Le armi contro Ebola
Un tasso di mortalità altissimo per un virus che minaccia seriamente il mondo intero: la ricerca scientifica e la sperimentazione di terapie efficaci sono partite quando ormai l’epidemia era fuori controllo. Ora le speranze si appuntano su anticorpi monoclonali e su un vaccino ideato e prodotto in Italia.
L’epidemia di Ebola del 2014 può essere considerata senza precedenti per diversi motivi. In un anno ha mietuto più vittime di quante il virus non ne abbia fatte nei 40 anni precedenti. Per la prima volta l’epidemia ha investito l’Africa occidentale invece che centrale, contagiando anche la baraccopoli di una grande città (West Point, a Monrovia), anziché restare confinata in qualche sperduta area rurale. Ha colpito duramente Guinea, Liberia e Sierra Leone, minacciando la Nigeria, fino a essere dichiarata da OMS e Nazioni Unite un’emergenza sanitaria internazionale e un pericolo per la pace. A settembre 2014 gli Stati Uniti hanno deciso lo stanziamento di 750 milioni di dollari e l’invio di 3000 militari, una mossa mai fatta prima per una malattia infettiva.
Fra tanti primati, l’incubo virale dell’anno potrebbe assicurarsi anche un altro titolo: quello di ultima epidemia di Ebola della storia scoppiata in assenza di farmaci e vaccini di documentata efficacia. La prossima volta probabilmente disporremo di nuove armi per contrastarne l’avanzata, oltre alle classiche misure di sorveglianza e di isolamento dei malati, a cui gli specialisti di salute pubblica si sono sempre affidati e che questa volta hanno clamorosamente fallito.
Mortalità altissima, sintomatologia violenta, origine misteriosa.
Questo virus ci ha sempre spaventato, ma prima di quest’anno ci aveva abituato a focolai intermittenti e di dimensioni ridotte. Rimaneva silente per lunghi periodi nella foresta, forse annidandosi nei pipistrelli. Compariva all’improvviso in un villaggio, seminando la morte. Poi, quando l’epidemia veniva circoscritta e domata, il virus tornava a nascondersi. Finché Ebola si è comportata così la ricerca di una cura ha proceduto lentamente, intralciata dalla scarsità di fondi pubblici e dal disinteresse dei soggetti privati. Con l’epidemia del 2014 lo scenario è cambiato. Il virus è riuscito a circolare indisturbato per mesi, senza essere riconosciuto, in paesi provati dai conflitti, con sistemi sanitari impreparati e una popolazione povera ma molto più mobile che in passato. Neppure la comunità internazionale ha reagito in modo tempestivo, scaricando a lungo la gestione dell’emergenza sulle spalle di Medici senza frontiere.
Prima è stato consentito al virus di correre, dunque, poi finalmente è stata impressa un’accelerazione alla ricerca scientifica. Il 12 agosto l’OMS ha annunciato il suo benestare alla somministrazione controllata di terapie e vaccini sperimentali, riconoscendo l’impossibilità di organizzare delle normali sperimentazioni cliniche nel mezzo della crisi.
Il farmaco più promettente sembra lo ZMapp, un cocktail di 3 proteine immunitarie (anticorpi monoclonali) ideato dalla company americana MAP Pharmaceuticals e prodotto, grazie a finanziamenti del governo americano, in piante di tabacco geneticamente modificate.
Le poche dosi disponibili sono state somministrate a 7 persone contagiate ma, avendo applicato anche altri trattamenti, i medici ritengono che la sua efficacia sull’uomo sia ancora da dimostrare.
TKM-Ebola invece è un farmaco prodotto dalla società canadese Tekmira pharmaceuticals, che silenzia i messaggi cellulari necessari per fabbricare le proteine virali (Rna-interferenza). Gli specialisti valutano l’opportunità di usare farmaci originariamente messi a punto per altre malattie (antivirali, interferone, statine), mentre le trasfusioni di sangue di persone guarite sono una vecchia opzione ritenuta ancora utile. In arrivo ci sono anche nuovi test diagnostici, uno dei quali sviluppato dal Dipartimento della difesa statunitense. Il primo vaccino avviato alla sperimentazione umana – in collaborazione con i National institutes of health in America e con il Wellcome Trust in Gran Bretagna – è stato ideato in Italia, dove viene anche prodotto. Messo a punto dalla compagnia biotech Okairos, è di proprietà dell’industria farmaceutica GlaxoSmithKline e ha superato brillantemente i test sulle scimmie.
Si tratta di un vettore (un adenovirus che infetta gli scimpanzé) in cui sono state inserite delle proteine di superficie di Ebola, in modo che non sia infettivo ma possa stimolare ugualmente il sistema immunitario.
Un altro candidato vaccino è stato progettato dall’Agenzia per la sanità pubblica del Canada e sviluppato dall’americana NewLink Genetics. Anche questo usa un cavallo di Troia (il virus della stomatite vescicolare) equipaggiato con proteine di superficie di Ebola. Il problema è che servono mesi sia per produrre le quantità necessarie dei potenziali trattamenti sia per capire se e quanto possano funzionare nell’uomo. Troppo poco e troppo tardi, hanno titolato molti giornali.
Comunque abbastanza per sperare di iniziare presto a proteggere almeno medici e infermieri, che nel 2014 hanno rappresentato l’8% dei contagiati, e magari anche per modificare il corso della prossima epidemia.
Identikit del virus
È un virus della famiglia Filoviridae, così denominato perché isolato per la prima volta nel 1976 presso il fiume Ebola (Repubblica democratica del Congo). Si tratta di un virus a RNA che causa epidemie di febbre emorragica con elevata mortalità (circa del 70%). Si contano 5 ceppi differenti, classificati in base alla loro origine geografica: Bundibugyo, Costa d’Avorio, Reston (sede del laboratorio che ha isolato il ceppo), Sudan e Zaire. I ceppi Bundibugyo, Sudan e Zaire sono i più virulenti perché provocano febbri emorragiche potenzialmente letali, mentre le specie Costa d’Avorio e Reston sono meno pericolose. Studi recenti effettuati da ricercatori dell’Istituto Max Planck di Lipsia attribuiscono ai pipistrelli della frutta che vivono nella foresta pluviale il ruolo di portatori sani della malattia. Successivamente, essa si trasmetterebbe ad altri mammiferi quali scimpanzé, gorilla, scimmie e antilopi, per arrivare, attraverso la catena alimentare, fino all’uomo. È accertato che la trasmissione fra esseri umani avviene in seguito al contatto con sangue, secrezioni e altri fluidi biologici infetti ed è favorita in generale da condizioni igienico-sanitarie insufficienti, ma anche, nello specifico, da particolari pratiche della tradizione popolare africana, quali il lavaggio dei defunti prima della sepoltura. Una consuetudine difficile da estirpare ma che, a detta degli operatori di Medici senza frontiere, rappresenta oggettivamente una delle principali occasioni di contagio per la popolazione, con un ruolo importante nella più recente diffusione di questa epidemia.
L’evoluzione della malattia
Inizialmente, i sintomi sono aspecifici, rendendo molto difficile la diagnosi clinica.
In genere si manifestano da 2 a 21 giorni dopo il contatto, con un picco tra il settimo e il dodicesimo giorno dal contagio.
- Dal settimo al nono giorno dal contagio: mal di testa, affaticamento, febbre, dolori muscolari, cefalea, mal di gola.
- Decimo giorno: febbre alta, vomito ematico, diarrea, astenia.
- Undicesimo giorno: eritemi, fenomeni emorragici, danni al sistema nervoso centrale.
- Dodicesimo giorno: stadio finale (perdita di coscienza, emorragie interne diffuse, congiuntiviti emorragiche, morte).