Le costituzioni
Il termine «costituzione» si riscontra di frequente nella storia, anche antica, del diritto, per indicare un atto d’autorità contenente disposizioni normative. Ma nella storia contemporanea esso ha assunto un’accezione particolare, essendo utilizzato per indicare l’insieme di norme fondamentali che regolano l’organizzazione e la vita di una di quelle entità politiche che chiamiamo per lo più «Stati». Insieme di norme di solito contenute in un atto, formato in modi vari ma spesso attraverso un procedimento solenne (procedimento o processo «costituente»), in cui la collettività interessata esprime le proprie decisioni fondative o rifondative, destinate a conformare stabilmente l’organismo politico; ma talvolta anche insieme di norme non scritte, bensì consuetudinarie, che hanno il medesimo carattere e le medesime finalità (per cui per es. si può parlare e si parla della Costituzione del Regno Unito, benché com’e noto solo in parte le norme costituzionali di quel Paese siano scritte, e non vi sia un atto scritto così chiamato). L’uso del termine «costituzione» nel diritto si richiama per analogia al significato biologico di esso, in quanto indicativo della natura e della conformazione essenziale di un organismo (così si dice di una persona che è di «robusta costituzione»).
Quali siano le norme considerate come «fondamentali», e dunque da includere o da classificare fra quelle «costituzionali» o da inserire nel testo dell’atto chiamato «costituzione», dipende naturalmente dalla storia, dalle circostanze e dalle scelte di ciascuna società politica. È da sottolineare il carattere «politico» delle costituzioni contemporanee: nel senso cioè che esse tendono a definire le caratteristiche e le regole attraverso cui una determinata collettività si governa o aspira a governarsi nel suo complesso, al di là e al di sopra delle differenti formazioni sociali organizzate che al suo interno sussistono, e identifica liberamente i propri fini e i principi cui intende conformare le azioni di rilievo collettivo degli individui e soprattutto quelle delle autorità politiche.
L’espressione più chiara e più famosa di ciò la ritroviamo nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, solennemente approvata nel 1776: «Quando nel corso degli umani eventi si rende necessario a un popolo sciogliere i vincoli politici che lo avevano legato a un altro e assumere tra le altre potenze della terra quel posto distinto ed eguale cui ha diritto per legge naturale e divina, un giusto rispetto per le opinioni dell’umanità richiede che esso renda note le cause che lo costringono a tale secessione. Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti; che tutti gli uomini sono creati uguali, che essi sono dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qual volta una qualsiasi forma di governo tende a negare tali fini, è diritto del popolo modificarla o abolirla, e creare un nuovo governo, che poggi il suo fondamento nei principi e organizzi i suoi poteri nelle forme che sembreranno più adatti ad assicurargli sicurezza e felicità».
Di per sé e in astratto, potrebbe meritare il nome di costituzione qualunque testo con pretesa di normatività che contenga le regole principali di un qualsiasi organismo politico statuale. Ma nella storia la nascita delle costituzioni contemporanee ha coinciso con l’affermarsi delle rivoluzioni liberali della fine del Settecento, e dunque fra i principi cui esse si ispirano – espressi per esempio dal testo ora citato – si trovano anzitutto i principi affermati da quelle rivoluzioni. L’idea stessa di costituzione in questo senso non nasce dunque come «neutra», ma tende a identificarsi con dei precisi ideali politici comuni; la spinta alla emanazione o all’approvazione delle costituzioni coincide con la spinta all’accoglimento di principi conformi a quegli ideali. Tanto che i rivoluzionari francesi poterono scrivere, nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che «una società nella quale non sia assicurata la garanzia dei diritti, né determinata la separazione dei poteri, non ha costituzione»: dove i diritti sono anzitutto i diritti fondamentali da garantire a tutti gli uomini, che «nascono e restano liberi ed eguali nei diritti», e la divisione dei poteri non è solo una regola funzionale di distribuzione dei compiti fra le diverse autorità, ma è concepita come condizione essenziale perché la vita della compagine politica si svolga nel rispetto dei principi costituzionali. Dunque il contenuto considerato «necessario» della costituzione si lega strettamente agli ideali politici ispiratori.
Una ulteriore conferma storica di ciò si ha nell’atteggiamento di regimi, sorti in Europa nella prima metà del Novecento, che si opponevano frontalmente a quegli ideali e che nella loro vicenda, per fortuna conclusasi nel giro di qualche decennio, non si sono date costituzioni o nuove costituzioni, pur affermando e sancendo evidentemente anch’essi regole giuridiche destinate a governare i rapporti politici e l’azione delle autorità. Così che si può dire che l’affermarsi delle costituzioni contemporanee coincide con la nascita del «costituzionalismo» come movimento storico caratterizzato da precisi ideali e contenuti.
I testi denominati «costituzioni», soprattutto all’inizio di questa «era costituzionale», contenevano talora solo le regole di organizzazione e di esercizio dei poteri, mentre l’enunciazione dei diritti dei singoli e più in generale dei principi che reggono i rapporti fra gli individui e i gruppi sociali da un lato, le autorità dall’altro, veniva riservata a documenti chiamati piuttosto «dichiarazioni» o, più di recente, «carte dei diritti» (si pensi, oltre che alla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, la cui costituzione nel testo originario conteneva solo norme sui poteri, mentre i primi dieci emendamenti sui diritti furono aggiunti in seguito, alla Dichiarazione francese del 1789; alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’ONU nel 1948; alla recentissima Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la cd. Carta di Nizza).
E tuttavia ciò non toglie che, come afferma l’art. 16 della Dichiarazione francese, fra i contenuti necessari di un regime «costituzionale» vi siano anzitutto i principi e le norme sui diritti e i doveri, a conferma del fatto che l’idea stessa di costituzione è oggi indissolubilmente legata ai principi propri del costituzionalismo liberale, democratico e sociale. Questo ha avuto e ha una storia e uno sviluppo, tutto però all’interno di premesse mai smentite, quelle appunto della fondamentale eguaglianza degli uomini, dell’inviolabilità dei diritti fondamentali (e quindi del concetto comprensivo di inviolabilità della dignità umana), del fondamento democratico del potere politico, dei fini di giustizia che devono caratterizzare l’azione dell’autorità. In particolare, è da ricordare lo sviluppo, che caratterizza soprattutto la seconda meta dell’Ottocento e la prima del Novecento, dei diritti sociali o diritti di seconda generazione, idea che si accompagna a quella dei compiti «positivi» dello Stato o dei poteri pubblici per realizzare fini di «giustizia sociale», nel pieno rispetto dei diritti della personalità.
Oggi sembra che da talune parti – complice la cosiddetta crisi fiscale dello Stato, dovuta alla difficoltà di commisurare le risorse ai crescenti compiti degli apparati pubblici – questo sviluppo sia messo in qualche modo in questione dall’affacciarsi o dal rinvigorirsi di atteggiamenti ideologici ultra-liberisti, che sfociano nella invocazione di uno «Stato minimo» e dunque in una sostanziale svalutazione dei compiti sociali affidati ai poteri pubblici, e della stessa funzione dello Stato. Tuttavia si deve dire che il tronco storico e ideale del costituzionalismo è ormai cresciuto integrando pienamente e stabilmente anche i diritti sociali e le loro conseguenze, sia pure con tutte le varianti dovute alle diverse tecniche di garanzia che essi comportano rispetto ai tradizionali diritti di libertà «negativi»: come è reso palese in particolare dal consolidarsi delle esperienze costituzionali negli Stati di più antica tradizione democratica (dalla Francia al Regno Unito, dall’Italia alla Germania riunificata alla Spagna) nonché dagli sviluppi più recenti del costituzionalismo nei Paesi più giovani del Sud del mondo.
Altri due sviluppi significativi del costituzionalismo si sono manifestati entrambi soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento. Il primo riguarda il consolidarsi del ruolo delle costituzioni come testi pienamente normativi, dotati dunque non solo di una legittimazione morale e ideale, ma anche di concreta capacita conformativa degli ordinamenti.
Si tratta degli sviluppi della «giustizia costituzionale», cioè degli istituti attraverso i quali i valori costituzionali vengono a essere immessi nelle vene, per così dire, dei sistemi legali. Ciò avviene attraverso l’opera dei tribunali o corti costituzionali, dotati di poteri decisionali fondati appunto sulle norme della costituzione e rivolti a garantirne l’osservanza, e attraverso il diffondersi nella teoria e nella pratica di canoni come quello della interpretazione conforme a costituzione, in base al quale ogni operatore giuridico chiamato a interpretare e applicare qualsiasi norma dell’ordinamento deve farlo attribuendo a essa, fra i più significati possibili, quello più aderente ai principi e alla scala di valori costituzionali.
Il secondo sviluppo è legato alla nuova dimensione internazionale e sovranazionale del diritto. Al classico diritto internazionale come sistema delle norme e degli istituti relativi ai soli rapporti fra gli Stati, ciascuno di essi pienamente sovrano al proprio interno e in relazione con gli altri solo attraverso strumenti contrattuali o il confronto di forza bellico, si va sostituendo una concezione e una pratica del diritto internazionale che coinvolge anche il riconoscimento di diritti individuali (i diritti «umani» universali) e l’apprestamento di vincoli e garanzie nei confronti degli Stati, azionabili anche davanti a istanze e a poteri sovranazionali (le corti internazionali dei diritti). Le costituzioni nazionali perdono così una parte della loro tradizionale «assolutezza» di fonti di norme primigenie e totalmente «libere», poiché i vincoli internazionali e sovranazionali accrescono la loro presenza e la loro influenza anche al di fuori dei casi di costituzione di veri e propri «Stati di Stati» come sono gli Stati federali. Si tratta delle limitazioni o cessioni di sovranità da parte dei poteri statali nei confronti di poteri sovranazionali, a cui talune costituzioni più antiveggenti sono esplicitamente aperte (si veda per es. l’art. 11 della Costituzione italiana del 1947), ma che sempre più trovano posto nelle nuove forme del diritto internazionale, e in esperienze concrete come quella dell’Unione Europea.