Nonostante alcune iniziative volte alla promozione di sanzioni alternative al carcere, nella maggior parte degli stati europei la popolazione detenuta è, da qualche anno, in continua crescita, in alcuni casi a ritmi piuttosto elevati. Ne è derivata una situazione di complessivo sovraffollamento che, in taluni paesi, ha assunto dimensioni preoccupanti. Il sovraffollamento ha contribuito a sua volta a un deterioramento delle condizioni di vita dei detenuti, sia per quanto riguarda gli spazi (da quelli delle celle a quelli delle aree comuni destinate alla socializzazione e all’esercizio fisico), sia per quanto riguarda la disponibilità di servizi (da quelli medico-sanitari a quelli educativi). Oltre che all’aumento del numero dei detenuti in Europa, si è assistito negli ultimi anni a una modificazione dei profili delle persone in carcere. Fra queste spiccano i detenuti per reati connessi all’uso di sostanze stupefacenti e quelli provenienti da paesi extra-comunitari. Tali mutamenti riflettono i cambiamenti della società europea e, al tempo stesso, l’aumento della domanda di controllo penale, che tende a soppiantare altri modelli di controllo sociale.
Dal punto di vista giuridico, mentre un tempo le sanzioni penali erano oggetto di disciplina esclusivamente interna, attualmente s’impongono limiti internazionali alla libertà degli stati, sia in ordine alla legittimità della privazione della libertà personale, sia in ordine alle modalità che da questa vengono assunte. Secondo l’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti umani del 1950, «nessuno può essere privato della libertà» se non «nei modi previsti dalla legge», in una serie di casi tassativamente definiti. Questi comprendono la detenzione a seguito di una condanna penale, la detenzione in attesa di giudizio (ma solo entro un termine di tempo «ragionevole»), e alcune ipotesi, anch’esse puntualmente specificate dalla norma, di detenzione di minori, di persone malate e di cittadini stranieri. Quanto alle condizioni della detenzione, la Corte europea dei diritti umani ha preso in esame, singolarmente o in combinazione, fattori quali il sovraffollamento (soprattutto se prolungato nel tempo), le caratteristiche delle celle (lo spazio, l’aria e la luce) e le condizioni igienico-sanitarie di queste, il riscaldamento, l’alimentazione, i regimi carcerari (con particolare attenzione alle varie forme di isolamento). In diversi casi - talvolta anche sulla base delle sole condizioni oggettive, in assenza di una chiara intenzione di umiliare la vittima - la Corte è giunta alla conclusione che era stato violato l’articolo 3 della Convenzione, che vieta la tortura e le pene o i trattamenti inumani e degradanti.
Nell’ambito del Consiglio d’Europa, oltre a un procedimento di tipo giurisdizionale - finalizzato all’accertamento di violazioni di norme, ivi comprese quelle relative alla legittimità della detenzione e alle condizioni di questa - è operante un meccanismo preventivo non giurisdizionale che fa capo al Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Quest’ultimo, la cui attività è disciplinata da una Convenzione del 1987, ha il compito di ‘visitare’ tutti i luoghi di privazione della libertà - oltre alle carceri, i commissariati di polizia, i centri di detenzione per stranieri, gli ospedali psichiatrici e altri ancora - a intervalli periodici, oppure ogniqualvolta le circostanze lo richiedano. Nello svolgimento delle sue funzioni il Comitato gode di poteri assai ampi che comprendono quello di accedere a tutti i luoghi fisici in cui siano trattenute persone private della loro libertà e di muoversi liberamente all’interno di tali luoghi, quello di accedere a tutte le informazioni riguardanti le persone private della libertà, e quello di comunicare con loro senza testimoni. Al termine di ciascuna visita il Comitato elabora un rapporto che contiene una descrizione di quanto osservato e una serie di raccomandazioni indirizzate alle autorità statali, che formeranno poi la base di un dialogo continuativo fra il Comitato e queste ultime. I rapporti sono confidenziali, ma è invalsa la prassi, seguita da quasi tutti gli stati membri del Consiglio d’Europa, di consentire una deroga a questa regola, autorizzandone la pubblicazione. In presenza di una persistente mancanza di collaborazione da parte delle autorità di uno stato con il Comitato, quest’ultimo può rendere pubblica una propria dichiarazione sulla situazione.