Le arti figurative
A pochi anni dall’unificazione la realtà delle arti figurative si rivela articolata e complessa. Si iniziano a distinguere, infatti, i segnali di rinnovamento in più di una scuola regionale, e prendono il via i primi scambi culturali e i viaggi degli artisti, che contribuiranno a far conoscere, fuori dai rispettivi luoghi di origine, quelle novità e quei cambiamenti, che di lì a breve costituiranno il terreno comune delle istanze artistiche dell’intera penisola. Tre sono i centri principali di fermento artistico: la Lombardia con i fratelli Domenico e Gerolamo Induno, Napoli con gli epigoni della scuola di Posillipo e Domenico Morelli, e Firenze, teatro delle novità che di lì a poco porteranno alla grande stagione dei macchiaioli.
Avendo alle spalle il romanticismo di Francesco Hayez, la pittura lombarda affrontava il problema del rinnovamento della pittura di storia dal punto di vista sia delle soluzioni formali sia dei temi trattati. Il primo versante vedeva impegnati Giuseppe Bertini, che usava macchie scure su fondi chiari, e Federico Faruffini, che, grazie alle ricerche luministiche condotte a Roma con Bernardo Celentano, fra i principali protagonisti della pittura napoletana, si distingueva per il dissolvimento della forma, che sarà uno degli elementi stilistici specifici della pittura scapigliata. Il secondo versante aveva come protagonisti indiscussi i fratelli Domenico e Gerolamo Induno, due artisti in grado di presentare, all’interno della cultura della Restaurazione, con rinnovata sensibilità e coinvolgimento emotivo, le tematiche di genere e di vita quotidiana, attribuendogli un senso morale e civile.
Dopo le Cinque giornate di Milano, i fratelli Induno si trasferirono in Svizzera e Gerolamo visse direttamente molte delle esperienze belliche precedenti l’unificazione, potendo così conoscere e poi rappresentare gli effetti della guerra non solo sui campi di battaglia ma anche nei risvolti quotidiani, familiari e domestici: dalla difesa di Roma nel 1849 assediata dai francesi, dove per le gravissime ferite riportate fu creduto morto e lasciato sul campo; alla campagna di Crimea del 1854-55, con il corpo dei bersaglieri comandati da Alfonso La Marmora; alle battaglie combattute con l’esercito garibaldino, testimoniate dal ciclo di dipinti garibaldini realizzati su commissione del generale Giacomo Medici.
La portata innovativa della pittura dei due artisti consisteva nel trattare e aggiornare la scena di genere con un tono intimo, narrativo e discorsivo basato sulla poetica degli affetti e sull’intensità dei sentimenti rappresentati, raccontando l’epopea risorgimentale attraverso episodi strettamente legati alla vita quotidiana. «È il giorno del 14 luglio 1859, in cui venne in Milano di sorpresa la notizia della pace di Villafranca; io voglio raggiungere l’impressione che fece nel popolo e non già l’atto ufficiale» (Nicodemi 1945, p. 29): è questa la descrizione, di pugno di Domenico, del soggetto di uno dei suoi dipinti più importanti, quel Bollettino di Villafranca, i cui primi studi risalgono proprio al 1860, eseguito in più versioni, una delle quali presentata all’Esposizione di Brera del 1861 e acquistata da Vittorio Emanuele II.
Negli anni Cinquanta manteneva intatto vigore, ancorché epigonale, la scuola di Posillipo. Iniziata nel 1816, con l’arrivo dell’olandese Anton Sminck Pitloo a Napoli, sarebbe terminata con la fine della dinastia borbonica, anche se il suo maggiore interprete, Giacinto Gigante, continuò a dipingere importanti opere fino alla metà degli anni Settanta. Caratterizzata da un concetto di veduta che univa istanze pittoriche innovative nella presa dal vero e nell’impasto cromatico, e dall’attenzione a un mercato borghese, di viaggiatori e grandi committenti, aveva coinvolto un grande numero di artisti, da Pitloo a Gigante, da Salvatore Fergola ad Achille Vianelli a Consalvo Carelli, da Teodoro Duclère a Frans Vervloet. Le vedute di Napoli e dintorni, le scene di vita della società borbonica, l’attenzione ai personaggi e ai tipi locali, la registrazione di importanti fatti di vita quotidiana, quali i due teleri celebrativi dell’inaugurazione della strada ferrata nel 1839, opera di Fergola, avrebbero permesso un adattamento relativamente facile e di immediata comprensione alle scene di impianto risorgimentale. Ma le novità più significative avvennero per mano di artisti che operarono il rinnovamento all’interno del quadro di soggetto storico, che continuava a costituire il genere più importante e di maggior prestigio per gli artisti: Saverio Altamura e Celentano, che ritroveremo a breve, e soprattutto Morelli.
Morelli rappresenta il punto di riferimento per la nascita di una pittura nazionale, non solo per le vicende personali, che lo portano a viaggiare per l’Italia in lungo e in largo, conoscendo e confrontandosi con quasi tutte le istanze di rinnovamento artistico presenti nella penisola, ma anche per una resa pittorica di immediata e vasta comprensione, che univa le esperienze accademiche maturate dei decenni precedenti con le esigenze contemporanee di presa dal vero. Esemplare il dipinto Gli iconoclasti (olio su tela, cm 257 × 212, Napoli, Museo di Capodimonte), esposto nel 1855 alla mostra borbonica, e ripresentato all’Esposizione nazionale del 1861. Il soggetto del dipinto rimanda alla persecuzione subita dal monaco pittore bizantino san Lazzaro, sotto le cui vesti si cela un giovane liberale. La sua importanza, avvertita dalla critica e dagli artisti, consisteva nel fatto che prendeva le distanze dalla tradizionale trattazione del tema storico, non solo per il modo più energico di riferirsi ai nuovi valori patriottici, ma anche e soprattutto per come trattava la materia pittorica, con accese partiture chiaroscurali e con una fedele attenzione al vero.
Per la circolazione delle idee e la diffusione delle novità morelliane è importante ricordare ulteriori elementi: nel 1848, a seguito delle controverse vicende politiche, Morelli dovette lasciare Roma per tornare a Napoli, rimanendo però in stretto contatto con Celentano e con Achille Vertunni, che lo terranno sempre aggiornato sulle novità romane. Vide l’amico Altamura riparare a Firenze dove sarà uno dei protagonisti delle iniziali sperimentazioni della «macchia». Dopo l’esposizione degli Iconoclasti, partì per visitare l’Esposizione di Parigi, passando per Monaco, Berlino, l’Olanda, Bruxelles, e conoscendo così i più aggiornati e differenti linguaggi figurativi internazionali. Nel 1858, in occasione di un viaggio per l’Italia con il grande collezionista e mecenate Giovanni Vonwiller, a Milano incontrò Eleuterio Pagliano, sostenitore del rinnovamento lombardo della pittura di storia. Per l’entrata di Giuseppe Garibaldi a Napoli, dipingerà a tempera, insieme ad Altamura, alcuni fatti delle guerre d’indipendenza su archi trionfali preparati per l’occasione, a testimonianza che la nuova scuola era in grado di affermarsi come arte ufficiale della Napoli liberata dai Borboni. Riunendo elementi riconducibili a esperienze diverse, e tenuto in alta considerazione dagli altri pittori per la statura morale e artistica, Morelli si candidava dunque a principale interprete di una nuova arte nazionale.
Le vicende degli artisti napoletani e lombardi si intrecciavano con quelle degli artisti fiorentini, impegnati in una delle stagioni artistiche più interessanti dell’intero Ottocento italiano, quella dei macchiaioli, che vedrà alcune delle sue prove più importanti e significative proprio negli anni immediatamente precedenti e seguenti l’unificazione. La presenza di Altamura a Firenze fin dal 1848, l’arrivo del veronese Vincenzo Cabianca nel 1853, la scelta di Adriano Cecioni di svolgere il pensionato artistico a Napoli, le prime esperienze di pittura dal vero, realizzate nelle campagne intorno a Staggia da Lorenzo Gelati, Carlo Ademollo, Serafino De Tivoli e Altamura, la novità del ton gris, costituita da uno specchio in grado di esasperare i chiaroscuri, portata a Firenze proprio da Altamura e De Tivoli al ritorno da un viaggio parigino, il viaggio in Toscana del lombardo Pagliano nel 1856, contribuirono a una circolazione di idee e di stimoli, che verranno raccolti di lì a poco da un nutrito numero di artisti: Giovanni Fattori, Telemaco Signorini, Raffaello Sernesi, Giuseppe Abbati, Silvestro Lega, Adriano Cecioni, Odoardo Borrani, Vincenzo Cabianca, tutti intenti a un rinnovamento formale e sostanziale della pittura.
In particolare è da ricordare che Signorini conobbe Domenico Induno proprio nel 1856, in occasione di un viaggio nell’Italia settentrionale che fece insieme a Vito D’Ancona, finalizzato alla conoscenza di nuove esperienze artistiche. Durante il soggiorno veneziano, nel quale aveva conosciuto anche il napoletano Abbati, Signorini annotò nel Sommario autobiografico di aver subito una «metamorfosi» e di aver avuto «rivelazioni artistiche». Lo testimoniano due dipinti eseguiti in quella città nel 1856, Il Ponte della Pazienza (olio su tela, cm 39 × 36, collezione privata) e Casa Goldoni, prime sperimentali e rivoluzionarie attuazioni della «macchia», rifiutati dalla Società promotrice di Belle Arti fiorentina per eccessiva violenza di chiaroscuro. È chiaro lo scarto rispetto ai primi dipinti di argomento storico, I puritani al Castello di Tillietudlem, esposto all’Accademia nel 1854, e Fermati Abacucco: odo uno strepito del 1855, temi entrambi tratti da I Puritani di Walter Scott. Da Venezia il pittore toscano si trasferì a Milano e il rapporto con l’ambiente artistico milanese e gli incontri con le maggiori personalità che lo animavano lo fecero profondamente riflettere, come emerge dai suoi appunti che scrive nel Sommario autobiografico a proposito della sua visita milanese, nei quali evidenzia una «vacillazione della mia nuova fede» e un «entusiasmo indunesco» (Somarè 1926, p. 272). La conoscenza di Domenico Induno ha dunque un ruolo di grande importanza nel percorso artistico di Signorini perché lo porta a considerare e a misurarsi con possibilità di rinnovamento artistico differenti e alternative rispetto alla «macchia».
Per una riflessione sullo stato delle arti italiane in rapporto agli altri paesi europei, possiamo rilevare come la capitale francese fosse realmente l’unico punto di riferimento per la nostra pittura nel decennio precedente l’unificazione. Si può dire, anzi, che in questi anni assistiamo a un vero e proprio pellegrinaggio verso Parigi da parte di quasi tutti gli artisti più significativi, desiderosi di conoscere e vedere direttamente le novità artistiche.
È da sottolineare che alcune prestigiose collezioni internazionali presenti in Italia, prima tra tutte quella del principe Anatolio Demidoff a Firenze, offrivano agli artisti l’opportunità di conoscere dal vero dipinti francesi realizzati tra il 1830 e il 1850 e potevano contribuire a prepararli alla visita ai Salon. In particolare la collezione Demidoff, tipica di un mecenatismo caratterizzato da un preciso criterio di scelta e selezione, offriva agli artisti fiorentini l’occasione unica di ammirare le opere di Eugène Delacroix e soprattutto di Hippolyte Delaroche – del quale il principe possedeva il meraviglioso La decapitazione di Jane Grey – che costituivano gli esiti più avanzati della pittura di storia. Attraverso una presentazione della scena e dei personaggi più diretta e realistica, e soprattutto testimone dei loro sentimenti e della loro condizione umana, questi artisti aprivano un fronte di grande interesse contro la fredda teatralità delle composizioni di storia di stampo accademico.
La vera occasione di confronto con la realtà parigina fu offerta agli artisti italiani con l’Esposizione universale del 1855, che contribuì a scuotere l’ambiente culturale e artistico dei giovani talenti italiani, abituati fino a quel momento a confrontarsi all’interno delle accademie con i propri maestri o al massimo con i compagni di corso. Vi parteciparono quasi cento artisti italiani, da Gerolamo Induno, ai piemontesi Carlo Pittara e Vittorio Avondo, e moltissimi furono gli artisti che si recarono nella capitale francese per visitare l’esposizione. Giuseppe Palizzi, che si trovava a Parigi dal 1844 e aveva esposto al Salon fin dal 1850, fu di certo preziosa guida al fratello Filippo, a Morelli, Altamura e De Tivoli, che frequentò probabilmente in quell’occasione gli studi dei pittori di Barbizon.
Anche se la totalità degli artisti della penisola che esponevano avevano certamente un linguaggio molto ancorato alla tradizione, come si evidenzia da un confronto tra i loro dipinti e quelli di Gustave Courbet esposti nel suo pavillon, è certo che dopo il ritorno da Parigi la situazione delle arti cambiò profondamente e le personalità legate alla cerchia di Morelli e Altamura iniziano a lavorare su un registro estetico differente.
Il modello che più aveva interessato i nostri artisti era stato quello della scuola di Barbizon, che operava un radicale rinnovamento della pittura di paesaggio e aveva come protagonisti assoluti campioni quali Corot, Daubigny, Troyon, Díaz de la Peña. Essa inoltre non aveva portata particolarmente rivoluzionaria perché la pittura di paesaggio non costituiva più il terreno privilegiato di liberazione dalle pastoie accademiche. Fu proprio l’Esposizione universale del 1855 a testimoniare la superiorità indiscussa della pittura di paesaggio francese con i dipinti di Théodore Rousseau e Alexandre-Gabriel Decamps; e questa lezione ebbe forte e immediata presa sugli artisti lombardi, napoletani e soprattutto toscani, perché si presentava come indicativa di un modo nuovo di fare pittura.
L’importanza assunta dalla luce, la pennellata rapida e incisiva, l’attenzione a una composizione più equilibrata tonalmente e pausata nobilitavano il genere paesaggio grazie ai valori di ordine e armonia, tipici della pittura di storia, allora considerata il genere più importante e significativo. Questo tipo di composizioni trovò terreno fertile negli artisti italiani poiché essi già lavoravano su questo terreno: risulta dunque naturale che fosse questa la novità più significativa portata da Parigi.
È da ricordare, ancora, che nel 1861, di fronte ad alcuni dei più significativi esempi di pittura risorgimentale italiana, la critica continuava a sottolineare il debito verso la pittura francese:
Mancavano all’arte moderna in Italia i cultori di un genere di pittura che aveva levata gran voce di sé in Francia per opera di Gros, Adam, Vernet ed altri egregi illustratori delle gesta militari di quella nazione dai tempi del primo impero fino ai presenti giorni. […] Resta a noi molto da far ancora per raggiungere quell’altezza alla quale sono pervenuti in Francia Orazio Vernet, Pils e altri che alla pittura di battaglie dedicarono le forze tutte del loro ingegno, studiando sul vero per molti anni quei begli effetti di che sanno improntare le loro tele (L’esposizione italiana del 1861, pp. 180-181).
Gran parte degli artisti fin qui menzionati ebbero occasione di incontrarsi e confrontarsi quando il 24 settembre 1859 venne pubblicato sul «Monitore Toscano» il decreto ministeriale, con il quale il governo provvisorio della Toscana, presieduto da Bettino Ricasoli, bandiva un concorso pubblico per la realizzazione di un significativo numero di importanti opere d’arte di pittura e di scultura.
Caterina Bon, che ha ricostruito, con dovizia di particolari e fonti documentali inedite, la storia del concorso (Bon 1984, pp. 4-32), ferma l’attenzione su una serie di provvedimenti in materia di politica culturale precedenti la pubblicazione del bando del concorso stesso: l’istituzione di una commissione per l’ordinamento dell’Accademia di Belle Arti, la pubblicazione delle opere complete di Niccolò Machiavelli, i restauri della Basilica di San Lorenzo, gli acquisti della Società promotrice di Belle Arti fiorentina di quell’anno, la costituzione di una commissione per la conservazione degli oggetti e monumenti d’arte; tutti a testimoniare l’importanza attribuita da Ricasoli alla cultura in generale e alle arti figurative in particolare.
L’allora ministro, infatti, intendeva affidare alla promozione culturale il ruolo di vero e proprio ambasciatore della politica del governo, e il concorso aveva evidentemente l’intento, in un momento storico molto difficile, di rassicurare il pubblico con immagini celebrative dei più importanti, commoventi, eroici episodi delle recenti battaglie risorgimentali. La funzione di celebrazione e glorificazione di questi avvenimenti veniva sottolineata sul versante delle arti figurative dall’abbinamento e dal confronto con episodi tratti dalla storia antica e medievale.
Prima di esaminare nel dettaglio le specifiche del concorso, che permettono di avere un’apertura di campo molto significativa sulla condizione delle arti figurative nel biennio precedente l’unificazione, è opportuno ricordare che quasi tutti i macchiaioli, gli artisti che discutevano del rinnovamento della pittura toscana, basato sul «vero», e che si riunivano al Caffè Michelangelo, partirono per il fronte nel 1859 con forti e convinte motivazioni. Odoardo Borrani, Luigi Bechi, Adriano Cecioni, Ferdinando Buonamici, Telemaco Signorini, e anche Diego Martelli, il loro padre spirituale, credevano fortemente nella causa nazionale e la loro partecipazione diretta agli eventi contribuì in maniera determinante al successo delle composizioni di storia risorgimentale, destinate a diventare di lì a poco uno dei campi prediletti di attuazione delle novità formali e stilistiche che si facevano largo proprio in quegli anni. Interessante testimonianza di questo periodo è un dipinto di Buonamici, raffigurante La Caserma di Modena con i volontari della quinta batteria toscana (olio su tela, cm 55,7 × 70,5, collezione privata) ove alloggiavano proprio Cecioni, Signorini e Martelli.
Fattori, che ritroveremo tra poco grande protagonista del concorso Ricasoli, rimase invece a Firenze assieme a Lega e a Sernesi, e visse direttamente gli avvenimenti del 27 aprile con la fuga del granduca Leopoldo II di Lorena. Il mese successivo, le truppe di Girolamo Napoleone raggiunsero Firenze e un drappello agli ordini del generale Lamoricière si accampò al Parco delle Cascine. Questo avvenimento ispirò a Fattori l’esecuzione di alcuni studi, che costituiscono le prime opere di «macchia» per l’artista. In particolare va ricordato Soldati francesi del ’59, deliziosa tavoletta (olio su tavola, cm 15,5 × 32, collezione privata), che raffigura un piccolo gruppo di nove soldati francesi davanti a un muro bianco, condotta solo per rilievo, senza tessitura disegnativa, e caratterizzata da forti e contrastate partiture cromatiche, che staccano sul fondo bianco uniforme del muro e del terreno. Lo stesso spettacolo ispirò anche altre opere, tutte riprese dal vero, quali Fucilieri francesi alle Cascine di Giuseppe Moricci, presentato alla Promotrice fiorentina del 1860.
È interessante sottolineare come da parte di Fattori l’esecuzione di questi primi freschi studi di «macchia» a soggetto militare fosse contemporanea a quella del dipinto Maria Stuarda al campo di Crookstone (olio su tela, cm 76 × 108, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti), quadro ispirato a un episodio del romanzo di Scott, di impostazione accademica e nella tradizione della grande pittura di storia. E alcuni anni più tardi Fattori ricorderà che gli avvenimenti di quell’anno lo «innamorarono» dei soggetti bellici (Fattori 1980, p. 33) facendogli abbandonare la pittura di storia antica, che aveva trattato fino a quel momento.
Torniamo al concorso Ricasoli: all’inizio vi furono perplessità da parte dell’opinione pubblica e della stampa sulla scelta dei membri facenti parte la commissione, a causa della mancanza in essa di artisti affermati, idonei a giudicare opere e linguaggi figurativi così differenti e complessi. La Bon ricorda che nel marzo 1860 Collodi esprimeva perplessità dalle pagine della «Nazione» (6 marzo 1860) sulla formazione della commissione e chiedeva che venissero chiamati a farne parte Hayez e Domenico Induno (Bon 1984). Il primo rifiutò, mentre il secondo, assieme ai pittori Enrico Gamba, Vincenzo Resori e Carlo Arienti e agli scultori Santo Varni, Giovanni Battista Cevasco e Abondio Sangiorgio, accettò di far parte della commissione.
Anche se il bando del concorso Ricasoli limitava la possibilità di partecipazione ai soli artisti toscani o italiani residenti a Firenze, elemento necessario per conquistare il consenso degli artisti locali attraverso una nuova politica di committenza pubblica, risulta evidente come nel 1859 un gran numero di pittori e scultori fosse impegnato nel rinnovamento formale del linguaggio figurativo. In questo clima l’attenzione alle istanze del Risorgimento, sia attraverso la partecipazione diretta agli eventi bellici, sia attraverso la narrazione artistica di temi ed episodi, assunse notevole significato proprio perché il misurarsi sugli stessi temi risorgimentali contribuì alla creazione di un linguaggio, se non uniforme, almeno comune, nella ricerca di una forma con la quale dare voce a questa rinnovata sensibilità. Ed è interessante sottolineare, per valutare i singoli contributi personali, come non esista un codice omogeneo, in grado di rappresentare questa nuova sensibilità, anzi a un certo punto il problema sembra diventare proprio la ricerca di un linguaggio capace di manifestare, presentare e sottolineare in maniera coinvolgente per lo spettatore l’importanza e il significato degli eventi.
Una fase di sperimentalismo – rappresentata in particolare dalle ricerche sul vero dei «macchiaioli e dei fratelli Induno – coesisteva con la tradizione della pittura di storia e con una certa accademia. Il concorso raccolse tutte queste istanze, e le varie classi di concorso e di gara, con le gerarchie che emergono dal bando, danno perfettamente conto dello stato delle arti figurative a quella data, fissando un momento storico non esattamente definibile, ma piuttosto identificabile in un sentimento diffuso di volontà di rinnovamento, che si arricchisce degli apporti personali dei grandi artisti e che viene crescendo e prendendo forma proprio in virtù di personalità diverse, originali, creative e qualitativamente alte, tali da rendere le profonde differenze dialetticamente costruttive.
Il concorso prevedeva che a spese dello Stato «saranno allogate agli Scultori e Pittori Toscani o italiani domiciliati in Firenze» le seguenti opere d’arte:
Opere di scultura
1º Due statue equestri in bronzo che rappresentino una il Re Vittorio Emanuele II, l’altra l’Imperatore Napoleone III da collocarsi in Firenze sulla Piazza dell’Indipendenza; 2º La statua di Francesco Burlamacchi primo martire dell’Unità italiana, da erigersi in Lucca; 3ºLa statua di Sallustio Bandini, fondatore delle dottrine sulla libertà economica; 4º La statua di Leonardo Fibonacci, instauratore degli studi algebrici in Europa; 5º Due statue una di Carlo Alberto, l’altra di Vittorio Emanuele.
Opere di pittura
Quadri storici: 1º Mario vincitore de’ Cimbri 2º Federico Barbarossa vinto dalla Lega Lombarda 3º L’Assemblea dei rappresentanti della Toscana che vota l’incompatibilità della Casa Austro-Torinese 4º Il ricevimento fatto da Vittorio Emanuele degli inviati toscani che gli presentano il Decreto dell’annessione della Toscana al Regno forte d’Italia.
Quadri di battaglie: 1) Battaglia di Curtatone 2) Palestro 3) Magenta 4) San Martino
Episodi militari: Quattro quadri
Ritratti d’Italiani illustri: Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, Carlo Troya, Giovanni Berchet, Silvio Pellico, Giuseppe Giusti.
Per ognuna di queste categorie si sarebbero dovuti presentare i bozzetti identificati da un motto, per mantenere l’anonimato da parte degli autori, e poi i bozzetti dichiarati vincitori sarebbero stati eseguiti in grande su commissione governativa.
Per quanto riguarda i quadri, occorre subito sottolineare come la pittura di storia venisse ancora considerata il genere più importante, come evidenziato dalle dimensioni stabilite per i dipinti, ordinate secondo la gerarchia dei generi, in modo che anche il prezzo fissato per ogni gruppo di dipinti fosse proporzionato alla nobiltà del tema e alle dimensioni. Si passava dalle braccia 10 × 7 (640 × 370 cm) dei fatti gloriosi della storia italiana antica e moderna illustrati nei quadri storici, alle dimensioni più ridotte dei quadri di battaglie (348 × 232 cm) fino ai quadri di costume, che rappresentavano episodi militari dell’ultima guerra (232 × 173 cm).
Quanto ai due temi di storia antica – Mario vincitore de’ Cimbri e Federico Barbarossa vinto dalla Lega Lombarda – la commissione spiegò che «questi due soggetti avrebbero il merito di riferirsi a due solenni momenti della vita nazionale italiana, e richiamerebbero le due più splendide prove, che l’Italia abbia fatto, ne’ tempi antichi, per la sua indipendenza». Questa precisazione è molto significativa almeno per due motivi. Vale infatti sia a nobilitare ed esaltare i grandi episodi della recente storia risorgimentale, che venivano accostati agli episodi della storia antica come temi del concorso, sia a far comprendere come la pittura di storia, che aveva fino a quel momento rappresentato in via esclusiva le passioni patriottiche celandole con l’allegoria, aveva ora bisogno, a confronto con il linguaggio più esplicito e diretto delle scene di battaglia o delle gesta dei protagonisti e della gente comune, di una spiegazione che la rendesse comprensibile e significativa agli occhi dei contemporanei.
Ed è proprio Altamura che nello stesso 1859 adotta registri molto differenti vincendo il concorso per il quadro di storia con il bozzetto per Mario vincitore de’ Cimbri e dipingendo La prima bandiera italiana portata a Firenze nel 1859 (olio su tela, cm 51 × 75, Torino, Museo del Risorgimento), scena di vita quotidiana caratterizzata da una pittura più moderna.
L’analisi dei due dipinti è indicativa delle differenti istanze del momento e di come gli stessi artisti adottassero anche contemporaneamente registri molto differenti. Il dipinto Mario vincitore de’ Cimbri nella sua stesura finale venne acquistato dal ministero della Pubblica istruzione per la Galleria fiorentina, e pochi anni dopo, nel 1864, Altamura ne realizzò una seconda versione con varianti, commissionata da Vittorio Emanuele e oggi a Napoli, al Museo di Capodimonte (olio su tela, cm 230 × 353). Il confronto tra le due versioni è particolarmente interessante perché è proprio Altamura, nella sua autobiografia, a sottolineare il nuovo significato da attribuire alla seconda versione del dipinto, meno condizionato dalle tradizionali coordinate del quadro di storia, meno accademico e senza la perfezione e la compostezza classica che caratterizzano la prima versione.
Nel dipinto La prima bandiera italiana portata a Firenze nel 1859, invece, le soluzioni compositive e formali sono da mettere strettamente in relazione con la pittura dal vero e le novità della «macchia» dibattute al Caffè Michelangelo. La vicinanza alle coeve sperimentazioni di Signorini e degli altri macchiaioli, rivolte non solo agli effetti di luce e ombra e alle contrastate partiture chiaroscurali, ma anche a una volontà di presentare momenti non eroici degli episodi trattati, si giovava in questo dipinto della presenza diretta sul campo, essendo l’autore arrivato a Firenze in fuga dalla condanna in contumacia inflittagli dal governo borbonico. Inoltre, il dipinto è preziosa testimonianza di una serie di opere realizzate dagli artisti toscani, o che si trovavano a Firenze in quegli anni, liberamente ispirate ai temi del concorso Ricasoli, ma lontane dalla retorica celebrativa e apologetica di impronta sabauda. In questa ottica il dipinto diviene quasi un esercizio di affinamento delle teorie artistiche iniziate a Staggia con le prime sperimentazioni di «macchia», come sembra anche indicare il richiamo sullo sfondo a San Miniato, che ritroviamo in quegli anni anche nelle opere di Abbati e di Gelati.
È probabilmente da questo momento che anche il quadro storico si «macchia» sempre più e accentua i forti contrasti cromatici, anche se per il momento questa sperimentazione vive solo nei bozzetti, come emerge da quelli per il grande dipinto di Stefano Ussi, La Cacciata del Duca di Atene, presentato due anni dopo all’Esposizione nazionale di Firenze (olio su tela, cm 320 × 450, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti), e premiato a Parigi nel 1867 con la medaglia d’oro. Il grande quadro di soggetto storico, che rimandava evidentemente alla fuga del granduca Leopoldo II di Toscana, testimonia come anche un fervente patriota come Ussi preferisse nelle occasioni ufficiali mantenere il registro «alto» della pittura di storia, riservandosi la possibilità di trattare temi risorgimentali in altre sedi o esposizioni. Va infatti ricordato che lo stesso Ussi aveva presentato con grande successo dieci anni prima, proprio alla Promotrice fiorentina del 1851, il dipinto Un esule che dall’Alpe guarda verso l’Italia, nel quale aveva felicemente combinato la tematica risorgimentale con la pittura di sentimento e di genere, tanto che la stessa Promotrice lo aveva scelto per l’incisione da regalare annualmente agli iscritti.
Per il momento, dunque, sono proprio i bozzetti presentati al concorso del 1859 che permettono di verificare e apprezzare gli elementi di rinnovamento sopra evidenziati, che invece poi emergono meno chiaramente dalle stesure finali. Infatti Il ricevimento fatto da Vittorio Emanuele degli inviati toscani che gli presentano il Decreto dell’annessione della Toscana al Regno forte d’Italia di Giovanni Mochi (Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti) manteneva un’impostazione molto accademica, mentre entrambi i vincitori delle opere di storia antica consegnarono i dipinti molti anni più tardi: Altamura nel 1867 e Amos Cassioli, che ebbe il premio per Federico Barbarossa vinto dalla Lega Lombarda, addirittura nel 1870. Dipinti la cui lunga elaborazione non ci permette di considerarli esempi caratteristici della pittura di storia degli anni Sessanta.
Ben diversa, invece, la situazione per il quadro di battaglia, per il quale erano previsti quattro concorsi relativi ad altrettante battaglie: quella di Curtatone, di Palestro, di Magenta e di San Martino. In effetti il quadro di battaglia si prestava assai bene alle novità linguistiche promosse allora a Firenze, perché permetteva di sperimentare una cifra stilistica che, in un formato importante e prestigioso, tenesse conto della necessaria presa sul vero, attraverso la restituzione fedele di paesaggi, atmosfere, uniformi, personaggi. Le incisive e contrastate partiture chiaroscurali servivano ad accentuare la verosimiglianza di luoghi e personaggi; i cieli e le atmosfere nitide e chiare davano naturalezza alle scene raffigurate. È questo uno dei grandi meriti del concorso Ricasoli: l’aver dato una sostanziale accelerazione al progetto di rinnovamento delle arti figurative attraverso la committenza di opere di grande formato, che potevano essere trattate alla maniera moderna e che difficilmente sarebbero state realizzate senza questa opportunità. Il concorso costituisce dunque un precedente di grande importanza per l’arte nazionale, perché fu uno dei primi eventi nei quali una delle grandi novità dei macchiaioli poté trovare maniera di manifestarsi, trasportando la tecnica macchiata, che inizialmente veniva applicata solo al bozzetto di storia, a dipinti compiuti e raffinatissimi. In sostanza, l’applicazione di questa nuova tecnica a scene vissute direttamente dai protagonisti permise di adottare un linguaggio di vasta comprensione, che già esisteva come sentimento diffuso e che la battaglia politico-artistica si limitò a usare e fare proprio.
L’esposizione delle opere partecipanti ai vari concorsi avvenne il 15 marzo del 1860 nelle sale dell’Accademia di Belle Arti e dieci giorni dopo venne pronunciato il giudizio con la dichiarazione dei bozzetti vincitori. Indipendentemente da quelli che vinsero, i soggetti realizzati e il modo di trattarli sembrarono agli artisti adatti a tradurre concretamente le nuove istanze pittoriche, tanto che dal concorso Ricasoli in poi il quadro di storia antica verrà progressivamente abbandonato. Tuttavia, come in ogni periodo storico, esistono istanze differenti anche all’interno del medesimo progetto di rinnovamento. E così mentre Emilio Lapi e Nicola Sanesi, che vinsero rispettivamente i concorsi per La battaglia di Palestro (Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti) e La battaglia di San Martino (Roma, in deposito presso la Scuola allievi carabinieri) restarono vicini ai modi e alle formule gradite alla committenza di allora e non si discostarono dalla tradizione di adattare la formula del quadro storico a una scena contemporanea, il grande quadro di Fattori Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta (olio su tela, cm 232 × 348, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti), segnò una vera e propria svolta nella pittura moderna e costituì un testo pittorico fondamentale per i successivi sviluppi artistici. Il bozzetto (olio su tela, cm 39,5 × 58,5, Galleria nazionale d’arte moderna, Roma) che vinse il concorso, condotto con pennellata veloce, incisiva e a «macchia», raffigurava un episodio collaterale della battaglia stessa con il carro ambulanza delle suore di Carità che trasporta i feriti sotto lo sguardo vigile e pietoso di un drappello di soldati francesi.
Già molto avanti nella realizzazione, dopo che l’autore si era recato insieme alla moglie nell’aprile del 1860, con grande scrupolo e professionalità, proprio sui luoghi della battaglia, ma ancora non finito, il dipinto fu presentato alla prima Esposizione italiana inauguratasi a Firenze nel settembre del 1861, mentre in una redazione conclusiva, e provvisto della cornice appositamente intagliata da Antonio Ponziani, fu esposto alla Promotrice del giugno 1862, ove ancora il marchese Paolo Feroni, presidente della commissione del concorso Ricasoli, che più volte aveva visitato lo studio di Fattori per rendersi conto dei progressi della lavorazione dell’opera, ebbe modo di rivolgere qualche osservazione alla poco «armoniosa» intonazione atmosferica, riconosciuta tuttavia quale peculiarità stilistica che non ammetteva correzioni (Sisi 1999, p. 6).
Altre considerazioni emergono esaminando lo svolgimento del concorso relativo ai quattro quadri raffiguranti scene militari a soggetto libero. Va sottolineato, come ricorda la Bon, che questa sezione ebbe il massimo di partecipanti (lo si deduce dal numero dei bozzetti presentati), essendo il quadro «di costume» null’altro se non l’aggiornamento in chiave patriottica della tradizione del quadro di genere, che permetteva di trattare soggetti sentimentali e intimi all’interno della descrizione e narrazione degli episodi relativi ai recenti eventi bellici (Bon 1984). Tradizione che aveva illustri precedenti proprio in Domenico Induno.
Vinsero il concorso i bozzetti per i dipinti Il marchese Fadini salva a Montebello il generale De Sonnaz di Bechi (olio su tela, cm 174 × 232, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti), opera che divenne subito popolare per l’immediatezza del messaggio patriottico e l’umanità della scena rappresentata; L’eccidio della famiglia Cignoli di Cosimo Conti (Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti); La fuga degli arciduchi dopo la battaglia di Solferino di Stefano Bardini (ubicazione ignota); I coscritti italiani del Reggimento Sigismondo dopo la battaglia di Magenta di Alessandro Lanfredini (Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti). Quest’ultimo, che nella stesura finale viene presentato all’Esposizione nazionale del 1861, raffigurava un episodio molto toccante per il pubblico. Vennero infatti trovate nelle giberne di alcuni coscritti del reggimento Sigismondo, caduti morti sul campo di battaglia di Magenta, cartucce dalle quali erano stati tolti i proiettili per non offendere i fratelli italiani, contro i quali erano costretti a combattere: «Il fatto è così grande di per se stesso che non ha bisogno di commenti; e se la storia non poté dirci il nome di quei nuovi martiri della religione di patria, ben doveva l’arte conservarci colla magia delle linee e dei colori la ricordanza di un atto che tanto onora la italiana famiglia» (L’esposizione italiana del 1861, pp. 313-314).
È da ricordare, inoltre, per comprendere la complessità del momento storico e l’importanza dell’applicazione delle nuove soluzioni formali a temi molto differenti tra loro, che proprio nel 1859 Lanfredini espose a Firenze un dipinto di tutt’altro tenore, dal titolo La fanciullezza del Passignano, tema a carattere storico, che «meritò una recensione anche sulla ‘Gazette des Beaux-Arts’, dove fu segnalata quale inappuntabile prova di un nuovo e sorprendente orientamento degli artisti toscani verso il genere storico, o, per meglio dire, verso la parte più aneddotica e familiare di tale pittura» (Bassignana 1990, p. 878).
Vi furono inoltre artisti di forte tempra e indubbia qualità, che non ebbero fortuna in quel concorso, probabilmente perché a quella data non avevano ancora elaborato la cifra distintiva stilistica e formale che avrebbe poi contraddistinto i capolavori delle stagioni più felici della pittura macchiaiola: Castiglioncello e Piagentina. In particolare è importante soffermarsi su Lega, che partecipò al concorso per gli episodi militari a soggetto libero con la Battaglia di Varese. Purtroppo il dipinto è oggi di ubicazione sconosciuta e non abbiamo alcuna testimonianza diretta o indiretta del bozzetto; sappiamo solo che fu premiato con un riconoscimento minore e che non vinse la classe di concorso alla quale partecipava.
Proviamo a immaginare il tenore di quel bozzetto esaminando due opere di Lega databili certamente a quegli anni: Episodio della guerra del 1859. Ritorno di bersaglieri italiani da una ricognizione (olio su tela, cm 57,5 × 95, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti) e Episodio della guerra del 1859. Un’imboscata di bersaglieri italiani in Lombardia (olio su tela, cm 56,8 × 94,4, collezione privata), presentato all’Esposizione nazionale del 1861. A entrambi i quadri Lega attribuì, come scrisse nella lettera autobiografica a Martelli del 2 giugno 1870, un valore determinante, riconoscendovi la prima manifestazione di arte veramente personale e il «distacco assoluto dalle diverse scuole avute», e in particolare, riguardo all’Imboscata, teneva a precisare «Lì ero io; che cominciava a fare come sentiva, come voleva e come sapeva» (Vitali 1953, pp. 125, 127). Per entrambi i dipinti conosciamo i bozzetti e il confronto tra questi e le opere finite è molto indicativo perché i bozzetti sono condotti con la tecnica a «macchia», con incisive e violente partiture chiaroscurali, tipiche dei bozzetti dei quadri di storia, mentre nelle opere finite torna predominante la lezione purista dei maestri, in particolare di Antonio Ciseri, anche se aggiornata e integrata dalla presenza di alcuni elementi tipici delle prime sperimentazioni della «macchia».
I soggetti trattati, pur non essendo epici o eroici, non scadono nella convenzione banale e ripetuta della scena di genere: sono episodi secondari o marginali delle grandi battaglie, ma trattati con grande efficacia, sì da dare a volte l’impressione di essere un pretesto per esercitarsi su un tema idoneo alle nuove soluzioni formali. Soprattutto l’Imboscata ebbe all’Esposizione italiana del 1861 un grande successo di pubblico, ricordato anche da Yorick, probabilmente a causa di «un’indovinata scelta del soggetto che, nella sua convenzionalità, poteva comprensibilmente far presa su un pubblico emotivo e passionale come quello ottocentesco postrisorgimentale. Il punto di maggiore attrazione della composizione, per il visitatore borghese, dovevano essere le figure dei due bersaglieri in agguato e quella del soldato nemico caduto, in primo piano, evocanti una situazione drammatica, di grande suggestione» (Matteucci 1987, 2° vol., p. 34).
Tornando al concorso Ricasoli, un discorso a parte caratterizza la scultura, sezione nella quale erano previsti numerosi concorsi per la realizzazione di importanti opere monumentali. Purtroppo, nonostante la presentazione dei bozzetti e il riconoscimento dei vincitori, quasi nessuna delle opere fu allogata per l’impossibilità di sostenere i relativi costi di produzione e realizzazione. E così furono realizzate unicamente le statue di Francesco Burlamacchi da Ulisse Cambi e di Leonardo Fibonacci da Giovanni Paganucci, mentre Salvino Salvini, che vinse il concorso per la Statua equestre di Re Vittorio Emanuele II, riuscì a realizzare solo il gesso. I concorsi per le statue di Napoleone III, Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II, rispettivamente vinti da Cambi, Cecioni e Pasquale Romanelli, non ebbero seguito e le opere non vennero allogate.
Sempre nel 1860 la Società fiorentina promotrice di Belle Arti presentò alla sua annuale esposizione una rassegna molto interessante delle varie forze in campo. Pur nella comune attenzione a tematiche risorgimentali, che prendevano sempre più il posto delle composizioni storiche, erano abbastanza evidenti i differenti registri adottati, sia per i temi trattati che per la tecnica di esecuzione.
Mentre Enrico Fanfani espose il 27 aprile 1859, scena di festa del popolo accorso in piazza della Signoria a festeggiare la fuga del granduca Leopoldo II, resa con tocco da cronista più che da sperimentatore di nuovi linguaggi figurativi, Signorini presentò due quadri di battaglie: L’artiglieria toscana a Montechiaro salutata dai francesi feriti a Solferino (olio su tela, cm 60 × 117, collezione privata), che venne acquistato da Eugenio di Savoia principe di Carignano, e l’Alt di granatieri toscani a Calcinatello presso Brescia (olio su tela, cm 51 × 67, collezione privata). Anche se entrambi i dipinti non raffigurano propriamente scene di battaglia, Cecioni ricorderà come i quadri patriottici esposti da Signorini in quell’occasione furono i primi ben accolti dalla critica e dal pubblico, non tanto per qualità stilistiche quanto per il soggetto, allora molto gradito (Cecioni 1905, pp. 306-307), indicazione preziosa per comprendere e sottolineare il ruolo attivo svolto dalle Promotrici nell’educazione del gusto e della sensibilità del pubblico verso le scene risorgimentali.
Fu proprio l’esperienza diretta di combattenti che contribuì in maniera fondamentale a rendere vivi e veri gli episodi risorgimentali, evitando la retorica, l’epopea o la sterile esaltazione di virtù eroiche tipiche della precedente pittura di storia. Signorini infatti, arruolatosi come volontario nel maggio del 1859, partecipò alla battaglia di Solferino come artigliere alla prima batteria dei toscani:
Se tutte le grandi illusioni politiche che gli artisti si erano fatte non si effettuarono, fu però anche questo un gran vantaggio, e un nuovo elemento di vitalità per loro onde poter produrre, poiché la vita attiva della campagna, il lasciar lo studio per del tempo, il veder cose nuove, dovea con più forza e coraggio, ritemprato il corpo, far sviluppare più le qualità morali dello spirito e far produrre con maggior potenza ed ardore le recenti scene della vita in campo.
Così Signorini scrisse nel 1867 nel «Gazzettino delle Arti del Disegno» (Somarè 1926, p. 239), e molti anni più tardi ricorderà che «Gli ardori bellici del ’59 non erano ancora sopiti e tutti noi, artisti fiorentini, fino a che ci restarono vivi i ricordi delle nostre campagne militari, si dipinsero scene di accampamenti e di bivacchi, di scaramucce e di battaglie (Signorini 1896, p. 89).
Già da questo momento, in Signorini, le sperimentazioni della «macchia» e gli accentuati contrasti luministico-chiaroscurali nella realizzazione di scene risorgimentali si fondono mirabilmente con una maggiore cura dell’impianto disegnativo e della profondità dei piani, secondo un procedimento pittorico caratterizzato dalla luce e dal rilievo come supreme sintesi di disegno e colore: «l’arte [...] precede e non segue i suoi tempi e l’utopia l’esagerazione del chiaro scuro (che fu mezzo di rivolta contro le vecchie teorie) si modificò da se stessa e modificandosi sviluppò ciò che vi è fra il chiaro e lo scuro, la mezza tinta, ragion per cui il disegno si raffinò e si corresse, il dettaglio si accrebbe e la brutalità sparì dall’arte» (Signorini 1870, pp. 380-383). Il dipinto l’Alt di granatieri toscani a Calcinatello presso Brescia colpisce per la delicata eppur decisa luce, che avvolge la scena e la definisce con grande nitore. L’andamento orizzontale della composizione, sottolineato dalle ombre marcate in primo piano che, secondo un procedimento caro a Signorini anche nei quadri della maturità, permettono una maggior luminosità delle parti in luce, e la dolce fuga dei piani prospettici, trovano il loro culmine nella cesura diagonale costituita dal grande tendone, che raccoglie e diffonde la luce esaltando ed evidenziando le partiture chiaroscurali e il tessuto disegnativo.
Dalle opere esposte alla Promotrice risulta comunque evidente la volontà, per lo meno da parte degli artisti che frequentavano il Caffè Michelangelo, di non trattare i temi risorgimentali secondo la naturale declinazione che questi avrebbero dovuto avere in relazione all’abbandono della pittura di storia. Gli artisti, infatti, cercavano di presentare dipinti in grado sia di abbandonare il registro eroico o epico, sia di cambiare e rinnovare l’impostazione della cosiddetta scena di genere, che veniva sì riportata a scene di vita quotidiana, ma elevata sia nell’emotività che nel registro pittorico caratterizzato dalla presa del vero. Solo due anni dopo, infatti, questa caratteristica verrà chiaramente sottolineata: «Questo generoso spirito di eternare sulle tele i fasti militari della Italia rinnovellata è venuto molto a proposito, e con vantaggio dell’arte, a far diversione contro i soggettini, meschinissimi e prosaicissimi, altra volta in voga, richiamando il pittore, così detto di genere, a più nobile scopo, ed allo studio di una forma più eletta» (L’esposizione italiana del 1861, pp. 180-181).
La stessa impressione si ha esaminando le opere partecipanti alla Promotrice dell’anno successivo, il 1861, che venne anticipata alla primavera, per non sovrapporsi alla prima Esposizione nazionale, che si sarebbe tenuta in autunno. Nonostante molti degli artisti più importanti fossero al lavoro per le opere della rassegna nazionale, le sale della Promotrice ospitarono alcuni dipinti importanti, di grande qualità e molto indicativi del processo di rinnovamento delle arti figurative, che avrebbe visto un’ulteriore accelerazione con la presentazione delle opere finite del concorso Ricasoli. Non giova più, dopo quanto detto sopra, sottolineare in quella Promotrice l’inevitabile diminuzione, per i motivi che abbiamo fin qui esaminato, delle composizioni di storia, sostituite da alcune scene risorgimentali, opera di alcuni degli artisti che più avevano operato per il rinnovamento della pittura con le sperimentazioni della «macchia»: Lega e Signorini.
I nostri vecchi padroni, paurosi che il conoscerci e l’amarci non ci mettesse in testa la persuasione della nostra forza, e non affrettasse il momento di quella temuta unità di pensiero che fa oggi la nostra forza in faccia alle potenze nemiche ed amiche, ci tenevano al buio delle cose nostre, per cui la odierna esposizione ha per tutti noi l’importanza d’una rivelazione sorprendentissima. Da Napoli, da Venezia, da Roma, da Torino, da Milano sono qui venuti egregi lavori che hanno reso ancora più splendida ed invidiata la corona di Regina delle Arti che nessuno potè strappare dal capo della nostra Italia finch’ella fu debole e serva, e che nessuno potrà strapparle in avvenire, unita, libera, e forte come ella è (Yorick 1861, p. 45).
Così Pietro Coccoluto Ferrigni, sotto lo pseudonimo di Yorick, commentava la sezione di Belle Arti della prima Esposizione nazionale agraria, industriale e artistica, che veniva inaugurata il 5 settembre 1861 a Firenze e che, pur contando un’inevitabile predominante presenza di artisti toscani, aveva comunque l’intento di presentare una panoramica il più possibile esaustiva delle diverse scuole pittoriche, comprendendo anche quella romana e veneziana, espressione di territori che ancora non facevano parte dello Stato unitario.
Questa prima esposizione veniva incontro all’esigenza, fortemente avvertita in tutti gli ambienti, di inaugurare un’esposizione nazionale, sul modello e sull’esempio di quanto fatto con successo da altri paesi più strutturati dell’Italia da un punto di vista politico ed economico, in grado di presentare, confrontare e far conoscere le differenti realtà e culture delle diverse regioni della penisola, che uscivano da situazioni politico-economiche molto disomogenee e articolate. L’esposizione doveva soprattutto essere in grado, attraverso il confronto delle singole specificità, di presentarsi come passo necessario e fondamentale nel processo di presa di coscienza reale e concreta, da parte degli individui, dell’avvenuta unificazione.
Il genere pittorico che riscosse maggiori consensi all’esposizione, da parte sia del pubblico che della critica, fu quello patriottico, al quale vennero riservate le due sale dedicate al Risorgimento italiano. La recensione sul giornale dell’Esposizione a uno dei dipinti esposti, Dopo la battaglia di Palestro di Moricci, del quale veniva pubblicata l’incisione, presenta con efficacia, dal punto di vista della critica, il nascere e l’affermarsi di questo nuovo genere molto apprezzato e ricco di possibilità interpretative: «Le guerre, combattute gloriosamente sui campi lombardi, hanno acceso di nobile emulazione l’animo dei nostri giovani artisti, molta parte de’ quali si ebbero il battesimo di fuoco nel 1848 e 49, e presero parte dei fatti d’arme del 1859, invogliandoli a trattare i difficilissimi soggetti d’argomento guerresco» (L’esposizione italiana del 1861, pp. 180-181).
Del dipinto, elogiato anche dal critico Yorick, venne anche pubblicata l’incisione e una breve descrizione:
Fra i molti soggetti aneddotici della campagna d’Italia, che furono esposti nel Palazzo di Porta al Prato, è stato prescelto a ornare le pagine di questo giornale un dipinto di Giuseppe Moricci […]. Dopo la memorabile battaglia di Palestro, ove il 3º reggimento degli Zuavi operò prodigi di valore, fu veduta entrare in Vercelli, verso le ore 8 della mattina una carretta, entro la quale erano assisi sulla paglia 5 zuavi feriti; vari austriaci prigionieri tiravano la carretta a mo’ di cavalli. Questo soggetto molto si presta ad esser trattato pittoricamente, e il Moricci ha saputo cavarvi una gradevole composizione e un buon effetto di colore (ibid.).
I dipinti degli artisti toscani rappresentavano egregiamente le molte declinazioni del tema patriottico, attraverso l’adozione di temi e registri pittorici differenti e articolati. Per quanto riguarda la parte istituzionale vennero infatti presentati all’esposizione alcuni dei dipinti vincitori del concorso Ricasoli, per la maggior parte ancora non finiti: «Dopo un bel ritratto del Gordigiani, si vede il grande quadro di Lanfredini, lavoro non ultimato, ed esposto dietro richiesta del comitato committente, e nella quarta ed ultima parete […] si trovano due grandi quadri non terminati, ed esposti dietro richiesta del solito comitato, e sono quello del signor Fattori ‘Magenta’ e quello del signor Emilio Lapi ‘Palestro’» (Yorick 1861, p. 90).
Altri artisti lavorarono invece su una diversa formulazione del quadro di battaglia, di genere o di interno, adattandolo alle esigenze risorgimentali grazie anche alla tecnica di «macchia». Come detto in precedenza, Lega espose Un’imboscata di bersaglieri italiani in Lombardia, mentre Signorini presentò Cacciata degli austriaci dalla borgata di Solferino (olio su tela, cm 61,5 × 120, collezione privata), dipinto che vinse una medaglia, e che non risulta distante, per quanto riguarda le soluzioni formali, dalle due opere presentate l’anno precedente alla Promotrice fiorentina, anche se concentrato sul furore di una vera e propria scena di battaglia. Di tenore differente fu invece il 26 aprile 1859 di Borrani, acquistato dal principe di Carignano, che rievoca la giornata precedente l’abbandono di Firenze del granduca Leopoldo II. L’opera non piacque a Cecioni (Cecioni 1905, p. 341), ma ebbe molti elogi dalla critica: «Né dee passarsi sotto silenzio la gentile idea del signor Borrani, che in una giovinetta seduta in una soffitta, e tutta intenta al lavoro di una bandiera tricolore, ha voluto esprimere la vigilia della pacifica rivoluzione Toscana» (Yorick 1861, p. 129).
Le altre scuole pittoriche partecipavano con opere di alcuni dei loro maggiori esponenti. In particolare quella lombarda presentava dipinti di rilievo di Gerolamo Induno, «nome conosciuto ed amato nella repubblica dell’arte. Nessuno meglio di lui schizza le sue figure, e se non mancasse talvolta a suoi quadri l’illusione ottica che mette fra le persone lo spazio necessario ai loro liberi movimenti, le sue battaglie sarebbero lavori degni di elogio senza critica» (ivi, p. 84). Il pittore presentò La battaglia di Magenta (olio su tela, cm 210 × 363, Milano, Museo del Risorgimento), che venne premiata con la medaglia d’oro, mentre un altro suo importante dipinto La lettera del campo, pubblicato in incisione, venne recensito dal giornale dell’Esposizione, con alcune osservazioni molto interessanti:
Che cosa fa a noi se abbiamo davanti belle figure e belle scene della natura riprodotte colla più sorprendente verità e tali che la critica più schizzinosa non trovi nulla da apporvi se, tranne la momentanea ammirazione e il passeggero ricreamento dell’occhio, esse non danno luogo ad alcun movimento di simpatia, né alcun pensiero generoso e fecondo che ci trasporti oltre i confini del puro sensualismo? […] Ma come potranno essi riuscirvi? […] Questi riflessi, quali che siano, ci venivano suggeriti dal dipinto del sig. Induno che ha per titolo La lettera del campo. Il valente artista ha mostrato in questo suo lavoro, come in altri di simil genere, non comune attitudine a tirar fuori dal fatto materiale la scintilla nascosta del sentimento, accoppiando il vero col reale, la fedeltà dell’immagine colla poesia dell’affetto (L’esposizione italiana del 1861, pp. 276-277).
Tuttavia ogni periodo storico non è mai tessuto in maniera uniforme, anzi vi sono sempre contemporaneamente in campo molte forze in lotta per il possesso del futuro, istanze di avanguardia e resistenze vischiose. All’Esposizione nazionale del 1861 numerosi furono i dipinti di storia presentati da artisti affermati e molti recensori, a partire proprio dal già citato Yorick, criticarono duramente, a volte anche con giudizi ironici o di sufficienza, un tipo di pittura nei confronti della quale dimostravano assoluto disinteresse, ritenendola superata, sia nei temi che nei modi, e soprattutto incapace di comunicare quell’immediatezza di sentimenti e di coinvolgimento, che le scene di presa diretta sul quotidiano erano in grado di attivare. Il pubblico voleva vedere l’opera d’arte in relazione alla cultura che gli viveva attorno, conoscere e comprendere i collegamenti con i fatti quotidiani, porla in una nuova relazione con la propria epoca, in modo che ne divenisse, ne rivelasse o ne testimoniasse una componente essenziale.
Eppure la presenza di grandi opere d’arte quali La vendetta degli Amidei di Pagliano (olio su tela, cm 98 × 159, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), I funerali di Buondelmonte di Altamura (olio su tela, cm 106 × 214, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), o il già menzionato La cacciata del Duca d’Atene di Ussi, testimoniano e indicano una persistenza del gusto e dell’interesse del collezionismo che non può essere trascurato. I primi due dipinti trattavano momenti diversi dell’episodio che originò la divisione a Firenze tra le fazioni dei guelfi e dei ghibellini, l’abbandono da parte di Buondelmonte della promessa sposa, della famiglia Amidei, per potersi unire a nozze con Beatrice Donati. Pagliano si concentrò sul momento della congiura degli Amidei, che il giorno di Pasqua del 1215 assassinarono Buondelmonte, e il dipinto fu apprezzato per la capacità e la volontà di aggiornare il quadro di storia attraverso una resa cromatica cupa e contrastata e un dinamismo compositivo evidente nelle figure che sono sul punto di uscire di corsa dal nascondiglio per compiere l’efferato delitto.
Anche per Pagliano, che abbiamo già incontrato a Firenze nel 1856, vale quanto indicato in precedenza per Ussi. Il pittore fu fervente patriota, combatté nelle Cinque giornate di Milano, seguì Garibaldi distinguendosi a Roma, incontrò Morelli, anch’egli reduce dalle battaglie del 1848, si arruolò nel 1859 con i Cacciatori delle Alpi, partecipando a tutte le azioni militari e meritando così la medaglia d’oro al valor militare. Ma, pur alternando soggetti storici a soggetti risorgimentali, mantenne sempre nelle esposizioni ufficiali il registro elevato della pittura di storia.
Altamura invece rappresentò il momento dei funerali di Buondelmonte. Il dipinto venne commissionato dal mecenate napoletano Vonwiller, che a quella esposizione vedeva presenti anche altri suoi importanti dipinti come Il consiglio dei Dieci di Celentano, segno di un’evidente predilezione per una pittura di storia aggiornata con l’uso delle soluzioni formali più innovative. In particolare in questo dipinto Altamura applicava gli esiti delle ricerche di «macchia» e di partiture cromatiche forti e contrastate, come risulta nella luce che accarezza, illumina e accende la salma di Buondelmonte mentre la trasparenza atmosferica colora di rosa il paesaggio sullo sfondo.
Le sequenze formali sono particolarmente evidenti alla prima Esposizione nazionale di Firenze del 1861: La cacciata del Duca d’Atene di Ussi e 26 aprile 1859 di Borrani hanno stessa età cronologica, ma età diversa sistematica, perché la prima è alla fine di una sequenza formale, la seconda ne inizia una nuova. Ovviamente le discrepanze si notano di più in un centro dinamico, quale era Firenze in quegli anni. La storia dell’arte è portata quasi sempre a premiare l’innovazione rispetto alla persistenza, anzi molto spesso a fermare l’attenzione su artisti che avvertono bisogni e propongono soluzioni prima ancora che il pubblico ne senta la necessità. È dunque comprensibile l’atteggiamento della critica del tempo, e di quella contemporanea, portate a liquidare frettolosamente le composizioni di storia, etichettandole come persistenza di una tradizione ormai superata.
Ulteriore testimonianza di questa delicata fase di passaggio e rinnovamento delle arti figurative sono altri due dipinti molto importanti presentati all’Esposizione: Il consiglio dei Dieci di Celentano (olio su tela, cm 72 × 206, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna) e Gli iconoclasti di Morelli, del quale abbiamo parlato in apertura, che espose a quella rassegna anche Il conte Lara (olio su tela, cm 74 × 98, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), dipinto ispirato dall’omonimo poema di Byron, che ebbe grande apprezzamento da parte della critica (Yorick 1861, p. 223).
Sulla genesi e la storia del primo dipinto ci sono molte lettere scritte da Celentano al fratello fin dal luglio del 1860, dalle quali apprendiamo per esempio che gli artisti romani, ai quali fu mostrato il dipinto prima dell’esposizione, pur elogiandolo, criticarono un «eccesso» di verità nell’ultima figura, che si gratta il capo distratta, giudicata da alcuni addirittura «ignobile». Celentano si affrettò allora a correggerla e su autorizzazione di Vonwiller, che lo aveva commissionato, inviò il dipinto a Firenze nel 1861. L’opera fu lodata dalla critica (Yorick 1861, p. 225), ma anche e sopratutto dagli artisti: «Il quadro ha fatto un vero furore. Vonwiller ne è contentissimo. Morelli e Pagliano mi hanno detto più volte [...] che era la sola novità dell’esposizione, la sola individualità» (Celentano 1883, p. 444). Voce dissonante invece quella di Vittorio Imbriani, che non apprezzò la modernità di «macchia» e l’alternanza decisa di chiari e scuri, sottolineando inoltre una avvertita mancanza di unità del soggetto (Picone Petrusa 1997, pp. 538-539).
A parte la pittura di storia, va comunque sottolineato che la critica rimase dubbiosa e incerta anche sugli esiti più avanzati della pittura macchiaiola, proprio a testimoniare quanto a volte le soluzioni proposte precedano il sorgere di un problema. Quanto fosse nuovo il contenuto della pittura di Signorini, anche e soprattutto al di fuori delle scene risorgimentali, si evince proprio dal commento di Yorick relativo al dipinto Pascoli a Castiglioncello, esposto fuori catalogo all’Esposizione nazionale: «E finalmente un quadretto del signor Temistocle [sic] Signorini, uno de’ nuovi, in cui una contadinella che guarda le sue vacche pascolanti si fa della mano velo alla faccia contro i raggi del sole che sferza, non velato da nubi, il campicello di granturco annesso all’umile capanna. Un maligno lo ha chiamato una frittata, ripiena di vacche in gelatina» (Yorick 1861, pp. 122-123)
Fu proprio la contemporanea presenza all’Esposizione nazionale del 1861 delle opere degli esponenti dell’avanguardia napoletana, Morelli, Altamura, Celentano, e di quella macchiaiola, Fattori, Lega, Signorini, Borrani, a determinare un linguaggio comune, pur nelle differenze, capace di diffondersi rapidamente in tutti gli ambienti artistici della penisola.
Alla prima Esposizione nazionale, un altro campo di grande interesse fu quello della documentazione degli episodi bellici, a metà strada tra il reportage e la descrizione minuziosa dei fatti. Esempio tipico sono le 105 opere di Carlo Bossoli, che documentano le vicende belliche tra il 1859 e il 1860:
Tutto quello che è esposto in queste due Sale [X e XI della Galleria de’ Quadri] fa parte della Galleria privata di S.A.R. il Principe Eugenio di Savoia Carignano. Il signor Carlo Bossoli di Lugano, suo pittore ordinario, ha figurato in centocinque quadretti, dipinti a fresco su carta, la grande epopea del risorgimento italiano, le campagne di guerra del 1859-60. Questa stupenda collezione ci riempie l’animo, ogni volta che ad essa ci fermiamo dinanzi, di giusto orgoglio e di grandissima consolazione. Passò tempo in cui la pittura italiana doveva stringersi crucciosa nei limiti di adulatrici apologie di regnanti, o di stupide allegorie mitologiche. […] Ma i tempi hanno cangiato. […]. Oggi abbiamo grandi fatti da rappresentare, grandi epoche da rammentare, grandi uomini da onorare, e un grande popolo da istruire. E tocca agli artisti, a cui si apre ora campo lunghissimo, a compiere l’ardua fatica. Il signor Bossoli non fu da meno del suo difficile assunto. I sui quadretti hanno avuto plauso meritato, perché rivelano grande talento nell’artista, e perseveranza nel nobil proposito. Descriverli tutti ad uno ad uno è impresa impossibile per noi. Basterà dire che in tutti risplendono grandissimi pregi e che il pubblico non sembra sazio di star loro innanzi (ivi, pp. 156-157).
È inoltre importante ricordare che queste opere di Bossoli furono determinanti per la conoscenza e la diffusione dei temi risorgimentali in Italia e all’estero grazie alla riproduzione in litografia, in Italia ad opera dell’editore piemontese Claudio Perrin, e a Londra della casa editrice Day & Son nella serie War in Italy. Esemplare in questo senso La battaglia di Palestro, pubblicata in litografia da Ferdinando Perrin nell’Album storico artistico. Guerra d’Italia, che scritto dal corrispondente del «Times» dal campo franco-sardo, fu pubblicato a Torino nel 1860-62 (Pittori & Pittura 1997-1999, 4° vol., p. 234).
Per quanto riguarda la scultura, la situazione appare più complessa, anche perché tutta la monumentalistica, che ancora oggi campeggia in molte delle nostre piazze, è di alcuni decenni successiva. Non giova dunque tenerne conto in questa sede, ma è opportuno rilevare come all’Esposizione del 1861 fossero evidenti i segni del rinnovamento:
Forse per la smania di innalzar monumenti a tutti i grandi uomini estinti, e busti e statue anco ai viventi, che di grande non avevano nulla e spesso invece molto di quel ripiegato e rimpiccolito che è caratteristico nella generazione presente; forse pei molti lavori continuamente dai privati e dai governi commessi agli artisti scultori, quest’importantissima fra le arti rappresentative aveva già da lungo tempo in Italia dato prove palesi di non piccolo miglioramento e progresso. La odierna mostra di statue ne fa lutulentissima prova (Yorick 1861, p. 54).
Nonostante questa dichiarazione positiva solo pochi scultori vennero ritenuti degni di questo nome e molti altri furono addirittura derisi, chiaro indice di come il trattare temi risorgimentali non avesse ancora, a quella data, prodotto nella scultura lo stesso circuito virtuoso che aveva permesso alla pittura di affrancarsi dalle acque stagnanti della tradizione di storia e accademica. Particolarmente criticati da Yorick furono un Garibaldi di Giuliano Chiari «Gli capitò nelle mani il povero Garibaldi, e guardate là come me l’ha conciato», e L’Italia che mostra Venezia a Garibaldi di Pietro Faggioni, per la quale il critico impietoso commentava: «Chi non ha visto questo gruppo non ha mai riso di cuore in sua vita!» (ivi 1861, pp. 65-66, 92). Vennero invece lodati per qualità artistica e poetica degli affetti il busto di Cavour di Vincenzo Vela e un’opera di Augusto Rivalta raffigurante un episodio della guerra combattuta contro l’Austria sui campi lombardi nel 1859, definita «opera molto originale, che rivela grandissimo talento e accurato studio nell’autore, e che quotidianamente raccoglie intorno a sé molta parte degli intelligenti visitatori» (ivi, pp. 94-95, 109), e che venne anche pubblicata in incisione sul giornale dell’Esposizione italiana (L’esposizione italiana del 1861, p. 136).
Uno dei pochi artisti veneziani presenti all’Esposizione del 1861, Antonio Zona, espose Tiziano Vecellio che incontra Paolo Caliari sul ponte della Paglia (olio su tela, cm 259 × 335, Venezia, Galleria d’arte moderna di Ca’ Pesaro), grande tela di impostazione accademica e paludata, commissionata da Francesco Giuseppe I nel 1857, che testimoniava come la pittura veneziana fosse ancora strettamente legata alla tradizione e incapace di rinnovamento. Fino all’annessione del 1866 le nuove istanze pittoriche passarono esclusivamente attraverso la pittura di paesaggio, grazie alla presenza molto importante di Ippolito Caffi. Appassionato patriota, Caffi partecipò da antiaustriaco alla difesa della repubblica di Venezia nel 1849. Condannato all’esilio, arrestato nel 1860, partecipò alle campagne garibaldine e morì il 20 luglio 1866, nel corso della terza guerra d’indipendenza, in occasione dell’affondamento a Lissa della nave Re d’Italia.
Gli esiti del rinnovamento operato sulla pittura di paesaggio veneziana fin dalla metà degli anni Trenta sono testimoniati non solo dal grande dipinto del 1860, conservato al palazzo Reale di Torino, che rappresenta l’Ingresso di Vittorio Emanuele II a Napoli, mirabile per la tavolozza luminosa e l’attenzione ai numerosi episodi di cronaca popolare; ma anche dai quattro deliziosi dipinti di Luigi Querena, che raffigurano vedute dei bombardamenti nelle acque della laguna o nel bacino dell’arsenale durante i moti del 1848-49, che lo stesso Caffi aveva dipinto in Bombardamento notturno a Marghera. La loro modernità è evidente se paragonata alla grande opera di Andrea Appiani il Giovane Venezia che spera (olio su tela, cm 132 × 146, Milano, Museo del Risorgimento), dipinta nel 1865, solo un anno prima dell’annessione del Veneto all’Italia, ancora di impostazione accademica e raffigurante una fanciulla che impersona Venezia, di ascendenza hayeziana, che tiene a bada con un energico gesto della mano il leone di San Marco di fronte alla laguna. A partire dall’annessione, il rinnovamento della pittura a Venezia non passerà attraverso le scene di soggetto risorgimentale, ma attraverso l’evoluzione della pittura di paesaggio e della scena di genere, ad opera di Giacomo Favretto, Guglielmo Ciardi, Luigi Nono. In questa opera di rinnovamento, ancora a testimonianza dell’importanza degli scambi culturali tra gli artisti italiani, grande parte avrà la presenza in laguna di un grande pittore napoletano, Michele Cammarano, presente a Venezia nel 1867-68, che ritroveremo a breve a celebrare il completamento del processo di unificazione con la Carica dei bersaglieri a Porta Pia.
Il primo soggiorno di Cammarano a Venezia risale proprio al 1867, quando il pittore arrivò presso Pompeo Marino Molmenti, professore di disegno all’Accademia di Belle Arti, con una lettera di presentazione di Morelli, artista che godeva in laguna di grande considerazione da parte degli artisti veneziani. Cammarano si recò a Venezia per esporre alla locale Promotrice il grande dipinto Le risorse della povera gente, commissionato dal principe Giovanelli, e si inserì subito nell’ambiente artistico veneziano, come ricorderà nelle sue Memorie:
Presso l’Accademia v’era e v’è tuttora un non grande caffè che dà sul Canal Grande, e si poteva dire occupato soltanto da artisti, fa un po’ le veci del caffè Michelangelo di Firenze o del caffè Greco di Roma, là si parla d’arte, si discute, si annunziano le novità del giorno, […] io non mancai essere della brigata, e conobbi dei bravi giovani che allora esordivano in arte, e che più tardi ho riveduto valentissimi artisti, come il Nono, Dal Zotto, Favretto, Mion, Trombetti e tanti altri (Biancale 1936, p. 116).
L’anno successivo Cammarano tornò a Venezia portando il grande Incoraggiamento al vizio, commissionato dal conte Nicolò Papadopoli, opera tutta giocata su partiture chiaroscurali forti e contrastate, con bianchi accesi e neri scurissimi, che riportava a Venezia, mediati dall’insegnamento di Morelli, gli esiti delle prime sperimentazioni macchiaiole, seguendo una ricerca parallela a quella che veniva fatta oltralpe. Nel mese di agosto lo raggiunse un altro grande maestro napoletano, Filippo Palizzi e gli artisti veneziani organizzarono una gita in barca per omaggiarlo:
Arrivò nell’Agosto 1868 a Venezia, il mio amatissimo maestro D. Filippo Palizzi […] Tutti gli artisti veneti seppero onorarlo come un Filippo Palizzi meritava, un’escursione si preparò in suo onore io ne fui promotore, si provvide una grande barca ed è sottinteso di forma della regolamentare costruzione veneziana, i rematori tutti artisti, fra gli altri Zandomeneghi, Favretto, Mosè Bianchi, il caro Dal Zotto (ivi, p. 117).
Filippo Palizzi, che aveva già eseguito dipinti ispirati ai moti del 1848, realizzò alcuni pregevoli studi di garibaldini nei giorni precedenti la battaglia del Volturno del 1860 (conservati a Roma nella Galleria nazionale d’arte moderna), ma soprattutto aveva rifiutato l’invito a partecipare all’Esposizione di Firenze 1861, poiché ritenuta troppo tradizionale.
E proprio Cammarano, insieme ad Ademollo, è autore di uno dei due dipinti più significativi, entrambi datati 1871, relativi all’episodio della breccia di Porta Pia, che permise la presa di Roma nel 1870 e completò il processo di unificazione. Ademollo presenta ne La breccia di Porta Pia (olio su tela, cm 203 × 376, Milano, Museo del Risorgimento) il momento precedente l’entrata dei bersaglieri, tutti intenti ad arrampicarsi sulle macerie delle mura appena bombardate, con resa compositiva efficace ma ancora nella tradizione ormai consolidata della pittura di battaglia che con l’Eposizione di Firenze del 1861 aveva ormai coordinate precise e chiaramente identificabili.
Ben diverse sono la composizione e l’intensità emotiva e della Carica dei bersaglieri a Porta Pia di Cammarano (olio su tela, cm 290 × 472, Napoli, Museo di Capodimonte), dipinto nel 1871 e presentato all’Esposizione di Belle Arti di Milano l’anno successivo, dove venne acquistato dal Re, nel quale la carica dei bersaglieri, veloce, irruente, inarrestabile corre dritta verso lo spettatore. Come ricorda Michele Biancale,
a fare di quest’opera un lavoro sentito tutto concorreva: senso patriottico del Cammarano, scarsa simpatia per il clero, entusiasmo per l’impresa da lui vissuta quasi ora per ora, opportunità di controllarsi sul luogo e sui tipi di bersaglieri, a lui carissimi, che il Colonnello dell’Arma gli mandava tra i più belli, per studio. Ma il quadro offre assai meno uno studio di tipi che d’insieme, e ripresenta, in un altro verso, quel carattere di larga sintesi ch’era nel quadro Incoraggiamento al vizio. È tutto un fremito di penne oltre la prima linea che offre uno slancio finale al convulso richiamo del capo manipolo, in quei quattro bersaglieri di cui l’uno, il trombettiere, cadendo a terra colpito a morte crea un vuoto necessario alla composizione che sarebbe stata monotona nella mossa iterata della prima linea di quel pelottone (plotone) eroico. C’è fumo, polvere, qualche brano di muro, qualche ombra di ramo, e nel dinanzi è accentuato lo spazio della strada per il senso dello slancio. L’impeto v’è raggiunto: è come un bolide che avanza (ivi, p. 67).
Torniamo in Toscana, perché già nel 1867 l’attenzione ai temi risorgimentali, almeno intesi come celebrazione di gesta eroiche, pur persistendo, cominciava a dare segni di esaurimento, soprattutto da parte degli artisti, se proprio Signorini recensendo l’Ugo Bassi davanti al Consiglio di Ademollo scriveva: «tutti questi esempi d’amor patrio in pittura mi son venuti un po’ a noia, perché non trovo un gran merito a fare quadri liberali quando non v’è pericolo, e quando sono liberali perfino i Codini. Mi pare che quest’arte faccia la corte a tutti come le donne pubbliche. Mentre che se l’arte ha uno scopo, è certamente quello di precedere e non di seguire i tempi» (Signorini 1867). Tuttavia, ancora una volta a dimostrazione di quanto ogni momento storico sia tessuto in maniera molto complessa e articolata, è interessante sottolineare come nel 1883, in occasione della grande Esposizione internazionale di Roma, fra i numerosi acquisti dello Stato per la neonata Galleria d’arte moderna, vi furono La battaglia di Custoza di Fattori (olio su tela, cm 297 × 546, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna) e La battaglia di San Martino di Cammarano (olio su tela, cm 420 × 820, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna). Entrambi i dipinti però furono molto criticati. Il primo era già stato esposto, senza grande successo, alla rassegna nazionale tenutasi a Torino nel 1880. Luigi Chirtani, senza mezzi termini scrisse: «è impossibile sognare i nostri bellissimi artiglieri più brutti, più sciatti, meno soldati nella tenuta [...] sono trasparenti essi e le loro divise; i fanti del quadrato, cavalli, cavalieri, armi ed armati, tutto è scialbo, diafano, scolorito, fragile» (Chirtani 1880, p. 87); e Filippo Filippi condivise le sue osservazioni, soprattutto relative alla tonalità delle divise «affogate nella più strana falsità di colore, bigio, violaceo, azzurrognolo, da far venire il mal di mare» (Filippi 1880, pp. 112-113). Il secondo, premiato dal re Umberto I con 3.000 lire, sollevò critiche, probabilmente anche perché presentato non finito, come risulta da una lettera di Cammarano a un amico: «Un quadro lavorato a traverso tanti triboli che l’ho esposto non so io stesso come, che mi premiano e quantunque non finito, pur lo lodano, ed invece di trovarne quella retribuzione morale che m’era abitudine nei miei scorsi anni, mi tocca a faticare per piazzarlo» (Biancale 1936, pp. 77-78).
Nel 1870, anno della presa di Roma e del completamento del processo di unificazione, vi fu a Parma la seconda Esposizione nazionale. Pur ricordando che i premi nazionali continueranno ancora per molti anni ad essere fortemente discriminanti rispetto ai generi, tanto che all’Esposizione di Torino del 1880 la cifra messa in palio per i grandi quadri a soggetto storico sarà di 14.000 lire, mentre per le composizioni di pittura di genere sarà di 5.000 lire (Maggio Serra 1990, pp. 643-644), tutte le istanze di rinnovamento fin qui esaminate saranno presenti al fine di avere un’esposizione, come sottolineò l’allora ministro della Pubblica istruzione Cesare Correnti in grado di non distruggere le diversità regionali, ma di riassumerle nel tipo nazionale.
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