo di alcuni dei massimi pensatori dell’Otto e del Novecento (si pensi al dibattito sulla divisione del l. e sul taylorismo, che ha impegnato studiosi marxisti e liberisti). Rispetto allo scenario mondiale degli ultimi decenni, il l. è tornato a rappresentare un tema-chiave della riflessione politica, giuridica, sociologica, filosofica e storiografica, sotto lo stimolo, da un lato, delle recenti tendenze dell’economia di mercato (la complessità dei sistemi produttivi, la continua esigenza di ristrutturarne i comparti, la nascita del cosiddetto quarto settore), e d’altro canto la persistente piaga (in Asia e in Africa, in particolare), di nuove forme di schiavitù e dello sfruttamento del l. femminile e minorile, in specie.