Le accademie scientifiche del Seicento
Le accademie italiane del Rinascimento costituiscono un prodotto della cultura umanistica, del mecenatismo dei principi e del policentrismo che caratterizza la vita culturale della penisola. Se inizialmente hanno carattere enciclopedico, intorno alla metà del 16° sec. prevale la tendenza alla specializzazione: in vari centri della penisola si assiste alla nascita di accademie di carattere letterario, artistico, filosofico. La filosofia naturale, la matematica e la medicina sono presenti nelle attività di alcune accademie cinquecentesche come l’Accademia degli Infiammati attiva a Padova tra il 1540 e il 1550 e l’Accademia Fiorentina creata dal granduca di Toscana Cosimo I (1519-1574) nel 1541. Ricerche di carattere chimico e naturalistico hanno luogo nell’Accademia Segreta del poligrafo Girolamo Ruscelli (1500 ca.-1566/1567), attiva probabilmente a Salerno, e nell’Accademia dei Secreti di Giovan Battista Della Porta che si riuniva nel palazzo dei Della Porta a Napoli. Nel 1603 viene fondata a Roma la prima accademia di carattere eminentemente scientifico d’Europa, l’Accademia dei Lincei, che stabilirà rapporti molto stretti con medici e naturalisti napoletani, in particolare con Della Porta, che ne diverrà uno dei primi membri.
Molte accademie scientifiche italiane furono legate alle corti, alle loro dinamiche e alle mutevoli vicende politiche e dinastiche delle signorie; tutte dipesero da principi o da singole personalità di prestigio, che ne furono animatori e finanziatori. In Italia le accademie furono sì numerose, ma piuttosto effimere e caratterizzate dall’assenza di strutture organizzative e programmi; l’Accademia dei Lincei, che si dotò di un programma e regole di ammissione, fu un’eccezione e, benché più strutturata delle altre accademie, non riuscì a sopravvivere alla morte di Federico Cesi (1630), il suo ‘principe’. In Italia, come altrove, le accademie scientifiche nascono con l’intento di condurre ricerche su nuovi temi e con metodi fino ad allora estranei ai curricula delle università. Tuttavia, le accademie italiane non ebbero rapporti di competizione o conflittuali con le università: spesso infatti la partecipazione a un’accademia si accompagnava a (o addirittura poteva favorire) un insegnamento universitario. La partecipazione alle accademie non era dettata solo da motivi di carattere intellettuale, ma spesso anche dalla convinzione che l’accademia potesse conferire prestigio, vantaggi professionali e offrisse opportunità di carriera, nonché mezzi e protezione per pubblicare le proprie opere.
Non diversamente dalle accademie rinascimentali, i Lincei ebbero un principe e adottarono un’impresa, ossia un emblema (la lince), e un motto (Sagacius ista, ma in alcuni Albi Lincei è presente anche Sapientiae cupidi). I Lincei si diedero un regolamento e precise norme di reclutamento. Queste ultime includevano l’adesione agli ideali che caratterizzavano l’Accademia ed erano assai simili a riti di iniziazione. All’inizio l’Accademia fu un cenacolo di giovani studiosi, animati da una forte tensione morale e da un comune impegno per una riforma intellettuale e spirituale. I giovani accademici perseguirono con zelo quasi religioso la diffusione degli ideali lincei tra gli studiosi d’Europa, mentre il loro stile di vita e le forme di organizzazione non erano molto differenti da quelle di ordini religiosi o cavallereschi. Evidenti i motivi utopici presenti nei programmi lincei – motivi che accomunano l’esperienza lincea ad altre iniziative e programmi di riforma filosofica e scientifica del primo Seicento, quali quelli delineati da Tommaso Campanella (1568-1639), Francis Bacon (1561-1626) e Valentin Andreae (1586-1654).
Per il giovane Cesi la riforma del sapere non era separata dall’affermazione di un modello di comportamento, di un ideale etico (Ricci 1994). Nel Discorso del natural desiderio di sapere (1616), che contiene il programma scientifico cesiano, lo studio della natura è articolato in osservazioni e sperimentazioni; con le prime – scrive Cesi – conosciamo «le cose come sono e da sé si variano»; con le seconde, «come possiamo noi stessi alterarle e variarle» (Del natural desiderio di sapere, et institutione de’ Lyncei per adempimento di esso, in Scienziati italiani del Seicento, a cura di M.L. Altieri Biagi, B. Basile, 1980, pp. 44, 48). Cesi propone non solo un modello di conoscenza contrapposto al sapere libresco delle scuole, ma anche un ideale etico, contrapposto alla mondanità cortigiana. La ricerca deve configurarsi per il principe Cesi come indagine disinteressata, non volta a conseguire «gli honori, favori e commodità» – la cui ricerca costituisce il principale impedimento al conseguimento del vero sapere. Rifiutato il modello dell’intellettuale cortigiano «che si procura la gratia del padrone e di tutta la corte e […] l’ammirazione di chi ordinariamente sa poco» (p. 51), Cesi interpreta l’attività scientifica come missione animata da entusiasmo religioso e descrive la vita del Linceo come ascesi: «Vivo solitario et da heremita, riserrato di continuo nella mia cella, fuggo ogni conversatione di profani et anco ogni vano piacere, attendo alli studij col maggior fervore ch’abbia mai fatto […] Odio le corte et i corteggiani, come la peste…» (cit. in Gabrieli 1996, p. 40). Questo il progetto, affidato al Lynceographum e alle Praescriptiones Lynceae Academiae, ma, come vedremo, meno rigorosa fu la pratica.
I primi Lincei avrebbero dovuto adottare uno stile di vita di tipo comunitario, simile a quello di una ‘confraternita’: ogni aspetto della vita dei Lincei era rigidamente regolamentato; in ogni opera pubblicata il titolo di linceo avrebbe accompagnato il nome dell’autore. Gli accademici si definiscono «confratelli» e l’Accademia è chiamata Ordo o anche Militia, il che ha giustamente suggerito un’influenza degli ordini religiosi, e in particolare dei gesuiti, sulla prima fase di vita dei Lincei (Olmi 1981, pp. 190-91). E con i gesuiti i Lincei ebbero un rapporto di competizione, non necessariamente di contrasto – almeno fino alla pubblicazione dell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari (1613) di Galileo Galilei. Ma accanto alla possibile influenza della Compagnia di Gesù è possibile individuare altri modelli e influenze, tra cui l’Oratorio di S. Filippo Neri (con cui la famiglia Cesi aveva stretti legami).
Dato il suo carattere – negli intenti del giovane Cesi – di «istituzione totale», non stupisce che tra le norme vi fosse il divieto di far parte dell’Accademia per coloro che appartenevano a ordini religiosi. I Lincei stabilirono di non includere tra i temi trattati dall’Accademia né politica né religione, una scelta dettata dalla prudenza e operata anche da altre accademie dell’Italia post-tridentina, e non solo: anche la Royal Society, nata all’indomani della restaurazione della monarchia in Inghilterra, escluse esplicitamente politica e religione dalle proprie discussioni.
In realtà, la scelta dei fondatori di mantenere le attività dell’Accademia dei Lincei estranee alla vita di corte e alle vicende politico-religiose sarà spesso contraddetta nella pratica: come vedremo, l’azione condotta a sostegno di Galilei si svolgerà all’interno della corte barberiniana (cfr. De Renzi 1989).
Vari furono i modelli e le suggestioni che ispirarono l’Accademia dei Lincei e molteplici i temi e metodi d’indagine che ne caratterizzarono l’opera. Non è quindi possibile ridurre il ruolo dei Lincei nella scienza italiana alla pur importantissima azione svolta a sostegno della scienza galileiana. Filosofia platonica, storia naturale, astrologia, alchimia, iatrochimica e microscopia si affiancarono allo studio delle discipline fisico-matematiche, che acquisirono sempre maggior peso dopo l’ingresso di Galilei nell’Accademia (1611).
La nascita dell’Accademia avvenne a Roma il 17 agosto 1603, a casa Cesi, a opera di quattro giovani: Federico Cesi, marchese di Monticelli, Francesco Stelluti (1577-1652) di Fabriano, Anastasio de Filiis (1577-1608) di Terni e il medico nederlandese di fede cattolica Jan van Eck (1577-1620 ca.). Quest’ultimo, insieme a Cesi, che il 25 dicembre 1603 fu eletto principe perpetuo dell’Accademia, svolse un ruolo centrale nella fase iniziale dell’Accademia, non solo poiché nel 1603 aveva già praticato medicina e composto opere di carattere letterario, filosofico e medico, ma anche perché diede subito vita a una fitta rete di relazioni scientifiche con naturalisti di vari Paesi europei.
Durante i primi mesi di vita dell’Accademia i quattro giovani, che si erano dati un nome accademico e avevano scelto come protettore san Giovanni Evangelista, si dedicarono allo studio collegiale della natura e delle matematiche. Ma, dopo meno di un anno di attività, si moltiplicarono pressioni e intimidazioni, soprattutto da parte del padre di Federico, uomo rozzo e bigotto, che nutriva sospetti nei confronti dell’atmosfera di segretezza e del carattere apparentemente esoterico delle adunanze lincee, nonché dubbi sull’ortodossia religiosa del giovane medico nederlandese, aperto sostenitore delle dottrine di Paracelso.
All’inizio del 1604 gli accademici furono costretti a separarsi: van Eck abbandonò l’Italia, Federico si recò a Napoli. La diaspora non significò la fine delle attività dell’Accademia, che sopravvisse come collegio invisibile attraverso la corrispondenza. Il viaggio di van Eck in Europa fu particolarmente ricco di informazioni e di contatti per la neonata accademia. Nella corrispondenza con i Lincei il nederlandese diede notizia dei suoi studi e degli incontri con scienziati di vari Paesi: a Pisa incontrò Girolamo Mercuriale (1530-1606); a Parigi Joseph Duchesne, detto Quercetanus (1544-1609), figura di primo piano della medicina spagirica; in Inghilterra, il medico e naturalista Matthias de l’Obel (1538-1616). Sul finire del 1604 giunse nella Praga di Rodolfo II, alla cui corte operavano astronomi, medici e naturalisti, nonché figure di spicco della medicina chimica, quali Oswald Croll (1563 ca.-1609) e Martin Ruland il giovane (1569-1611).
Non meno ricco di conseguenze per gli orientamenti e le attività dell’Accademia fu il viaggio di Cesi a Napoli, dove incontrò il naturalista e speziale Ferrante Imperato (1525 ca.-dopo il 1615), il cui museo era una delle attrattive della città, e Giovan Battista Della Porta, che nel 1610 fu cooptato dall’Accademia. Cesi decise di creare una colonia lincea a Napoli – parte di un ambizioso progetto volto a fondare sedi distaccate lincee in Italia, Europa e in altri continenti. Tali sedi – secondo il Lynceographum – avrebbero dovuto prendere il nome di Licei ed essere dotate di laboratori, musei, biblioteche, orti botanici. A Napoli Della Porta collaborò con i Lincei nel creare la sede napoletana dell’Accademia e cercò di ottenere per mezzo di Cesi e dell’Accademia l’imprimatur per la Taumatologia e la Chirofisonomia. All’Accademia furono ascritti, tra gli altri, due personaggi di spicco della cultura partenopea, Nicola Antonio Stigliola (1546-1623), filosofo, naturalista, medico e cosmografo, e il naturalista Fabio Colonna (1567-1640). La sede napoletana non fu particolarmente attiva, perché il vecchio Della Porta – come lo stesso Cesi non mancò di notare con disappunto – era più interessato a far entrare nell’Accademia esponenti della nobiltà napoletana, che a promuovere ricerche di carattere collegiale. L’unico Linceo napoletano che mantenne stretti rapporti di collaborazione con gli altri accademici, e in particolare con Galilei, fu Fabio Colonna.
Ricostruita – tra il 1609 e il 1610 – l’Accademia dopo la diaspora, Cesi, che aveva potuto disporre del proprio patrimonio, ascrisse nel 1611 due medici tedeschi: Johann Faber (1574-1629) di Bamberga e Johann Schreck (1576-1630) di Costanza. Quest’ultimo fu nell’Accademia dei Lincei il più convinto sostenitore (insieme a van Eck) della medicina paracelsiana.
Naturalista e medico, Faber svolse un ruolo di primo piano nella vita dell’Accademia (di cui divenne cancelliere), così come nella scienza e medicina romana. Subito dopo aver conseguito nel 1597 la laurea in medicina presso l’Università di Würzburg, Faber si trasferì a Roma, dove in breve tempo raggiunse posizioni di prestigio. Dopo aver collaborato con i medici e naturalisti Andrea Bacci e Andrea Cesalpino, divenne infatti chirurgo presso l’ospedale S. Spirito in Sassia, direttore dell’Orto botanico vaticano e professore di materia medica e lettore di anatomia presso lo Studium Urbis, dove il 20 novembre 1622 tenne una prolusione di filosofia naturale e chimica dedicata al fuoco e ai metalli (Napoli, Biblioteca Nazionale, ms. VIII.D.13). Esperto anatomista, nel 1624 eseguì – su richiesta del cardinale Francesco Barberini – la dissezione di un vitello nato con due teste, un evento che suscitò la curiosità di uomini di scienza, nobili e prelati romani. La carriera di Faber fu anche legata al suo ruolo di mediatore tra Roma e influenti membri dell’aristocrazia tedesca. Non meno importanti furono i rapporti di amicizia che lo legarono ai cardinali Cinzio Aldobrandini, Francesco Barberini, Scipione Borghese, Scipione Cobelluzzi. Collezionista di opere d’arte e di naturalia, allestì nella sua casa presso il Pantheon un museo di storia naturale; stabilì contatti con numerosi artisti, tra cui il napoletano Filippo Teodoro Liagno (1589-1629), il tedesco Adam Elsheimer (1578-1610), i fiamminghi Peter Paul Rubens (1577-1640) e Paul Brill (1554-1626). L’interesse di Faber e dei Lincei per le arti figurative fu un motivo dominante nella vita dell’Accademia, e non fu mai disgiunto dal lavoro scientifico: gli artisti con cui collaboravano nella produzione delle illustrazioni scientifiche dovevano essere abili e allo stesso tempo disposti ad accettare i consigli e le indicazioni del naturalista. L’immagine è infatti per i Lincei veicolo privilegiato per la trasmissione di conoscenze, in particolare quelle relative a oggetti rari e meravigliosi (Freedberg 2002).
A Napoli, nel 1608, Faber visitò gli stessi personaggi e ambienti visitati da Cesi qualche anno prima: Ferrante e Francesco Imperato, Della Porta, Stigliola e Colonna, nonché spezierie e collezioni naturalistiche. Abile medico e chimico, ma soprattutto studioso del mondo animale, Faber ricevette da Cesi l’incarico di dedicarsi, insieme a Schreck, alla redazione del cosiddetto Tesoro messicano (Rerum medicarum Novae Hispaniae thesaurus), che vide la luce integralmente solo nel 1651, circa vent’anni dopo la cessazione delle attività dei Lincei. Fu il frutto del lavoro collettivo dei Lincei: oltre ai due tedeschi, vi lavorarono Cesi, Colonna, Stelluti e Cassiano dal Pozzo.
La storia di quest’opera è piuttosto complessa: all’origine vi sono le indagini di storia naturale del Nuovo Mondo condotte tra il 1571 e il 1577 da Francisco Hernández, protomedico di Filippo II di Spagna. La raccolta d’immagini di Hernández fu affidata da Filippo II al medico napoletano Leonardo Antonio Recchi, con l’incarico di redigere un commento con le indicazioni degli usi terapeutici delle piante. Recchi portò con sé a Napoli una copia del manoscritto, che suscitò l’interesse di Della Porta e Colonna. Cesi acquistò una parte dei testi e delle illustrazioni e decise di prepararne un’edizione commentata. A Faber si deve un dettagliato commento alla sezione zoologica del Tesoro, che fu pubblicata autonomamente a Roma nel 1628, con il titolo Animalia mexicana […] (Guerrini, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, 2008). La pubblicazione del Tesoro, che assorbì ingenti energie e risorse, fu portata a termine solo grazie all’impegno di Stelluti.
Il 1611 fu un annus mirabilis per l’Accademia: prima di Faber e Schreck, il 25 aprile Cesi ascrisse Galilei, il cui lavoro scientifico trovò nei Lincei un attivo sostegno. Galilei svolse a sua volta un’azione di proselitismo, facendo associare all’Accademia suoi amici toscani: Filippo Salviati, Cosimo Ridolfi e Filippo Pandolfini. L’occasione dell’incontro del matematico pisano con Cesi fu il viaggio di Galilei a Roma della primavera 1611, in cui presentò il telescopio. Cesi organizzò l’incontro che si tenne a Porta San Pancrazio (al Gianicolo), e che fu dedicato alle ‘novità celesti’ e alla cosiddetta pietra di Bologna, che presentava un fenomeno di fosforescenza. All’incontro parteciparono teologi, matematici e naturalisti, tra cui il filosofo Antonio Persio (1542-1612), seguace delle dottrine di Bernardino Telesio (1509-1589).
Nel 1611 l’orientamento dei Lincei in fatto di cosmologia era ben più innovativo che nei primi anni di vita dell’Accademia; il principe, che aveva accolto con entusiasmo le scoperte di Galilei, scriveva a Stelluti il 30 aprile 1611:
Ogni serena sera vediamo le cose nuove del cielo, officio veramente da Lincei: Giove co’ suoi quattro e loro periodi, la luna montuosa, cavernosa, sinuosa, acquosa. Resta Venere cornuta e’l triplice suo Saturno, che di mattino devo vederli (cit. in Gabrieli 1996, p. 158).
Grazie allo studio dell’opera di Johannes Kepler e alle scoperte galileiane, le idee di Cesi in materia cosmologica erano mutate, ma anche secondo vie indipendenti da quelle percorse dallo scienziato pisano. Il principe accettò la teoria di Nicola Copernico auspicandone però una riforma che eliminasse eccentrici ed epicicli; rifiutò la teoria dell’incorruttibilità dei cieli e le sfere solide affermando la fluidità dei cieli; infine, a differenza di Galilei, aderì alla teoria kepleriana delle orbite ellittiche. Nel 1612 i Lincei, cui si era aggiunto il matematico Luca Valerio (1533-1618), furono impegnati nella revisione della Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari, con lo scopo di ottenerne l’imprimatur (Ricci, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, 2008, pp. 188-89).
L’opera, che nasce come risposta al gesuita tedesco Christoph Scheiner (1575-1650) a proposito della priorità delle osservazioni delle macchie e alla loro natura, tocca anche il tema dell’incorruttibilità dei cieli. Galilei vi sostiene esplicitamente il sistema copernicano confutando altresì la separazione aristotelica tra fisica terrestre e fisica celeste. Il ruolo dell’Accademia dei Lincei nella genesi e pubblicazione dell’opera è cospicuo e non si limita alla sua revisione: Cesi ne sostenne le spese di pubblicazione; Galilei affiancò al proprio nome il titolo di linceo e l’emblema della lince campeggia sul frontespizio; le tre lettere di cui si compone l’opera sono indirizzate a Marco Welser, influente banchiere di Augusta, nonché socio linceo. L’Istoria si apre con una dedica di Angelo de Filiis (fratello del defunto Anastasio) a Filippo Salviati linceo, cui fanno seguito tre brevi componimenti encomiastici a firma di Valerio, Faber e Stelluti. I legami dell’Accademia con Galilei e la causa copernicana sono strettissimi e sono ben noti a coloro che si opponevano al primo, cosicché nel 1615 la deposizione al Santo Uffizio del domenicano Tommaso Caccini accomuna i Lincei a Galilei (Fantoli 1993, p. 171).
Dopo il «salutifero editto» del 1616, Cesi scrisse un trattato sulla fluidità dei cieli in forma di lettera a Bellarmino (De caeli unitate […], 1618), dal quale ricevette una risposta poco incoraggiante per l’Accademia: il cardinale lo invitò a non occuparsi di temi su cui ben poco può far luce la scienza umana (Ricci, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, 2008, p. 192). Sempre nel 1618, Cesi associò all’Accademia due personaggi che svolsero un ruolo chiave nei rapporti tra i Lincei e la curia papale: Virginio Cesarini (1595-1624) e Giovan Battista Ciampoli (1590-1643). Il primo, membro di una famiglia di antica nobiltà, era in rapporti amichevoli con Bellarmino e con Maffeo Barberini. Ciampoli, che era stato discepolo di Galilei, aveva legami di familiarità con i Barberini e con i Ludovisi e divenne segretario dei brevi del papa. L’elezione al soglio pontificio di Maffeo Barberini con il nome di Urbano VIII (1623) suscitò grandi speranze nell’Accademia, che aveva stabilito saldi legami con la corte papale, grazie anche alla nomina di Cesarini a maestro di Camera di Gregorio XV e poi di Urbano VIII. Al 1622 data l’ascrizione all’Accademia di Cassiano dal Pozzo (1588-1657) e al 1623 quella del suo protettore, il cardinal nipote Francesco Barberini (1597-1679). Sempre nel 1623 Stelluti informò Galilei dei favorevoli sviluppi delle relazioni dell’Accademia con la corte barberiniana, che sembravano offrire nuove possibilità alle ricerche condotte dallo scienziato pisano e dall’Accademia:
La creatione poi del nuovo Pontefice ci ha tutti rallegrati, essendo di quel valore e bontà che V.S. sa benissimo, et fautore particolare dei letterati, onde siamo per havere un mecenate supremo. Ama assai il nostro S.r Principe e, come V. S. haverà inteso, ha subito dichiarato suo Maestro di Camera il nostro Sig.r D. Virginio Cesarini; e Mons.r Ciampoli non solo resta nel suo luogo di Secretario de’ Brevi de’ Principi, ma è fatto anco Cameriero secreto; et il Sig.r Cavalier dal Pozzo, pur nostro Linceo, servirà il nepote del Papa, quello che sarà Cardinale: di modo che habbiamo tre Accademici palatini, oltre molti altri amici. Preghiamo intanto il Signor Dio che conservi lungo tempo questo Pontefice, perché se ne spera un ottimo governo (cit. in Gabrieli 1996, p. 808).
A sua volta, Galilei definì l’elezione di papa Barberini «una mirabil congiuntura» (cit. in Gabrieli 1996, p. 817).
La stesura de Il Saggiatore (1623) – scritto in forma di lettera a Cesarini – fu seguita dai Lincei con un duplice impegno: sostenere gli argomenti di Galilei sulle comete e su temi di filosofia della natura, quali l’origine meccanica del calore e delle altre qualità sensibili, e promuovere l’Accademia presso la corte papale. Scritto in polemica contro il matematico gesuita Orazio Grassi, Il Saggiatore, nel cui frontespizio compaiono in alto le api barberiniane e in basso la lince, contiene una dedica – firmata dall’Accademia – a Urbano VIII.
L’attivo sostegno alle teorie galileiane non significò in nessun modo l’abbandono dell’originario interesse dell’Accademia per le ricerche di storia naturale. Accanto al lavoro di edizione del Tesoro messicano, i Lincei intrapresero osservazioni al microscopio, strumento ideato da Galilei (ne parla per la prima volta ne Il Saggiatore) e così denominato da Faber. Nel 1625 i Lincei danno alle stampe la Melissographia, un’incisione a opera di Matthias Greuter, raffigurante in tre diverse posizioni un’ape, così come i suoi arti osservati al microscopio da Stelluti. All’elegante foglio, che era stato pensato come omaggio a papa Barberini, fece seguito una seconda opera – anch’essa un omaggio al pontefice – l’Apiarium, in cui confluiscono indagini di storia naturale, osservazioni microscopiche ed erudizione. Anche qui l’iconografia gioca un ruolo tutt’altro che marginale: le immagini delle api sono volte a presentare dettagli anatomici osservati al microscopio e soprattutto a celebrare Urbano VIII, da cui gli accademici si aspettavano sostegno e protezione. Le speranze dei Lincei, come è noto, andarono deluse: la morte di Cesi nel 1630 e successivamente il processo e la condanna di Galilei sancirono di fatto la fine dell’Accademia. Monsignor Ciampoli, allievo e amico di Galilei, caduto in disgrazia, fu allontanato dalla curia e inviato nelle Marche, e fu grazie a Stelluti e a Cassiano se il patrimonio librario, i manoscritti e i disegni di Cesi furono salvati.
Stelluti pubblicherà nel 1637 il Trattato del legno fossile minerale – frutto delle ricerche condotte con Cesi in una foresta fossile presso Todi –, dove compaiono ancora l’emblema della lince e il titolo di linceo a fianco del nome dell’autore. Il breve trattato, con incisioni su rame a opera di Greuter in cui sono raffigurati non solo i reperti, ma anche il sito in cui sono stati rinvenuti, contiene uno studio dei fossili, chiamati dai Lincei metallofiti, per esprimerne la duplice natura di piante e metalli. Stelluti non manca di porre l’accento sull’importanza dello studio delle meraviglie, delle produzioni più rare della natura, riproponendo così temi cari all’Accademia fin dal suo nascere: l’interesse per i segreti e le produzioni straordinarie della natura, per l’osservazione delle regioni più lontane del cielo e di eventi eccezionali come novae e comete, nonché del mondo invisibile per mezzo del microscopio.
Creata a Firenze nel 1657 per volontà del cardinal Leopoldo de’ Medici (1617-1675) e di suo fratello il granduca di Toscana Ferdinando II (1610-1670), l’Accademia del Cimento è il frutto dell’insegnamento galileiano e del mecenatismo mediceo. I Medici avevano già conferito a Firenze e alla Toscana un ruolo di primo piano nella vita scientifica italiana, prima con il recupero dei testi scientifici antichi e poi soprattutto con le molteplici iniziative di Cosimo I, cui si deve l’impiego di architetti e matematici nella costruzione di porti e fortezze, nonché il potenziamento dell’insegnamento scientifico nello Studio pisano con la creazione dell’Orto botanico. Al 1563 risale la fondazione, su suggerimento di Giorgio Vasari, dell’Accademia delle arti e del disegno, istituzione finalizzata alla collaborazione tra gli artisti, ma anche luogo in cui dal 1569 si istituzionalizza lo studio delle matematiche, ovvero un corso di geometria descrittiva. Le lezioni furono tenute da matematici, tra i quali Ostilio Ricci (1540-1603), matematico di corte. Nel 1639 (con il sostegno economico del granduca Ferdinando II) è affiancato l’insegnamento «di Mechaniche, o d’altra Geometria prattica», affidato a Evangelista Torricelli (Wazbinski 1987, pp. 282-86, 494-95).
Non meno importante fu il sostegno dei Medici alla sperimentazione chimica e alla medicina paracelsiana, cui erano interessati don Antonio dei Medici, figlio di Francesco I e di Bianca Cappello, nonché Cosimo II e Cristina di Lorena (Galluzzi 1982). Le drammatiche vicende del processo e condanna di Galilei, «Matematico e Filosofo del Granduca di Toscana», costrinsero Ferdinando II e Leopoldo ad agire con cautela, conformandosi al decreto su Copernico emanato dalla Congregazione dell’Indice dei libri proibiti nel 1616 e concentrandosi sulle ricerche sperimentali, in chimica e in fisica. Ferdinando II mantenne vivo il legame con i discepoli di Galilei, nominando prima Torricelli e poi Vincenzo Viviani (1622-1703) «Matematico granducale». Ferdinando, e soprattutto Leopoldo, non si limitarono a organizzare le ricerche del gruppo di scienziati che si riuniva a corte, ma parteciparono direttamente all’organizzazione del Cimento e alle attività di sperimentazione. Leopoldo, avvalendosi anche dei consigli e mediazioni di Michelangelo Ricci (1619-1682), teologo e valente matematico, riuscì a evitare censure e conflitti con le autorità ecclesiastiche. Dell’Accademia fecero inizialmente parte Giovanni Alfonso Borelli, Francesco Redi, Viviani, Carlo Rinaldini (1615-1698), Antonio Uliva (1624-1668), Alessandro Marsili (1601-1670), Carlo Dati (1619-1676), Alessandro Segni (1633-1697), Candido del Buono (1618-1676).
Il motto dell’Accademia era «provando e riprovando», per sottolineare il carattere eminentemente sperimentale delle ricerche. La storiografia più recente ha chiarito che in realtà il Cimento non fu una vera e propria accademia scientifica, paragonabile alla Royal Society o all’Académie des sciences di Parigi, ma fu piuttosto un gruppo di scienziati che svolgeva ricerche alle dipendenze del principe Leopoldo e del granduca Ferdinando II, seguendoli dove soggiornassero: Palazzo Pitti, Livorno, Pisa, le ville di Artimino e di Poggio a Caiano. Anche le ricerche in campo medico dovevano piegarsi alle necessità del principe, che a Redi chiese di studiare i sali lassativi. I raffinatissimi strumenti del Cimento furono realizzati piuttosto per dar lustro alla corte che per essere adoperati a fini di ricerca. L’Accademia non ebbe mai uno statuto, né regole che ne definissero le modalità di ammissione; il nome stesso le fu dato molto tardi, quando le attività stavano terminando. Tra i contemporanei fu nota come «l’Accademia del principe Leopoldo», e molto raramente come Accademia del Cimento. L’attività sperimentale ebbe carattere occasionale e non seguì un progetto scientifico ben preciso; spesso si svolse in un clima di discordia e rivalità tra gli scienziati – tipico delle corti rinascimentali (Galluzzi 1981).
I risultati delle indagini sperimentali dedicate alla pressione dell’aria, alla termometria, ai passaggi di stato e all’acustica furono solo in parte pubblicati nei Saggi di naturali esperienze […], frutto del lavoro di Lorenzo Magalotti (1637-1712), che dal 1660 fu il segretario del Cimento. La redazione dei Saggi durò molti anni, in quanto il testo fu più volte rielaborato per ragioni linguistiche e soprattutto per evitare di incorrere nella censura ecclesiastica. Videro la luce solo nel 1667, quando le attività del Cimento ormai stavano volgendo al termine. L’immagine pubblica fu dunque profondamente segnata da un’operazione di autocensura, cosicché dall’opera a stampa scomparve ogni riferimento a ricerche o a teorie che potessero costituire motivo di contrasto con l’autorità ecclesiastica – e non solo l’eliocentrismo, ma anche la teoria atomistica della materia. Sfortunatamente, malgrado l’attesa e l’interesse che l’opera del Cimento aveva destato, l’impatto dei Saggi sulla comunità scientifica europea fu limitato, a causa del ritardo con cui essi videro la luce.
L’opera uscì alcuni anni dopo la pubblicazione degli esperimenti di Robert Boyle (1627-1691) eseguiti con la pompa pneumatica (1660, 1662) – esperimenti che determinarono una svolta nelle indagini sull’aria e sulla respirazione. Dalla Royal Society non provenne nessun entusiasmo per il volume del Cimento: il suo segretario Henry Oldenburg notò che «there is nothing new in it» (Knowles Middleton 1971, p. 335). I Saggi offrono tuttavia un’immagine parziale del lavoro degli accademici: anche l’opera di Borelli, di gran lunga la personalità scientifica di maggior rilievo del sodalizio, vi è solo in minima parte rappresentata. Borelli fu da subito critico nei confronti di un’accademia che ignorava le principali innovazioni teoriche introdotte da Galilei e non si pronunciava su questioni chiave come la matematizzazione della fisica o la struttura della materia. Tuttavia, grazie all’impegno di Leopoldo, Borelli riuscì a ottenere l’autorizzazione a pubblicare nel 1666 le Theoricae mediceorum planetarum […], opera di meccanica celeste che presupponeva l’eliocentrismo, ma che evitava di presentare la teoria copernicana come la vera costituzione dell’universo.
Anche le vicende relative alla forma di Saturno furono segnate da esigenze di cautela e da autocensura: nel 1659 Christiaan Huygens aveva dedicato a Leopoldo il Systema Saturnium, in cui compare per la prima volta la descrizione dell’anello di Saturno. Leopoldo stimolò le indagini su Saturno tra gli accademici del Cimento, ma gli esiti delle ricerche non furono inclusi nei Saggi di naturali esperienze: l’adesione degli accademici alle teorie di Huygens, astronomo copernicano, fu forse il motivo per cui nell’opera a stampa non rimase traccia di tali ricerche.
Parallelamente all’Accademia del Cimento, fu attiva a Pisa una sorta di sua succursale, un gruppo informale di medici e naturalisti legati a Borelli, che includeva Carlo Fracassati (1630-1672), Marcello Malpighi e Lorenzo Bellini (1643-1703), i quali svolsero indagini sul sangue, sulle ghiandole e sui polmoni. Dal 1666 si era unito agli scienziati toscani il danese Niccolò Stenone (1638-1686), che fu medico di corte e svolse indagini anatomiche sui muscoli, così come originali ricerche di storia naturale sulle cosiddette glossopetrae, dimostrando che si trattava di fossili di denti di squalo. Stenone, che nel 1667 si era convertito al cattolicesimo, dedicò a Ferdinando II il De solido intra solidum naturaliter contento dissertationis prodromus (1669), uno dei principali contributi allo studio della Terra, in cui propose una teoria degli strati geologici.
Sorta in un contesto in cui le ricerche mediche, naturalistiche e chimiche fiorivano già da quasi un secolo, la napoletana Accademia degli Investiganti si caratterizzò per chiare e innovative prese di posizione in ambito medico e filosofico. Fu più un gruppo di medici e scienziati animati da un comune disegno scientifico e culturale – progetto da realizzare nel vivo della società partenopea –, che vera e propria accademia. Non ebbe infatti un’organizzazione stabile, né uno statuto o regole di ammissione, e i suoi membri non presero un nome accademico.
L’Accademia – le cui attività hanno inizio nell’autunno del 1663 – è il frutto di più di un decennio di studi e iniziative di rinnovamento scientifico condotte da Tommaso Cornelio (1614-1684), allievo di Marco Aurelio Severino. Ben informato sulle ricerche intraprese nei centri più avanzati della scienza europea, Cornelio, che dal 1653 era professore di matematica e poi di medicina teorica all’Università di Napoli, fu autore di un Discorso dell’eclissi, letto nell’Accademia degli Oziosi, a Napoli, nel 1651 – discorso nel quale adottava teorie galileiane e cartesiane. La nascita dell’Accademia è dovuta all’impegno congiunto di Cornelio e di Leonardo di Capua, che con il primo condivise l’adesione alle innovative concezioni mediche e scientifiche di Jan Baptista van Helmont, Pierre Gassendi, William Harvey, Thomas Willis e Boyle, legando un’originale elaborazione teorica a indagini sperimentali. Il protettore dell’Accademia fu il marchese d’Arena, Andrea Conclubet, interessato a promuovere il rinnovamento della scienza secondo il modello della Royal Society di Londra.
Gli Investiganti furono in contatto con vari scienziati inglesi, quali John Finch (1626-1682), Thomas Baines (1622-1681), nonché John Ray (1627-1705), Francis Willughby (1635-1672) e Philipp Skippon (1641-1691), che visitarono l’Accademia (Fisch 1953, pp. 527-28). Altri partecipanti all’esperienza investigante furono Sebastiano Bartoli (1629-1676), medico seguace di van Helmont; Francesco d’Andrea (1625-1698), giurista impegnato in un’azione di rinnovamento scientifico; il vescovo Juan Caramuel Lobkowitz (1606-1682), sostenitore di idee filosofiche antiaristoteliche e dotato di profonde conoscenze di matematica e di tecnica delle fortificazioni. Si associarono inoltre Giovanni Battista Capucci (17° sec.), avversario della medicina galenica e convinto helmontiano, e Carlo Buragna (1634-1679), matematico. Se predominanti furono gli interessi dell’Accademia per la medicina e, soprattutto, per la chimica (era nota anche come Accademia chimica), studiata nei suoi aspetti sia teorici sia pratici, non mancarono esperimenti e discussioni intorno a temi di fisica, quali la pressione atmosferica e la capillarità.
La breve e tormentata vita dell’Accademia (varie volte chiusa e poi riattivata) fu segnata da conflitti con le autorità mediche napoletane, che accusavano i novatores di sovvertire la medicina e di introdurre i pericolosi farmaci chimici. Con i medici galenici, e in particolare con Carlo Pignataro, gli Investiganti furono impegnati nel 1663 in una disputa intorno all’origine di un’epidemia di febbri nei pressi del lago di Agnano. Particolarmente vivace fu il periodo compreso tra il 1666 e il 1668: il giovane Lucantonio Porzio (1639-1723) si era unito al gruppo degli Investiganti, mentre Borelli, giunto a Napoli, ripeteva gli esperimenti del Cimento e dedicò al marchese d’Arena il suo trattato di meccanica, il De motionibus naturalibus a gravitate pendentibus (1670).
I sostenitori della medicina tradizionale, guidati dal protomedico del regno Pignataro, formarono l’Accademia dei Discordanti, in aperta opposizione agli Investiganti. I conflitti tra le due accademie furono durissimi e legati anche a rivalità professionali in medicina, cosicché nel 1668 il viceré proibì le riunioni di ambedue le accademie. L’attività degli Investiganti tuttavia non cessò: Cornelio continuò infatti a lavorare su temi di fisica e astronomia. Gli attacchi all’Accademia degli Investiganti andarono però ben oltre l’ambito medico-scientifico, per sfociare in un’accusa di empietà basata sull’adesione al meccanicismo cartesiano. Nel 1670 l’Accademia aveva ormai cessato di esistere e vari suoi membri, tra cui Cornelio, abbandonarono la città. Le attività di alcuni Investiganti continuarono, ma non l’Accademia. Un duro colpo fu poi inferto al rinnovamento della vita scientifica e culturale partenopea dal processo contro i sostenitori delle teorie atomistiche, il cosiddetto processo agli ateisti, che durò dal 1688 al 1697 e portò a incarcerazioni, confische di beni e abiure.
L’arrivo a Roma nel 1655 dell’ex regina Cristina di Svezia (1626-1689), che era stata introdotta alla filosofia e alla scienza da René Descartes (1596-1650), aveva abdicato nel 1654 e si era convertita al cattolicesimo, diede nuovo impulso al dibattito filosofico e scientifico. Nella sua sede a Palazzo Farnese prima e poi a Palazzo Riario, tenne una corte e protesse numerosi uomini di scienza, tra cui Borelli e di Capua, dando vita a incontri di carattere filosofico e scientifico, nonché a un’accademia, le cui attività dipendevano dall’incerto stato delle finanze della regina.
Nel periodo compreso tra il 1660 e il 1680 si ebbe a Roma una proliferazione di gruppi informali o accademie con programmi scientifici – figura chiave nella scienza romana era allora il già menzionato Michelangelo Ricci, che intratteneva relazioni con numerosi scienziati e accademie europee. Oltre all’Accademia reale di Cristina, va ricordata l’Accademia fisico-matematica di Giovanni Giustino Ciampini (1633-1698) che, insieme a Ricci e Francesco Nazzari (1634-1714), aveva dato vita al «Giornale de’ letterati», ispirato al «Journal des Sçavans» e alle «Philosophical transactions» della Royal Society. Istituita a Roma nel 1677, l’Accademia di Ciampini trattava invece di matematiche, medicina e meccanica; vi parteciparono, tra gli altri, Borelli, Porzio, il costruttore di telescopi Giuseppe Campani (1635-1715) e il giovane astronomo Francesco Bianchini (1662-1729), mentre Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) la visitò durante il suo soggiorno romano del 1689.
A Bologna l’iniziativa di promuovere un rinnovamento della vita scientifica con l’istituzione di un’accademia fu intrapresa da Antonio Felice Marsili (1651-1710), filosofo e naturalista, nonché fratello di Luigi Ferdinando, che fu ideatore dell’Istituto delle scienze di Bologna. Marsili, che aveva beneficiato dell’insegnamento scientifico di Malpighi e di Geminiano Montanari, intraprese la carriera ecclesiastica e fu nominato arcidiacono della Cattedrale, carica cui era connessa quella di cancelliere maggiore dello Studio bolognese. Nel 1687 diede vita a due accademie, una dedicata all’erudizione sacra e l’altra alla filosofia sperimentale. Tra coloro che parteciparono all’Accademia di Marsili va ricordato Domenico Guglielmini, seguace delle dottrine atomistiche, che in Accademia tenne nel 1688 un discorso dal titolo Riflessioni filosofiche dedotte dalle figure de’ sali, pubblicato poi nel «Giornale de’ letterati» (1688, 10, pp. 231-61).
Anche se ebbero vita breve e i loro membri furono costretti ad adottare forme di autocensura e dissimulazione (assai comuni tra gli intellettuali italiani del Seicento), le numerose accademie svolsero un ruolo di primo piano nel promuovere ricerche originali in numerosi ambiti della scienza, favorendo indagini sperimentali e collaborazione tra scienziati. Proprio perché gran parte delle accademie italiane ebbe origine e si sviluppò all’interno del complesso sistema del patronage, la loro esistenza e spesso anche la loro attività furono inevitabilmente condizionate dagli interessi e dalle alterne vicende politiche o finanziarie dei loro protettori.
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