Le città
Alla vigilia dell’unificazione il rapporto tra città e nazione si fonda su un evidente paradosso. Da una parte le città, con le loro antiche e gloriose storie, costituiscono un connotato essenziale della nazione italiana, uno dei fondamenti stessi per la legittimazione di un legame d’appartenenza. Dall’altra, però, rappresentano anche il principale elemento di divisione e indebolimento della nazione, lo scenario per eccellenza dell’esaltazione delle differenze locali e della resistenza alle politiche di omogeneizzazione. È un’ambivalenza, questa, che sembra riflettersi anche nella morfologia dello spazio nazionale: un territorio punteggiato da numerose città di significative dimensioni che, se consente di riconoscere l’esistenza di una trama comune nell’intera penisola, ne esalta anche l’articolazione, la frammentazione, la suddivisione per aree raccolte intorno a centri poco o per nulla comunicanti tra loro.
Non c’è dubbio tuttavia che, al di là di questa ambiguità, ogni possibile rivendicazione di un primato italiano sia inevitabilmente legato alle città e alle loro secolari storie di egemonia culturale, sociale, economica. Non a caso il nazionalismo italiano si nutre quasi esclusivamente di urbanesimo e non riesce a dar vita a nulla di paragonabile a una saga rurale, fondata sull’idealizzazione del contadino-patriota, come accade in molti altri paesi europei. Né stupisce che, dalla riflessione politica e storiografica del movimento patriottico, la città non solo emerga come indiscussa protagonista della mobilitazione nazionale, luogo identitario e depositario della tradizione italiana, ma anche come un antico modello di convivenza civile e di modernizzazione politica, destinato a essere emulato negli altri paesi. Al riguardo, è significativo che Simonde de Sismondi, uno dei più efficaci narratori della civiltà urbana, esalti i comuni medievali sia come «parcelle» e «primi elementi» della nazione italiana sia come interpreti di «quelle virtù pubbliche di cui offrirono l’esempio all’Europa» (Simonde de Sismondi 1996, p. 7).
A questa lettura, fondata sulla vocazione politico-istituzionale della città italiana, se ne affianca però anche un’altra, più attenta alla dimensione economico-sociale. Una tendenza, quest’ultima, che scaturisce soprattutto dal riconoscimento dell’importanza del dominio urbano sul territorio rurale circostante. Ne costituisce un paradigma esemplare l’analisi di Carlo Cattaneo, che individua proprio in questa egemonia il carattere costitutivo della storia nazionale. La città, «l’unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua», è il fattore dinamico che trasforma la campagna, la modernizza, ne costruisce un’identità culturale. «La città formò col suo territorio un corpo inseparabile. Per immemorial tradizione, il popolo delle campagne, benché oggi pervenuto a larga parte della possidenza, prende tuttora il nome della sua città, sino al confine d’altro popolo che prende nome d’altra città. In molte provincie è quella la sola patria che il volgo conosce e sente» (Cattaneo 1957, pp. 383, 386).
Questo indiscusso prestigio urbano, però, fiorisce in un paese in larghissima parte rurale e che conserva, al momento dell’unificazione, ancora molte caratteristiche sociali ed economiche proprie dell’antico regime. Non solo, infatti, in molte aree della penisola non c’è stata una modernizzazione agricola simile a quella avvenuta nelle campagne dell’Europa nord-occidentale, ma lo stesso sistema urbano, modellato da una frammentazione politica di lungo corso, non ha ancora subìto gli effetti dell’industrializzazione, di cui del resto è possibile cogliere solo qualche traccia in zone molto circoscritte del territorio nazionale.
A differenza dell’Inghilterra, infatti, dove l’avvento della fabbrica ha già stravolto l’antica rete urbana, l’Italia non ha ancora registrato agli inizi degli anni Sessanta dell’Ottocento una massiccia urbanizzazione, né ha assistito a un’improvvisa espansione di piccoli centri destinati a trasformarsi in grandi metropoli industriali connesse in una rete di scambi internazionali. Nel corso della prima metà del secolo, alcune città della penisola hanno significativamente aumentato la loro popolazione residente (in particolare Torino e Milano), ma non c’è stato nulla di paragonabile a quanto accaduto per esempio a Manchester o Liverpool, piccole cittadine con qualche migliaio di abitanti, trasformate nel giro di pochi decenni in grandi città con oltre mezzo milione di residenti (Hohenberg, Lees 1992, pp. 221-227; Zucconi 2001, pp. 7-11). Lì, in Inghilterra, alla metà dell’Ottocento le trasformazioni del sistema produttivo hanno già spazzato via antiche gerarchie urbane consolidate da secoli. Qui, in Italia, alla vigilia dell’unificazione, l’articolazione medievale delle reti cittadine è ancora perfettamente riconoscibile e conserva una connotazione sociale ed economica in gran parte tradizionale. Nel 1861 la città italiana è soprattutto un centro politico, amministrativo, commerciale e culturale, più che un laboratorio di innovazioni tecnologiche ed economiche.
Detto questo, però, non è irrilevante notare che l’Italia è comunque da secoli una delle aree europee con il più alto tasso di urbanizzazione. Ancora agli inizi dell’Ottocento, con circa il 30,5% della popolazione totale che vive in centri di oltre 5.000 abitanti, è al secondo posto nella gerarchia europea, preceduta solo dai Paesi Bassi (34,5%) e ben al di sopra dell’Inghilterra (23%), della Francia (12,5%) e della Germania (10,3%). Persino alla metà del secolo, quando gli sviluppi dell’industrializzazione hanno già proiettato l’Inghilterra in cima alla classifica (50%), la penisola riesce a conservare la seconda posizione (41,6%), superando i Paesi Bassi (35,9%) e lasciando a notevole distanza Francia (19,5%) e Germania (15,5%) (Bairoch 1977, p. 11, tableau 3).
Peculiare del sistema urbano italiano è anche la presenza di un numero significativo di «grandi» città, quelle con oltre 100.000 abitanti. Sono cinque nel 1808 (al Nord Milano e Venezia, al Centro Roma, al Sud Napoli e Palermo), diventano undici nel 1861 (al Nord si aggiungono Genova, Torino, Bologna e Trieste, al Centro Firenze, al Sud Messina). Nel corso del secolo, dunque, aumenta la concentrazione di grandi centri nelle regioni settentrionali, un fenomeno che enfatizza le differenze tra i modelli insediativi consolidatisi nelle diverse aree della penisola. Mentre infatti al Nord la quota massima della popolazione urbana vive appunto nei grandi agglomerati, al Centro e al Sud la distribuzione è invece più omogenea, con percentuali significative di presenze nei centri di piccole e medie dimensioni (Sori 1973, p. 305). È indubbio, tuttavia, che siano ovunque le «grandi» città a rappresentare l’idea della modernizzazione urbana e a godere in particolar modo del prestigio connesso a una tradizione secolare. Tanto più che, oltre alla forza dei numeri, possono generalmente contare anche sullo status di capitale.
Quest’ultimo aspetto avrà profonde conseguenze anche sulla configurazione del sistema urbano nazionale all’indomani dell’unificazione. Tante città, di significative dimensioni, ricche di storia e cultura, sono costrette a spogliarsi del ruolo di capitale e a rinunciare quindi a una radicata ambizione di primato, ritrovandosi a convivere in uno spazio diversamente delimitato, dominato da un’autorità e da un canone politico e ideologico particolarmente ostili a localismi e municipalismi. Da questo punto di vista il caso italiano appare unico, con effetti più radicali anche rispetto all’esperienza simile della Germania. Nella penisola, infatti, la fusione di nove Stati regionali in uno Stato nazionale fortemente accentrato travolge ambizioni e sentimenti d’appartenenza che, per secoli, avevano rappresentato i fondamenti delle rappresentazioni individuali e collettive delle comunità urbane.
L’unificazione politica, dunque, costituisce una netta cesura nello sviluppo urbano della penisola? Non è facile dare una risposta univoca. Anche perché i tempi di molte trasformazioni sociali, economiche e culturali non corrispondono certo alla cronologia della vita politica. Appare comunque evidente che la costituzione del Regno d’Italia segni alcuni passaggi decisivi (Gambi 1975, pp. 174-178). Innanzi tutto, come era già accaduto nell’età napoleonica, la riorganizzazione dell’articolazione amministrativa provoca significativi ribaltamenti nelle gerarchie urbane. Centri periferici, divenuti sedi di prefetture o di altri importanti uffici pubblici, acquisiscono una nuova centralità a scapito anche delle tradizionali sfere di influenza di «grandi» città spogliate dello status di capitale.
Poi, la costruzione di una rete nazionale di comunicazioni ridisegna i tragitti economici e culturali che attraversano la penisola, valorizzando le città destinate a svolgere una funzione di snodo. Determinante al riguardo è ovviamente la ferrovia che, dipanandosi in modo disomogeneo sul territorio nazionale, decreta l’ascesa o il declino di singoli centri e di interi sistemi urbani regionali. Napoli, per esempio, priva di collegamenti efficienti verso est e sud, perde gran parte della sua forza di attrazione sulle province meridionali, mentre Bologna, trasformata in un centro di raccordo ferroviario tra Nord e Centro, rafforza la sua posizione nella rete urbana nazionale. Ma è molto significativo anche quello che accade sulla costa adriatica, dove il passaggio dei binari e la costruzione di stazioni a livello del mare, lontano dagli insediamenti storici disseminati sulle colline, favorisce una nuova espansione urbana destinata a prevalere su quella antica.
Infine la nascita del nuovo Stato nazionale, che ambisce a guadagnarsi una posizione di rilievo nel consesso internazionale, favorisce un’accelerazione di quei processi di modernizzazione e monumentalizzazione delle città, già avviati nella prima metà dell’Ottocento ma ancora attardati rispetto a quanto compiuto nell’Europa più sviluppata. Ovvero, anche in Italia, la morfologia e l’identità urbana cominciano a subire gli effetti dell’avvento dell’ideologia nazionale.
Ma, al momento dell’unificazione, come si vive nelle città? La popolazione urbana gode di una condizione privilegiata rispetto a quella rurale? Se si osservano le zone popolari nelle città del Sud, può sorgere qualche dubbio. Colpisce, ad esempio, il degrado di alcune aree a Palermo e Napoli. Nel capoluogo siciliano, ancora alla fine del secolo, quasi la metà delle abitazioni è costituita da pianterreni, i cosiddetti «catodi», veri e propri tuguri, senza aria e luce, disseminati tra vicoli e cortili della città vecchia. A Napoli, la città italiana di gran lunga più popolosa, nel 1863 si registrano oltre 60.000 individui che dormono nei «bassi», spazi minuscoli e sovrappopolati, e almeno altri 30.000 nei «fondaci», cortili luridi e fatiscenti: ovvero, all’indomani dell’Unità, oltre il 10% dei napoletani continua a vivere in condizioni disumane.
Anche in alcune grandi città settentrionali è possibile raccogliere dati allarmanti sulle condizioni abitative dei ceti popolari. A Torino, tra 1838 e 1858, il numero dei residenti cresce di quasi due terzi mentre quello delle case di poco più un terzo, provocando una significativa impennata del tasso di affollamento. A Milano, tra gli anni Venti e Cinquanta, un’intensa attività di ristrutturazione e frazionamento degli alloggi nelle aree centrali determina una progressiva riduzione degli spazi pro capite: non è così raro trovare famiglie costrette a vivere in un unico locale di 20-30 metri quadri, buio e mal aerato.
A questo desolante quadro degli standard residenziali si accompagnano naturalmente le immancabili esplosioni di epidemie infettive che, nel corso dell’Ottocento, continuano a colpire con insistenza le città italiane. Particolarmente virulento si rivela il morbo del colera nel 1836-37, nel 1867, nel 1884. Nel corso della prima ondata, il tasso di mortalità raggiunge a Napoli il 39‰ e a Palermo addirittura il 135‰.
Se tutto questo sembra ridimensionare i progressi della vita in città durante la prima metà dell’Ottocento, è altrettanto vero che le trasformazioni dei centri italiani, avviate già negli anni del dominio francese, assicurano a chi fa parte di una comunità urbana la possibilità di usufruire di opportunità e servizi pressoché inesistenti nelle campagne. Dall’assistenza alla sanità, dall’approvvigionamento idrico-alimentare alla disponibilità di lavoro, i cittadini godono spesso, anche tra gli strati più poveri, di privilegi e condizioni di vita migliori rispetto ai contadini.
Per comprendere la modernizzazione delle città italiane, accelerata dall’unificazione politica, bisogna risalire al periodo napoleonico. È vero che potrebbero essere individuate origini ancora più lontane nel tempo, fin nel cuore dell’età moderna, ma appare evidente che gli anni dell’egemonia francese segnino una svolta nello sviluppo del sistema urbano nella penisola. Anche perché comincia allora a diffondersi un modo diverso di leggere la città e di pensarne le trasformazioni.
Tra i princìpi ispiratori della nuova cultura urbana risalta quello della razionalizzazione e misurazione dello spazio. Ovvero la tenace ricerca di un’unità geometrica, di un criterio formalizzato di analisi per una forma, quella urbana, estremamente complessa e storicamente stratificata. La città viene scomposta e ricomposta nei suoi elementi rappresentativi e funzionali, al fine di avvicinarne la morfologia a un’ideale organizzazione razionale. È uno sforzo demiurgico, che lascia poche tracce concrete nello spazio costruito, ma suggerisce idee progettuali e proposte d’intervento spesso riprese nei decenni seguenti.
Non è infatti difficile cogliere, tra periodo napoleonico, età della Restaurazione e primi anni postunitari, una linea di continuità nei programmi edilizi di molte città italiane. Come se, al di là delle necessità politico-ideologiche di segnare nei paesaggi urbani i cambiamenti di regime, divenisse impossibile non tenere conto delle precedenti esperienze compiute nella progettazione della città. A Torino, per esempio, negli anni del dominio francese si pianifica un’espansione edilizia lungo i principali assi di ingresso alla città, disegnando un sistema di piazze che hanno la funzione di costituire i centri di futuri quartieri: un’idea in gran parte ripresa e concretizzata dopo il ritorno dei Savoia, divenendo poi una sorta di matrice per i successivi ampliamenti della città nel corso dell’Ottocento. A Milano, agli inizi del secolo, si progetta il Foro Bonaparte, un centro direzionale moderno a ridosso del nucleo antico, che per alcuni aspetti rappresenta una sorta di premessa ideale alla realizzazione postunitaria dell’asse Duomo-Cordusio-Castello-Sempione. A Bari, durante il governo di Gioacchino Murat, viene posta la prima pietra della Città Nuova, un grande progetto di ampliamento destinato a prender forma alla metà dell’Ottocento. A Firenze, nel primo decennio del secolo, si delineano alcuni importanti interventi di ristrutturazione delle aree centrali, che saranno realizzati dopo l’Unità.
Alla base di questa intensa attività progettuale è la diffusione di un nuovo metodo di descrizione e analisi della città. Negli anni dell’egemonia francese, infatti, catasti, censimenti, inchieste divengono strumenti consueti di indagine, così che gli amministratori delle città cominciano ad avere a propria disposizione una messe di dati e notizie utili non solo per l’imposizione fiscale, ma anche per la programmazione di nuovi interventi edilizi. Nasce allora una conoscenza formalizzata della città, che pone anche le basi per un nuovo sapere urbano. Non a caso, per esempio, le elaborazioni catastali avviate in età napoleonica in alcune città italiane (tra le altre, Napoli, Venezia, Torino) si rivelano strumenti utili anche per l’amministrazione postunitaria, chiamata negli anni Sessanta e Settanta a una complessa operazione di omogeneizzazione nazionale dei criteri di rilevamento e classificazione delle proprietà immobiliari. Così come le suddivisioni interne delle città elaborate nel periodo francese (Torino è divisa in quattro zone nel 1801, Napoli in dodici nel 1812) divengono precedenti significativi per tracciare i confini amministrativi nei decenni successivi. O anche i nuovi sistemi razionali di numerazione civica (emblematico il caso di Firenze, dove la progressione dei numeri avanza allontanandosi dal Palazzo dei Priori) vengono ripresi e modificati nel periodo postunitario, con l’identico scopo di migliorare l’orientamento degli abitanti e il funzionamento dei servizi.
Durante l’età napoleonica questo sforzo di organizzazione della città consegue i risultati più significativi nell’avvio di un nuovo lavoro di pianificazione urbana e nella costituzione di specifici organismi municipali incaricati di gestire e controllare l’attività edilizia. Su impulso dell’amministrazione francese, infatti, nei primi anni dell’Ottocento si cominciano a elaborare piani di intervento pubblico che hanno l’ambizione di ridisegnare le strutture complessive delle città. Accade così, per esempio, a Milano, Torino, Roma, Napoli, Venezia, al centro di ambiziosi programmi di trasformazione, in gran parte irrealizzati, che segnano però tappe decisive nella costruzione di una moderna cultura urbana in Italia. In alcuni casi questi piani sono accompagnati dall’istituzione di uffici tecnici (per esempio, le Commissioni dell’Ornato a Milano e Venezia, il Corpo reale di ponti e strade a Napoli) e dall’emanazione di nuove norme per l’edilizia. Non è dunque azzardato individuare in questi avvenimenti l’esordio di un nuovo processo di tecnicizzazione e regolamentazione delle trasformazioni urbane, destinato poi a proseguire negli anni della Restaurazione e a consolidarsi dopo la formazione dello Stato unitario.
Cosa prevedono, in generale, questi piani? Nelle zone centrali, per lo più allargamenti e allineamenti delle strade principali di attraversamento, aperture di nuove piazze, arginamento dei fiumi nei tratti più esposti. Nelle aree marginali, invece, giardini pubblici e nuove espansioni urbane localizzate lungo direttrici selezionate. I princìpi guida, dunque, sono il diradamento del tessuto edilizio antico e la costruzione di nuovi nuclei direzionali. All’interno di questo quadro generale, però, l’intenzione progettuale più significativa è senza dubbio l’abbattimento delle mura. Ovvero la liberazione della città dalla sua cintura perimetrale di contenimento: un atto anche simbolico che vuole segnare la fine dell’antico regime e l’ingresso nella modernità.
Per gli amministratori francesi, sono numerose le ragioni per compiere questa scelta. Innanzi tutto militari, legate sia all’evoluzione delle tecniche di combattimento sia alla volontà di ridurre il rischio di possibili rivolte e resistenze da parte di città conquistate. Poi economiche, connesse alla necessità di favorire l’espansione edilizia e ridefinire il perimetro della cinta daziaria. Infine anche sociali, legate alla possibilità di dare lavoro alla manodopera disoccupata. È Napoleone Bonaparte stesso a decretare nel 1800 l’eliminazione delle mura delle città piemontesi annesse all’Impero francese. E nel giro di pochi anni Torino, Alessandria e Cuneo abbattono le loro cinte. Nello stesso periodo Milano demolisce le fortificazioni intorno al Castello. Ma gran parte del resto delle città italiane deve attendere gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento per registrare l’effettiva scomparsa di questo elemento connotativo della tradizione urbana di antico regime (Insolera 1973, pp. 443-450; Calabi 2005, pp. 21-24).
Comunque, al di là della diversità nei tempi di esecuzione, l’abbattimento delle mura ha conseguenze decisive sullo sviluppo delle città. Da una parte, infatti, si dissolve il confine con il circostante mondo rurale, modificando in profondità la stessa percezione dell’urbano, una dimensione non più ben circoscritta ma dispersa su un territorio ampio, con caratteristiche eterogenee. Dall’altra si modifica radicalmente la morfologia complessiva della città che, dopo la liberazione degli spazi prima occupati dalle fortificazioni, comincia progressivamente a espandersi con nuovi edifici, passeggiate, giardini, strade tangenziali. Così accade a Torino agli inizi dell’Ottocento, dove al posto delle mura sono costruiti viali alberati, piazze, fabbricati residenziali. E così si pianifica in molte altre città della penisola, dove però i lavori di esecuzione decollano solo nel periodo postunitario, con esiti ovviamente molto diversi rispetto ai progetti originari.
In generale, la crescita edilizia comincia a divenire evidente negli anni Quaranta dell’Ottocento, con il progressivo inglobamento dei sobborghi un tempo dispersi fuori le mura. Allora comincia anche a emergere la necessità di una più razionale distribuzione delle funzioni all’interno della città, ponendo le premesse per quella zonizzazione che diviene un principio guida della riflessione e della pratica urbanistica nella seconda metà dell’Ottocento. A Milano, per esempio, già negli anni Quaranta si registra un primo allontanamento delle officine dal centro, verso una zona più marginale, tra la cintura dei Navigli e le mura: alcuni stabilimenti, un decennio più tardi, cominciano poi a spostarsi anche al di fuori delle stesse mura, dove alla fine del secolo risulta concentrata gran parte delle nuove industrie. A Napoli, intorno alla metà dell’Ottocento, è già riscontrabile una netta divisione socio-economica della città, con il settore occidentale trasformato in un luogo di residenza per i ceti medi e borghesi e quello orientale in un’area riservata alle abitazioni popolari e agli stabilimenti produttivi.
Queste tendenze verso una specializzazione delle aree urbane si accentuano nel periodo postunitario, anche in relazione alla crescente complessità delle funzioni urbane. Un fenomeno, quest’ultimo, che trova conferma anche nello sviluppo delle reti di servizio: dalle fogne agli acquedotti, dall’illuminazione ai trasporti. Se alcune città settentrionali registrano significativi progressi già negli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento (in particolare Milano e Torino), gran parte dei centri della penisola riescono ad apprezzare i vantaggi di una serie di servizi di pubblica utilità solo dopo l’unificazione politica. In questo ambito la costituzione di uno Stato accentrato, impegnato a investire nella modernizzazione delle infrastrutture, sembra davvero garantire un impulso decisivo. Così come, del resto, nel potenziamento della rete ferroviaria e del suo inserimento all’interno delle città.
La localizzazione della stazione è uno dei temi centrali dello sviluppo urbano alla metà del secolo. La scelta del luogo costituisce spesso un fattore determinante per l’espansione e la ridefinizione della morfologia urbana. A Napoli la stazione di piazza Garibaldi (1867) è destinata a trasformarsi in una sorta di cerniera tra l’area residenziale e l’area produttiva, innescando un’evoluzione complessiva del sistema viario della città. A Roma la costruzione della stazione Termini (1867) davanti alle Terme di Diocleziano diviene la condizione preliminare per la successiva espansione urbana sulla direttrice nord-orientale. A Venezia la realizzazione del ponte ferroviario (1846) determina un riorientamento complessivo della città verso la terraferma, a scapito della tradizionale attrazione del fronte marittimo. Se è vero che la localizzazione della stazione centrale appare spesso una scelta già compiuta al momento dell’unificazione, negli anni immediatamente successivi si pone il problema del suo collegamento con il centro della città. Una questione strategica, che viene spesso risolta con demolizioni e costruzioni di nuovi assi stradali, capaci di modellare la fisionomia di interi quartieri, condizionandone anche gli sviluppi futuri. Accade così per esempio a Roma con la realizzazione di via Nazionale, oppure a Bologna con via Indipendenza, o a Napoli con il Rettifilo. Su scala diversa, un problema simile si pone anche per i piccoli centri, dove la stazione ferroviaria è spesso costruita lontano dal nucleo abitato. Anche in questi casi, la realizzazione della strada che unisce la stazione al centro diviene spesso un’operazione decisiva per la futura espansione urbana.
Contemporaneamente a questo processo di funzionalizzazione, che prende avvio agli inizi dell’Ottocento e procede ben oltre il periodo postunitario, emerge anche un nuovo modello di rappresentazione urbana del potere, che sembra trovare origine anch’esso negli anni dell’egemonia francese. Non è affatto sorprendente che anche in questo caso gli eventi rivoluzionari segnino una svolta, perché il rovesciamento improvviso del sistema di valori dell’antico regime non può non innescare uno stravolgimento semantico dei luoghi deputati dell’identità politica. Lo testimonia, per esempio, l’apparizione degli alberi della libertà, icone della sovranità popolare, che spuntano soprattutto dove il potere dell’antico regime aveva trovato la sua più efficace consacrazione simbolica, come per esempio in piazza San Pietro a Roma o in piazza San Marco a Venezia.
Più in generale è importante notare come, al di là delle ambizioni razionalizzatrici dei piani urbani, una parte rilevante di quanto viene effettivamente compiuto nel periodo francese sia motivato da esigenze rappresentative. A Napoli, per esempio, si apre un grande cantiere per la sistemazione dello spazio davanti al Palazzo Reale, un intervento poi concluso nel periodo borbonico e di grande importanza per la configurazione della città capitale, ma di minore rilievo per il funzionamento complessivo del sistema infrastrutturale. E qualcosa di simile accade anche a Roma dove, mentre gran parte dei progetti di riorganizzazione dei servizi urbani rimangono sulla carta, si lavora alacremente alla realizzazione del complesso monumentale piazza del Popolo-Pincio e allo scavo delle rovine nell’area archeologica.
In questo sforzo di risemantizzazione del paesaggio urbano un ruolo decisivo spetta anche alla nazionalizzazione dei beni ecclesiastici che, modificando le destinazioni d’uso di molti edifici storici, stravolge i punti di riferimento spaziale e favorisce una ridefinizione della mappa mentale delle città. Ancora a Napoli, per esempio, spariscono ben oltre la metà dei monasteri (nel 1786 erano quasi 200, nel 1838 sono 60), requisiti e trasformati in edifici pubblici, manifatture, alloggiamenti militari: un’intera area, quella del quartiere San Lorenzo, dove da secoli erano concentrate molte proprietà religiose, cambia radicalmente fisionomia e composizione sociale (De Seta 1981, p. 219). Colpisce, tra l’altro, come queste operazioni di espropriazione e laicizzazione di parti significative delle città divengano talvolta occasioni per costituire poli direzionali all’interno dei tessuti urbani più antichi. Non è raro, infatti, che emerga un nucleo centrale, una sorta di distretto politico-amministrativo, capace di rappresentare anche visivamente il processo di accentramento delle istituzioni.
È vero, d’altra parte, che con l’avvento della Restaurazione il sacro torna prepotentemente alla ribalta e riesce a riconquistare molti spazi pubblici sottrattigli durante l’età rivoluzionaria. Ma questo ritorno alla tradizione avviene in un contesto culturale molto diverso da quello di antico regime. Sopravvive, infatti, l’idea di un nuovo modello di rappresentazione del potere legato anche a una diversa concezione monumentalizzante della pianificazione urbana. Non si torna dunque solo a una riesposizione dei tradizionali simboli religiosi, ma si aderisce più o meno consapevolmente alla tendenza verso un nuovo potenziamento della dimensione scenografica della città. A Torino, per esempio, si delibera la costruzione del tempio della Gran Madre di Dio, edificio commemorativo del ritorno dei Savoia, proprio davanti al ponte di pietra realizzato nel periodo napoleonico, una delle opere più significative dell’amministrazione francese, preservata e risemantizzata dal regime restaurato. A Napoli, il grande complesso progettato nella piazza davanti al Palazzo Reale, pensato da Murat come un tempio civile, non viene eliminato con il ritorno dei Borbone ma trasformato in una chiesa dedicata a san Francesco di Paola.
Sarebbe però sbagliato pensare che negli anni della Restaurazione il paesaggio urbano muti solo in sintonia col ribaltamento ideologico. Un altro importante fattore di cambiamento nella dimensione rappresentativa della città è la formazione di nuova cultura borghese. Un fenomeno, quest’ultimo, che comincia a lasciare tracce evidenti nella fisionomia delle capitali degli Stati preunitari durante gli anni Trenta, per poi raggiungere il suo pieno sviluppo dopo la costituzione del Regno d’Italia. Questo processo, naturalmente, non riguarda solo l’affermazione di un nuovo mercato immobiliare, alimentato da un flusso di investimenti più cospicuo rispetto al passato, ma include anche la progressiva diffusione di nuovi comportamenti e stili di vita, che contribuiscono anch’essi all’evoluzione della morfologia complessiva delle città.
Nelle aree periferiche dei grandi centri, infatti, cominciano a sorgere nuovi complessi residenziali che testimoniano, oltre alla crescente importanza dell’industria edilizia come strumento di rendita per le élites urbane, anche la profonda evoluzione dei modelli di vita dei ceti medi e borghesi. Così accade per esempio a Torino, dove negli anni Venti e Trenta sono costruiti i quartieri intorno al viale del Re e nella zona di Borgo Nuovo, seguiti più tardi da quelli di Porta Nuova, Porta Susa e Vanchiglia. O a Napoli, dove negli anni Cinquanta comincia la lottizzazione dell’area a ovest di Chiaia e più tardi, nel primo periodo postunitario, della collina del Vomero. O infine a Firenze, dove alla metà del secolo, ben prima della designazione a capitale nazionale, nascono nuovi insediamenti con una marcata connotazione sociale, come a Barbano o alle Cascine. Quasi ovunque, inoltre, vengono introdotte tipologie residenziali moderne, come gli appartamenti in condominio, che prevedono una nuova articolazione degli spazi interni, con confini più rigidi tra una dimensione pubblica e una privata, effetto di una significativa trasformazione dei codici di comportamento.
Questa città borghese, che cresce rapidamente e che comincia a manifestare con più nettezza il proprio desiderio di distinzione dalla città popolare, non occupa soltanto le nuove aree di espansione urbana, ma si impossessa anche di alcune zone centrali, strade e piazze storiche che, popolate di nuovi luoghi di commercio, di svago, di socializzazione, mutano rapidamente fisionomia, divenendo spazi rappresentativi della cultura delle nuove élites urbane. È un processo che, per molti aspetti, contribuisce a omologare le città italiane a quelle europee, a ridurne le peculiarità storiche, ad avvicinarle a un modello di modernizzazione urbana destinato a imporsi come «occidentale».
Tutto questo risulta ancor più evidente dopo la costituzione del Regno d’Italia, quando la consacrazione dell’ideologia nazionale si fonde con la celebrazione della cultura borghese (Socrate 1995, pp. 398-424). Si impone allora un’enfatizzazione della dimensione rappresentativa e pedagogica della città, chiamata a svolgere una funzione centrale nell’educazione ai valori dello Stato-nazione e ai princìpi del comportamento borghese. Questi obiettivi, tra l’altro, sollecitano la spasmodica ricerca di un comune linguaggio politico-estetico, uno «stile nazionale», capace di imprimere nei paesaggi urbani della penisola il segno inconfondibile dell’avvento di una nuova epoca, quella unitaria, erede di un passato glorioso, ma soprattutto ansiosa di proiettarsi verso la modernità.
È un’aspirazione, quest’ultima, che fatica però a manifestarsi in un unico e riconosciuto codice architettonico. Anzi, se è possibile classificare con un’etichetta comune la produzione edilizia nei primi anni postunitari, questa non può essere che «eclettica», ovvero una variegata imitazione di stili storici che, già di per sé, sembra testimoniare l’incapacità di elaborare un nuovo canone davvero moderno e unitario. Spiccano così, nelle più grandi città italiane, linguaggi molto diversi: dalle suggestioni medievaleggianti a quelle neorinascimentali (quest’ultime accreditate negli anni Settanta e Ottanta come la scelta più idonea per la rappresentazione del potere statale), fino alla più tarde riprese di motivi neobarocchi, a loro volta superate da quel gusto liberty che, agli inizi del Novecento, diviene popolare in molte città anche del Sud, come Palermo e Napoli.
Se è vero che l’architettura sembra stentare in questo compito di rimodellamento in «stile nazionale» della fisionomia delle città italiane, non appare dubbio che l’unificazione inneschi un processo di omogeneizzazione dei paesaggi urbani. Basti solo pensare alla realizzazione dei numerosi monumenti dedicati ai protagonisti dell’epopea risorgimentale, collocati in molte piazze storiche di grandi e piccoli centri. O anche agli effetti della liquidazione dell’asse ecclesiastico che in alcuni casi, come era già accaduto nel periodo napoleonico, trasforma intere aree: a Roma, per citare l’esempio più eclatante, vengono chiuse 134 case religiose su 221 e il demanio si impossessa di una cinquantina di conventi, trasformati in uffici ministeriali e caserme (Vidotto 2006, pp. 56-63). Ma persino senza grandi interventi edilizi, nuovi complessi monumentali o massicce espropriazioni immobiliari, lo Stato nazionale riesce a riplasmare il volto delle città. Per esempio, con le rappresentazioni delle nuove ritualità del Regno, in primo luogo la festa dello Statuto, che impone l’individuazione di percorsi nazionali all’interno di centri ricchi di memorie municipali, modificando il significato di luoghi e spazi pubblici. Oppure attraverso la nuova toponomastica che, al di là dei diversi connotati politico-ideologici, introduce denominazioni comuni per strade e piazze, destinate a volte anche a trasformarsi in ripetitivi schemi di orientamento spaziale. «Voi passate da una città all’altra» scrive con sarcasmo la «Civiltà Cattolica» nel 1897 «e in tutte sempre, irrevocabilmente, siete costretti a traversare una via XX settembre che fa capo a una piazza Plebiscito donde voltate in un corso Vittorio Emanuele che sbocca in una piazza dell’Indipendenza dalla quale si svolta in una via Cavour» (cit. in Porciani 1997, p. 56).
Comincia così un processo di nazionalizzazione dei centri urbani della penisola, che si manifesta soprattutto nelle tre città destinate a succedersi come capitali del Regno: Torino, Firenze e Roma.
Che nell’arco del primo decennio il nuovo Stato nazionale abbia tre diverse capitali, è un’altra dimostrazione dell’impatto delle vicende politiche sulla ridefinizione delle gerarchie urbane nella penisola. È infatti un brusco sconvolgimento degli equilibri internazionali – la vittoria militare della Prussia sull’Impero francese nel settembre 1870 – a consentire al governo italiano di prender possesso di Roma, la capitale designata. Così come le scelte delle due precedenti capitali, Torino (1861-1865) e Firenze (1865-1871), erano state determinate più da situazioni politiche contingenti che da propositi istituzionali ben definiti.
Non stupisce del resto che, in un paese così connotato da tradizioni municipalistiche, l’individuazione della capitale si riveli un’operazione dettata da circostanze particolari e susciti aspri contrasti. Già Napoleone Bonaparte, alle prese con la costituzione della Repubblica cisalpina, aveva incontrato significative resistenze alla designazione di Milano, osteggiata allora dai bolognesi. E successivamente, dopo l’avvento della Restaurazione, in un quadro politico di nuovo frammentato e fitto di città capitali, gli orgogli municipalistici avevano ripreso vigore tra rivendicazioni di glorie e primati culturali, provocando più di una disputa su quale fosse il centro urbano più importante della penisola. Nell’immaginario patriottico, però, due città si erano imposte come nuclei guida della futura nazione: da una parte Torino, per il suo ruolo politico dopo il fallimento dell’ondata rivoluzionaria quarantottesca, e dall’altra Roma, per la sua funzione ideologica fondata sull’eredità di una civiltà millenaria (Caracciolo 1985, pp. 195-200; Porciani 2002, pp. 45-59). Dei primati di quest’ultima, in particolare, si era nutrita gran parte dell’opinione pubblica democratica, soprattutto i repubblicani seguaci di Giuseppe Mazzini, che intorno alla città e al suo mito erano riusciti a costruire un discorso nazionale capace di confrontarsi efficacemente con quello religioso ed ecclesiastico. Così, fin dai primi decenni dell’Ottocento, non esisteva più soltanto la Roma cattolica, ma aveva cominciato ad affiorare lentamente anche una Roma italiana, la Terza Roma, un’idea inizialmente coltivata da sparute minoranze ma poi destinata per la sua forza persuasiva a condizionare il dibattito politico e a divenire una sorta di riferimento imprescindibile per ogni professione di fede patriottica.
Quando, nel marzo 1861, il Parlamento italiano proclama la città, ancora sotto la sovranità pontificia, «capitale acclamata dall’opinione nazionale», appare evidente come la propaganda democratica sia stata capace di imporre una propria parola d’ordine ai moderati. A promuovere l’iniziativa parlamentare è il capo del governo Camillo Benso conte di Cavour che, sebbene non sia affatto contagiato dall’entusiasmo per la Terza Roma, è consapevole di come questo mito abbia ormai fatto breccia al di là dei confini del campo mazziniano. Non solo, ma ne intuisce anche le straordinarie potenzialità politiche per il consolidamento del neonato Regno d’Italia: secondo Cavour, infatti, la proclamazione di Roma capitale legittimerebbe davanti all’Europa la richiesta di annessione della città, consentirebbe di azzerare le rivalità municipali («Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali») e, soprattutto, permetterebbe di assecondare il «senso comune della nazione». Una scelta, dunque, questa del governo, che appare condizionata più dal particolare contesto storico che da un universale e indiscutibile principio di fede.
Non sorprende, allora, che questo invito al realismo politico contribuisca anche ad alimentare una nuova ostilità contro l’idea di «Roma capitale». Privato della sua dimensione mitica, infatti, il richiamo dell’Urbe tende a indebolirsi. E non a caso, proprio agli inizi degli anni Sessanta, prende forma un’ideologia antiromana, fondata sull’assioma che per fare l’Italia moderna occorra demolire il mito perenne dell’Urbe. Artefice principale è Massimo d’Azeglio che, in un opuscolo pubblicato proprio nel 1861, rovescia la rappresentazione mazziniana della Terza Roma per enfatizzare la natura nociva della città, la sua infelice collocazione geografica, la sua carenza di «spirito pubblico», l’insalubrità del suo ambiente, avvolto dai «miasmi di 2.500 anni di violenze materiali o di pressioni morali». Tutte caratteristiche incompatibili con la formazione del nuovo Stato nazionale che, a giudizio di d’Azeglio, dovrebbe collocare la sua capitale altrove, magari a Firenze, dove «il Governo potrebbe trovare quel salubre e sicuro ambiente che dicemmo esser per lui la più importante delle condizioni» (d’Azeglio 1861, pp. 42, 52).
È significativo, d’altra parte, come pochi, dopo il 1861, pensino che la capitale possa rimanere per sempre a Torino, dove è stata proclamata la nascita del Regno d’Italia: la permanenza del governo nazionale nella città piemontese, infatti, rafforzerebbe la percezione di un dominio assoluto della classe dirigente dell’ex Regno di Sardegna sul nuovo Stato, alimentando malumori e ansie autonomiste nel resto della penisola. Eppure Torino mostra, per molti aspetti, una morfologia simile a quella delle capitali delle monarchie nazionali europee. Il suo antico ruolo di città capitale, dapprima in uno Stato assolutista poi in una monarchia costituzionale, ma sempre sotto la stessa dinastia, ne aveva accentuato la continuità nei modelli di sviluppo, favorendo l’integrazione tra il nucleo antico e le espansioni moderne (Traniello 1988, pp. 68-70). Inoltre, fin dagli anni Trenta, la città era stata oggetto di un significativo processo di monumentalizzazione che, in sintonia con l’evoluzione politica, aveva modificato la fisionomia e il significato di importanti spazi pubblici. Dalla collocazione della statua di Emanuele Filiberto in piazza San Carlo (1838) a quella di Carlo Alberto nella piazza omonima (1861), la disseminazione di una serie di monumenti in luoghi simbolici aveva trasformato l’intero ambiente urbano, ridimensionandone anche quell’effetto metafisico ereditato dall’età barocca.
Appare allora evidente come, all’interno di questa evoluzione, sia troppo breve il periodo in cui la città piemontese è capitale del nuovo Regno per assistere a un’ulteriore riconfigurazione del suo assetto urbano. Tra l’altro, non c’è bisogno di trovare nuove sedi alle istituzioni nazionali, che ereditano per lo più le strutture del Regno di Sardegna. Così come, ovviamente, non c’è necessità di monumentalizzare il potere dei Savoia, già ampiamente consacrato nel paesaggio cittadino. Il cambio di status politico, tuttavia, innesca significative trasformazioni sociali ed economiche. C’è una forte crescita demografica, che spinge in alto il numero degli abitanti fino a quasi 220.000 nel 1864. E c’è una rapida espansione delle costruzioni, che dilata l’area urbana di oltre 900.000 ettari tra 1859 e 1864. Che poi il rendimento del capitale investito nell’edilizia residenziale si aggiri tra 1861 e 1864 intorno al 20% annuo, è sufficiente per intuire quale importanza economica abbia avuto la designazione a capitale nazionale.
Non stupisce allora che la notizia della stipula della Convenzione di settembre, con il trasferimento della capitale a Firenze, provochi violente proteste e disordini a Torino. Gran parte della cittadinanza è timorosa di perdere importanti vantaggi economici, ma è soprattutto indignata per la fine prematura di una simbiosi, quella tra città, dinastia regnante e Stato, che si sarebbe dovuta concludere soltanto dopo il compimento dell’auspicio di Roma capitale. Così il 21 settembre piazza Castello e il giorno dopo piazza San Carlo si trasformano in scenari di una cruenta battaglia tra esercito e dimostranti: i morti sono 52, i feriti 159 (Castronovo 1987, pp. 5-17; Levra 2001, pp. xix-xxii).
Questo trasferimento della capitale non è indolore nemmeno per Firenze che, improvvisamente, deve innalzarsi al vertice del sistema urbano nazionale senza possedere molti requisiti giudicati allora indispensabili per interpretare il ruolo. La città è più piccola di Torino, appena 150.000 abitanti, e appare priva di quella fisionomia moderna che gli interventi ottocenteschi avevano assicurato alla capitale sabauda. Non a caso una parte della classe dirigente locale reagisce alla designazione con preoccupazione, temendo uno stravolgimento di consuetudini e tradizioni civiche considerate connotati essenziali dell’identità fiorentina. Ma è d’altra parte significativo che, davanti all’impossibilità di insediarsi a Roma e alla contemporanea fioritura di autorevoli candidature alternative (come quelle di Milano e Napoli), il nuovo Stato scelga la città toscana, sia per assecondare le preferenze dei Savoia e di una parte significativa della classe dirigente piemontese, sia soprattutto per la forza simbolica associata alla storia di Firenze, al suo passato medievale e rinascimentale di capitale delle lettere e delle arti, icona perfetta di quel primato umanistico rivendicato dalla nuova cultura nazionale.
L’esperienza di capitale del Regno d’Italia, per quanto breve, segna profondamente il volto di Firenze. Comincia infatti un processo di modernizzazione accelerata della morfologia urbana, che condizionerà a lungo gli interventi successivi. Se è vero infatti che le istituzioni statali trovano dimora per lo più in edifici storici, come la Camera dei deputati nel Palazzo Vecchio e il Senato agli Uffizi, oppure in complessi ex ecclesiastici, come il ministero della Pubblica istruzione nel convento di San Firenze o quello della Marina nel monastero dei Barbetti, tuttavia la designazione a capitale nazionale diviene anche la premessa per l’elaborazione di un nuovo piano di ampliamento urbano che, redatto da Giuseppe Poggi, modificherà radicalmente l’assetto complessivo della città (Borsi 1970, pp. 67-95; Fanelli 1980, pp. 200-211). Si abbattono le mura, si costruiscono i nuovi quartieri del Maglio e della Mattonaia, si progettano sventramenti nell’area centrale del Mercato Vecchio, si realizzano viali tangenziali, nuove piazze, strade panoramiche e un grande affaccio sulla città, il piazzale Michelangelo, snodo monumentale di una rete viaria che ingloba le colline circostanti all’interno del sistema urbano. È un modello di capitale influenzato dagli esempi di Parigi e Vienna e fondato su un nuovo ideale di modernità che si impone non solo nella progettazione dei quartieri periferici, ma anche negli interventi di restauro o rifacimento delle strutture edilizie nel centro antico. Diviene infatti allora predominante un gusto di signorilità borghese, che tende a uniformare lo spazio urbano.
Appena Firenze comincia a mostrare questo volto moderno, si concretizza per il Regno d’Italia la possibilità di annettersi Roma. E la presa di Porta Pia, il 20 settembre 1870, pone automaticamente la questione di un nuovo trasferimento della capitale. Una scelta, quest’ultima, meno scontata di quello che si potrebbe pensare guardando al voto del marzo 1861 e all’entusiasmo unanime con cui era stato salutato l’ingresso dei bersaglieri in città. All’indomani dell’annessione, infatti, non tardano a manifestarsi perplessità e resistenze, soprattutto tra i liberal-conservatori settentrionali: il quotidiano «La Perseveranza», per esempio, organo della consorteria lombarda, invita a riconsiderare la questione e il dibattito parlamentare che si apre nel dicembre 1870 rivela con quanta diffidenza alcuni deputati accettino la scelta della nuova capitale. Il trasferimento delle istituzioni, comunque, viene predisposto in tempi brevi e dal luglio 1871 Roma diviene capitale a tutti gli effetti.
È però significativo che questa designazione, nonostante sia definitiva, fatichi a lasciare una traccia visibile sulla città. Anche qui, inizialmente, non vengono costruiti nuovi edifici per ospitare le istituzioni nazionali e metterne in scena i valori politici. Per ragioni di opportunità e bilancio, si sceglie di utilizzare le strutture esistenti. Il re prende possesso del Quirinale, già residenza papale; la Camera dei deputati è collocata a Montecitorio, ex sede dei tribunali ecclesiastici; il Senato si stabilisce a Palazzo Madama, dove prima si trovava il dicastero finanziario pontificio; il ministero degli Esteri si trasferisce nel Palazzo della Sacra Consulta e quello dell’Interno, insieme alla presidenza del Consiglio, trasloca a Palazzo Braschi, acquistato proprio per questo scopo. Non può passare inosservato che uno dei luoghi più rappresentativi dello Stato nazionale, l’aula della Camera dei deputati, sia ricavato dalla trasformazione del cortile di Montecitorio. Solo nel 1877 è inaugurato il primo palazzo ministeriale costruito dal Regno d’Italia, quello delle Finanze.
Questa scelta, motivata dalla necessità di accelerare il trasferimento delle istituzioni nella nuova capitale, rivela per molti aspetti il disagio con cui il Regno d’Italia fa ingresso nella «città eterna», il timore del confronto con la Roma dei papi, il bisogno di evitare ulteriori attriti con il mondo cattolico. Un segno evidente della difficoltà a trasformare una capitale millenaria della civiltà occidentale nella capitale di uno Stato nazionale ancora in cerca di legittimazione.
Non è allora sorprendente che, sebbene la progettazione della nuova Roma cominci già nel settembre 1870 (con la nomina di una «commissione per l’ampliazione e l’abbellimento della capitale») e poi prosegua con l’elaborazione di un primo piano regolatore (approvato dal Consiglio comunale nel 1873, ma mai divenuto legge), all’inizio degli anni Ottanta la Roma italiana non appaia ancora molto diversa da quella pontificia. Dei tanti progetti elaborati, poco viene realizzato nel primo decennio postunitario. Comincia a prendere forma l’asse direzionale di via XX Settembre con la costruzione delle sedi dei ministeri delle Finanze e della Guerra, è tracciata via Nazionale, l’amministrazione municipale stipula con privati le convenzioni per l’edificazione di nuovi quartieri sull’Esquilino e al Castro Pretorio, viene approvata una legge per la sistemazione del Tevere. Iniziative importanti, ma senza dubbio insufficienti per poter celebrare la nascita della nuova capitale nazionale.
Che sia indispensabile un deciso intervento dello Stato per trasformare Roma in una città moderna è evidente a gran parte della classe dirigente italiana. Ma alcuni leader della Destra, soprattutto settentrionale, si rifiutano di riconoscere il dovere di partecipazione della nazione a un’opera di rinnovamento urbano che vorrebbero interamente a carico della municipalità. L’idea di fondo è che la designazione a capitale sia già di per sé un enorme privilegio, da saper sfruttare senza chiedere aiuti allo Stato. E non stupisce allora che, solo dopo la caduta della Destra e l’avvento al potere della Sinistra (1876), si concretizzi l’idea di una legge speciale per Roma. Ovvero un finanziamento statale di 50 milioni di lire per la realizzazione di una serie di opere pubbliche connesse all’elaborazione di un piano regolatore (Vidotto 2006, pp. 74-81).
Questo provvedimento, approvato nel marzo 1881, segna una svolta perché sancisce il diritto del comune di Roma a fondi statali per poter assolvere ai compiti di capitale nazionale. Ma rappresenta, d’altra parte, anche il sigillo a un rapporto di stretta dipendenza della capitale dallo Stato che condizionerà l’immagine di Roma fino ai nostri giorni: ossia l’idea di una città favorita dai poteri pubblici a scapito del resto del paese. Non sorprende dunque che, durante la discussione parlamentare, molti deputati si oppongano alla proposta del governo, denunciando il rischio di creare una «capitale assorbente», criticando lo sperpero di denaro pubblico per lavori giudicati inutili, protestando contro la disparità di trattamento tra Roma e quegli altri comuni capaci di realizzare opere pubbliche senza richiedere fondi allo Stato.
La legge prevede la costruzione di un Palazzo di Giustizia, di un Policlinico, di un Palazzo di Belle Arti, di una sede per l’Accademia delle scienze, di un ospedale militare, di caserme e una piazza d’armi, oltre a due ponti sul Tevere e a una radicale ristrutturazione del sistema stradale. Un programma ambizioso e dispendioso che, a soli due anni dalla sua approvazione, richiede un nuovo intervento legislativo per garantire all’amministrazione municipale un prestito di 150 milioni di lire. Nel 1883 è approvato il nuovo piano regolatore: prefigura l’abbattimento di parti consistenti del centro storico e l’apertura di nuove arterie di scorrimento, come gli assi di via Cavour e corso Vittorio Emanuele II. Stabilisce inoltre il completamento di via Nazionale (congiunta già con piazza Venezia), la realizzazione del Traforo sotto il Quirinale, l’istituzione dei parchi di villa Borghese e villa Glori. Sono opere, oltre ad altre elencate nella legge speciale, che modificano profondamente la fisionomia di Roma, chiamata ad assumere un aspetto più moderno, da città ottocentesca, con strade rettilinee e fabbricati allineati. Contemporaneamente si avvia anche l’edificazione del monumento a Vittorio Emanuele II, un’opera imponente destinata a diventare il nucleo di un centro moderno nel cuore dei vecchi rioni, e si costruiscono i muraglioni e i viali alberati lungo il Tevere, che trasformano radicalmente la percezione del fiume all’interno della città.
È un complesso progetto di ristrutturazione, questo di Roma capitale, che riflette anche i princìpi dell’«ingegneria sanitaria»: una nuova specializzazione disciplinare che, alla metà degli anni Ottanta, comincia a rivendicare anche in Italia una supremazia nello studio dei problemi delle città, da analizzare attraverso l’indagine statistica delle patologie collettive. Sono gli ingegneri sanitari, infatti, a egemonizzare in questi anni il dibattito pubblico sulla «questione urbana», provocando un ribaltamento della rappresentazione delle grandi città: da centri di civilizzazione e modernizzazione sociale, queste ultime diventano, usando le parole del medico igienista Paolo Mantegazza, «laboratori d’infezione…, carceri per il polmone e stufe per i cervelli» (cit. in Giovannini 1996, p. 9). Ovvero luoghi malsani e nocivi, responsabili non solo del decadimento fisico della popolazione, ma anche della sua degenerazione morale. I nuovi indagatori delle patologie urbane, infatti, sono convinti che la mancanza di igiene pubblica inquini le coscienze individuali. Un assioma, quest’ultimo, che inspira anche tutta una coeva produzione letteraria incentrata sui mali delle città: basti pensare alla Milano sconosciuta di Paolo Valera (1879) o al Ventre di Napoli di Matilde Serao (1884).
Il legame tra salubrità e moralità, tra ordine sanitario e assetto sociale, è uno dei fondamenti epistemologici dell’ingegneria sanitaria che, non a caso, avvalora un’idea organicistica della città, utilizzando come termine chiave quello di «risanamento», associabile a significati sia materiali sia ideologici. La città ha bisogno di aria, luce, acqua potabile e scarichi fognari per trasformarsi in uno spazio vivibile, al riparo sia da epidemie infettive sia da perversioni sociali. Un luogo pulito e pacificato, costruito e governato secondo i princìpi razionali della scienza e della tecnica, destinate a sostituire l’architettura nella progettazione edilizia.
Molti di questi precetti dell’igiene sanitaria diventano norme statali con l’approvazione della legge per il risanamento di Napoli nel 1885. Sulla scia dell’allarme provocato da una violenta epidemia di colera, che un anno prima aveva causato quasi 7.000 morti solo nel capoluogo campano, lo Stato decide di intervenire per eliminare quello che veniva considerato uno dei più pericolosi focolai urbani di infezione nazionale, il centro di Napoli con i suoi quartieri popolari (Petraccone 1978, pp. 185-220). Si riesumano vecchie idee, risalenti all’amministrazione borbonica o al primo periodo postunitario, per elaborare un piano di intervento che prevede ampie demolizioni nelle zone più basse della città con lo scopo di realizzare, oltre a un’efficiente rete fognaria e a un moderno sistema di distribuzione dell’acqua potabile, anche un nuovo asse di collegamento tra la stazione e il centro, il Rettifilo. L’obiettivo principale è quello di diradare il tessuto edilizio e decongestionare i quartieri centrali, spostando gran parte degli abitanti alla periferia orientale, dove si progetta di costruire nuovi edifici popolari. È un piano grandioso che prevede il «risanamento» di 550.000 metri quadri, la costruzione di 59 nuove isole di case economiche divise in 7.400 alloggi, la realizzazione di 182 chilometri di condotte fognarie. Con un costo complessivo intorno ai 75 milioni di lire.
Per facilitare l’esecuzione dei lavori si modifica anche la legge del 1865 sull’esproprio per pubblica utilità, approvata in coincidenza con il piano Poggi per Firenze. La nuova norma cambia i criteri d’indennizzo, legati non più a valori teorici di mercato ma a rendite accertate delle proprietà espropriate, e trasforma il piano regolatore da strumento eccezionale a provvedimento amministrativo di uso corrente, estendendone l’applicazione a tutti i comuni dove «le condizioni di salubrità delle abitazioni o della fognatura e delle acque ne facessero manifesto il bisogno» (legge del 1885, n. 2892, art. 18). A Napoli il municipio stipula una convenzione con una società privata, la Società pel Risanamento, costituita sotto la regia governativa con l’unione di alcuni grandi istituti finanziari (Credito mobiliare, Banca generale, Banca subalpina, Società generale immobiliare, Banca di Torino, Impresa Marsaglia). Mentre lo Stato si impegna a versare i tre quarti della cifra preventivata dalla legge speciale, espropri, sfratti, demolizioni e nuove costruzioni sono a carico della Società pel Risanamento, che in cambio diviene proprietaria degli immobili. Al comune, invece, spettano le aree libere, ovvero strade, piazze e giardini.
Molto si è discusso sul carattere speculativo dell’operazione che, avanzata con estrema lentezza tra numerose difficoltà, avrebbe favorito il sopravvento degli interessi privati su quelli pubblici. Come nel caso di Roma, colpita da una «febbre edilizia» alla metà degli anni Ottanta, anche Napoli diviene scenario di grandi investimenti privati che cercano di approfittare dei vantaggi assicurati dalla legge speciale. E in modo simile a quanto accade nella capitale, travolta da un crollo improvviso del mercato immobiliare alla fine del decennio, anche il capoluogo campano subisce gli effetti della crisi finanziaria, che inevitabilmente blocca i lavori nei cantieri e azzera le previsioni di guadagno (Caracciolo 1993, pp. 193-205; Marmo 1976, pp. 646-683). Una vicenda traumatizzante che, in entrambe le città, si compie all’ombra di un sistema illegale di collusioni tra mondo politico e mondo economico, rivelato poi con grande scandalo dell’opinione pubblica dalle indagini della magistratura e dalle inchieste delle commissioni parlamentari. E non a caso, già agli inizi degli anni Novanta, «legge speciale» diviene sinonimo di speculazione, corruzione e sperpero di denaro pubblico.
Eppure, nonostante tutti i limiti, gli interventi statali a Roma e a Napoli segnano una svolta nelle politiche di modernizzazione urbana. Non solo perché sono comunque raggiunti alcuni importanti miglioramenti nelle condizioni di vita dei ceti popolari: basti pensare che nel capoluogo campano il tasso di mortalità per malattie infettive passa dal 27,1‰ nel 1885 al 9,5‰ nel 1895 (Giovannini 1996, p. 172). Ma anche perché il coinvolgimento diretto dello Stato costituisce da una parte una premessa per l’elaborazione di una nuova regolamentazione edilizia, che in età crispina avvicinerà l’Italia agli standard dei paesi europei più sviluppati, e dall’altra diviene uno stimolo per l’elaborazione di progetti di ammodernamento in altre città della penisola (Zucconi 1999, pp. 17-18).
A Torino, già nel 1885, si prepara un «piano di risanamento e miglioramento igienico ed edilizio della città», che il Parlamento approva come questione di pubblica utilità: così il municipio si può avvantaggiare dei benefici previsti dalla legge speciale per Napoli per operare alcuni sventramenti nel centro e tracciare i nuovi assi diagonali di via Pietro Micca e via IV Marzo. A Milano, in sintonia con il piano di Cesare Beruto, un caso esemplare di applicazione delle tecniche ingegneristiche alla progettazione della città, si stipula nel 1886 un accordo per il risanamento dell’area compresa tra il Castello sforzesco e il Cordusio che prevede, tra l’altro, un controllo sul decoro e sull’unitarietà delle costruzioni attraverso una serie di disposizioni speciali inserite in un nuovo regolamento edilizio. A Bologna, nel 1889, entra in vigore un nuovo piano regolatore: si avvia una ristrutturazione di una parte significativa della città attraverso l’allargamento di via Rizzoli e si predispone un piano di ampliamento esterno con la costruzione del quartiere della Bolognina. A Genova, nel 1890, si approva il progetto per la realizzazione di un grande asse rappresentativo, via XX Settembre, che da piazza De Ferrari, nuovo centro degli affari, raggiunge la spianata del Bisagno, al di là della quale si costruiscono i nuovi quartieri residenziali della borghesia.
Tutti interventi pensati in sintonia con i precetti dell’ingegneria sanitaria, ma che rivelano anche l’ambizione di rafforzare le vocazioni rappresentative delle città, immaginate come palcoscenici della modernità borghese.
Anche dopo la costituzione dello Stato unitario, il rapporto tra città e nazione continua a produrre effetti paradossali. Da una parte, infatti, il consolidamento di un sistema amministrativo centralizzato determina un ridimensionamento della nozione di città, che viene privata della sua valenza giuridico-istituzionale (Rugge 1993, pp. 47-54). È significativo che la stessa parola «città» sia pressoché assente nella nuova legislazione nazionale, sostituita dal termine più tecnico di «comune» (già presente dal 1847 negli editti sabaudi), capace di rappresentare meglio l’omogeneizzazione delle articolazioni territoriali e il rapporto di dipendenza delle istituzioni locali da quelle centrali. Che questo invece non accada per esempio nel Regno di Prussia, un altro Stato con radicate tradizioni municipalistiche, ben dimostra quanto l’accentramento abbia avuto in Italia un effetto decisivo sullo sviluppo urbano.
D’altra parte, è anche vero che l’unità politica contribuisce a un rafforzamento dei municipalismi, capaci di trovare proprio nella dimensione nazionale un nuovo spazio dove esibirsi e confrontarsi (Romanelli 1991, pp. 711-720). La stessa costruzione di un unico sistema urbano nell’intera penisola, sebbene innervato da molteplici sottosistemi regionali, alimenta una competizione forsennata nella rivendicazione di primati, meriti e specificità locali, che aspirano a un riconoscimento istituzionale. Dietro la retorica dell’unità, infatti, sono proprio le città a divenire le icone più efficaci degli interessi particolari, delle diffidenze verso le regole uniformanti, dell’attaccamento ad autonomie e privilegi tradizionali. E se questo fenomeno potrebbe apparire come un semplice residuo dell’età preunitaria, ovvero le vecchie resistenze municipalistiche davanti al rafforzamento delle monarchie amministrative, tuttavia è evidente come emergano nuove strategie di legittimazione delle identità cittadine, trasformate anch’esse dall’ideologia nazionale.
Del resto, ancor prima del raggiungimento dell’Unità, non è più possibile per liberali e democratici rivendicare primati cittadini senza legarli a specifici meriti patriottici. Accade così, per esempio, nei rapporti tra torinesi e milanesi che, fin dal 1848, competono per una supremazia politica e ideologica, che dovrebbe trovare sanzione nel riconoscimento per la propria città dello status di capitale di un auspicato Regno dell’Alta Italia. È inevitabile che, in questa prospettiva, le immagini di Torino e Milano comincino ad assumere connotati diversi rispetto al passato, funzionali non più solo a evocare antichi primati culturali, ma anche a costruire nuove reputazioni politiche, indispensabili per legittimare titoli e ricompense. Le antiche rivalità urbane, infatti, tendono a trasformarsi in dispute ideologiche, che misurano e confrontano le vocazioni patriottiche alla lotta e al sacrificio.
All’interno di questo processo di ridefinizione delle identità cittadine, un ruolo particolare spetta alle esposizioni. Ne erano state organizzate molte fin dall’età napoleonica ma, dopo la costituzione del Regno d’Italia, acquistano un significato e un rilievo ben maggiori rispetto al passato. Innanzi tutto perché cominciano a subire gli effetti del più generale sviluppo internazionale del fenomeno che, soprattutto nei paesi europei più industrializzati, ha ormai assunto dimensioni di massa e valenze politiche di straordinario impatto: basti pensare all’Esposizione di Londra del 1851, evento-immagine della potenza dell’Impero britannico. Ma anche perché, pur non avvicinandosi alla grandiosità delle coeve manifestazioni inglesi o francesi, le esposizioni italiane riescono comunque a trasformarsi non solo in scenari di celebrazione dei successi nazionali, ma anche in occasioni di confronto tra i diversi centri urbani della penisola.
Le città che ospitano le esposizioni, infatti, sono chiamate a esaltare sia i valori della nazione sia il proprio specifico contributo allo sviluppo del paese. E per alcune settimane divengono mete di gite e pellegrinaggi da parte di migliaia di italiani provenienti dagli altri centri della penisola, curiosi di visitare oltre a gallerie ed edifici appositamente allestiti per le mostre, anche i luoghi urbani più caratteristici, passeggiando tra piazze, monumenti, negozi.
Succede così a Firenze che, in due importanti manifestazioni postunitarie, l’Esposizione nazionale d’arte del 1861 e il Centenario dantesco del 1865, prova a mettere in scena la sua vocazione di capitale culturale davanti all’opinione pubblica di una nazione che proprio sul patrimonio storico-artistico fonda gran parte del proprio prestigio (Tobia 1995, pp. 492-510). Successivamente, con esiti ancor più significativi, lo stesso accade anche a Milano e Torino, che ospitano le due principali manifestazioni degli anni Ottanta: rispettivamente l’Esposizione industriale italiana del 1881 e l’Esposizione generale italiana del 1884.
A Milano si celebrano i progressi economici compiuti dal Regno a un ventennio dall’unificazione, ma si esalta anche il ruolo guida del capoluogo lombardo nella costruzione dell’Italia moderna. Come sottolinea la pubblicistica legata all’evento, Milano è la capitale dell’«Italia che lavora», la metropoli industriale che valorizza le responsabilità individuali senza trascurare i doveri della solidarietà sociale, il luogo deputato di quella società civile che difende la propria autonomia e si oppone alle invadenze della burocrazia statale. È un primato economico e sociale, quello rivendicato dal capoluogo lombardo, che richiama anche un profilo morale della città, confinante con la dimensione religiosa. Come scrive Cesare Correnti, «il genio di Milano è il Cristianesimo civile» (Rosa 1982, pp. 9-14; Meriggi 2001, pp. 17-18).
A Torino, invece, si celebra la seconda fase della rivoluzione nazionale, la nuova missione ideologica e culturale dello Stato unificato, ma anche il primato risorgimentale e dinastico del capoluogo piemontese. La città, privata dello status di capitale, può ancora efficacemente rivendicare il proprio passato patriottico, ma è anche chiamata a riformulare la propria immagine per continuare a legittimare un ruolo d’avanguardia all’interno della comunità nazionale. Da una parte dunque l’esposizione torinese valorizza il culto del Risorgimento, monumentalizzato attraverso una museificazione della storia nazionale, dall’altra esalta il progresso tecnologico, esemplificato anche da una costruzione grandiosa e avveniristica come la Mole Antonelliana (Tobia 1991, pp. 68-89; Levra 1992, pp. 81-172).
Se è vero che negli anni Ottanta dell’Ottocento molte città della penisola rivendicano un ruolo da protagonista sul palcoscenico nazionale, è altrettanto vero che soltanto Roma, Milano e Torino possono credibilmente candidarsi a divenire centri guida della nazione. La prima soprattutto per essere stata designata capitale del Regno, città-mito con una storia millenaria incomparabile. Le altre due per le benemerenze patriottiche, ma anche per la capacità di simboleggiare un’idea di modernità italiana.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, però, Torino cede il passo al capoluogo lombardo come città-icona della «nuova» Italia. Milano, infatti, appare ormai come un centro molto più ricco, dinamico, proteso verso il futuro. Ma soprattutto comincia a imporsi come un modello di «buona amministrazione», rigorosa ed efficiente, che dovrebbe essere imitato dal resto della penisola. E non è un caso che proprio allora l’antica rivalità con Roma si trasformi in uno scontro politico. Quella che fino agli anni Ottanta era stata una rivendicazione di primati diviene una vera e propria lotta tra due città capitali, emblemi di due diverse idee di Italia. L’una, simboleggiata da Roma, ancora legata alla memoria dell’epopea risorgimentale e al culto del rafforzamento dello Stato centralizzato. L’altra, impersonata da Milano, la «capitale morale», attenta alle novità dell’Europa occidentale e alla difesa delle autonomie municipali. In questo scontro, che è destinato negli anni Novanta a svilupparsi in una feroce contesa tra il governo di Roma e l’opposizione dello «Stato di Milano», continua tuttavia a echeggiare una ben più antica contrapposizione culturale tra due tradizioni della penisola: quella statale-universalistica, fondata sull’eredità-mito dell’Impero romano e sull’esperienza politica della Chiesa cattolica, e quella comunale-municipalistica, connotata dalla memoria delle città medievali come modelli di resistenza contro l’espansione del dominio imperiale (Bartolini 2006, pp. 144-169).
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