Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le arti figurative sono uno dei campi di battaglia nello scontro tra protestanti e cattolici. Se per i seguaci di Lutero e di Zwingli la rappresentazione del sacro costituisce un abuso strumentale e inammissibile, per la Chiesa romana l’arte è un mezzo ideale per evangelizzare le masse. Si assiste così al tentativo di organizzare una teoria dell’arte funzionale alla rappresentazione degli episodi evangelici.
La questione delle immagini sacre
I drammatici avvenimenti religiosi che caratterizzano la storia europea del XVI secolo non mancano di influenzare anche lo sviluppo delle arti figurative. Uno dei terreni di scontro tra protestanti e cattolici è costituito proprio dalla questione dell’arte e delle immagini in particolare: su questo aspetto si misurano la distanza e la differente visione della religione tra le due fazioni. La polemica inizia nel 1522 a Wittenberg, nel cuore della rivolta protestante, quando Andreas Bodestein von Karlstadt diffonde l’idea che il culto delle immagini costituisca un mezzo di controllo delle masse o una forma di idolatria: in quanto prodotto indipendente dai Testi Sacri, unici depositari della rivelazione divina, l’arte è considerata un abuso dell’uomo e, nello specifico, della Chiesa di Roma. Dalla cittadina tedesca parte così una violenta campagna di distruzione delle icone e delle immagini religiose, e solo l’intervento di Martin Lutero evita la distruzione dei dipinti di Albrecht Dürer. L’anno seguente il moto iconoclasta, per opera di Ludwig Hätzer, raggiunge Zurigo, quindi Norimberga e Strasburgo.
Contemporaneamente gli esponenti più moderati della Riforma, Erasmo da Rotterdam e Martin Butzer, cercano di stabilire delle distinzioni tra uso buono e uso cattivo delle immagini. Condannando quella che viene considerata superstizione pura e semplice, ovvero il culto dei santi, che non trova fondamento nelle Sacre Scritture, è invece ammessa l’illustrazione della vita di Cristo purché accompagnata dall’esplicazione evangelica; Erasmo e Butzer, implicitamente, ammettono che tramite la vista si può arrivare a colpire l’animo dei fedeli, specie di quelli meno acculturati, ben più di quanto si riesca a fare tramite la lettura o l’ascolto.
Di contro, risulta di lì a poco particolarmente intransigente la posizione dell’umanista Huldrych Zwingli, il quale, nella seconda disputa dell’ottobre del 1523, rifiuta con fermezza qualsiasi uso delle immagini negli spazi sacri e privati, poiché esse, in quanto prodotti dell’uomo, non possono che essere imperfette e impure per definizione. I movimenti protestanti tendono quindi in quegli anni a scavare un solco sempre più profondo tra parola e immagine.
L’Italia tra Riforma protestante e Riforma cattolica
Sullo sfondo di questi aspri contrasti religiosi, nella prima metà del secolo si diffondono in Italia circoli autonomi che mirano a conciliare alcune delle sollecitazioni protestanti con il primato della Chiesa romana. Si tratta del cosiddetto movimento di Riforma cattolica che, traendo spesso spunto dalla figura di Girolamo Savonarola, raggiunge una diffusione significativa attorno agli anni Quaranta.
Il ruolo degli artisti in questo ambito è sovente determinante. Caso celebre quello di Lorenzo Lotto. Animato da una profonda coscienza religiosa, è in costante contatto con gli ambienti riformisti nei suoi spostamenti lungo la penisola, sia a Bergamo – dove dipinge alcuni dei suoi capolavori più spirituali, come il Commiato di Cristo dalla madre (1521, Berlino, Gemäldegalerie) e gli affreschi con le Storie delle sante Brigida d’Irlanda, Caterina d’Alessandria e Barbara (1524, Trescore, oratorio Suardi) – sia nelle Marche (Annunciazione, 1527, Recanati, Pinacoteca). Particolarmente gradita risulta infatti la sua formula realistica e arcaizzante, di immediata presa emotiva, il cui manifesto è costituito dalla pala con l’ Elemosina di sant’Antonio, dipinta nel 1542 per la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia.
Ad ambienti di committenza riformista bisogna far risalire poi il Sacro Monte di Varallo, per tutto il secolo oggetto di lavori di decorazione tesi a ricreare attraverso la pittura e la scultura i luoghi santi della Palestina, teatro della vita terrena di Cristo. Sin dal 1520 Gaudenzio Ferrari vi realizza affreschi e presepi plastici, caratterizzati da un’intensa vena popolare neomedievale.
In Lombardia è significativo il ruolo ricoperto dal pittore Alessandro Bonvicino detto il Moretto, membro della bresciana Scuola del Santissimo Sacramento. Dopo aver eseguito un Ritratto postumo di Girolamo Savonarola (1524, Verona, Museo di Castelvecchio), realizza una serie di importanti dipinti, come l’Apparizione della Madonna (1533-35, Paitone, Santuario), il Ritratto funebre di sant’Angela Merici (1540, Brescia, Istituto Mericiano), e il Cristo con l’angelo (1548-50, Brescia, Pinacoteca Tosio-Martinengo), caratterizzati da una presentazione austera e decorosa del fatto sacro mediante una ripresa dei moduli raffaelleschi.
Il contatto con ambienti infiammati da preoccupazioni penitenziali è, invece, la motivazione principale della conversione stilistica di Polidoro da Caravaggio. Gli accenti espressionistici di un’opera come la Salita al Calvario (prima del 1534, Napoli, Capodimonte), che sovverte la formazione raffaellesca del pittore, si spiegano infatti solo alla luce al misticismo intriso di drammatico ascetismo che caratterizza le confraternite, laiche e non, abituali committenti di Polidoro tra Napoli e Messina.
La crisi religiosa della prima metà del secolo sembra sfiorare anche Michelangelo. Tormentato da una coscienza religiosa di stampo valdesiano, negli anni Quaranta egli si lega al circolo di Viterbo, sorto due decenni prima intorno alla figura carismatica di Egidio da Viterbo, fautore di una riforma della Chiesa che raccogliesse alcune istanze delle critiche luterane. Vittoria Colonna e il controverso cardinale inglese Reginald Pole sono i punti di riferimento di questa comunità spirituale che, oltre a Michelangelo, esercita un forte ascendente su Sebastiano del Piombo, autore in quegli anni di dipinti intrisi di sentimenti religiosi di grande drammaticità (Pietà, 1516-30, Viterbo, Museo Civico).
Dal concilio di Trento ai trattatisti della seconda metà del secolo
Le esperienze artistiche in ambito religioso sono frammentarie, spesso solitarie e comunque slegate da intenzionalità programmatiche. In concomitanza con l’inizio del concilio di Trento (1545) si registra un irrigidimento da parte delle gerarchie ecclesiastiche, anche se la questione delle immagini non vede radicalizzazioni paragonabili ai crescenti processi inquisitori del Sant’Uffizio.
La clamorosa censura del Giudizio universale di Michelangelo, ritoccato da Daniele da Volterra nel 1565 per coprire nudità considerate eccessive, in realtà è il frutto tardivo di un processo di accusa cominciato negli anni Cinquanta sotto Paolo IV Carafa e maturato nel 1564 con il Dialogo nel quale si ragiona sugli errori et abusi dei pittori circa le historie di Giovan Andrea Gilio. All’opera michelangiolesca si rimproverano l’assenza di decoro e, soprattutto, certe deviazioni dalla strada maestra della tradizione (che Gilio chiama "consuetudine”), quali la raffigurazione di angeli senza ali o di santi senza aureola.
Una risposta ufficiale da parte della Chiesa cattolica giunge solo nelle battute finali del concilio di Trento, durante la XXV sessione del dicembre 1563. Dopo aver riaffermato l’assoluta necessità della mediazione del sacerdozio e dell’intercessione dei santi tra Dio e i fedeli, il decreto conclusivo approvato dai teologi ribadisce che il culto delle immagini è da considerarsi lecito in quanto tramite ideale per rivolgere la devozione ai prototipi rappresentati, in virtù dell’universalità comunicativa delle immagini stesse, al di là delle barriere linguistiche e culturali. Nel rilanciare la funzione delle immagini come elemento essenziale della liturgia, si rinnova il medievale concetto di Biblia pauperum, accettando le proposte di illustrazione evangelica che si erano diffuse in Italia nella prima metà del secolo. Ma, accanto a tali indicazioni, proprio perché coscienti dell’importanza di questo strumento comunicativo, i prelati conciliari impongono che le immagini religiose siano poste sotto il controllo dell’autorità ecclesiastica, al fine di evitare abusi e, soprattutto, errori di carattere dogmatico. Pur nella sua genericità, il decreto tridentino segna l’inizio di un processo di codificazione che maturerà nei decenni successivi a opera di trattatisti e vescovi.
In questa prospettiva, i vescovati di Carlo Borromeo a Milano (dal 1563 al 1584) o di Gabriele Paleotti a Bologna (dal 1566 al 1591) stabiliscono, nella loro differente azione pastorale, i parametri di applicazione dei decreti tridentini nel loro complesso. Entrambi, inoltre, si occupano di stendere scritti teorici tesi a regolarizzare l’uso dell’arte sacra. Il Borromeo dà alle stampe nel 1577 le Instructionum fabricae et suppellectilis ecclesiasticae, trattato dedicato al corretto modo di costruire e ornare gli edifici di culto, nel quale non è trascurato alcun aspetto, persino quelli più minuti e apparentemente insignificanti. Paleotti, invece, pubblica nel 1582 i primi due volumi del Discorso sulle immagini sacre et profane, cui dovevano seguire altri tre tomi che l’arcivescovo di Bologna non riuscì a completare.
Tale scritto nasce con l’intento di opporsi al dilagante intellettualismo manierista che aveva portato l’arte a un’eccessiva complicazione formale e iconografica, allontanandola dalle Sacre Scritture. Paleotti si situa su una linea di fede che ha nel coinvolgimento dei sensi un elemento determinante: si pensi agli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, alla sua proposta di concentrazione interiore, di immedesimazione nell’atto di fede sino al punto di forzare i confini spazio-temporali per arrivare a vedere davanti a sé i personaggi sacri, quasi interagendo con loro. Risulta così chiaro come questa ala della Chiesa tridentina possa considerare importante la traduzione per immagini del divino.
Paleotti afferma che l’arte ha il compito di dare un volto alla fede. Ciò è possibile epurando il reale da quello che è indecoroso per promuovere invece ciò che è valenza affettiva, coerenza realistica (il verisimile espresso nella formula "immagine e similitudine”, architrave dello scritto del prelato). Fine del pittore deve essere la persuasione del pubblico: “dilettare, insegnare, muovere all’affetto”. Se i primi due punti sono ovvi, il terzo è denso di significati propagandistici: uno dei modi per conquistare cuore e mente dello spettatore è stimolarlo proponendo immagini affascinanti e familiari, perché “di quel che si conosce non si prende piacere né dispiacere” ma conforto e sicurezza.
Tra naturalismo e astrazione: la pittura religiosa alla fine del Cinquecento
L’influenza di questi scritti sul concreto operare degli artisti è forte ma risulta di fatto anticipata all’interno di circoli o diocesi particolarmente sensibili.
Intorno al 1560 matura nella coscienza di chi produce o commissiona arte sacra il bisogno di allontanarsi dalle complesse composizione manieristiche e dalle forzature anatomiche in favore di una chiara narrazione del tema sacro. Non è così infrequente che artisti abituati a usare linguaggi elaborati in contesti privati, passino a registri più leggibili ed emotivamente coinvolgenti quando si cimentano nelle pale d’altare.
Esemplare il caso di Taddeo Zuccari, capace di essere contemporaneamente il pittore dei fasti farnesiani di Caprarola e il delicato narratore della morte di Cristo nella Pietà (1564-64, Urbino, Galleria Nazionale dell’Umbria), uno dei primi esempi di pittura riformata.
Analogamente, il "gran cardinale” Alessandro Farnese, nipote di Paolo III, si rivela mecenate dai gusti principeschi per quanto attiene i propri palazzi, ma fautore della moderazione e del pauperismo quando assume il ruolo di sostenitore dei nuovi ordini religiosi, come nel caso dei Gesuiti.
A Roma e in altre parti d’Italia chiese e oratori subiscono importanti modifiche al fine di adeguarli alle nuove necessità dettate dalle esigenze tridentine. Un primo esempio è fornito dalla decorazione dell’oratorio di Santa Lucia al Gonfalone, che si protrae dal 1555 al 1576 per volere del cardinale Farnese. Le Storie della Passione di Cristo sono realizzate da un’equipe di artisti: Livio Agresti, Bertoja, Daniele da Volterra, Cesare Nebbia, Marco Pino, Raffaellino da Reggio e Federico Zuccari. Le Storie della Passione si pongono come simbolo del trapasso dalla Maniera alla nuova arte sacra riformata e consentono di misurare il recupero del primo Rinascimento da parte degli artisti della Controriforma, esemplificato dalla Flagellazione di Federico Zuccari.
Esiti più smaccatamente riformistici presentano le Storie della Croce dell’oratorio del Crocefisso a San Marcello al Corso, il luogo che ospitava le riunioni della Confraternita del Santissimo Sacramento. Attorno al 1580 Girolamo Muziano, coadiuvato da Nicolò Circignani detto il Pomarancio, Cesare Nebbia e Giovanni de’ Vecchi, dà nuova forma all’esigenza di semplificazione e di naturalismo, pur conservando la forma monumentale michelangiolesca.
Nel Noli me tangere del lombardo Marcello Venusti (1575 ca., Roma, Santa Maria sopra Minerva) la regolarizzazione del risalto plastico di Michelangelo giunge a maturazione, all’interno di una composizione di derivazione raffaellesca.
Anche in altre parti della penisola ci si muove alla ricerca di nuove forme di racconto del sacro, spesso, come accade nelle Marche – attraverso i dipinti di Cristoforo Roncalli) e in Umbria – mediante l’attività del Circignani –, facendo ricorso alle formule romane.
A Bologna invece le esortazioni del cardinale Paleotti alla verosimiglianza e al naturalismo trovano consonanza nella fase iniziale dell’attività di Ludovico, Agostino e Annibale Carracci: non a caso si utilizza il termine "riforma”, desunto dalla religione, per indicare l’apporto storico dei tre pittori. Di rilievo è anche la vicenda di Bartolomeo Cesi che, più dei Carracci, riesce a farsi interprete dei precetti del Discorso del Paleotti, assumendo il ruolo di protagonista nelle decorazioni promosse dagli ambienti spirituali felsinei, come nel caso della chiesa certosina di San Girolamo.
A Firenze, nella seconda parte del Cinquecento, Santi di Tito, allievo di Taddeo Zuccari, partecipa alla decorazione di quello straordinario monumento all’intellettualismo manierista che è lo Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio. Nonostante ciò, nel genere della pala d’altare egli riesce a essere uno dei protagonisti del rinnovamento del linguaggio artistico in senso tridentino. Nella Visione di san Tommaso (1592, Firenze, San Marco), il pittore racconta la visione del santo esaltando il carattere emotivo e sovrannaturale dell’evento.
Il ruolo dei nuovi ordini religiosi: la Compagnia di Gesù
I nuovi ordini religiosi rappresentano uno straordinario strumento di evangelizzazione e di controllo. Nonostante in materia artistica non venga creata una codificazione ufficiale, è innegabile che ordini come la Compagnia di Gesù, per sua stessa costituzione attenta a ogni forma di comunicazione, svolgano un ruolo determinante nella diffusione di schemi e tipologie. Ai Gesuiti si deve, per esempio, l’invenzione di un tipo architettonico molto seguito in età controriformista e barocca, quello della chiesa a navata unica con cappelle laterali comunicanti tra loro, transetto formato da due grandi cappelle, cupola altissima e spaziosa posta davanti a un’ampia zona presbiteriale. Applicato per la prima volta nella chiesa del Gesù di Roma (1568-1584) dal Vignola e dall’architetto gesuita Giovanni Tristano, questo modello viene emulato in tutto il mondo poiché offre il vantaggio di rendere visibile l’altare maggiore da qualsiasi punto dell’edificio. Anche in materia iconografica i Gesuiti operano scelte organiche e ben indirizzate: alla fine del secolo molti altari vengono decorati con raffigurazioni della Circoncisione. La scelta è dettata da intrinseci significati teologici (il nome di Gesù posto all’atto della circoncisione) e non da preferenze estetiche, come dimostra la decorazione della chiesa madre romana, coerente dal punto di vista iconografico ma del tutto frammentaria stilisticamente.
All’interno di questo edificio le decorazioni delle cappelle della Madonna della Strada (1584-1588) e della Passione (1597 ca.) rappresentano capitoli importanti per la diffusione di queste tematiche. Protagonista il pittore Giuseppe Valeriano, gesuita, che nella prima cappella lavora al fianco di Scipione Pulzone, mentre nella seconda cappella è coadiuvato da Gaspare Celio. I due pittori sono al servizio delle strategie comunicative elaborate da Valeriano, basate, in virtù della riscoperta dell’armonia di Raffaello, su semplicità compositiva e intensità emotiva (Sposalizio della Vergine della cappella della Madonna della Strada). La funzionalità pare essere la parola d’ordine dei Gesuiti; così dagli anni Ottanta alcune chiese romane destinate ad accogliere i novizi dell’ordine (Santo Stefano Rotondo e San Vitale) vengono decorate con affreschi rappresentanti scene di martirio. Il fine è quello di dare forma visiva allo scopo dei soldati di Cristo: evangelizzare gli infedeli anche a costo della vita, come fecero i protomartiri e i martiri all’inizio della storia della Chiesa. Segno dei tempi è l’elaborazione delle orazioni delle Quarantore, nate per contrastare le vanità carnevalesche. Dopo i primi esperimenti, databili agli ultimi due decenni del secolo, si arriva a una sistematica diffusione della cerimonia; le chiese vengono addobbate, le fonti luminose sono schermate e modificate per far risaltare l’altare che espone l’eucarestia. Così, nel corso dei decenni, il rituale assume connotati sempre più scenografici, con finte architetture che ornano altari e presbiteri. Proprio tali esperienze saranno il fondamento per la diffusione dell’altare barocco.
Anche nelle manifestazioni artistiche, specie dopo la vittoria delle armate cattoliche nella battaglia di Lepanto (1571), si completa il passaggio dalla Chiesa militante alla Chiesa trionfante: il fine è il medesimo, persuadere e mantenere il consenso, ma la nuova strategia adottata sostituisce alla semplicità e alla familiarità delle immagini sacre l’elemento sorpresa e l’invenzione sbalorditiva.