Le biblioteche
Ridurre a una esposizione sintetica di tipo lineare la storia plurimillenaria di un’istituzione comunemente denominata biblioteca appare compito tanto arduo da sconsigliare una trattazione necessariamente breve di tipo enumerativo e descrittivo. Si è quindi preferito puntare l’accento su variazioni tipologiche che hanno caratterizzato l’evoluzione dell’istituto nelle varie epoche del suo sviluppo in relazione alle funzioni principali che esso ha di volta in volta assunto, con l’avvertenza che anche questo tipo di esposizione non può che presentare un carattere alquanto riduttivo, perché le variazioni indicate dipendono a loro volta da fattori complessi, relativi per es. al materiale usato come supporto del documento scritto, all’evolversi della scrittura verso forme di comunicazione autonome, alla presenza di un potere istitutivo e di controllo sulle biblioteche stesse.
Per l’antichità, la ricerca archeologica ci ha permesso di riconoscere l’esistenza di ampie raccolte di documenti registrati in forma scritta, per lo più su tavolette di argilla essiccata che svolgevano soprattutto funzioni che noi oggi attribuiremmo prevalentemente all’archivio in quanto espressioni di attività compiute e di avvenimenti accaduti, a cui per altro spesso si affiancano genealogie e narrazioni mitologiche.
In area mediorientale un ampio archivio-biblioteca contenente documenti di natura assai varia, che vanno dai testi amministrativi e storici a quelli mitologici e letterari, è stato ritrovato nel palazzo reale di Ebla, potente città fiorita nel 3° millennio a.C. nell’alta Siria.
Archivi pubblici e privati risalenti agli ultimi secoli del 2° millennio a.C. sono stati scoperti a Ugarit, l’attuale Ras Shamra, in Siria: in essi abbondano documenti relativi a transazioni commerciali, accanto ad altri di carattere amministrativo, nonché a testi letterari e religiosi.
Come archivio prevalentemente diplomatico si presenta la biblioteca di Tell el-Amarna, identificabile con la capitale (Akhetaton) di Amenophi IV (1367-1350), nell’antico Egitto, costituita da un’ampia raccolta di tavolette di argilla, nonostante che gli antichi egizi facessero uso per la scrittura fin dal 3° millennio a.C. anche del papiro, materiale per altro più facilmente deperibile.
Più prossima alla nostra nozione di biblioteca è quella nel palazzo di Assurbanipal (7° sec. a.C.) a Ninive, le cui tavolette, ora conservate al British Museum, sono fonti preziose per la ricostruzione della tradizione mitico-letteraria della cultura mesopotamica. In sintesi, possiamo ritenere che le raccolte documentarie dell’età più remota, a cui, se si vuole, si può anche attribuire la denominazione di biblioteche, svolgessero soprattutto una funzione di documentazione nel campo delle vicende politico militari, delle tradizioni mitico-religiose e dei rapporti economici e fossero pertanto legate, anche nella loro istituzione, ai rispettivi poteri. Con lo sviluppo della scrittura alfabetica in Grecia, a partire grosso modo dall’8° sec. a.C., il libro, costituito da uno o più rotoli di papiro, materiale scrittorio che aveva ormai avuto il sopravvento soprattutto per documenti di notevole ampiezza, assume una funzione in certo modo autonoma come strumento di una comunicazione dotata di caratteri specifici sempre più distinti da quelli dell’oralità.
Possiamo dire che nasce già nella Grecia classica l’idea di una «letteratura» in senso ampio, vale a dire di un insieme di opere scritte di diversa natura (epica, lirica, storica, filosofica) rapportabili tra loro in un insieme, anche se non appaiono chiare testimonianze di vere e proprie strutture bibliotecarie, se si prescinde da quella creata da Aristotele presso la propria scuola, nella quale venivano studiati anche problemi relativi alla classificazione delle scienze.
La funzione culturalmente unificatrice dell’ellenismo ha trovato espressione nella più celebre biblioteca dell’antichità: quella di Alessandria, fondata nel 3° sec. a.C. a opera della dinastia post-alessandrina dei Tolomei e costantemente incrementata fino alla sua distruzione avvenuta nel 4° sec., venendo a rappresentare in maniera pressoché completa l’universo librario della cultura greca, i cui testi erano anche sottoposti, a opera della scuola filologica che era attiva ad Alessandria, a un’azione di fissazione e di controllo.
Della biblioteca di Alessandria, a differenza di quella quasi coeva di Pergamo, non si hanno testimonianze archeologiche di tipo architettonico. Tuttavia, anche sulla base delle fonti letterarie, peraltro piuttosto tarde, possiamo ritenere che essa fosse costituita da ampi ambienti lungo i cui perimetri esistevano nicchie contenenti scaffali lignei in cui venivano collocati i rotoli, con ogni probabilità seguendo un ordine classificatorio. Le biblioteche dell’antica Roma sono state largamente tributarie di quelle greco-ellenistiche, sia nelle raccolte private, costituite inizialmente soprattutto di libri greci provenienti dalle guerre di conquista e allestite presso le dimore di condottieri, come per es. gli Scipioni, sia nell’ordinamento di quelle pubbliche che incominciarono a venire istituite e aperte all’uso pubblico all’inizio dell’età imperiale e si articolavano normalmente in una sezione di libri greci e una di libri latini. A partire da Augusto, poi con Traiano (biblioteca Ulpia) e molti altri imperatori, queste biblioteche si diffusero largamente non solo a Roma, ma in tutto l’impero, acquisendo il carattere che il diritto romano attribuiva alle cose, o ai beni di natura pubblica: quello di appartenere alla respublica (noi oggi diremmo allo Stato) e di essere destinate all’utilità comune di tutti i cittadini. Con il crollo delle istituzioni romane determinato dalla dissoluzione dell’impero in Occidente, la funzione di salvaguardia del patrimonio librario antico e di quello espressivo della tradizione cristiana (Sacra Scrittura, padri della Chiesa) venne assunta dall’organizzazione ecclesiastica che provvide all’istituzione di nuove biblioteche sia presso i centri di vita comune del clero secolare (capitoli delle cattedrali) sia presso i monasteri sorti dopo che il movimento monastico aveva ormai superato la fase cenobitica. Il libro della tarda antichità (4°-5° sec. d.C.) e poi dell’alto Medioevo era materialmente costituito di pergamena, materiale scrittorio prodotto mediante il trattamento di pelli prevalentemente di ovini e ha assunto una nuova forma, quella del codex, fatto di fogli rettangolari sovrapposti e assemblati mediante pesanti rilegature. Le biblioteche dell’alto Medioevo sono appunto costituite da codici collocati in appositi armadi. La lettura non avviene in biblioteca, ma negli spazi che segnano lo svolgimento della vita monastica, mentre accanto alle biblioteche funzionano per lo più gabinetti di scrittura (scriptoria) dove avviene la copiatura dei testi sacri, ma anche di quelli classici, da parte degli «amanuensi». Diversa naturalmente è la situazione, che non possiamo però fare qui oggetto di una trattazione particolare, nell’area orientale, dove, oltre alle biblioteche monastiche, sorgono per opera degli imperatori bizantini importanti biblioteche pubbliche, per es. a Costantinopoli e a Nicea. Con la nascita e lo sviluppo nel 13° sec. di nuove istituzioni religiose (ordini mendicanti dediti alla predicazione) e culturali (università), il libro, pur conservando la sua struttura materiale, vale a dire il codice pergamenaceo (il codice cartaceo incomincerà a diffondersi nel 14° sec.), assume però una nuova funzione: non più principalmente strumento di preghiera e di meditazione, ma piuttosto di studio, di apprendimento, di scambio di conoscenze. Anche le biblioteche di conseguenza cambiano il modo di strutturarsi: da luoghi di conservazione e riproduzione dei testi, ad ambienti per la lettura, che ripetono la forma architettonica basilicale e sono dotati di banchi-leggii (plutei) su cui venivano appoggiati e assicurati i codici. Lo sviluppo dell’Umanesimo nell’Italia del Quattrocento accompagnato dalla nascita delle signorie vedeva la realizzazione di diverse biblioteche di questo genere, alcune delle quali, come la Medicea pubblica, fatta aprire da Cosimo il Vecchio presso il convento di S. Marco a Firenze intorno alla metà del Quattrocento, o la Malatestiana, sorta per volontà di Novello Malatesta a Cesena nel 1452, erano destinate, almeno parzialmente, a un uso pubblico e sono ancora visibili nella loro struttura originaria.
In queste biblioteche, e in altre coeve andate disperse a motivo di smembramenti (come nel caso della biblioteca dei Montefeltro a Urbino) oppure di conquiste straniere, appare abbastanza evidente la volontà dei signori del periodo umanistico di ratificare il proprio potere anche con motivi di ordine culturale.
Qualcosa di simile, anche se naturalmente su un piano molto più vasto, accompagnato da intenti di natura strettamente ecclesiastica, può dirsi per la biblioteca Vaticana la cui costituzione in forma organica fu inizialmente progettata dal papa umanista e bibliofilo Niccolò V (Tommaso Parentucelli), per essere poi realizzata da Sisto IV (1471-84) e divenire la maggiore biblioteca europea dell’epoca, anche sul piano della cultura classica e degli studi filologico-letterari. Nel secolo successivo, il Rinascimento ormai maturo in Italia vede lo sviluppo di biblioteche ancora fondate sul modello umanistico, come la Marciana di Venezia, la Medicea Laurenziana di Firenze, sorta nel 1571, l’Estense fondata dapprima a Ferrara e trasferita a Modena dopo il 1598. Nei grandi Stati nazionali del 16° e 17° sec., ormai avviati a caratterizzarsi in senso assolutistico, nascono o si sviluppano le biblioteche dei sovrani che talvolta si dichiarano «pubbliche» in un senso assai diverso da quello delle biblioteche dell’antica Roma e del Rinascimento, nel senso cioè di appartenere al sovrano che incarna, per così dire, il potere statale.
Si tratta di istituzioni destinate ad assumere un ruolo ben preciso: quello che sarà proprio in epoca moderna delle «biblioteche nazionali» consistente in un controllo sulla stampa, ormai pienamente affermatasi e largamente diffusa, in un duplice senso: quello censorio, che si affiancava alla censura ecclesiastica, e quello culturale, di rappresentazione della produzione editoriale della nazione. Lo strumento di attuazione di tale controllo è costituito dalle leggi sul deposito obbligatorio degli stampati che entrano in vigore in epoca moderna in gran parte degli Stati. Lo sviluppo impetuoso della stampa nel 16° sec. ha una notevole ricaduta anche sul piano religioso ed ecclesiastico, dove la riforma protestante si avvale largamente dei suoi prodotti e da vita per iniziativa dello stesso Lutero a numerose biblioteche di base che influiscono ampiamente sulla storia delle biblioteche «popolari» nei Paesi dell’Europa settentrionale. Di contro, in età controriformistica, si ha una risposta di riorganizzazione culturale cattolica anche in campo bibliotecario con istituti nuovamente dotati di un carattere effettivamente «pubblico», vale a dire messi a disposizione di tutti gli studiosi: la biblioteca Angelica, fondata a Roma nel 1604 dall’agostiniano Angelo Rocca, e l’Ambrosiana, aperta a Milano nel 1609 dal cardinale Federico Borromeo. In campo protestante, per meglio dire anglicano, per iniziativa di sir Thomas Bodley fu ripristinata e inaugurata nel 1602 con carattere semipubblico la biblioteca dell’università di Oxford che assunse appunto il titolo di «Bodleiana». I secc. 17° e 18° sono caratterizzati da un’ampia fioritura di interessi storico-eruditi che si riflettono nella costituzione, mediante attività di collezionismo, di grandi raccolte private, diverse delle quali confluiscono, attraverso donazioni e lasciti, in istituzioni pubbliche. Per limitarci a qualche esempio, si può ricordare il caso del grande erudito e bibliofilo Antonio Magliabechi che, morendo nel 1714, lasciò alla città di Firenze «a beneficio specialmente dei più poveri» la propria biblioteca ricca di 28.000 volumi manoscritti e a stampa, che venne aperta al pubblico nel 1747, divenendo poi il nucleo originario dell’attuale Nazionale di Firenze.
Ma gli esempi che si potrebbero fare per l’Italia del Settecento sono veramente tanti; si può dire che il nostro Paese si distingue proprio per la diffusione di biblioteche che, se non raggiungono il livello di consistenza delle maggiori biblioteche di Stato europee, si caratterizzano però per essere aperte all’uso pubblico a livello sia degli Stati preunitari (possiamo citare per tutti il caso della Braidense, aperta a Milano nel 1786 da Maria Teresa) sia di comunità locali. Anche le biblioteche degli atenei di maggiore importanza storica (Padova, Roma, Napoli, Pisa, Torino, Genova, Bologna, Pavia, Sassari, Cagliari) vengono aperte in quest’epoca all’uso pubblico degli studiosi dai rispettivi sovrani. Tra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento si pone comunque in tutta Europa il problema della «biblioteca pubblica» in senso contemporaneo. Possiamo indicare a questo proposito tre passaggi fondamentali: a) La decisione dell’Assemblea costituente, poi della convenzione durante la Rivoluzione francese, di dichiarare le biblioteche di proprietà ecclesiastica «beni nazionali» e di cercare di fondare su questa base una rete di biblioteche pubbliche; tentativo non andato a buon fine per l’assenza di un concomitante impegno finanziario da parte dello Stato. b) Il varo avvenuto quasi contemporaneamente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti di leggi che, mediante modeste sovrimposte a carico dei cittadini, introducevano il concetto di public library come servizio pubblico. c) Il progressivo potenziamento dei finanziamenti per queste strutture che raggiunsero entro la fine del 19° sec. le dimensioni di vere infrastrutture della società industriale, coordinate tra loro in «sistemi bibliotecari». Per quanto riguarda l’Italia, il modello della public library fu guardato con interesse già all’inizio del 20° sec., ma mai completamente realizzato per assenza di un intervento pubblico adeguato e successivamente per il prevalere della tematica dei «beni culturali» che mal si accorda al concetto di biblioteca pubblica.
Il sistema bibliotecario italiano presenta, oltre ai molti istituti appartenenti ad amministrazioni pubbliche di varia natura, spesso accessibili su richiesta, un gruppo di 35 biblioteche dichiarate «pubbliche statali» già dai regolamenti ottocenteschi e ora organi periferici del ministero per i Beni e le Attività culturali. Tra di esse 2 Nazionali centrali di Roma e Firenze, titolari del deposito legale su tutto il territorio nazionale, altre 7 con il titolo piuttosto pleonastico di «nazionali», 10 «universitarie» perché appartenenti agli atenei storici di cui sopra (quella di Torino ha anche il titolo di «nazionale») e altre 16 con caratteristiche piuttosto disomogenee, per lo più di conservazione (l’Estense di Modena è anche «universitaria»). Si aggiungono all’elenco 11 biblioteche di «monumenti nazionali», vale a dire di antiche abbazie, come quelle di Montecassino e Subiaco. Le vere «biblioteche pubbliche» in senso contemporaneo dovrebbero essere quelle di enti locali, affidate nel 1948 dalla costituzione alla potestà legislativa delle regioni (il decreto di effettivo trasferimento delle funzioni risale al 1972). Il loro numero è assai alto, ma solo recentemente, con la riforma dell’amministrazione locale, diversi comuni, quasi tutti nel Centro-Nord, hanno assunto impegni finanziari adeguati alla creazione di moderne strutture di studio e di ricerca.
Quanto alle università, la legge attributiva dell’autonomia statutaria agli atenei (1989) prevede la possibilità di riunire le numerosissime strutture bibliotecarie esistenti in «sistemi bibliotecari di ateneo», articolati in «biblioteche di area»; disposizione che ha prodotto in diversi casi risultati apprezzabili.
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