Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I tentativi di applicare la genetica alla medicina risalgono agli anni immediatamente successivi la riscoperta delle leggi di Mendel. Mentre i clinici capiscono immediatamente che le malattie ereditarie a trasmissione sono un numero ridotto e che l’ereditarietà dei tratti patologici complessi risulta difficilmente scomponibile, durante i primi quattro decenni del Novecento una parte dei genetisti applica in chiave eugenica le dottrine mendeliane. Con l’avvento delle tecniche e dei concetti della genetica biochimica e molecolare sono state messe a punto spiegazioni più adeguate delle basi ereditarie delle malattie e test per rilevare indirettamente o direttamente le variazioni associate a tratti patologici. Inoltre sono state sviluppate tecniche di terapia genica per correggere le anomalie genetiche.
Un nuovo approccio alle malattie genetiche
Di genetica medica in senso proprio si può parlare solo dopo la seconda guerra mondiale, quando una forma di “eugenica riformata” si sviluppa sulla base di un approccio esclusivamente mendeliano allo studio della trasmissione delle malattie ereditarie, che rigetta le teorie della degenerazione. Le teorie della degenerazione, reinterpretate in chiave darwiniana, spiegano le malattie a ricorrenza familiare, insensibili all’ambiente, in termini di mutazioni del germe materno o paterno, responsabili della comparsa di nuovi caratteri che si sarebbero trasmessi identici nelle generazioni. Queste idee alimentano l’impostazione razzista delle applicazioni mediche della genetica diffusesi nei primi decenni del XX secolo, contemporaneamente, in Germania, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti.
Agli inizi del secolo le malattie a trasmissione mendeliana riguardano un numero molto ristretto di pazienti, in rapporto alle grandi patologie caratterizzate da un’ereditarietà complessa, come sono in questi anni di fatto ritenute le “eredointossicazioni” (alcolismo) o le “eredoinfezioni” (tubercolosi e sifilide), le malattie mentali (epilessia e psicosi) e le idiozie. In tal senso l’interesse medico autentico nei riguardi dell’ereditarietà mendeliana non si inscrive in nessuna delle due grandi correnti in seno al movimento eugenico: quella biometrista di Francis Galton che considera inapplicabile il mendelismo ai tratti continui e quindi anche alle caratteristiche degli animali superiori, e quella statunitense di Davenport, che ritiene che tutti i tratti fisiologici e patologici si trasmettessero secondo le leggi di Mendel (le discordanze venivano spiegate con la complessità dei meccanismi sottostanti l’espressione dei tratti)
Due testi di riferimento all’inizio del Novecento, il Traité de maladies familiales et congenitales del 1907 di Eugène Apert e il capitolo Heredity of the diseases of the children del trattato di pediatria di Archibald Garrod e Frederick Batten del 1913, mettono l’accento sulle difficoltà di studiare la trasmissione mendeliana nella specie umana, per le piccole famiglie e l’assenza di unioni endogamiche. I medici studiano il malato ospedalizzato e cercano di ricostruire la sua storia familiare, con enormi difficoltà e risultati variabili. Niente a che vedere con i modelli matematici usati dai biometristi per trattare le tare familiari nelle popolazioni a partire da dati di psicologia sociale, né con gli studi su linee animali condotti in laboratorio da Davenport. Nel momento in cui la medicina assume l’eredità mendeliana, lo statuto eziologico che gli attribuisce è quello di una causa non specifica della malattia, ovvero di tratto secondario in un quadro clinico nel quale non arriva a definire la malattia. Se l’emofilia e la miopatia progressiva primitiva vengono definite malattie a ricorrenza familiare, il tratto ereditario è riconosciuto come incostante. Nel 1930 Lewellys Baker distingue due forme cliniche diverse di miopatia progressiva e le considera due malattie diverse, una a trasmissione dominante e una recessiva.
Dopo la seconda guerra mondiale la genetica mendeliana si impone definitivamente e le sue applicazioni mediche hanno come obiettivo di informare le famiglie per prevenire la comparsa di malattie di cui sia stata accertata la natura ereditaria. Per differenziare la nuova impostazione medica dalle precedenti degenerazioni eugeniche viene enfatizzata già dalla fine degli anni Quaranta la dimensione comunicativa della consulenza genetica: lo scopo della consulenza genetica diventa quello di mettere a disposizione dei familiari le informazioni nel modo più completo e comprensibile, evitando di indirizzare le scelte dei pazienti. Nel 1948 viene fondata la American Society of Human Genetics, nuova denominazione dell’American Eugenics Society. Non si tratta di una associazione di medici, ma di genetisti con interesse per le popolazioni e per i risvolti statistici delle malattie monogeniche. Il primo congresso annuale dell’ASHG si tiene nel 1948 e primi genetisti medici negli USA diventeranno rapidamente delle figure di riferimento internazionale: James Neel, Victor McKusick, Arno Motulsky, Alexander Bearn, Kurt Hirschorne Barton Childs.
Nuove tecniche di indagine delle anomalie genetiche
A seguito della scoperta, nel 1956, che il numero dei cromosomi umani è 46, i pediatri cominciano a descrivere una serie di anomalie cromosomiche nei bambini. Nel 1959 Jerôme Lejeune scopre un cromosoma soprannumerario nella sindrome di Down. Nello stesso anno viene descritta anche l’anomalia dei cromosomi sessuali nelle sindromi di Turner e Klinefelter. Nel 1960 si scoprono altri due tipi di anomalie cromosomiche, il mosaicismo e due o più linee cellulari cromosomicamente differenti (per esempio XY/X0 nello pseudoermafroditismo maschile). Nel 1969-1971 vengono messi a punto i metodi di bandeggio (fluorescent banding e G-banding), che attraverso la colorazione di determinate aree del DNA consentono di identificare in maniera univoca un determinato cromosoma e quindi di descrivere più accuratamente le eventuali anomalie, in particolare dei cambiamenti strutturali. Si verifica così che quasi tutte le cellule tumorali portano delle anomalie cromosomiche. La prima anomalia a essere scoperta nei tumori è il cromosoma Philadelphia nel 1960, osservato nei casi di leucemia mieloide cronica. Nel 1973 Janet Rowley (1925-) dimostra che l’anomalia è dovuta a traslocazione tra i bracci lunghi dei cromosomi 9 e 22, che portano a un’attivazione incontrollata di un gene responsabile della divisione cellulare, con conseguente crescita incontrollata delle cellule mieloidi.
Nel 1978 viene quindi messo a punto il metodo di bandeggio ad alta risoluzione che consente lo studio delle microdelezioni nei tumori solidi (Wilms e retinoblastoma). Nel 1986 viene messa a punto la tecnica fluorescent in situ hybridization (FISH), attraverso cui speciali coppie di frammenti di DNA (sonde) vengono usate su cellule appena raccolte per stabilire il numero dei cromosomi presenti, e, nel 1992, la comparative genomic hybridization (CGH), che, basandosi sulla competizione che avviene tra DNA diversi (normale e da testare), consente una caratterizzazione ancor più definita delle anomalie cromosomiche.
I primi difetti metabolici ereditari di cui si scopre il deficit enzimatico specifico sono stati il deficit di G6PD o favismo, che si manifesta con la rottura delle membrane dei globuli rossi (1952) e la fenilchetonuria, malattia metabolica caratterizzata da ritardo mentale (1953). Lo sviluppo di nuovi metodi elettroforetici e cromatografici ha consentito di caratterizzare diversi deficit enzimatici a livello di amminoacidi e del metabolismo degli acidi organici (incluse le malattie lisosomali). Nel 1964 si definisce la tecnica di coltivazione selettiva di cellule che con il test di complementazione consente di fare numerose scoperte di difetti enzimatici.
Con l’introduzione del test di Guthrie, atto a diagnosticare la fenilchetunuria, e l’applicazione di una specifica terapia basata su manipolazione dietetica (dimostrata nel 1956 da Hans Nickel) diventa possibile uno screening per rilevare la malattia prima che i soggetti muoiano o sviluppino un grave ritardo mentale. Una volta ottenute terapie efficaci, è stato possibile fare diagnosi precoci tramite metodi di screening anche per altre gravi malattie genetiche come l’anemia falciforme (malattia genetica del sangue) e la fibrosi cistica (che si manifesta con la sovrapproduzione di muci da parte di particolari ghiandole); mentre, nel caso di molte malattie non trattabili, le coppie che hanno già un figlio malato possono richiedere la diagnosi prenatale. A seguito della scoperta da parte di John O’Brien nel 1969 del difetto enzimatico che nella malattia di Tay-Sachs porta alla degradazione di importanti componenti delle cellule nervose, e con lo sviluppo di un semplice test sul sangue che consente di identificare i portatori della malattia, Michael Kaback concepisce nella prima metà degli anni Settanta un programma di screening di popolazione per gli eterozigoti tra gli ebrei ashkenaziti – cioè gli ebrei dell’Europa nordorientale – di modo che le coppie in cui entrambi risultano portatori possano consapevolmente valutare se praticare l’aborto selettivo decidendo di dare alla luce solo bambini sani. Questo ha consentito di ridurre di oltre il 90 percento l’incidenza della malattia di Tay-Sachs nella popolazione di ebrei in USA, Canada e Israele, tanto che oggi è più frequente tra i non ebrei. Un programma analogo è stato promosso da Antonio Cao in Sardegna a partire dalla fine degli anni Settanta per la talassemia, malattia caratterizzata da un difetto di sintesi dell’emoglobina. Nell’arco di poco più di un decennio la nascita di bambini talassemici si è ridotta a poche unità ogni anno, e il programma è stato quindi esteso ad altri Paesi del Mediterraneo e del sud-est asiatico.
Genetica delle risposte immunitarie e diagnosi prenatale
Anche le conoscenze sulla genetica delle risposte immunitarie trovano rilevanti applicazioni in medicina nel corso del Novecento. Dopo gli studi sui gruppi sanguigni, seguiti alla scoperta dei gruppi A-B-0 nel 1901 da parte di Karl Landsteiner (1868-1943), nel 1940 Philip Levine e Alexander Weiner descrivono il sistema Rh, e nel 1941 Levine scopre che l’eritroblastosi fetale (anemia emolitica del feto) è dovuta a un’incompatibilità Rh tra madre e feto.
A partire degli inizi degli anni Cinquanta, in virtù del fatto che la disponibilità di sulfamidici e antibiotici consente anche a bambini con gravi deficit del sistema immunitario di sopravvivere per qualche tempo, vengono scoperte varie disfunzioni genetiche dell’immunità, come l’agammaglobulinemia legata al sesso, nonché un gran numero di difetti che producono immunodeficienze combinate gravi (SCID).
La diagnosi genetica prenatale è stata proposta nel 1956 attraverso l’analisi della cromatina sessuale negli amniociti, le cellule presenti nel liquido amniotico. Nel 1966 vengono coltivati gli amniociti ottenuti per amniocentesi, consentendo a molte coppie di portatori di tentare la gravidanza, abortendo selettivamente i feti malati. Il fluido amniotico può essere analizzato anche a livello di costituenti biochimici (alfa-fetoproteine che consentono di sospettare difetti del tubo neurale). La diagnosi prenatale mediante l’analisi dei villi coriali (frammenti di tessuto che diventerà placenta) a 9-11 settimane, viene proposto nel 1968, mentre il primo successo nella determinazione del sesso fetale è ottenuto nel 1975. Nel 1990 è messa a punto la tecnica della diagnosi genetica preimpianto, che si effettua sull’embrione creato in vitro, allo stadio di morula, prelevando una o due cellule che vengono analizzate per stabilire se sussistano anomalie cromosomiche o per ricercare specifiche traslocazioni o mutazioni. Nel 2002 è stato inventato il metodo di analisi del corpo polare dell’uovo; mentre sono del 2003 i primi risultati positivi nel rilevamento di cellule fetali circolanti nel sangue materno.
Verso una terapia genica: tecniche e questioni morali
Con l’avvento delle tecniche dell’ingegneria genetica è diventato possibile mappare e clonare i geni, in particolare le varianti responsabili delle malattie. Nel 1987 è stato clonato il gene per la distrofia muscolare tipo Duchenne e nel 1989 quello della fibrosi cistica.
I primi tentativi di terapia genica, ovvero di correggere un difetto genetico, risalgono al 1980, quando Martin Cline, all’Università della California a Los Angeles effettua un trasferimento di DNA ricombinante nelle cellule del midollo osseo di due pazienti senza l’autorizzazione dell’International Review Board dell’università e in contrasto con le linee guida sulla terapia genica del National Institute of Health. Il primo trattamento di terapia genica approvato è stato effettuato nel 1990 da French Anderson negli USA su una bambina di quattro anni Ashanti De Silva affetta da una forma grave di SCID, il deficit di adenosina deaminasi (ADA). I pazienti che mancando dell’enzima ADA, indispensabile per la maturazione dei linfociti, hanno un sistema immunitario indebolito e debbono assumere per tutta la vita un farmaco molto costoso chiamato PEGADA. Il deficit di ADA viene approvato per la terapia genica in quanto il deficit è a livello di un singolo gene, regolato quindi in modo semplice. Nel primo trattamento che ha avuto successo, i medici hanno inserito globuli bianchi geneticamente modificati nel corpo della paziente per rafforzarne il sistema immunitario. La guarigione non è stata completa, ma la bambina deve assumere solo settimanalmente una dose moderata di farmaco.
Nel 1998 Jeff Isner, al Saint Elisabeth Hospital di Boston, dimostra che con un’iniezione intramuscolare del gene che esprime il fattore di crescita del tessuto vascolare endoteliale (VEGF) è possibile recuperare i tessuti in necrosi degenerati per ischemia degli arti. Diversi pazienti sottoposti alla sperimentazione clinica in fase I, grazie a questa terapia genica, hanno potuto evitare l’amputazione dell’arto colpito da ischemia. La prima cura completa di una malattia mediante terapia genica è stata ottenuta nel 2000 da un’équipe francese diretta da Alain Fisher, che ha guarito 10 bambini affetti da immunodeficienza grave combinata (X-SCID), conosciuta anche come “sindrome dei bambini nelle bolle”. Per il trattamento è stato utilizzato un retrovirus per far giungere nelle cellule dei pazienti il gene sano, che avrebbe dovuto curarli ripristinando il sistema immunitario. I medici hanno prelevato il midollo osseo dei pazienti, coltivato in provetta le cellule staminali ematopoietiche e trasferito una copia normale del gene difettoso, inserito in un retrovirus che lo ha trasportato nelle cellule e ha permesso il suo inserimento nel DNA. Quindi hanno ritrasfuso le cellule risanate nei bambini. 10 degli 11 bambini trattati hanno risposto bene alla terapia, perché il loro sistema immunitario ha iniziato a funzionare. Ma i più piccoli del gruppo – i due che avevano ricevuto le dosi più alte di cellule modificate geneticamente e che avevano risposto meglio al trattamento – si sono ammalati di leucemia. Probabilmente il retrovirus si è inserito in prossimità di un oncogene collegato alla leucemia infantile: un’eventualità, questa, che la teoria aveva previsto, ma che secondo le statistiche poteva verificarsi soltanto una volta su 1 milione.
Nel 1999 si verifica un’ulteriore sconfitta delle terapie geniche con la morte del diciottenne Jesse Gelsinger. Jesse soffriva di deficit di ornitina transcarbossilasi, una malattia del fegato che determina un avvelenamento da elevati livelli di ammoniaca nel corpo. Sottopostosi alla sperimentazione di una terapia genica per questa malattia, il paziente ha manifestato una grave risposta immunitaria contro l’adenovirus usato come vettore che lo ha portato alla morte. In conseguenza di questi episodi diversi trial clinici sono stati sospesi e la terapia genica ha registrato una battuta d’arresto.
La terapia genica può essere effettuata a livello della linea somatica, come nel caso di Ashanti, o a livello della linea germinale. Nella terapia genica a livello della linea somatica le modificazioni genetiche introdotte nel corpo per curare la malattia non vengono trasmesse alla progenie, mentre nel secondo caso sì. Queste modificazioni possono essere effettuate ex vivo (cioè fuori dal corpo, nel senso che le cellule del paziente vengono modificate geneticamente all’esterno del corpo e quindi vengono reintrodotte) sia in vivo cioè modificando le cellule del paziente direttamente nel corpo; in tal caso si utilizzano dei vettori, in genere virus, che introdotti nel corpo riconoscono le cellule-bersaglio all’interno delle quali va introdotto del materiale genetico per correggere il difetto.
Ci sono molte riserve morali per quanto riguarda la terapia genica effettuata a livello della linea germinale, per il fatto che si introduce una modificazione del patrimonio genetico che sarà ereditato dai discendenti. Tuttavia un tipo di trasferimento genetico a livello germinale viene effettuato dalla fine degli anni Novanta con il trapianto citoplasmatico negli oociti: in pazienti che per varie patologie non sviluppano oociti sani viene trasferito dell’ooplasma prelevato da oociti sani. In tal caso l’ooplasma trasferito contiene del DNA mitocondriale del donatore che entra nella linea germinale del paziente.
Va aggiunto, inoltre, che non ha molto senso essere moralmente contrari in assoluto alla terapia genica a livello germinale, perché vi sono gravi malattie genetiche, come la corea di Huntington, un’affezione ereditaria degenerativa del sistema nervoso, la cui eliminazione dal patrimonio genetico umano sarebbe un bene anche per le generazioni future.