SORANZO, Lazzaro
– Nacque a Venezia tra il 1555 e il 1560, figlio naturale del patrizio veneziano Benedetto di Francesco (1522-1571); la madre, una «madonna Corona» ricordata nelle ultime volontà di Benedetto, non veniva dagli strati più bassi della società veneziana e possedeva qualche bene.
L’8 maggio 1570 Benedetto Soranzo, nominato governatore di galera nella guerra di Cipro, redasse a Zara una cedola testamentaria, in cui ricordava Lazzaro con affetto di padre; e per lui dispose un cospicuo vitalizio di 400 ducati annui (Megna, 1997, p. 166).
Dopo la morte di Benedetto, caduto eroicamente a Lepanto, gli zii di Lazzaro, i patrizi Giacomo, Lorenzo e Giovanni Soranzo accordarono al nipote illegittimo la loro protezione. Sicuramente egli ricevette un’ottima educazione letteraria: già nel 1578 ebbe modo di dimostrare la padronanza delle lingue classiche componendo e pubblicando a Venezia il Carmen pythium in esametri latini, dedicato allo zio Giovanni, allora podestà di Brescia.
Poiché i Soranzo appartenevano alla fazione filocuriale del patriziato veneziano, è probabile che siano stati i loro legami con la S. Sede a propiziare la collocazione di Lazzaro alla corte di Roma, dove lo troviamo negli anni Novanta del Cinquecento, cameriere d’onore di papa Clemente VIII, impegnato non tanto in incarichi cerimoniali, quanto nella redazione di opuscoli manoscritti e a stampa a sostegno della politica pontificia. Così egli difese l’iniziale rifiuto di Clemente VIII di assolvere re Enrico IV dalla scomunica (Malcolm, 2016, pp. 446, 510), ma poi compose un’orazione per celebrare la riconciliazione con il re di Francia: opuscolo che ebbe notevole successo e fu pubblicato in due edizioni (nel 1596 e nel 1598).
Membro della corte pontificia, ma ancora in contatto con i suoi parenti veneziani, Soranzo fu coinvolto nella trama delle relazioni tra la Serenissima e la S. Sede. In quegli anni papa Clemente VIII sosteneva l’imperatore Rodolfo II nella sua lunga guerra con gli Ottomani, avviata nel 1593, e aveva affidato al cardinale nipote Cinzio Aldobrandini la gestione dei rapporti con la Serenissima, nel tentativo di farla schierare apertamente a sostegno degli Asburgo, nonostante la riluttanza del governo marciano. Fu in questo contesto che prese forma l’opera maggiore di Soranzo, L’Ottomanno, un trattato sull’impero ottomano, la sua forza militare e le sue occulte debolezze, concepito fin dal 1596, circolato per due anni in forma manoscritta e finalmente pubblicato nel 1598, in una Ferrara appena riunita allo Stato della Chiesa, con dedica al pontefice.
L’opera si presentava, nella sezione conclusiva, come una generale chiamata alle armi dei principi cristiani contro i turchi, ma riproduceva nella prima parte il modello descrittivo delle relazioni degli ambasciatori veneti. Molte delle informazioni erano tratte da un manoscritto sulla parte europea dell’impero ottomano, composto da Antonio Bruni, un albanese con parenti a Capodistria, anch’egli vicino al cardinale nipote Aldobrandini. Non si sa invece come Soranzo abbia potuto acquisire una conoscenza diretta del mondo ottomano ai tempi di Mehmed III: si è ipotizzato che egli avesse viaggiato al seguito dell’autorevole zio Giacomo Soranzo, in qualcuna delle sue missioni al sultano nel 1575-76 e nel 1582. È inoltre ben documentato il rapporto fra Soranzo e i padri gesuiti della provincia veneta, che potrebbero avergli suggerito alcuni temi.
Gli storici hanno dato giudizi discordi sulla qualità dell’opera, giudicata modesta da Paolo Preto (2013, p. 178) ed eccellente da Noel Malcolm (2016, p. 451). Più feconda sembra però la ricerca sulle motivazioni politiche della sua pubblicazione. Due diverse opzioni diplomatiche, una più prudente e un’altra assai più avventata, confluirono nel trattato, così come nella incerta azione politica dell’impulsivo cardinale nipote Aldobrandini. Ad Aldobrandini si rivolgevano infatti coloro che tentavano di coinvolgere la Repubblica in qualche ardito colpo di mano nei Balcani. Ma a lui, con maggiore prudenza, si erano rivolti anche quei prelati veneti (il patriarca di Aquileia Francesco Barbaro, l’arcivescovo di Zara Minuccio Minucci) che, in preparazione dell’alleanza antiottomana, avrebbero voluto rimuovere il maggiore motivo di ostilità tra Venezia e l’Impero, con la fine delle incursioni dei corsari uscocchi protetti dagli Asburgo.
È per questo che L’ottomanno esclude totalmente gli Uscocchi dalla generale chiamata alle armi delle forze cristiane: li descrive come feroci pirati e ne chiede l’allontanamento da Segna, secondo gli auspici dei veneziani (L’ottomanno, 1598, pp. 70-73); ma d’altra parte, per coinvolgere i veneziani nella guerra, l’opera suggerisce imprudentemente che i turchi, una volta conclusa la pace con l’Impero, avranno tutto l’interesse a rivolgere i loro attacchi contro gli Stati italiani, e in particolare contro i domini mediterranei e adriatici di Venezia. Un analogo argomento era stato segretamente impiegato, nei colloqui con i patrizi del Collegio, dal nunzio pontificio Antonio Maria Graziani e da monsignor Minucci; ma era tutt’altra cosa il metterlo per iscritto in un’opera a stampa.
Inevitabile, quindi, la dura reazione veneziana: non solo fu vietata la vendita del libro incriminato, ma il Consiglio dei dieci votò all’unanimità il 21 luglio 1598 l’arresto di Soranzo; e si fecero concreti passi per procurare la sua cattura, affidando il delicato compito all’ambasciatore presso la S. Sede, Giovanni Mocenigo. Informato da amici veneziani, ma non pienamente consapevole dei rischi che correva, Soranzo replicò il 26 luglio, rivolgendosi anch’egli all’ambasciatore: si dichiarò suddito fedele, pronto a correggere l’opera secondo i desideri del governo marciano, soggiungendo però «di non aver detto cose nove, o machinate da me, ma cavate da scrittori stampati et approbati, et da scritture che si leggono publicamente in Venetia et in Roma, e da que’successi che sono avvenuti questi anni» (citato in Sforza, 1922, p. 211).
La reale gravità della situazione fu illustrata il 12 agosto 1598 dal nunzio Graziani in uno dei suoi dispacci al cardinale nipote Pietro Aldobrandini, che proprio allora aveva definitivamente superato per prestigio e influenza sul pontefice il rivale Cinzio Aldobrandini (sicché anche l’incidente con Venezia si prestava a essere letto, nella logica delle fazioni di Curia, come la riprova della leggerezza e dell’inabilità diplomatica di Cinzio). Ai veneziani – riferiva Graziani – pareva che nel libro incriminato vi fossero «dell’impertinenze assai, et delle cose, che possono ben passare per i ragionamenti privati, ma che non devono già esser pubblicate, né mandate per le stampe» (Lavenia, 2015, p. 168). Quindi l’autore correva il rischio di una lunga condanna, se si fosse presentato, o della confisca dei beni, non presentandosi.
Un caldo intervento di Clemente VIII attenuò un po’ la severità del Consiglio dei dieci; e anche il patriziato papalino o comunque legato ai Soranzo cercò di esercitare la sua influenza moderatrice: non si poté però evitare la condanna, deliberata il 31 agosto 1598 e ribadita il 2 settembre con nove voti su diciassette. La sentenza prevedeva il bando o la relegazione per vent’anni a Capodistria; ma non si parlava di confisca dei beni. In fondo, secondo il nunzio Graziani, poteva andare molto peggio.
Da quel momento, le fortune dell’autore e quelle dell’opera in un certo senso si separarono. Emblema della politica antiturca di Clemente VIII, L’ottomanno, bandito da Venezia, fu ripubblicato nella Ferrara pontificia nel 1599 e nel 1607, nella Milano e nella Napoli spagnola rispettivamente nel 1599 e nel 1600; ed ebbe una versione in latino con il titolo Ottomanus sive de rebus Turcicis nel 1600 a opera di Jakob Geuder von Heroltzberg (Hanau 1600). L’ottomanno fu altresì tradotto in francese nel 1600 dall’ugonotto Jacques Esprinchard, in tedesco da Christian Cresse nel 1601 e in inglese da Abraham Hartwell nel 1603.
Quanto a Soranzo, nuovi uffici di Clemente VIII con gli ambasciatori veneti Marco Venier e Giovanni Mocenigo gli procurano l’8 agosto 1601 un salvacondotto del Consiglio dei dieci per poter risiedere per due anni a Venezia e nel dominio veneto. Non si sa però se abbia fatto in tempo ad avvalersene.
Morì a Roma il 17 aprile 1602.
Opere. Roma, Biblioteca nazionale, Mss. Vittorio Emanuele, 1034, cc. 399r-410r: Discorso [...] sopra la beneditione che desiderava il Re di Navarra; Biblioteca Vallicelliana, Mss., M.13, t. III, cc. 39-60: Narratione di quanto operò in Roma monsignor di Peron nel negotio dell’assolutione ricercata da Henrico IV re di Francia[...]; Carmen pythium, Venetiis 1578; Oratione ad Henrico quarto christianissimo re di Francia e di Navarra, nell’assolutione data a sua maestà da Clemente VIII sommo pontefice, Bergamo 1596; L’ottomanno di Lazaro Soranzo, dove si dà pieno ragguaglio non solamente della potenza del presente signor de’ Turchi Mehemeto III [...] ma ancora di vari popoli, siti, città, e viaggi, con altri particolari di stato necessari a sapersi nella presente guerra d’Ongheria, Ferrara 1598.
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