Le crociate
La crociata è una sorta di «balena bianca» che attraversa la storia della cristianità occidentale fin quando essa è stata definibile come tale, cioè fino a circa il sec. 16°, quindi quella dell’Europa cristiana finche essa tale è rimasta, vale a dire fino al Settecento, poi quella dell’Europa per tutto l’Ottocento e parte del Novecento, infine quella di quella realtà ardua a definirsi e della quale fin troppo spesso si sono tentate insoddisfacenti definizioni che è quel che alcuni amano chiamare il «nostro Occidente».
È anzi da tali ambienti, identificabili con quelli definiti negli Stati Uniti d’America come neoconservatives e theoconservatives, che nello scorcio tra 20° e 21° sec. hanno avuto origine sia una decisa rivalutazione pseudostorica, evidentemente strumentale, delle crociate viste come guerre di difesa della cristianità attaccata dall’islam sia varie proposte paraideologiche fondate sul presupposto – già legittimato fin dagli anni Settanta da B. Lewis, e più tardi dal troppo fortunato The clash of civilizations (1989) di S.P. Huntington – di uno «scontro di culture» in atto e collegate alla tesi della necessità, inevitabilità e al limite «necessarietà» d’uno scontro geopolitico tra Asia ed Europa, tra «Oriente» e «Occidente», che daterebbe dal 6° sec. a.C., vale a dire dalle guerre greco-persiane, e che attraverso un ampio numero di varianti storiche (compresa la Guerra fredda) si sarebbe perpetuato fino ai giorni nostri, attualmente traducendosi nella war against terror dell’era Bush. Di tale scontro geopolitico, le crociate sarebbero state la forma medievale e protomoderna.
L’impianto concettuale di tali pretestuose tesi è molto esile e sfiora per più versi il ridicolo, ma il sostegno massmediale fornito loro è stato, al contrario, imponente. In sede propriamente scientifica, invece, da un lato non si offrono né credito né spazio a tesi del genere (pur ammettendo che la crociata abbia potuto avvalersi di modelli storico-giuridici desunti per es. dalle guerre dell’impero romano-cristiano contro i barbari e di quello bizantino contro l’islam e riconoscendo lo sfruttamento demagogico dei temi crociati in età coloniale o in speciali momenti politici, come la guerra civile spagnola del 1936-39), dall’altro si tende ormai ad abbandonare la tradizione che al contrario, troppo riduttivamente, appiattiva le crociate sulla sequenza di spedizioni militari (che erano al tempo stesso, quanto meno in linea di principio, pellegrinaggi armati) attuate tra 11° e 13° sec. e relegava sia il movimento crociato sia l’idea di crociata al Medioevo.
Ormai, dopo la pubblicazione postuma della fondamentale thèse di A. Dupront, Le mythe de croisade (1997), siamo abituati a servirci con parsimonia della parola «crociata»: e si evita di pensarle come un fenomeno esclusivamente medievale. Il Dupront ha dimostrato come il diritto canonico inerente alla crociata sia sistemazione tardiva, risalente alla metà del Duecento, quindi ben posteriore all’avvio del movimento che data dalla fine dell’11° sec., anche se ebbe precedenti immediati nella Penisola Iberica e nel Mediteraneo. E ha chiarito come la parola «crociata» abbia un iter lessicale piuttosto recente, che non consente di risalire a oltre il Duecento ma che non entrò nell’uso corrente prima del secolo successivo, e uno storiografico recentissimo, che non data sostanzialmente da prima del Settecento.
Peraltro, il campo d’applicazione di quello che fra 11° e 13° sec. si definì iter, peregrinatio, via hierosolymitana, passagium e via discorrendo, era molto più ampio.
Esso, all’interno di una meditazione condotta e legittimata dai grandi canonisti del Duecento, come Enrico di Susa e Sinibaldo Fieschi, si fondava sulla distinzione tra crux transmarina contro gli infedeli e crux cismarina contro i «mali cristiani»; e comprendeva quindi, sottoponendole a un’unica ancorché articolata disciplina canonica, le spedizioni dirette alla riconquista della Terra Santa o comunque quelle contro i musulmani e i pagani (comprensive quindi delle crociate in Spagna e di quelle nel Nord-Est europeo contro slavi e balti) e quelle indirizzate invece contro gli eretici – caso tipico e paradigmatico la cosiddetta «crociata degli albigesi» più tardi, nel primo Quattrocento, quella contro gli hussiti, o contro i nemici politici del papato – come gli svevi o gli aragonesi nel Duecento, i ghibellini italici nel secolo successivo –, o addirittura contro forze considerate asociali e pericolose per la cristianità tutta (cosi gli stedinger, i contadini ribelli all’arcivescovo di Brema contro i quali papa Gregorio IX emanò nel 1233 la bolla Vox in rama; o, nel Trecento, le compagnie di ventura).
Le spedizioni crociate, che nel 12° sec. erano state patrimonio dell’iniziativa dei sovrani europei, da quando i papi a cominciare da Innocenzo III se ne arrogarono con sistematica energia la guida rivendicando a sé stessi l’esclusiva del diritto di bandirle – anche perché ai crociati andava appunto attribuita l’indulgenza plenaria – divennero una straordinaria macchina di pressione e di gestione giuridica, militare e finanziaria della cristianità, soprattutto a causa di un formidabile strumento: la «dottrina del voto» messa a punto dai canonisti, che da un lato consentiva di comminar la scomunica – con risultati ch’erano in pratica la perdita dei diritti civili – a chi una volta proferita solenne promessa di partir in crociata ne ritardasse o evitasse l’adempimento, dall’altro permetteva di commutarne l’obiettivo disponendo che il voto di partecipare a una certa impresa potesse venir cambiato nel versamento d’una certa somma di danaro o nella partecipazione a una spedizione canonicamente dichiarata di pari valore.
Gli abusi e le distorsioni cui questa pratica giuridica dette adito, collegati anche con la petulanza e l’arroganza della predicazione crociata affidata soprattutto, a partire dal Duecento, agli ordini mendicanti, suscitarono voci di stanchezza, d’opposizione, addirittura di scandalizzata denunzia. Va tuttavia notato che tali voci, salvo eccezioni abbastanza rare, non denunziavano la crociata in quanto guerra contro gli infedeli: al contrario, inveivano semmai contro la pratica di metter troppo spesso in secondo piano l’originario autentico scopo della crociata, la difesa o il recupero del Santo Sepolcro, sostituendovi fini d’altro genere politicamente o economicamente più convenienti alla curia pontificia.
A ogni modo, le crociate – per quanto nel corso delle singole spedizioni potessero verificarsi episodi di massacri o di conversioni obbligate, estorte sotto la minaccia della morte – non furono mai interpretate alla stregua di guerre di missione e tanto meno di guerre di religione. Nessun teologo e nessun canonista sostenne mai formalmente né che il fine ultimo della crociata fosse la conversione degli infedeli, né che fosse legittimo sopprimere l’infedele in quanto tale.
Vero è che, tanto nei confronti dei saraceni quanto in quelli dei pagani slavi, balti e finni del Nord Europa (ma anche, sul piano concettuale, degli eretici) la crociata s’incontrò nella pratica spesso con l’ideale di missione: ma rispetto a esso si configurò ora come opposta, ora come complementare. Essa non perse mai d’altronde la vocazione a una pace interna alla cristianità, che era condizione primaria per un’efficace azione contro gli infedeli: difatti, nelle fonti tardomedievali, la si qualifica talvolta addirittura con le parole «perdono» e «giubileo». Quando, con i secc. 14°-15°, si andò profilando alle frontiere sudorientali d’Europa la minaccia ottomana, la crociata cambiò ancora una volta aspetto per ripresentarsi come guerra di difesa del continente unito contro una nuova minaccia barbarica. La politica delle «sante leghe» contro il turco, fra Quattro e Settecento, fu una specie di crociata laicizzata nei suoi fini in quanto l’elemento religioso in essa andò scomparendo – per quanto mai del tutto – per dar luogo a una sorta di sentimento di difesa geopolitica e geoculturale.
Tale situazione giunse al sec. 18° e si prolungò attraverso i raid navali degli ordini di Malta e di Santo Stefano contro i corsari barbareschi che dal Maghreb infestavano il Mediterraneo. In termini di periodizzazione formale, J. Riley-Smith ha suggerito di chiudere «l’era delle crociate» con la cacciata dei cavalieri di Malta dalla loro isola, messa in atto nel 1798 dalla flotta francese su cui viaggiava l’armata diretta in Egitto sotto il comando del giovane generale Bonaparte. Ma molti preferiscono considerare la spedizione della Francia di Carlo X contro Algeri del 1830, preceduta e giustificata da un ardente discorso di René de Chateaubriand alla Camera dei deputati del regno, come il vero e proprio «canto del cigno» della crociata e del suo spirito, che in modo già più forzato si volle veder risorto nella Spagna delle «guerre carliste» dell’Ottocento e quindi della guerra civile 1936-39. Con tali estremi episodi si potrebbe chiudere definitivamente la storia «di lungo periodo» delle crociate, cominciate come «cosa» senza «parola» e proseguite sotto vari nomi, fino a conseguire definitivamente il termine con il quale sono oggi famosissime solo quando ormai si erano concluse, dando adito anzi a fumosi e contraddittori ricordi.
La crociata è insomma una e al tempo stesso molteplice; conosce una legislazione coerente e rigorosa, ma si articola in una pluralità di casi fenomenologicamente parlando diversi fra loro e muta sia nei differenti obiettivi volta per volta propostile sia nel tempo e nel contesto in cui viene bandita. È una realtà proteiforme: uno strumento giuridico-politico e un’idea-forza, una fonte inesauribile di metafore, un mito, un oggetto infinito di apologie, di condanne, di polemiche e di malintesi capace di riproporsi in situazioni diverse e soggetta a impensati revival; una realtà soggetta a una complessa articolazione, che accompagna la storia di quasi tutto il 2° millennio.
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