Le clausole claims made
L’articolo si propone di offrire una panoramica sulle problematiche poste dalla ormai generalizzata introduzione della clausola claims made nelle polizze assicurative della responsabilità civile in un sistema strutturato sul modello loss occurrence. L’analisi è svolta con particolare riguardo alle principali tematiche sin qui emerse in dottrina e giurisprudenza in tema di nullità, vessatorietà, atipicità e meritevolezza della clausola, questioni solo parzialmente risolte dalla recente Cass., S.U., 6.5.2016, n. 9140.
SOMMARIO 1. La ricognizione 2. La focalizzazione 2.1 Le Sezioni Unite del 2016 3. I profili problematici
La disciplina codicistica dell’assicurazione per la responsabilità civile è strutturata su una nozione di sinistro inteso come fatto dannoso, individuando il fatto generatore dell’obbligazione assicurativa nel comportamento colposo posto in essere dall’assicurato durante il periodo di efficacia della polizza e produttivo di un danno al terzo. In base al disposto dell’art. 1917, co. 1, c.c. ciò che rileva al fine di stabilire l’insorgenza dell’obbligo di corrispondere l’indennizzo a carico dell’assicuratore è il momento di verificazione della condotta lesiva dell’assicurato, mentre restano del tutto irrilevanti sia il momento in cui si manifestano le conseguenze dannose di quella condotta sia il momento in cui il terzo danneggiato effettua la richiesta risarcitoria all’assicurato. Tale modello tradizionale fondato sul momento di insorgenza del danno, cd. loss occurrence, è entrato in crisi sulla fine degli anni Ottanta con l’emersione della tematica del risarcimento dei cd. danni lungolatenti, ossia di danni che si manifestano a notevole distanza di tempo dalla condotta lesiva. Le compagnie assicurative si sono, infatti, trovate a dover fronteggiare una mole di contenzioso inatteso e risarcimenti liquidati sulla base di parametri completamente diversi da quelli sulla cui base erano state appostate le riserve ed hanno, dunque, introdotto prodotti assicurativi strutturati su una concezione di sinistro diversa da quella formulata dal citato art. 1917 c.c. attribuendo rilevanza – anziché al fatto dannoso posto in essere dall’assicurato – alla richiesta di risarcimento del danno svolta dal danneggiato nei confronti dell’assicurato, con l’inserimento di clausole cd. claims made o a richiesta fatta. Nelle polizze con clausola claims made l’assicurazione è prestata, non già per i danni materialmente causati ed emersi nel periodo di validità dell’assicurazione, ma per i danni per i quali, durante tale periodo, sia stata presentata all’assicurato per la prima volta richiesta di risarcimento del danno1. Nel ventennio successivo alla prima introduzione dei contratti assicurativi con clausola claims made si è assistito ad una loro progressiva ed inarrestabile diffusione nel campo dell’assicurazione della responsabilità civile, al punto da soppiantare quasi integralmente i contratti tradizionali loss occurence, in particolare nelle assicurazioni per la responsabilità professionale. Con la generalizzata applicazione di tali forme di garanzia assicurativa hanno cominciato ad emergere forti perplessità in dottrina e giurisprudenza in ordine alla compatibilità in generale del meccanismo “a richiesta fatta” con il nostro ordinamento. Benché, infatti, le compagnie assicurative abbiano prospettato tale radicale mutamento strutturale come maggiormente vantaggioso per l’assicurato2 in dottrina e giurisprudenza sono stati avanzati forti dubbi sulla effettività di tale vantaggi3.
Le clausole claims made sono state oggetto di numerose e contrastanti interpretazioni giurisprudenziali con posizioni che spaziano dalla ritenuta nullità della clausola a quelle di piena validità, dalla tipicità alla atipicità con necessità di indagarne l’eventuale carattere vessatorio, sino alla recentissima pronuncia della Suprema Corte a sezioni unite del 2016 che ha affrontato i punti oggetto dei più accesi dibattiti, lasciando, tuttavia, ancora impregiudicate molte questioni.
Il dibattito giurisprudenziale e dottrinale si è sviluppato, in primo luogo, sulla validità della clausola, affermata da taluni e negata da molti, in relazione al disposto dell’art. 1917 c.c.
Secondo un primo orientamento4 le clausole claims made sarebbero nulle in quanto contrastanti con il disposto dell’art. 1917, co. 1, c.c. atteso che tale norma, benché non espressamente dichiarata inderogabile, «rappresenta l’essenza stessa, la funzione, del contratto di assicurazione e cioè il trasferimento del rischio derivante dall’esercizio di un’attività, nella specie, professionale dall’agente all’assicuratore. Ciò che viene assicurato è l’attività fonte di responsabilità, non la richiesta risarcitoria. Pertanto, una clausola contraria al disposto dell’art. 1917, co. 1, c.c. non può che essere nulla, per mancanza di causa»5. Secondo alcune pronunce6 la clausola sarebbe nulla anche per violazione dell’art. 1895 c.c., in considerazione del fatto che consentirebbe l’assicurazione retroattiva – vale a dire quella i cui effetti si producono da un momento anteriore a quella di conclusione del contratto – nonché quella “putativa” (vale a dire di rischi già verificatisi, sebbene ignorati dalle parti), laddove l’art. 1895 c.c. individuerebbe quale presupposto necessario della valida costituzione del rapporto assicurativo l’esistenza di un rischio che debba ancora verificarsi, ossia di un evento futuro ed incerto. Ulteriori profili di nullità sono, poi, stati ravvisati sia nella violazione del disposto dell’art. 2965 c.c. sia per l’alterazione del regime della prescrizione (art. 2952 c.c.)7.
Su un fronte radicalmente opposto si pone, invece, altra parte della giurisprudenza di merito8 che ha ritenuto valide tali clausole sulla base della ritenuta derogabilità dell’art. 1917 c.c., ai sensi del citato art. 1932 c.c., il quale limita l’inderogabilità ai co. 3 e 4, lasciando i contraenti liberi di predisporre una diversa regolamentazione in virtù del principio di autonomia contrattuale e del principio di meritevolezza sancito dall’art. 1322 c.c. La Suprema Corte, d’altro canto, con la prima (e per lungo tempo unica) sentenza in tema di clausole claims made9, da un lato ha affermato la natura derogabile del co. 1 dell’art. 1917 c.c., ritenendo insussistente una ipotesi di nullità della clausola per violazione di norma imperativa, dall’altro ha ritenuto che la clausola claims made determini una deviazione dallo schema tradizionale basato sul parametro della insorgenza del danno tale da non consentire la riconduzione del contratto con clausola claims made nell’ambito del tipo. La Corte ha, dunque, affermato la validità del contratto di assicurazione della responsabilità civile con clausola claims made, il quale, seppur caratterizzato da atipicità, è comunque in grado di superare il vaglio di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c., risultando in tal modo lecito10. Ha, poi, incidentalmente sottolineato che «spetta al giudice di merito accertare, caso per caso, se la clausola a richiesta fatta, riducendo l’ambito oggettivo della responsabilità dell’assicuratore, fissato dall’art. 1917 c.c., configuri una clausola vessatoria ai sensi dell’art. 1341 c.c.» tenendo presente che «una clausola contrattuale può essere ricompresa tra quelle che stabiliscono limitazioni di responsabilità a favore di colui che l’ha predisposta a condizione che essa restringa (ad es. sotto il profilo quantitativo, spaziale o temporale) l’ambito obiettivo di responsabilità così come fissato, con più ampia estensione, da precetti normativi (o da altre clausole generali): non possono, pertanto, qualificarsi vessatorie quelle clausole che abbiano, per contenuto, una mera determinazione della effettiva estensione delle reciproche prestazioni dedotte in obbligazione».
Sulla vessatorietà o meno della clausola claims made la giurisprudenza di merito si è nuovamente divisa. Secondo l’orientamento prevalente11 occorrerebbe distinguere a tal fine le clausole claims made “pure”, destinate alla manleva di tutte le richieste risarcitorie inoltrate dal danneggiato all’assicurato e da questi all’assicurazione nel periodo di efficacia della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito, da quelle “miste o impure”, che prevedono l’operatività della copertura assicurativa solo quando tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano nel periodo di efficacia del contratto, con eventuale retrodatazione della garanzia alle condotte poste in essere anteriormente. Mentre le prime, infatti, sarebbero sempre valide ed efficaci, essendo vantaggiose per l’assicurato senza comportare alcuna limitazione di responsabilità a carico dell’assicuratore12, le seconde sarebbero vessatorie e pertanto necessitanti, per la loro validità, della doppia sottoscrizione da parte dell’assicurato ai sensi dell’art. 1341 c.c.13 Secondo un contrapposto orientamento14, la clausola claims made sia nella forma pura che impura sarebbe priva di contenuto vessatorio, in quanto l’effetto dell’inserimento di una siffatta clausola non sarebbe quello di porre limitazioni di responsabilità dell’assicuratore, bensì di delimitare il rischio assicurato, definendo quindi l’oggetto del contratto.
La Suprema Corte nel 2016 si è finalmente pronunciata a sezioni unite15 sulle clausole claims made sottoponendo al proprio scrutinio le diverse questioni emerse nel tempo in dottrina e giurisprudenza e sin qui analizzate, enunciando il seguente principio di diritto: «Nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto, o comunque entro determinati periodi di tempo preventivamente individuati (cd. clausola claims made mista o impura), non è vessatoria, ma, in presenza di determinate condizioni, può essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero – ove applicabile la disciplina del d.lgs. n. 206 del 2005 – per il fatto di determinare a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e obblighi contrattuali; la relativa valutazione va effettuata dal giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità quando congruamente motivata».
Esaminando analiticamente ciascuno profilo controverso, la Corte in primo luogo afferma che la clausola claims non implica alcuna decadenza convenzionale, in quanto non subordina affatto l’esercizio di un diritto ad una determinata condotta del titolare ma, molto più semplicemente, «consente o preclude l’operatività della garanzia in dipendenza dell’iniziativa di un terzo estraneo al contratto, iniziativa che peraltro incide non sulla sorte di un già insorto diritto all’indennizzo, quanto piuttosto sulla nascita del diritto stesso».
In merito alla questione della nullità delle clausole claims made per inesistenza dell’alea, sottolinea «che il rischio dell’aggressione del patrimonio dell’assicurato in dipendenza di un sinistro verificatosi nel periodo contemplato dalla polizza, si concretizza progressivamente, perché esso non si esaurisce nella sola condotta materiale, cui pur è riconducibile causalmente il danno, occorrendo anche la manifestazione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento» e che dunque la clausola claims made con garanzia pregressa è valida perché resta impregiudicata l’alea dovuta alla possibilità o meno che il danneggiato agisca nei confronti dell’assicurato per ottenere il risarcimento.
La Suprema Corte confuta, poi, la tesi della nullità della clausola per contrasto con l’art. 1917 c.c. e per assenza di causa del contratto ribadendo come l’art. 1932 c.c. non menzioni tra le norme inderogabili l’art. 1917, co. 1, c.c. e affermando che rientra nella piena disponibilità dei contraenti modulare l’obbligo di garanzia con le modalità che ritengano più opportune, dovendosi piuttosto individuare il limite oltre il quale le parti non possono spingersi senza snaturare l’essenza del contratto di assicurazione.
La Corte, successivamente, affronta il tema della vessatorietà delle clausole claims made evidenziando come «il fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione di cui parla l’art. 1917 c.c. non può essere identificato con la richiesta di risarcimento: non par dubbio infatti che il lemma … si riferisce inequivocabilmente alla vicenda storica di cui l’assicurato deve rispondere» e che, dunque, mentre è sostenibile che la clausola claims made pura rimane fuori della fattispecie delineata nell’art. 1917 c.c., non è possibile affermare che la clausola claims made mista «inciderebbe sulla tipologia stessa del rischio garantito nel senso che questo non sarebbe più la responsabilità tout court, ma la responsabilità reclamata». La clausola, dunque, dando rilievo sia alla data della condotta che a quella della richiesta e, dunque, inserendo un fattore temporale aggiuntivo, mira a circoscrivere l’ambito della garanzia, ed è rivolta «a stabilire quali siano, rispetto all’archetipo fissato dall’art. 1917 c.c., i sinistri indennizzabili, così venendo a delimitare l’oggetto del contratto, piuttosto che la responsabilità». Le Sezioni Unite, quindi, sottolineano che entro detti limiti le clausole in esame non sono vessatorie dovendo, tuttavia, procedersi ad «uno scrutinio di validità condotto sotto il profilo della meritevolezza di tutela della deroga al regime legale contrattualmente stabilita»16.
La sentenza delle Sezioni Unite pur avendo risolto ogni questione sollevata dalla dottrina e dalla giurisprudenza con l’affermazione della liceità e della non vessatorietà della clausola claims made, ha generato nuove incertezze in ordine a due tematiche: i criteri in base ai quali affrontare la valutazione della meritevolezza della clausola e le conseguenze di un giudizio di immeritevolezza.
Quanto al primo aspetto la Corte nell’affermare la necessità di un’indagine da condursi «in concreto, con riferimento, cioè, alla fattispecie negoziale di volta in volta sottoposta alla valutazione dell’interprete» assegna al singolo magistrato il compito di individuare eventuali buchi di copertura fornendo, tuttavia, pochi e, per certi versi, confusi parametri di valutazione.
Unica certezza pare essere che «la prospettazione dell’immeritevolezza è, in via di principio, infondata con riferimento alle clausole cd. pure, che, non prevedendo limitazioni temporali alla loro retroattività, svalutano del tutto la rilevanza dell’epoca di commissione del fatto illecito».
Quanto, invece, alle claims made impure il vaglio di meritevolezza appare essere più problematico «a partire da quella, particolarmente penalizzante, che limita la copertura alla sola ipotesi che, durante il tempo dell’assicurazione, intervengano sia il sinistro che la richiesta di risarcimento». In relazione a tali clausole occorrerà tener conto di alcuni elementi sintomatici del concreto bilanciamento di interessi tra le parti che possono essere ravvisati, per le clausole che estendono la garanzia al rischio pregresso – ed eccetto il caso del cd. “esordiente” – nel rilievo che, a fronte di una riduzione del sinallagma nell’ultimo periodo di vita del rapporto, si realizza la copertura delle condotte antecedenti alla stipula e, per tutte, nell’entità del premio pagato dall’assicurato, nel senso di ritenere meritevole la pattuizione ove si riscontri che la riduzione della copertura assicurativa trovi un corrispettivo in una sensibile riduzione del premio. In generale, poi, si afferma che ogni qual volta la clausola sia prestata in vigenza di un obbligo assicurativo ex lege per il professionista, ove l’interesse protetto è prevalentemente quello del cliente terzo danneggiato, «il giudizio di idoneità della polizza difficilmente potrà avere esito positivo in presenza di una clausola claims made, la quale, comunque articolata, espone il garantito a buchi di copertura».
Il Supremo Collegio prosegue, poi, la sua analisi evidenziando che «laddove risulti applicabile la disciplina di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del Consumo), l’indagine dovrà necessariamente confrontarsi con la possibilità di intercettare, a carico del consumatore, quel ‘significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto’ presidiato dalla nullità di protezione, di cui al d.lgs. n. 206 del 2005, art. 36». Sul punto, tuttavia, la Corte da un lato si premura di sottolineare che la tutela offerta da tale norma è limitata «alle sole persone fisiche che concludano un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata – dovendosi per contro considerare professionista il soggetto che stipuli il contratto nell’esercizio di una siffatta attività o per uno scopo a questa connesso» e che dunque è inapplicabile ai contratti di assicurazione della responsabilità professionale, dall’altro evidenzia che proprio in relazione a tali ipotesi ci si trova in «un contesto caratterizzato dalla spiccata asimmetria delle parti e nel quale il contraente non predisponente, ancorché in tesi qualificabile come ‘professionista’, è, in realtà, il più delle volte sguarnito di esaustive informazioni in ordine ai complessi meccanismi giuridici che governano il sistema della responsabilità civile»17, non potendosi, peraltro, «ignorare la delicata questione della compatibilità della clausola claims made con l’introduzione, in taluni settori, dell’obbligo di assicurare la responsabilità civile connessa all’esercizio della propria attività» e «l’incongruenza della previsione di un obbligo per il professionista di assicurarsi, non accompagnata da un corrispondente obbligo a contrarre in capo alle società assicuratrici». Ove sia posto l’obbligo ad assicurarsi, infatti – affermano le Sezioni Unite – non ci si deve più limitare a valutare il rapporto assicurato/assicuratore, dovendosi dare rilevanza primaria al rapporto tra professionista e terzo danneggiato, nel cui interesse quel dovere è stato previsto e che rischia di rimanere esposto, per incapienza del patrimonio del professionista, rispetto ai danni da quest’ultimo causati.
Altro profilo assai problematico della sentenza in esame è quello delle conseguenze del giudizio di “immeritevolezza” della clausola, in relazione al quale la Suprema Corte afferma che esse «non possono non avere carattere reale, con l’applicazione dello schema legale del contratto di assicurazione della responsabilità civile e cioè della formula ‘loss occurrance’ e ciò sia in forza degli spunti esegetici offerti dall’art. 1419, co. 2, c.c. che del principio, ormai assurto a diritto vivente, secondo cui il precetto dettato dall’art. 2 Cost., consente al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sullo statuto negoziale, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto». Tale conclusione, tuttavia, rischia di creare un totale stravolgimento di copertura con rilevanti riflessi economici sia per le parti (in particolare nel caso, sempre più diffuso in cui il contratto a regime claims made si inserisca in una serie di rapporti a regime claims made) sia, in generale, a livello di sostenibilità del sistema assicurativo.
Va, in primo luogo, sottolineato che l’intervento sostitutivo imposto dalla Suprema Corte e la riconduzione del contratto nel paradigma del loss occurence non costituisce necessariamente un vantaggio per l’assicurato atteso che determinerebbe automaticamente l’esclusione di copertura per tutti i fatti avvenuti prima della stipula del contratto, con la conseguenza di lasciare scoperti proprio eventi per i quali l’assicurazione era stata stipulata, in particolare nell’ipotesi di chi si assicura per la prima volta o, comunque, vuole garantirsi copertura per rischi in precedenza esclusi da contratti loss occurrence. In secondo luogo, la sostituzione automatica del regime loss occurrence a quello claims made ad opera del giudice può determinare l’insorgere di una «variabile di aleatorietà che non potrà che portare alla lievitazione esponenziale dei premi assicurativi calibrati non più sul tempo reale, ma su quello per così dire che discrezionalmente il singolo giudice potrà applicare al caso concreto»18.
Va, d’altra parte, considerato che, già prima dell’intervento delle Sezioni Unite, all’orientamento giurisprudenziale che sosteneva la tesi della sostituzione del regime claims made con quello loss occurrence19 se ne era venuto a contrapporre un altro20 secondo il quale la dichiarazione di nullità sarebbe destinata a colpire soltanto la parte vessatoria della clausola, ossia la mancata estensione della claims made ai fatti verificatisi nel decennio precedente alla stipula del contratto, con la conseguenza che la clausola sarebbe inefficace solo per la parte che concerne la limitazione di responsabilità, con conseguente applicazione della disciplina prevista dalla clausola claims made pura.
Note
1 Carassale, I., La nullità della clausola claims made nel contratto di assicurazione della responsabilità civile, nota a Trib. Genova, 8.4.2008, in Danno e resp., 2009, 103 ss., sottolinea come, in realtà, la transizione verso il modello claims made non è avvenuto per sopperire a tali nuove esigenze, ma per frenare la voragine degli indennizzi a carico degli assicuratori conseguente alla mutata giurisprudenza della Suprema Corte.
2 Vantaggi affermati in termini di maggiore certezza della validità temporale del contratto, di possibilità di stipulare una polizza assicurativa anche successivamente al compimento dell’attività dalla quale è scaturito un danno, purché l’assicurato non abbia conoscenza di tale situazione dannosa, di applicazione del massimale previsto all’epoca della richiesta e non quello della stipulazione di un contratto risalente nel tempo che potrebbe essere divenuto insufficiente.
3 Monticelli, S., La clausola claims made tra abuso del diritto ed immeritevolezza, in Danno e resp., 2013, 706, evidenzia come tali vantaggi astrattamente riferibili alle prime polizze claims made emerse nel mercato assicurativo in relazione a danni da prodotti difettosi, inquinamento, farmaci, non sono in alcun modo riferibili alle polizze per la responsabilità civile professionale in cui non vi è alcuna difficoltà ad individuare la data del fatto che ha dato origine al danno. L’adozione della clausola claims made non recherebbe, inoltre, alcun vantaggio per tutti i soggetti i quali hanno appena iniziato l’attività potenzialmente fonte di danni risarcibili. L’Autore, poi, sottolinea che a fronte di tali dubbi vantaggi per l’assicurato si pongono, invece, i sicuri vantaggi per le compagnie assicurative che da un lato neutralizzerebbero il rischio di richieste risarcitorie successive alla fine del rapporto consentendo una più semplice quantificazione e appostazione delle riserve e dall’altro si garantirebbero la fidelizzazione del cliente.
4 Trib. Bologna, 2.10.2002, in Dir. ed econ. assic., 2005, 711; Trib. Casale Monferrato, 25.2.1997, in Giur. mer., 1997, 700.
5 Così Trib. Genova, 8.4.2008, in Danno resp., 2009, 103.
6 Trib. Roma, 10.8.2006, in Dir. ed econ. assic., 2007, 171, e più di recente Cass., 13.3.2014, n. 5791, in Banca borsa, 2015, 712 ed in senso contrario la coeva Cass., 17.2.2014, n. 3622 che afferma che «Nei contratti di assicurazione della responsabilità civile l’estensione della copertura alle responsabilità dell’assicurato scaturenti da fatti commessi prima della stipula del contratto (cosiddetta clausola ‘claims made’) non fa venire meno l’alea e, con essa, la validità del contratto, se al momento della stipula le parti (e, in specie, l’assicurato) ignoravano l’esistenza di questi fatti, potendosi, in caso contrario, opporre la responsabilità del contraente ex artt. 1892 e 1893 c.c. per le dichiarazioni inesatte o reticenti».
7 In tal senso sempre Trib. Genova, 8.4.2008, cit.
8 Trib. Crotone, 8.11.2004, in Assicurazioni, 2004, II, 2, 260; App. Napoli, 28.2.2001.
9 Cass., 15.3.2005, n. 5624, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 145 ed in Danno e resp., 2005, 1071 e in Giur. it., 2006, 254.
10 Nel senso della tipicità del contratto con clausola claims made v. Trib. Milano, 18.3.2010, n. 3527, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 864 con nota di Lanzani, C., La travagliata storia delle clausole claims made: le incertezze continuano, ed in Corr. mer., 2010, 1054, con nota di Luberti, A., Clausola claims made: un minoritario (e condivisibile) indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale la clausola claims made non comporterebbe né una diversa natura del rischio oggetto del contratto assicurativo, né il venir meno del rischio medesimo, in quanto oggetto della copertura assicurativa resterebbe in ogni caso il fatto colposo dedotto in polizza il quale assumerebbe rilevanza laddove la richiesta di risarcimento del danno pervenga all’assicurato «durante il tempo dell’assicurazione».
11 Trib Milano, 18.3.2010, cit. e Trib. Milano, 10.1.2012 secondo il quale la clausola claims made inserita in un sistema misto, nel quale essa venga utilizzata congiuntamente con una diversa clausola, loss occurrence o act committed, ed escluda dalla copertura assicurativa i rischi verificatisi oltre alcuni anni precedenti alla stipulazione della polizza, determina una limitazione di responsabilità (in relazione ai rischi dedotti e/o al tempo in cui gli stessi si siano verificati) che riduce il lasso di tempo entro il quale rimane fermo l’obbligo dell’assicuratore di tenere indenne l’assicurato. Tale clausola è vessatoria e richiede la specifica approvazione per iscritto ex art. 1341, co. 2, c.c. V. anche Trib. Genova, 23.1.12, in Assicurazioni, 2012, 177, Trib. Roma, 10.4.2013 e Trib. Bologna, 5.5.2014, n. 1375. In senso fortemente critico della correttezza di tale distinzione Ceserani, F., Ancora nuvole di vaghezza attorno alla clausola claims made: alcune necessarie puntualizzazioni, in Dir. ed econ. assic., 2011, 501. La distinzione, tuttavia, è stata adottata e confermata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9140/2016 su cui vedi infra, § 2.1.
12 Tribunale Palermo, 26.112014, n. 5828, in DeJure, sottolinea che vi è una sostanziale equivalenza tra le due ipotesi in esame (contratto cd. loss occurrence e con clausola claims made pura) «sotto il triplice profilo dell’alea contrattuale, della valutazione del rischio assicurato e dell’equilibrio nel rapporto sinallagmatico tra le parti, operando sostanzialmente la garanzia per qualunque tipologia di evento riconducibile alle fattispecie descritte nel contratto e per un analogo ambito temporale (corrispondente al periodo in relazione al quale il terzo danneggiato può fare valere il proprio diritto al risarcimento del danno), alla sola condizione (non dipendente dall’assicurato né dall’assicuratore, bensì dall’iniziativa dello stesso terzo danneggiato) che la richiesta risarcitoria pervenga all’assicurato nel periodo di validità della polizza».
13 Cass., 10.11.2015, n. 22891 ha di recente affermato che la clausola «non è apprezzabile in termini di vessatorietà quando costituisce espressione di un accordo delle parti diretto a delimitare l’oggetto stesso del contratto, dovendosi ritenere in tal caso realizzata una lecita deroga al modello legale tipico previsto dall’art. 1917, co. 1, c.c.; essa, per contro, presenta natura vessatoria quando, nell’economia complessiva della polizza, si atteggi a ‘condizione’ volta a limitare l’oggetto del contratto come definito da altra clausola, e ciò in ragione della funzione limitativa che svolge, in tale ipotesi, della precedente e più ampia previsione contrattuale».
14 App. Roma, 22.32011 e Trib. Catania, 12.10.2009.
15 Cass., S.U., 6.5.2016, n. 9140. Per una analisi della sentenza si veda Rodolfi, M., La claims made: tra liceità e meritevolezza, quanti problemi per gli operatori del diritto, il legislatore e le associazioni di categoria, in Ri.Da.Re., 20 giugno 2016; Mazzola, M., Le polizze claims made al vaglio delle sezioni Unite: osservazioni a margine, in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 25, 2016; Spadafora, N.Scarpa, D., Clausola claims made e disciplina del consumo (commento della sentenza Cass. 6 maggio 2016 n. 9140), in dirittobancario.it; Rosada, F., Claims made “impura” e RC professionale: un connubio in crisi, in Ri.Da.Re., 16 maggio 2016; Hazan, M., La claims made è salva! (ma non troppo......), ibidem, 20 maggio 2016.
16 Sulla necessità di valutare la meritevolezza delle polizze con clausola claims made anche prima della sentenza delle Sezioni Unite, v. Monticelli S, La clausola claims made tra abuso del diritto ed immeritevolezza, in Danno e Resp. 7, 2013, 701 ss.
17 Sul punto si veda Tassone, B., Clausole “claims made”, professionisti e “terzo contratto”, in Danno e resp., 2012, 717 ss., e anche Monticelli, S., op. cit., 711, il quale sottolinea che il giudizio sulla convenienza del contratto è in realtà negato al non predisponente specie laddove il bene e/o servizio oggetto del contratto non può da questi essere acquisito sul mercato con apprezzabili offerte alternative, in termini di disciplina del rapporto negoziale e che tale stato di “sudditanza” si acuisce laddove, come nella responsabilità professionale, anche la decisione di stipulare o meno il contratto gli è preclusa dall’obbligo legale a contrarre.
18 Così Martini, F., Le criticità sulla “claims made” dopo le Sezioni unite: i nodi vengono (subito) al pettine, in Ri.Da.Re, 19 luglio 2016, nota a Trib. Milano, 15.6.2016, n. 7149, il quale sottolinea anche che incidere ex post sulla volontà negoziale, «rischia di rompere lo schema contrattuale al quale le parti liberamente e pacificamente si erano rivolte, di sbilanciare il rapporto premio/rischio preventivamente e liberamente scelto dalle parti e, infine, di spingere il mercato a prevedere nel calcolo del premio assicurativo non solo il rischio delimitato dalla polizza, ma anche quello che in futuro la copertura possa essere estesa per volontà giudiziale».
19 Si veda Trib. Bologna, 2.10.2002, cit., e Trib. Milano, 21.4.2009, n. 5235, in DeJure.
20 In tal senso Trib. Milano, 18.3.2010, cit., e la recentissima Trib. Milano, 17.6.2016, n. 7149, in Ri.Da.Re, che pur affermando di condividere il dictum delle Sezioni Unite afferma che l’inefficacia della clausola relativa alla validità della garanzia è «limitata a quella parte della pattuizione che, invece che coprire i rischi verificatesi nei dieci anni precedenti alla stipulazione della polizza, limita la garanzia ai rischi nel descritto periodo temporale».