Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Durante il fascismo vengono fondate cinque città nell’Agro Pontino a sud di Roma: Littoria, Pomezia, Aprilia, Sabaudia e Latina. Come tutte le realizzazioni dell’edilizia fascista traducono la retorica di regime configurando lo spazio architettonico e urbanistico secondo criteri gerarchici.
Un’antica esigenza, una nuova funzione
Il fascismo realizza la sua opera più significativa di trasformazione territoriale con la bonifica e la colonizzazione dell’Agro Pontino. Dal 1932 al 1938 nascono cinque nuove città su questo territorio, a 40 chilometri a sud di Roma. La bonifica della palude (840 km2), fonte di malaria, era stata tentata svariate volte nella lunga storia d’Italia, ma mai portata a termine. Il risanamento di questa zona malsana e poco abitata diventa così il progetto più prestigioso intrapreso durante il regime fascista nell’ambito del “ruralesimo” di Mussolini, teso a valorizzare la campagna contro la città industriale affollata e incontrollabile.
L’alto tasso di disoccupazione e, in seguito, l’ondata di migrazione interna di ben 18 milioni di persone dal sud al nord rende molto precaria la situazione all’interno dei grandi poli industriali. Laddove esistente, l’edilizia popolare non appare sufficiente a dare alloggio alla folla di operai e braccianti disoccupati. L’affollamento delle grandi città del nord diventa dunque un rischio politico per il regime, il quale teme l’influenza del comunismo e la rivolta operaia. La contromisura che il regime adopera per arginare questa situazione è lo sfollamento della città industriale e la ruralizzazione d’Italia. Lo scopo di Mussolini è quello di vincere, grazie alla trasformazione territoriale, la battaglia del grano e incentivare l’incremento demografico. La sola città che non poteva rientrare nel concetto della metropoli industriale malsana era naturalmente Roma, capitale ricca di monumenti e piazze antiche, vero e unico simbolo dell’impero romano.
Littoria
L’Opera Nazionale Combattenti (ONC) viene incaricata del progetto per la bonifica dell’Agro Pontino, i cui lavori prendono avvio nel 1926 grazie alla manodopera di 25 mila operai che, alloggiati in baracche di fortuna, vengono impiegati nel durissimo lavoro di prosciugamento e canalizzazione delle acque. Durante una sua visita presso l’area di bonifica nel 1932, Mussolini annuncia anche il progetto per la fondazione di una nuova città da edificarsi in luogo della ex palude: sarebbe stata di lì a poco battezzata con il nome di Littoria (l’attuale Latina). A tale scopo il capo del governo incarica, seduta stante, il giovane architetto romano Oriolo Frezzotti, il quale deve presentare, appena l’indomani mattina, il piano regolatore. Questa prima città di fondazione, ideata così in fretta, dispone di una pianta schematica e monocentrica con sviluppo radiale della rete stradale, una pianificazione dunque assolutamente priva di apporti innovativi in quanto corrispondente all’usuale schema accademico.
Nel dicembre dello stesso anno il duce inaugura Littoria nella quale figuravano i soli edifici principali e rappresentativi, in parte ancora incompleti. Le ultime mattonelle del balcone su cui si sarebbe tenuta l’arringa di Mussolini vengono fissate dalle maestranze solo qualche istante prima del suo arrivo. Nel discorso inaugurale vengono preannunciate anche le date precise delle due successive città dell’Agro Pontino: Sabaudia sarebbe nata il 24 aprile 1934 (giorno della fondazione di Roma), e Pontinia il 28 ottobre 1935, anniversario della marcia su Roma. È evidente come la predilezione di Mussolini per le commemorazioni storiche determini il ritmo delle costruzioni. La progettazione a così breve termine si ripercuote, però, sulla qualità dei piani regolatori e neppure le lamentele del sindacato degli architetti riescono a decelerare il ritmo frenetico dei lavori.
Il problema fondamentale, nondimeno, sta nella mancanza di un piano regolatore territoriale per l’Agro Pontino. L’ubicazione delle città e la loro interrelazione non vengono mai tracciate in un progetto ampio e completo, ma decise solo successivamente. Il regime si gioca, in questo modo, l’opportunità di una concreta riqualificazione dell’Agro Pontino attraverso un piano regolatore valido a favore di un effetto propagandistico immediato che vede il duce, onnipotente, annunciare e costruire città in un batter d’occhio. La macchina promozionale del regime pubblicizza, infatti, il più possibile la bonifica della palude e la fondazione delle nuove città: cinegiornali, foto e cartelloni pubblicitari mostrano immagini di fieri e sorridenti lavoratori della terra accompagnate da slogan di regime. Tanti problemi, però, rimangono in realtà irrisolti. La malaria non sembra ancora sconfitta e i nuovi abitanti, sarti, operai o calzolai, trapiantati dalle città industriali non sono affatto preparati ad affrontare le difficili condizioni della vita del contadino. La battaglia del grano non si sarebbe certo vinta in questo modo.
Quasi ogni anno il Duce inaugura una nuova città: a Littoria, Sabaudia e Pontinia seguono Aprilia nel 1936 e Pomezia nel 1938. In ciascuna di esse si rispecchia la ricerca degli urbanisti e degli architetti circa la “vera città italiana”. Nel I Congresso nazionale di urbanistica del 1937, si afferma la necessità di sviluppare direttive generali per l’urbanistica nella ricerca di una presunta “italianità”, senza però stabilire quali siano i criteri veri e propri: “[...] la sistemazione regionale delle nostre zone rurali dovrà avere caratteristiche nettamente nazionali, ben distinte da quelle dei piani stranieri”. Gustavo Giovannoni, che svolge un ruolo assai importante nella discussione sulla città italiana ed è una delle voci all’interno delle commissioni di concorso per la costruzione delle città pontine, scrive nel 1936: “Dopo aver studiato bene quello che si è fatto altrove, dobbiamo tornare a casa nostra e operare il nostro bravo sentimento italiano.” Gli elementi di cui gli architetti si servono nel tentativo di evocare tale “italianità” si ripetono sistematicamente nella facies di ogni città di fondazione fascista: edifici ufficiali dai grandi volumi e dai contorni sagomati, piazze delimitate da portici che creano ombre nette ed evocano un’atmosfera quasi metafisica e alte torri, a simboleggiare il regime e il suo potere. All’edilizia residenziale viene invece prestata poca attenzione, ottenendo così come risultato realizzazioni di qualità mediocre.
Sabaudia
Tra le cinque città dell’Agro Pontino la seconda, Sabaudia, è sicuramente la più significativa. Nell’aprile 1933 viene bandito un concorso, vinto da un gruppo di giovani architetti: Gino Cancellotti, Eugenio Montuosi, Luigi Piccinato e Alfredo Scalpelli; la demagogica inaugurazione segue soltanto un anno dopo, quando, ancora una volta, gli edifici più importanti non sono terminati. Rispetto alle altre città pontine, il piano per Sabaudia rappresenta sicuramente la soluzione più avanzata, felice sintesi tra la tradizione urbanistica e il razionalismo italiano. Vi si avverte l’influenza di Marcello Piacentini, membro della commissione, che favorisce questa soluzione rispetto ad altre più accademiche. L’organizzazione della città non segue infatti, come Littoria, un rigido schema tradizionale, ma rispetta con l’andamento delle strade la morfologia del territorio, mentre la zona centrale è costituita da un sistema di piazze in cui l’architettura svolge la duplice funzione di comunicazione e separazione tra gli spazi.
Proposte veramente nuove e azzardate, che prendono a modello le ricerche del movimento moderno internazionale, vengono scartate a priori. Si fa passare pertanto sotto silenzio l’offerta di Le Corbusier per la preparazione del piano di Pontinia. Un progetto frutto di tale spiccata personalità sarebbe stato certamente più difficile da controllare, e sicuramente non avrebbe condotto all’esito desiderato da parte delle autorità: l’effetto propagandistico delle nuove città.
Tratti comuni
Il vero denominatore comune di tutte le città di fondazione fascista è la concezione autoritaria dello spazio che si attua nell’organizzazione della piazza o della zona centrale, fulcro in cui si concentrano tutte le istituzioni statali, fasciste o religiose, quali il palazzo comunale, la Casa del fascio, la Casa del balilla, la chiesa, la Caserma della milizia, il Dopolavoro. Il sovradimensionamento degli edifici delle varie istituzioni risponde più al “gigantismo” fascista che alle reali necessità di borghi rurali costruiti per soli 3000 abitanti (5000 per Littoria, capoluogo di provincia). La messa in scena dei palazzi è assai più importante della loro destinazione d’uso e serve come sfondo per l’autocelebrazione del regime. Si tratta, infatti, più che altro di disegnare un’immagine ideale di città nella quale sia raffigurato il potere del regime fascista piuttosto che trovare una soluzione adatta al problema posto dall’ossimoro città rurale, una “città-non-città”. La caratteristica principale del profilo delle nuove fondazioni è costituita dalla triade verticale composta dalla torre littoria e dalle due torri meno appariscenti della chiesa e del palazzo comunale, che si elevano nella piatta pianura della palude e rimangono perciò ben visibili anche da lontano. Irrinunciabile in questo contesto è il balcone del duce che, dopo l’arringa inaugurale, continua a evocare la presenza simbolica del governatore al pari delle stature equestri degli imperatori romani. Lo smisurato spazio della piazza centrale perde così la sua funzione originale d’incontro per i cittadini e diventa la quinta per le grandi adunate e le visite di Mussolini.