LAVORO
. Meccanica. - È uno dei concetti elementari. Nel linguaggio corrente si dice, in generale, che un uomo lavora, quando, esplicando un certo sforzo muscolare, riesce a muovere qualche corpo materiale, talché si riconnette l'idea di lavoro a quelle di forza e di spostamento. Di questa veduta intuitiva si dà in meccanica una formulazione schematica precisa.
1. Per cominciare dal caso tipico, si consideri una forza costante F applicata a un punto materiale P, il quale si sposti lungo la linea di azione della forza, nello stesso suo verso. In questa ipotesi si assume come misura del lavoro compiuto dalla forza, rispetto a quello mostamento, il prodotto Fs dell'intensità della forza per la lunghezza s dello spostamento. Ma può darsi che, per l'azione concomitante di vincoli o di altre forze, il punto P si sposti, non già nella direzione e nel verso della forza, bensì in un'altra direzione qualsiasi. In tal caso, sempre nell'ipotesi che lo spostamento sia rettilineo, si assume come misura del lavoro il prodotto dell'intensità della forza per la proiezione dello spostamento sulla rispettiva linea d'azione, attribuendo a questa proiezione il segno + o −, secondo che lo spostamento forma con la forza un angolo acuto o ottuso. Corrispondentemente, il lavoro risulta positivo o negativo (e si dice rispettivamente motore o resistente); risulta addirittura nullo, se lo spostamento di P è perpendicolare alla forza F.
Ove si ricorra alla nomenclatura e al simbolismo vettoriali (v. vettore) e si denoti con s lo spostamento di P, la precedente definizione conduce a rappresentare il lavoro come prodotto scalare o interno F × s della forza per lo spostamento del punto d'applicazione. In forma cartesiana, indicate con X, Y, Z le componenti di F secondo tre assi ortogonali, con sx, sy, sz le analoghe componenti di s, si ha per il lavoro l'espressione
Dalla definizione stessa discende (sempre nel caso di forze costanti e di spostamenti rettilinei) che il lavoro della risultante di più forze applicate a uno stesso punto, per un medesimo spostamento di questo, è uguale alla somma (algebrica) dei lavori, rispetto a quel medesimo spostamento, delle singole forze componenti; e il lavoro di una forza rispetto a più spostamenti successivi del suo punto di applicazione è uguale alla somma (algebrica) dei lavori della medesima forza rispetto ai singoli spostamenti.
La formula delle dimensioni fisiche del lavoro, ove, al solito si denotino con L una lunghezza, con T un tempo, con M una massa, è data da L2 T-2 M ed è quindi quella stessa dell'energia. Come unità di lavoro si adotta nel sistema pratico il chilogrammetro (kgm.), cioè il lavoro compiuto da una forza costante di 1 kg.-peso per lo spostamento di 1 m. del suo punto di applicazione, nella direzione e nel verso della forza stessa. Nel sistema (assoluto) C.G.S. si assume invece l'erg, cioè il lavoro di una forza di 1 dine per uno spostamento di 1 cm. del suo punto di applicazione, nella direzione e nel verso della forza. Poiché l'erg è estremamente piccolo, si usa spesso il megaerg = 106, e gli elettrotecnici si valgono del joule = 107 erg. La relazione tra erg e chilogrammetro è data (ove per l'accelerazione della gravità si assuma il valore di 980 cm./sec.2). da
2. Per passare alla valutazione del lavoro compiuto da una forza variabile per un qualsiasi cammino (anche curvilineo) del suo punto di applicazione, si segue il consueto procedimento suggerito dall'analisi infinitesimale: cioè, s'immagina decomposto l'arco C, descritto da P, in archetti elementari (infinitesimi) dP, in guisa che rispetto a ogni singolo dP (sensibilmente coincidente con un elemento di tangente all'arco C) la forza F si possa considerare come sensibilmente costante. Se, con riferimento a una prefissata terna ortogonale di assi, sono dx, dy, dz le componenti del dP considerato, il corrispondente lavoro elementare della F è dato da
e il lavoro totale, compiuto dalla stessa forza F, quando il suo punto di applicazione P descrive l'intero arco C, si misura, sommando gli infiniti lavori elementari relativi ai singoli elementi di C, cioè calcolando l'integrale (curvilineo)
Nel caso generale, in cui la forza F dipende non solo dalla posizione del punto di applicazione P, bensì anche dalla sua velocità ed, eventualmente, dal tempo t, il calcolo dell'integrale (1) richiede la conoscenza dalle equazioni orarie x = x (t), y = y (t), z = z (t) del moto di P (v. cinematica, n. 4). Basta invece la conoscenza della traiettoria C, se la F è puramente posizionale; e, se si tratta di una forza derivante da un potenziale U (x, y, z), cioè se X = ∂U/∂x, Y = ∂U/∂y, Z = ∂U/∂z, (v. forza), il lavoro (1) dipende soltanto dagli estremi P1, P2 del cammino del punto di applicazione (non dal cammino stesso), in quanto si ha
Di qui discende che, se la regione spaziale, in cui sono definiti la forza F e il rispettivo potenziale, è semplicemente connessa (v. analysis situs), il lavoro totale della forza, per un qualsiasi cammino chiuso del suo punto di applicazione, risulta nullo. E questa la ragione, per cui si dà il nome di conservative alle forze derivanti da un potenziale: quando al rispettivo punto di applicazione si fa descrivere un cammino chiuso, non si perde, né si guadagna lavoro, cosicché, considerando il lavoro di una forza come una forma di energia fisica, ceduta o, eventualmente, sottratta al suo punto di applicazione, questa energia è complessivamente nulla in capo a un qualsiasi cammino chiuso. Vi è, dunque, in questo senso conservazione d'energia.
3. A un risultato d'importanza fondamentale si perviene, considerando una forza F, applicata a un punto materiale libero, di data massa m, e calcolando il lavoro compiuto dalla F rispetto allo spostamento da essa prodotto sul punto. Indicata con v la velocità di P, talché sia vdt lo spostamento subito dal punto in un generico tempuscolo dt, si ha, per l'equazione fondamentale della dinamica (v. dinamica, n. 1),
onde risulta per il lavoro elementare dL, compiuto dalla forza nel tempuscolo dt, l'espressione
in cui la grandezza meccanica (scalare) mv2/2 è la cosiddetta forza viva o energia cinetica del punto P (di massa m e di velocità v). Indicandola con T, si na, dunque,
cioè, durante il moto, determinato da una forza su un punto materiale libero, il lavoro elementare della forza in ogni singolo tempuscolo è uguale alla simultanea variazione subita dall'energia cinetica del punto. Se si considera un qualsiasi intervallo di tempo, da un prefissato istante t a un generico istante t, e, integrando la (2) da t0 a t, si calcola il lavoro L, compiuto dalla forza in codesto intervallo di tempo, si trova
dove T0 denota l'energia cinetica di P nell'istante t0; cimè, la variazione subita, in un qualsiasi intervallo di tempo, dall'energia cinetica di un punto sollecitato è uguale al lavoro compiuto, in quell'intervallo di tempo, dalla forza sollecitante. Se, come poc'anzi, il lavoro L della forza, che sollecita un punto materiale, si considera come energia somministrata a esso dalle condizioni fisiche, che ne determinano il moto, -L misura l'energia ceduta dal punto all'esterno; e, poiché la (2) si può scrivere
si ha che al moto di un punto sollecitato da una data forza totale le leggi della meccanica conferiscono un carattere conservativo, in quanto vi è, istante per istante, compenso fra l'energia T posseduta dal mobile sotto forma cinetica e l'energia − L, che, a partire da un generico istante t0, esso è andato cedendo all'esterno sotto forma di lavoro; la somma di queste due forme di energia (energia totale) si mantiene costante.
Questa conclusione risulta particolarmente espressiva per una forza derivante da un potenziale U, nel qual caso − L, come si è visto, si riduce a − U (astrazion fatta da una costante additiva non essenziale), e alla (2′), indicando con E una costante (energia totale), si può dare l'aspetto
La − U, per il suo significato e per il fatto che essa dipende soltanto dalla posizione del mobile, si chiama energia di posizione o anche energia potenziale, e la (3), che si suole indicare col nome di equazione o integrale della forza viva, esprime il principio della conservazione dell'energia sotto un aspetto più ristretto, che assimila il punto materiale a un sistema isolato nell'universo (v. conservazione; energia).
Principio dei lavori virtuali.
Il principio dei lavori virtuali (detto anche delle velocità virtuali o dei momenti virtuali) è un enunciato generale di statica che riunisce in sé e sostituisce le singole leggi sull'equilibrio dedotte dall'esperimento, ed esprime nella forma più generale la condizione per l'equilibrio. Si enuncia nei termini seguenti: condizione necessaria e sufficiente affinché un sistema di forze, agenti sopra un sistema materiale, si faccia equilibrio, è che per qualsiasi variazione infinitesima di configurazione, consentita dai vincoli (spostamento virtuale; v. cinematica, n. 39), il corrispondente lavoro virtuale complessivo delle forze (cioè la somma degli ipotetici lavori infinitesimi che le forze eseguirebbero se il sistema effettuasse la variazione considerata) sia nullo o negativo; il tutto con la restrizione che i vincoli del sistema siano senza attrito, ovvero che il lavoro delle forze d'attrito sia computato con quello delle altre forze. Esempio di applicazione: un punto materiale, soggetto alla sola gravità e obbligato a restare su una superficie senza attrito resta in equilibrio quando e solamente quando si trova in un punto ove il piano tangente (supposto che esista) sia orizzontale. L'enunciato dei lavori virtuali si completa, ordinariamente, aggiungendo che la dicitura "o negativo" può sopprimersi per gli spostamenti reversibili (v. cinematica, n. 39). Se il sistema materiale è vincolato in guisa tale da ammettere solo spostamenti reversibilì l'enunciato si traduce in un'eguaglianza
che deve essere soddisfatta per ogni insieme di spostamenti infinitesimi consentiti dai vincoli.
Questo principio non è il risultato immediato di qualche singola esperienza, ma viene giustificato osservando che: 1. da esso si deducono tutte le leggi di equilibrio verificate dall'esperienza; 2. per il carattere stesso della nozione di forza, quale noi la assumiamo, è intuitivamente inammissibile che un gruppo di forze sospinga i corpi, a cui è applicato, a muoversi, se non è per eseguire un lavoro positivo; così una forza diretta verso il basso non imprime a un corpo una velocità verso l'alto né orizzontale, e quindi se il corpo non può muoversi verso il basso, la forza resta senza effetto.
Si noti inoltre che il principio dei lavori virtuali è un postulato per l'equilibrio, non per la quiete; e si applica per verificare l'equilibrio anche su sistemi in moto (v. dinamica, nn. 9, 19). Così da esso deduciamo che più forze applicate a uno stesso punto si distruggono scambievolmente, e ciò tanto se il punto è in quiete, quanto se è in moto. Inoltre si applica, con le debite generalizzazioni, anche alle forze non meccaniche, cioè non ponderomotrici; quindi a tutte le cause che possono indurre variazioni in un sistema: per es., alle forze elettromotrici, che tendono a generare correnti nei sistemi di conduttori; alle forze magnetomotrici; e così di seguito. La sua generalità e portata sono quindi grandissime.
Il principio dei lavori virtuali è stato intuito in forma embrionale da Aristotele, che lo applicò per ricavare le proprietà delle leve, con deduzione fisicamente più rigorosa di quella di Archimede. In forma gradualmente più evoluta, ma sempre parziale, si trova in Giordano da Nemore, in Leonardo da Vinci, in S. Stevino, in Alberto di Sassonia (v. alberto di halberstadt), in G. Cardano, in Bernardino Baldi, in Galileo. Il carattere infinitesimale del principio si trova messo in rilievo da Cartesio. Molti altri enunciati parziali di lavori virtuali sono stati dati da J. Wallis, da E. Torricelli, da B. Pascal, da G. P. de Roberval. Ma chi è arrivato a comprendere il principio nella sua interezza, e a riconoscerlo come fondamentale per tutta la statica, è G. Bernoulli che lo indicò a P. Varignon in una lettera da lui riferita (1717). Lagrange lo discusse a lungo, e pur riconoscendo che non è un principio elementare, abbastanza semplice per ricavarlo direttamente, lo pose a fondamento di tutta la sua meccanica. In quel tempo la denominazione era "principio delle velocità virtuali". Nel sec. XIX gli autori di meccanica si sono sforzati di renderlo evidente e giustificarlo, con ragionamenti più o meno incompleti. Le ricerche moderne (G. Hamel e altri) hanno posto in evidenza il suo carattere di postulato autonomo, ma riassuntivo di altri postulati più speciali, e che sono verificabili direttamente.
Bibl.: P. Varignon, Nouvelle Mécanique, 1725; G. L. Lagrange, Mécanique analytique, I, Parigi 1811, parte 1ª, s. 1ª; J. M. C. Duhamel, Cours de Mécanique, Parigi 1845-46; L. Boltzmann, Die Grundprincipien und Grundlagen der Mechanik, in Populäre Schriften, 3ª ed., Lipsia 1925; G. Hamel, Die Axiome der Mechanik, in Handbuch der Physik, V, Berlino 1927.