Le culture non occidentali
Qualsiasi riflessione sul corpo umano nell'arte non potrebbe in alcun modo considerarsi completa se non si estendesse lo sguardo anche alle civiltà extraeuropee (intendendo per 'europea' anche quella americana di derivazione anglosassone). Non è infatti difficile constatare che la raffigurazione dell'immagine dell'uomo costituisce un filo rosso che cuce insieme la gran parte delle culture figurative del genere umano, dal momento che ogni civiltà, in luoghi e tempi diversi, ha sempre e comunque sentito il bisogno di elaborare una particolare rappresentazione della figura umana che soddisfacesse le esigenze estetiche, simboliche e culturali in genere di quel particolare gruppo umano: un gruppo le cui caratteristiche possono essere di tipo esclusivamente etnografico, tali cioè da essere circoscritte all'interno di un'unica etnia, che in questo senso condiziona fortemente la rappresentazione umana; oppure di tipo eminentemente culturale, sicché è in questo senso che l'immagine umana prodotta deve essere condizionata. Il secondo caso è quello tipico dell'esportazione di un modello religioso sovranazionale, come per es. il buddhismo o l'induismo: la rappresentazione di Buddha, sia pure con tutte le differenze del caso, finirà per essere la stessa a latitudini e addirittura in epoche completamente diverse perché la sua immagine umana deve soddisfare determinate esigenze di carattere culturale ‒ in senso lato ‒ indipendenti dall'etnia di accoglienza. In altri termini, il gigantesco Buddha seduto, scolpito nella roccia della grotta nr. 20 di Yungang, nello Shanxi, è nelle linee generali perfettamente identico alla statua di Buddha protetto dal serpente conservata nel Musée Guimet di Parigi, nonostante siano diversi i luoghi di produzione, le epoche e le ragioni della committenza. La gigantesca statua cinese, infatti, è stata realizzata fra il 460 e il 465 d.C. per volere dell'imperatore Wen Chang della dinastia dei Wei settentrionali (386-535 d.C.), mentre l'altra, appartenente alla civiltà khmer, il cui impero prosperò in Cambogia fra il 6° e il 13° sec. d.C., è più recente dell'immagine cinese di circa sette secoli. Eppure, nessuno potrebbe dubitare che si tratti di due Buddha; anzi, è identica addirittura la posa, quella della meditazione (dhyana, in cinese chan), caratterizzata dalla posizione delle mani con le palme rivolte in alto che si sovrappongono alle gambe incrociate.
Nel caso, invece, che l'immagine dell'uomo si rifaccia a esigenze strettamente legate alla radice etnica, come per le splendide teste bronzee o fittili dei re (oni) nigeriani, allora il modello non può essere ‒ per così dire ‒ esportabile. Tali teste, infatti, come per es. quella proveniente da Ife e databile fra il 15° e il 16° sec. d.C., venivano utilizzate nelle cerimonie della seconda sepoltura, dopo che era trascorso un certo periodo di tempo dal funerale. In queste la caratterizzazione dei tratti somatici risulta essere particolarmente importante (mentre non lo era affatto nei due Buddha, al di là di una generica attribuzione di bellezza), anche ai fini di un'identificazione individuale. La testa, come testimoniano i fori sul collo, veniva attaccata a un corpo di legno e su di essa si posava la corona del sovrano defunto. È vero che anche nel caso delle due statue asiatiche sopra ricordate sono presenti tratti somatici e caratteristiche etniche differenziate, ma la loro funzione è solo quella di rendere più vicina alla cultura di accoglienza un 'prodotto religioso' appunto sovranazionale.
Un altro aspetto importante che si palesa nell'analisi della rappresentazione del corpo nelle culture extraeuropee è costituito dalla grande varietà di soluzioni stilistiche prospettate: soluzioni che, a differenza di quelle europee, le quali utilizzano, per negarlo o per adularlo, il modello greco, prescindono completamente ‒ se si escludono l'arte del Gandhara e certe fasi dell'arte iranica ‒ da esso, come dimostra per es. la classificazione delle maschere africane operata da H. Lavachery (1939), che le suddivide in 'stile concavo' (quelle prodotte dalle popolazioni sudanesi e dei confini nordorientali del Congo) e 'stile convesso' (quelle realizzate dalle popolazioni della costa atlantica, delle Regioni dei Laghi e così via).
Naturalmente, nel corso della presente trattazione ‒ necessariamente sommaria ‒, saranno privilegiati quei manufatti che mostrano il corpo umano nella sua interezza, anche se non si potrà fare a meno, ove lo imponga la cultura presa in considerazione, di approfondire aspetti di corollario alla rappresentazione del corpo, come per es. il volto. Si cercherà poi, di volta in volta, di sottolineare quale sia il valore della nudità secondo le differenti culture e il suo passaggio nel linguaggio artistico. Il fatto che ci si imbatta in civiltà che per ragioni di carattere climatico utilizzano un abbigliamento necessariamente succinto, infatti, non autorizza a considerare la nudità come un problema secondario nel campo dell'espressione figurativa, dal momento che esso porta sempre con sé quei valori di fecondità e di energia che sono caratteristici di ogni cultura.
Cercheremo poi di sottolineare, ove possibile, quale sia il valore simbolico di alcune parti del corpo, come per es. la presenza del terzo occhio nella rappresentazione delle divinità tibetane, oppure quale significato assuma la moltiplicazione degli arti nelle divinità induiste. Una larga fetta della produzione artistica extraeuropea, infatti, è strettamente connessa a problematiche di carattere religioso che utilizzano la figura umana come uno degli elementi privilegiati per rappresentare la divinità. Fra i motivi di una simile scelta possiamo sicuramente indicare il fatto che molti dei racconti cosmologici non soltanto narrano del fatto che il Creatore abbia una forma antropomorfa (come per es. Taikomol, il dio creatore della tribù Yuchi nella California settentrionale, che cantando assume gradatamente aspetto umano; Kroeber 1907), ma spesso è l'intero universo ad averla. Così, per es., in Cina troviamo Panku, colui che nacque "al tempo in cui il Cielo e la Terra erano un caos simile a un uovo"; quando morì, la sua testa divenne il sacro monte, "i suoi occhi diventarono il sole e la luna, l'adipe i fiumi e i mari, i capelli e i peli gli alberi e gli altri vegetali" (Éliade 1978, trad. it., 2° vol., p. 20). Un mito per nulla diverso da quello che troviamo nelle Upanisrad, secondo il quale il principio indistinto Atman trasse dalle acque Purusha, l'uovo cosmico e lo covò; quando giunse a maturazione, esso assunse forma umana che, poi, era quella dell'universo: gli occhi furono il sole e la luna, i venti il suo respiro, la pelle raggrinzita le montagne, i suoi peli le piante (Upanisad 1976). È questa infatti una concezione cosmologica comune anche alle culture dell'Oceania, dal momento che Vari-ma-te-takere (letteralmente 'origine stessa degli dèi'), divinità primigenia che abitava Avaiki, la 'Terra del silenzio' dove il linguaggio è solo quello dei gesti, utilizzò il proprio corpo per creare l'universo. Per spezzare il Nulla che incombeva sul Caos (Po) si dilaniò a morsi e con la parte destra di sé stessa diede vita a Vatea, il Padre degli dèi, il cui nome significa 'mezzodì' e la cui forma è quella dell'universo vero e proprio giacché i suoi occhi, uno d'uomo e l'altro di pesce, erano rispettivamente il sole e la luna. Con l'altra parte del proprio corpo, poi, Vari diede origine agli altri dèi che avrebbero dominato le sorti delle terre e dei mari (Bussagli in I miti dell'Oriente, 1976).
Come si vede, l'importanza della figura umana nelle culture extraeuropee ha radici profonde che giungono fino alla composizione stessa dell'universo, anche se ‒ in ambiti particolarmente evoluti ‒ non è difficile rintracciare altresì un intento estetico particolarmente spiccato nella sua rappresentazione, comunque in nessun modo meno sentito di quello che possiamo riscontrare nelle culture artistiche occidentali. Ciò in particolare riguarda il diverso modo di considerare la figura umana nel corso della millennaria storia dell'arte cinese: infatti, se in ragione degli influssi buddhisti la figura umana risulta essere uno dei temi principali dell'arte cinese degli Han (202 a.C.-220 d.C.) fino a quella dei Wei settentrionali (365-535 d.C.), si constata che una simile predilezione viene accantonata a partire dal 6° sec.; come ha ben spiegato A. Giuganino (1959), è la teoria estetica di Hsiei Ho che, ispirando la pittura di paesaggio, ha provocato l'accantonamento dell'immagine umana. L'idea era che soltanto "l'accordo dell'artista con lo spirito dell'universo genera la vitalità dell'opera d'arte". In altri termini l'immagine dell'uomo finisce per essere un aspetto secondario dell'immensa varietà delle forme che la natura può assumere e "se mai, indica come la natura stessa sovrasti e riesca a schiacciare la minuscola vita dell'uomo, mentre il rapporto delle proporzioni fra l'uomo, gli alberi, le montagne diviene, oltre che un'indicazione simbolica di questa inferiorità umana, un riflesso della vastità immensa degli orizzonti cinesi" (Bussagli 1966). Tutto questo spiega anche lo scarso interesse per una canonizzazione della figura umana in ambito cinese. In altre parole (ed è un'ulteriore differenza che caratterizza gli esiti artistici della figura umana nell'arte extraeuropea rispetto a quella occidentale), non esiste una vera e propria teoria delle proporzioni che fissi le regole di rappresentazione dell'immagine dell'uomo. Qualcosa di molto simile, però, la troviamo nella trattatistica indiana; testi come il Vishnudharmottara indicano nel capo l'unità di misura per costruire in proporzione le altre membra del corpo. Tuttavia, è bene rammentare che l'insieme di queste conoscenze viene indicato con il termine talamana, che potremmo tradurre come 'iconometria', sebbene la parola tala che lo compone indichi segnatamente la lunghezza della mano (quindi un parametro diverso rispetto alla testa); tala, però, è anche il vocabolo con cui s'indica il tempo musicale, il che comunque è spia del fatto che la ricerca delle corrette proporzioni del corpo umano, anche in India, ricade nell'ambito dell'armonia universale.
Come si vede, l'analisi, sia pure superficiale, della cultura figurativa extraeuropea costituisce un significativo apporto alla comprensione del modo di porsi e di relazionarsi dell'uomo nei confronti della propria immagine.
Quasi sempre considerata la base della civiltà occidentale, la civiltà egizia, invece, è più propriamente il punto di cerniera fra mondo asiatico ed europeo. Lo dimostrano, nel corso della sua millennaria storia, i reciproci legami con la cultura grecoromana da una parte e, dall'altra, i rapporti non sempre pacifici con i popoli della Mesopotamia e della Persia. Per questo appare opportuno iniziare la presente trattazione proprio dall'Egitto, una delle poche civiltà, fra quelle che tratteremo, ad aver codificato un metodo per la rappresentazione del corpo umano. Esso consisteva nel disegnare l'immagine dell'uomo all'interno di una 'griglia' che serviva come rigido riferimento per la collocazione inalterabile delle varie componenti corporee, sistemate, così, ognuna all'interno della propria specifica 'casella'. Un simile sistema era utilizzato tanto in pittura quanto in scultura, dove la veduta a tutto tondo della statua era realizzata riportando le varie viste della figura (di fronte, di profilo e posteriore) sulle corrispondenti facce del blocco di calcare o di granito, sbozzandole poi via via fino a raggiungere l'effetto finale (Donadoni 1981, p. 37).
Le conseguenze di questo modo di procedere, però, determinavano una notevole rigidità nella rappresentazione della figura umana, che oltretutto veniva 'smontata', dal momento che si dipingeva il volto di profilo ma l'occhio di fronte, il busto di fronte ma le braccia e le gambe di profilo. Il gonnellino, poi, quasi sempre presente nelle raffigurazioni egizie (come mostra per es. il bassorilievo dalla Tomba di Saqqara del re Zoser, dove ancora si distingue il reticolo della griglia del canone proporzionale), serviva egregiamente a raccordare un piano con l'altro. Tuttavia, non bisogna pensare che gli artisti egiziani non sapessero vedere che, nella veduta di profilo, il braccio si sovrappone al torace: lo dimostra un altro rilievo proveniente da Saqqara, oggi conservato al Cairo, su cui sono raffigurati gli scultori al lavoro. Sarà agevole qui osservare che, mentre gli scultori sono rappresentati secondo il 'canone', ovvero con il busto frontale e le braccia di profilo, le statue sono viste in maniera corretta, cioè con le braccia che si sovrappongono al torace. La scelta di seguire un criterio di rappresentazione piuttosto di un altro era, dunque, intenzionale e, verosimilmente, assecondava la necessità di mostrare le statue come figure inanimate e gli scultori come esseri viventi. Per gli egizi, infatti, l'armonia universale aveva uno specifico riflesso in quella numerica; recita il papiro Rhind: "Il calcolo accurato: la porta d'ingresso alla conoscenza di tutte le cose" (da De Rachewiltz 1958, p. 2). Si capisce allora il motivo per cui l'essere vivente doveva essere rappresentato tenendo conto di questo assunto e quindi mostrarsi secondo rapporti spaziali e proporzionali ben precisi: quelli fissati dal 'canone'.
A conferma di quanto sin qui asserito possiamo citare un'opera nota come Tavolozza degli Avvoltoi. Si tratta di una tavolozza votiva (divisa fra il British Museum di Londra e l'Ashmolean Museum of Art and Archaeology di Oxford) che mostra il faraone, raffigurato sotto le spoglie di un famelico leone, che finisce i nemici dispersi sul campo di battaglia, sui quali si avventano anche avvoltoi altrettanto voraci. I nemici, caratterizzati oltretutto da tratti negroidi, vengono rappresentati senza rispettare in alcun modo il 'canone' sia nel caso che giacciano a terra sia che vengano catturati dalle imprese regali. Anzi la loro posa, così disarticolata, ricorda quella del determinativo
della parola MET (il determinativo è un ideogramma la cui funzione è quella di chiarificare visivamente il senso dei pittogrammi a valore fonetico che lo precedono; Farina 1926, p. 27). La parola, infatti, è formata da
'M' e da
'T' e il suo determinativo rappresenta un uomo che cade con il sangue che gli cola dalla testa. Il significato è quello di 'morire' (Jacq 1995, p. 227). Ora, al di là delle implicazioni semantiche che connettono MET a MUT, ovverosia il 'morire' alla 'madre' e quindi alla rinascita, quel che qui preme sottolineare è che il determinativo di MET è immaginato negando il 'canone' di rappresentazione. Né si pensi che la cosa sia imputabile al fatto che si tratta di un ideogramma, perché, per es., il determinativo della parola
(SER), ossia 'signore, nobile', è un uomo con il bastone in mano la cui figura rientra perfettamente nel 'canone'. Un altro aspetto, poi, differenzia sostanzialmente il determinativo di MET da quello di SER: nel primo caso l'uomo è nudo, e la nudità nell'antico Egitto è sinonimo di condizione d'inferiorità ed è generalmente attribuita agli schiavi e ai nemici. Anche nella celebre Tavolozza di Narmer, conservata al Museo Egizio del Cairo, il nemico sconfitto da Narmer, il faraone che riunì sotto di sé l'Alto e il Basso Egitto, è nudo e, naturalmente, irrispettoso del 'canone'.
Il desiderio di razionalizzazione della figura umana, poi, portò in Egitto a esiti estetici del tutto particolari, come le celebri statue-cubo provenienti da Saqqara. Si tratta di due simulacri di Hetep, "ispettore dei profeti della piramide di Teti", come spiega l'iscrizione, rappresentato seduto in uno di quei sedili dalla spalliera alta e dagli alti braccioli, ma senza piedi, che potevano essere utilizzati come portantine. Il risultato è che la figura, praticamente accoccolata, sembra iscritta all'interno di un cubo, cosa sulla quale l'anonimo artista gioca abilmente creando, così, quella che sarà una tipologia di ritratto che corrisponde perfettamente all'indole egizia tesa alla ricerca della razionalità. Questo, però, non deve far credere che non ci fosse interesse per la caratterizzazione del corpo umano: dimostra esattamente il contrario la splendida statua lignea di Ka-aper, 'sacerdote lettore', ora al Museo Egizio del Cairo. Non è infatti difficile notare non solo la caratterizzazione fisionomica, ma anche la capacità di resa dell'adipe e di un corpo appesantito dall'abbondanza e dalla vita sedentaria. Come si vede, l'arte egizia sviluppa una notevolissima riflessione intorno alla rappresentazione del corpo umano, che copre una vasta gamma di valori estetici e simbolici che saranno punti di riferimento tanto per le civiltà del Mediterraneo quanto per quelle d'Asia.
La vasta pianura compresa fra il Tigri e l'Eufrate che conclude a oriente quell'area di grande produttività agricola che gli studiosi chiamano 'Mezzaluna fertile', fu lo scenario all'interno del quale si avvicendarono ‒ dalla fine del 4° millennio fino alla prima metà del 1° a.C. ‒ quelle civiltà mesopotamiche che costituiscono la presenza più importante nel variegato mondo costituito dal Vicino Oriente antico. Elemento costante nella successione dei sumeri, degli accadi, dei babilonesi e degli assiri fu un'arte che poneva al centro della propria espressività la figura umana utilizzata per fini specificamente religiosi o celebrativi, anche se gli esiti estetici e il tipo di stilizzazione utilizzata erano sostanzialmente diversi. Così, pur non disponendo di un 'canone' di rappresentazione raffinato come quello egizio, i sumeri svilupparono una tipologia di rappresentazione della figura umana che affonda le radici nell'ultima fase del periodo di Uruk (l'odierna Warka), la cui cultura introdusse in Mesopotamia l'uso del bronzo (3500-3000 a.C.).
Non sarà infatti difficile riscontrare analogie nel modo di trattare occhi e sopracciglia fra la testa in alabastro della cosiddetta Signora di Uruk (Baghdad, Museo dell'Iraq) e il volto di manufatti sumerici come la statuetta in steatite di Donna seduta (Damasco) databile alla prima metà del 3° millennio a.C. Generalmente rifiniti con bitume nelle figurine di terracotta, gli occhi e le sopracciglia nella statuaria vera e propria sono invece realizzati in lapislazzuli od ossidiana. D'altra parte, l'attenzione alla rappresentazione della testa è attestata anche dai pittogrammi sumerici che precedettero la scrittura cuneiforme. È interessante infatti notare che il sumerico KA, ossia 'bocca', non è rappresentato da questo particolare anatomico come avviene invece nei geroglifici egizi, ma da una testa su cui tre segni sono stati tracciati obliquamente fra l'occhio e la bocca (Pomponio 1980). Tali segni corrispondono al percorso del muscolo massetere la cui funzionalità ‒ dal momento che si tratta di un muscolo sottocutaneo ‒ si fa evidente nell'atto della masticazione, il che denuncia una particolare attenzione nei confronti dell'osservazione della testa. Del resto, non è difficile notare che della figura più diffusa dell'arte sumerica, quella dell'orante, la parte artisticamente più curata è proprio la testa, mentre il resto del corpo, sempre coperto dalla gonna di vello di capra, è piuttosto semplificato (Frankfort 1954, p. 24). Un esempio tipico è la Statuetta di orante conservata al British Museum di Londra. Così, la figura umana nel periodo dinastico (2600-2350 a.C.) appare costretta all'interno di canoni stereotipati e ripetitivi, come mostra il celebre Stendardo di Ur, databile alla prima metà del 3° millennio. Scoperto da L. Woolley nella più grande delle tombe regali della città sumerica, lo stendardo è un lungo pannello orizzontale pervenutoci frammentario che mostra su un fondo di lapislazzuli una teoria di figurine realizzate a intarsio di conchiglia (Woolley 1962). Organizzato su tre registri, lo stendardo celebra le vittorie militari di Ur; le figurine, ritratte in vari atteggiamenti, sono piccole con la testa grossa rigorosamente di profilo (ma l'occhio di fronte). Anche qui è interessante notare che i nemici sconfitti (come quello fra le zampe dei cavalli) sono nudi e realizzati senza rispettare il 'canone' di rappresentazione.
L'ascesa al potere di Sargon il Grande, di stirpe semitica, che fonderà un impero di grandi dimensioni ma di breve durata (due soli secoli), porta una rivoluzione in ambito artistico. Lo testimonia un'opera come la Stele di Naram-Sin che descrive la vittoriosa avanzata del nipote di Sargon il Grande (o Sargon di Akkad, dal nome della città più importante dell'impero insieme a Sumer). La figura del condottiero è di dimensioni quasi doppie rispetto a quelle degli altri protagonisti della scena, soldati nemici. Non è difficile notare una netta ripresa dell'elemento naturalistico e un'attenzione alla resa anatomica infinitamente maggiore rispetto a quella dell'arte sumerica precedente. Con la caduta dell'impero accadico dovuta all'invasione del popolo dei gutei provenienti dall'altipiano iranico e detti per questo 'draghi della montagna' (2150 a.C. circa), riemerge il fondo culturale sumerico che si organizza, ancora una volta, intorno alla città di Ur. Ma la figura più importante di questa stagione neosumerica (fine 2° millennio) è sicuramente quella del principe-sacerdote Gudea di Lagash (la seconda città dell'impero), la cui immagine ci è pervenuta attraverso una serie di ritratti, quali quelli conservati al Louvre di Parigi, in diorite, che mostrano la convivenza dell'elemento naturalistico e di quello stilizzato. Particolarmente interessante, poi, è la posizione delle mani, che diventerà una cifra nella rappresentazione del ritratto, come mostra, per es., la statua incompleta di un non meglio identificato Governatore di Lagash (Londra, British Museum). Va infatti notato che, nonostante le apparenze, si tratta di una postura assurda che tuttavia rende perfettamente il messaggio di pacatezza interiore ed equanimità che l'opera vuole comunicare. È infatti questa l'evoluzione dell'atteggiamento dell'orante sumerico.
A proposito dell'impiego della condizione di nudità come elemento negativo, va segnalato il bel rilievo in terracotta che mostra il demone Lilith (ricordato anche da Isaia 34, 14) dal busto femminile, ma con le zampe e le ali di uccello. A differenza delle arpie, cui potrebbe far pensare, è provvista di braccia. Per quanto riguarda, poi, le capacità di stilizzazione dell'arte neosumerica, vale la pena di rammentare la terracotta che mostra il volto del mostro Humbaba, la cui faccia terrificante doveva comparire fra le viscere degli animali sventrati per operare dei vaticini. La struttura facciale di Humbaba, infatti, è realizzata come se a formarla fossero gli intestini di una vittima sacrificale, stilizzati in una sorta di fascia continua (Frankfort 1954, pp. 56-57). L'arte babilonese (1728-1550 a.C.), nata a seguito dell'invasione del popolo nomade degli amorrei, non portò sostanziali novità nella rappresentazione del corpo umano, come mostra una delle rare pitture murali giunte fino a noi. Proveniente dalla citta di Mari, oggi al Louvre, l'opera ‒ databile al 18° sec. a.C. ‒ mostra una processione legata, forse, all'investitura del sovrano da parte della dea Ishtar. Importante è il tentativo di caratterizzazione fisionomica, mentre resta del tutto inalterata la tipica ripartizione del corpo con testa di profilo, occhio di fronte, busto di fronte, gambe di profilo.
Tuttavia, l'arte che più di ogni altra, in questa regione, ha fatto della figura umana il suo tema centrale è quella prodotta dall'impero assiro (1112-612 a.C.). Potenza militare di prim'ordine, la civiltà assira utilizzò l'arte per celebrare le proprie gesta nella magnificenza delle sale dei palazzi di rappresentanza, sulle cui pareti immense lastre di pietra raccontavano, mescolando le scritte in cuneiforme alle scene in rilievo, le gesta dei sovrani. Non è difficile, perciò, imbattersi nella rappresentazione di figure umane che mostrano un attento equilibrio fra la resa naturalistica e la stilizzazione. Un bell'esempio sono i soldati, praticamente nudi, che attraversano su otri l'Eufrate nel corso di una delle campagne militari di Assurnasirpal II (rilievo proveniente da Nimrud; Londra, British Museum). La resa dei corpi nudi denuncia un'attenta osservazione anatomica che pone in luce la comprensione di strutture muscolari come quella del dentato anteriore sul torace, del quadricipite femorale nella coscia e in particolare l'ispessimento tendineo laterale della fascia lata, oltre alla resa plastica del tricipite surale nella gamba che assume, però, quasi valore decorativo. È questo uno dei rari casi in cui il nudo non assume valore negativo, anche perché si giustifica ampiamente con la motivazione strategica. Tuttavia, in altri casi, come la statuetta conservata al Louvre del Demone Pazuzu (9°-8° sec. a.C.), la condizione di nudità riprende il suo valore negativo. Va infatti notato che né le divinità maggiori del pantheon assiro né quelle secondarie, generalmente alate, sono mai rappresentate nude.
Per avere un'idea della vivacità e della varietà delle culture artistiche che si avvicendano nell'area del Vicino Oriente antico, non ci si può esimere dal dare uno sguardo sia pure superficiale alla situazione sulla costa sconvolta dall'invasione dei Popoli dei monti: hittiti, cassiti, hurriti. Questi ultimi fondarono il regno dei mitanni (15°-14° sec. a.C.) che si estendeva dal golfo di Alessandretta fino alla Turchia sudorientale e giungeva addirittura fino all'Assiria. In rapporto con l'Egitto, il regno mitannico assorbì parte della cultura del paese del Nilo, tanto che dalla città di Megiddo proviene un avorio raffigurante Bes, divinità egizia delle partorienti. La placchetta conservata a Gerusalemme è interessante perché mostra un particolare tipo di stilizzazione della figura umana incline alla caricatura e all'ironia che ben si sposa con il carattere della divinità.
Tuttavia, la grande civiltà costiera è quella fenicia, l'unica che da Oriente si sia espansa, nell'antichità, in tutto il bacino del Mediterraneo mantenendo i suoi caratteri orientali. Fra le opere sicuramente più belle e suggestive dell'arte fenicia è da ricordare una placca in avorio dorato e policromo proveniente da Nimrud (segno evidente che i commercianti fenici guardavano anche a Oriente), databile all'8° sec. a.C. e conservata a Londra. Vi è raffigurata una leonessa che sbrana un giovane uomo: al di là della capacità di trasformare un episodio così crudo in un motivo decorativo, quel che qui preme sottolineare è che l'artista si sia preoccupato di caratterizzare etnicamente la figura, rappresentata con grande realismo.
Una delle manifestazioni più interessanti per quanto riguarda il tema della rappresentazione del corpo nell'arte fenicia è poi costituita dalle maschere demoniche, come quella proveniente da Mozia, l'isoletta siciliana posta dinanzi a Marsala, dove alla metà del 20° secolo è stato scoperto un santuario cartaginese (tofet). Databile fra il 6° e il 5° sec. a.C., la maschera si collega a manufatti dello stesso tipo di provenienza africana, la cui funzione doveva sicuramente essere di tipo apotropaico. L'esasperazione della fisionomia, infatti, non è dissimile da quella delle testine vitree di Cartagine rappresentanti demoni o la divinità egizia Bes.
Nella millennaria storia della Persia, la figura umana compare nella produzione artistica fin dalle prime manifestazioni, come mostrano i bronzi emersi dalle tombe e dai templi della regione del Luristan situata nelle valli fra gli alti picchi dei monti Zagros, nella zona occidentale dell'attuale Iran. La posizione geografica dell'area favorì da una parte i rapporti con la Mesopotamia meridionale e dall'altra quelli con le regioni caucasiche. Buona parte della produzione è costituita da morsi per cavallo e da spilloni votivi infissi come ex voto nelle mura dei templi. Non per nulla sulla testa di uno di questi manufatti, sbalzata in bronzo, troviamo l'effigie di Ghilgamesh, l'eroe nazionale dei babilonesi e degli assiri. Di datazione incerta come buona parte degli oggetti luristani (13°-9° sec. a.C.), lo spillone, conservato in una collezione privata di New York, mostra Ghilgamesh fra due leoni, sostanzialmente nudo e nell'atteggiamento noto come quello della 'corsa in ginocchio'. Per la sua configurazione, l'immagine ricalca lo schema del cosiddetto 'signore degli animali' (corrispettivo maschile della πότνια θηρῶν greca), secondo un'iconografia che avrà grande fortuna tanto fra i popoli delle steppe quanto fra le popolazioni barbariche europee (Bussagli, in Mostra d'arte iranica 1956, p. 96; Salviati 1991, p. 594). Particolarmente interessante, poi, il tipo di stilizzazione del bronzetto luristano frammentario databile fra il 9° e l'8° a.C. e conservato a Londra (British Museum), che mostra un uomo con l'elmo.
L'esistenza di contaminazioni fra le prime manifestazioni dell'arte iranica e quella assiro-babilonese è però testimoniata da opere come il rivestimento murario proveniente da Susa, consacrato da Kutir Nakhlhunte e da suo fratello Shilak-Inshushinak I, sovrano di Anzan e Susa e principe di Elam (1165-1151 a.C.), come recita l'iscrizione elamita che percorre l'intero manufatto. Quel che a noi preme sottolineare è il tipo di stilizzazione della figura del dio-toro rappresentato con la protome umana frontale e la parte animale di profilo. Il tipo di tecnica impiegata e l'impostazione paratattica della scena anticipano gli esiti estetici della grande arte iranica, quella prodotta durante il regno della dinastia achemenide (538-331 a.C.). Basterà, infatti, confrontare il pannello elamita con le splendide figure di arcieri provenienti dal palazzo di Dario a Susa per vedere come la rigidità elamita si sia trasformata nell'eleganza calligrafica delle nuove figure che, pur mantenendo tratti arcaici come l'occhio frontale sul volto di profilo, hanno ormai acquisito una naturalezza prima quasi impensabile.
La figura umana assume un preciso valore decorativo basato sulla ripetizione dell'immagine che, pur seguendo uno schema di rappresentazione sostanzialmente fisso, varia nella ricerca della caratterizzazione individuale. È quanto accade nei rilievi che decorano gli splendidi edifici monumentali del palazzo di Dario a Persepoli, dove decine e decine di figure sui bassorilievi testimoniano l'omaggio che i tributari dell'impero offrono al Re dei re.
Dopo la tempesta provocata dall'invasione di Alessandro Magno e la nascita dei regni seleucidi, dal 247 a.C. al 224 d.C., il territorio persiano è sotto la dominazione partica, impegnata per tutta la sua esistenza a contrastare le spinte espansionistiche di Roma e a contenere la minaccia dei nomadi a oriente. Influenzata dal preesistente fondo greco e dai forzati rapporti con l'Occidente romano, l'arte partica produsse opere nelle quali l'organicità greca si mescolò alle esigenze culturali iraniche, come nel caso della statua bronzea proveniente da Shami, oggi conservata a Teheran (Museo di Teheran) o nel supposto ritratto della regina Musa, moglie di Fraatas IV (fine 1° sec. a.C.). Particolarmente interessante per noi è poi l'uso d'inserire decorazioni a teste umane nelle mura delle città, come Hatra. L'uso è di origine achemenide e continuò sotto i sasanidi (Ghirshman 1954, pp. 275-79): è a questi che si deve l'ultima fase della millennaria storia persiana prima dell'avvento dell'islam. Fondato da Ardashir, un principe della regione del Fars, cuore stesso della Persia, l'impero sasanide cadde sotto i colpi dei bizantini quando Eraclio sconfisse Cosroe II nella battaglia di Ninive del 627 d.C.
Se dal punto di vista politico, mutatis mutandis, l'impero sasanide ereditò la funzione di quello partico, anche dal punto di vista artistico gli influssi e i contatti finirono per essere simili. Non è infatti difficile riscontrare un notevole influsso classico nell'arte dell'impero, anche se poi questo venne naturalmente interpretato secondo le esigenze culturali del luogo. Così troviamo addirittura la presenza di figure che appartengono alla cultura figurativa romana, come i genietti alati e le vittorie. È il caso dei due grandi rilievi di Bishapur e di Taq-i-Bustan. Il primo celebra il trionfo di Shapur I (241-272) sull'imperatore Valeriano e, nonostante il tema, altro non è che la trasposizione sasanide delle opere romane di glorificazione ufficiale, tanto è vero che gli storici dell'arte propendono per una notevole partecipazione di artisti occidentali alla realizzazione (Scerrato 1962). Si capisce allora perché il piccolo erote in volo offra a Shapur I la kosti, sciarpa che simboleggia la vittoria, in una chiara sovrapposizione di usi (in Occidente l'erote offre la corona o la palma), che risultano, però, coerenti dal punto di vista semantico. Come si vede, l'impiego delle figure nude dipende dagli influssi della cultura classica. Varrà certo la pena di ricordare, in questo senso, un vasetto sasanide conservato all'Ermitage di San Pietroburgo, su cui è rappresentata la dea Anahita, una delle 'ancelle' di Ahura Mazda (il 'saggio signore') e divinità della fertilità e della creazione. Per rappresentarla, l'ignoto artista ha utilizzato, adattandola, l'iconografia della ninfa classica, ovviamente nuda (Trever 1967), anche se la stilizzazione rigida e frontale della Persia sasanide finisce poi per prevalere producendo una forma espressiva che non ha più nulla a che vedere con quella classica. Così, a Taq-i-Bustan (letteralmente la 'grotta del giardino') le vittorie alate assomigliano a quelle dell'Arco di Costantino, ma la rigidità della scena, quasi araldica, affonda le proprie radici nella cultura figurativa irano-mesopotamica.
Distanti circa 800 km in linea d'aria, i siti di Mohenjo-daro e Harappa, ubicati rispettivamente nelle regioni del Sind e del Panjab, a occidente e a oriente della valle dell'Indo, costituiscono i luoghi archeologici da cui emersero le testimonianze della civiltà della valle dell'Indo. Nata intorno al 3° millennio a.C., questa cultura preistorica estremamente avanzata, come testimoniano gli impianti urbanistici (strade ad angolo retto, servizi igienici e di canalizzazione), subì una brusca interruzione intorno alla metà del 2° millennio a.C., probabilmente per il precipitare delle condizioni ambientali a causa delle reiterate piene del fiume (Cappieri 1960). Accanto a una vasta produzione di statuine fittili rappresentanti la Dea Madre, gli scavi di Harappa hanno restituito un torso maschile in calcare rosso, oggi conservato a Nuova Delhi, che, nonostante le dimensioni ridotte (9,3 cm), si mostra di raffinatissima fattura. Caratterizzato da due invasi all'altezza delle spalle, che forse dovevano permettere l'inserzione di altre braccia, il torso riproduce verosimilmente l'immagine di una divinità non meglio identificata che doveva avere, però lavorate a parte, la testa, le braccia e probabilmente anche il pene eretto, simbolo di fertilità. Le figure maschili in ceramica provenienti da Harappa, che probabilmente rappresentano degli adoratori, sono nude e in numero nettamente inferiore rispetto a quelle femminili. Vanno inoltre segnalate figure maschili accovacciate che potrebbero rappresentare schiavi e avere la funzione di ex voto in sostituzione di sacrifici umani (Gordon 1958).
Dal sito di Mohenjo-daro (letteralmente 'luogo dei morti', in lingua sindi) sono invece emerse teste e busti di figure maschili barbute. Probabilmente doveva trattarsi di sacerdoti e, per la particolarità dei tratti, gli studiosi hanno posto questo materiale in relazione con quello coevo di produzione sumerica a Ur, una relazione confermata anche dal tipo di monili rinvenuti a Mohenjo-daro e realizzati in maiolica. Comunque, quel che interessa notare è il particolare tipo di stilizzazione del volto, con l'inserzione di guscio di conchiglia inciso per la realizzazione degli occhi, che però non prescinde dalla restituzione dei tratti fisionomici, come dimostra il confronto fra la testa in calcare del museo di Nuova Delhi e il busto conservato nel medesimo museo.
Come si vede, fin dalle origini l'arte indiana mostrò una predilezione per la figura umana (basti pensare che dagli scavi di Harappa sono emerse 700 figurine antropomorfe e da Mohenjo-daro 500), utilizzata naturalmente all'interno di un contesto religioso di difficile ricostruzione, ma che aveva il suo fulcro nel culto della Dea Madre, come buona parte delle civiltà del Mediterraneo con le quali divideva anche il culto per i bovidi. Infine, non si può fare a meno di ricordare, per il tipo di stilizzazione adottata, opere come la figurina nuda conservata ancora nel museo di Delhi, che potrebbe rappresentare una danzatrice, ma che per l'evidenza del sesso femminile resta comunque legata al culto della Dea Madre. D'altra parte, il culto per la divinità femminile appare ancora attestato alla fine del periodo vedico (16°-6° a.C.) da laminette d'oro come quelle emerse dagli scavi di Rajagrha. Si tratta di uno dei pochi documenti pervenutici fra quelli di un lunghissimo periodo che ha scarsissimo materiale iconografico, andato perduto probabilmente per via della deperibilità del materiale impiegato, quasi sempre il legno. Nonostante questo, non è difficile comprendere che per tutto questo lunghissimo periodo si sia conservato il culto per la Dea Terra o Dea Madre, tanto è vero che lo ritroviamo attestato dalle statuine fittili del periodo premaurya (6°-3° sec. a.C.) provenienti dagli scavi di Mathura (Lucknow, State Museum) e giù giù fino all'epoca kushana (1°-2° sec. d.C.), quasi a costituire un 'filo rosso' che attraversa la religiosità e la creatività artistica dell'India (Bussagli 1989, pp. 31-37). Come si vede, la figura femminile risulta centrale in tutto questo lunghissimo periodo che porta alla fioritura dell'arte indiana vera e propria, generalmente individuata nella produzione scultorea di epoca maurya.
Fondato da Candragupta Maurya nel 305 a.C., spazzando via da una parte le guarnigioni greche di Alessandro rimaste di presidio e dall'altra il dominio dei Nanada che si estendeva lungo buona parte del bacino del Gange fino ai confini settentrionali del Deccan, l'impero maurya finì per comprendere tutta l'area del bacino dell'Indo fino alla catena dell'Hindukush, il bacino del Gange e tutto l'altipiano del Deccan fino alla catena dei Ghati orientali: praticamente tutto il subcontinente indiano. Un organismo politico e statale così esteso non poteva non produrre un'arte che fosse la sua espressione ufficiale, attestata attraverso la moltiplicazione di editti scolpiti su roccia e sparsi per tutto il territorio dell'impero, come pure dai pilastri e dalle iscrizioni minori, oppure dagli stupa, i templi a struttura circolare sormontati da una cupola piena. È un'arte di grande vitalità che accoglie gli influssi iranici e li rielabora producendo veri e propri capolavori.
La Portatrice di flabello del museo di Patna mostra tutta la sensualità di cui sono capaci le figure femminili indiane dai grandi seni e dai fianchi larghi. Realizzata in arenaria, la fanciulla, che reca il flabello in mano, indossa una collana che esalta le sue forme, una dhoti, ossia una larga stoffa che le avvolge le gambe, una cintura sui fianchi e delle cavigliere. Databile al 3° sec. a.C., rappresenta probabilmente una yakshini (ossia una ninfa dei boschi o delle acque) che appartiene tanto alla religiosità buddhista quanto a quella induista. Vi si nota tuttavia una certa rigidità, non riscontrabile, invece, in una Testa di bambino che ride realizzata in terracotta nello stesso periodo e conservata nel medesimo museo, che costituisce tuttavia un'eccezione perché buona parte dell'arte indiana di questo e dei periodi successivi alla dissoluzione dell'impero maurya, mostra nelle figure una notevole rigidità.
L'arte prodotta con la dinastia degli Shunga (185-72 a.C.), che si oppongono anche alla religiosità buddhista fatta propria dai Maurya attraverso l'opera del suo sovrano più famoso, Ashoka (269-232 a.C.), tratta la figura umana in maniera piuttosto angolosa. Naturalmente l'opposizione al credo buddhista fu un fenomeno marginale, legato alla presa di potere degli Shunga, tanto è vero che anche le opere d'arte prodotte sotto questa dinastia sono strettamente connesse alla religiosità di Buddha. Lo dimostrano i frammenti dei portali a vento (torana) provenienti dallo stupa di Bharuth, oggi conservati all'Indian Museum di Calcutta. Rispetto alle opere maurya si nota un diverso modo di trattare la pietra, che allora veniva levigata fino a renderla lucida, abitudine poi perduta. Quel che si mantiene, invece, nella resa della figura, è una certa rigidità e la predilezione per la visione frontale; anche quando la posa impone un movimento, questo risulta angoloso e impacciato. Per rendersene conto basterà confrontare la yakshi (o yakshini) scolpita su un pilastro in arenaria rossa proveniente dallo stupa di Bharuth (Calcutta, Indian Museum), appunto, con l'identico soggetto presente nel portale dello stupa di Sanchi. Fra i due manufatti ci sono circa cento anni di distanza. La yakshi da Bharuth, databile al 2° sec. a.C., afferra con la mano un ramo dell'albero a cui è appoggiata, ma il suo corpo è rigido e l'anatomia è assai schematica, come mostrano le quattro incisioni che rappresentano le costole. La yakshini di Sanchi, invece, pur ripetendo il medesimo gesto ‒ codificato con la parola sanscrita shalabhanjika, ossia "colei che spezza il ramo dell'albero a cui è appoggiata", che entrò nel vocabolario architettonico ‒, è morbida e flessuosa. D'altra parte l'opera è databile al 1° sec. a.C. e appartiene a quella particolare fase della storia dell'India che vide la crescita di una dinastia di stirpe andhra, nota come Satavahana, che fra il 72 e il 25 a.C. si espanse nella zona centrale del subcontinente indiano, riducendo notevolmente la potenza degli Shunga.
Nel frattempo, la zona nordoccidentale dell'India, quella corrispondente al regno indo-greco della Battriana, era stata teatro di importanti rivolgimenti politici che avevano visto prima (140 a.C.) l'insediamento di una popolazione indoeuropea di lingua iranica, gli Shaka (i Saci) e poi (130 a.C.) quella di genti nomadi passate alla storia dell'India con il nome della loro più potente tribù, quella dei Kushana. È questo un momento particolarmente importante per l'arte indiana perché, grazie all'impero costituito dai Kushana (che avrà il suo sovrano più importante in Kanishka I, incoronato fra il 125 e il 150 d.C., forse nel 144) ed estesosi dal bacino settentrionale dell'Indo fino a quello occidentale del Gange, si formeranno le due principali correnti artistiche dell'India antica: quella del Gandhara e quella di Mathura. Il fatto ha, per lo studio della rappresentazione del corpo nella cultura indiana, un'importanza capitale perché è in questo momento che si formano i codici linguistici di raffigurazione del Buddha in veste antropomorfa. Infatti, nonostante la proliferazione d'immagini nell'arte indiana, fino a questo momento la presenza del Buddha nelle scene religiose era segnalata attraverso simboli aniconici: il trono vuoto, le impronte dei piedi e il triratna, ossia i 'tre gioielli' che rappresentano per l'appunto il Buddha, la legge (dharma) e l'ordine monastico (samgha), tutti elementi che, per es., troviamo su un medaglione di calcare conservato nell'Archaeological Museum di Amaravati.
È impossibile qui sintetizzare la complessità di problematiche che derivano da questa nuova scelta, e ancor più affrontare la questione della priorità dell'invenzione dell'immagine antropomorfica di Buddha. Tuttavia, alcuni aspetti vanno puntualizzati. L'impero kushana, che comprende l'area del Gandhara, ma anche la città di Mathura, molto più a sud, crea le condizioni di stabilità politica e la conseguente necessità della creazione di un'arte dinastica perché si affronti questa sostanziale innovazione. I presupposti filosofici sono nella riflessione che il buddhismo mahayana (ossia del 'grande veicolo', per cui l'uomo, nella ricerca della salvezza, è affiancato dai Bodhisattva, coloro che per favorire l'uomo nella ricerca della verità rinunciano a diventare Buddha) imbastisce sul corpo del Buddha che, teologicamente parlando, di corpi ne ha tre (Bussagli 1946). È questa la dottrina del trikaya (cioè dei 'tre corpi'), che differenzia il buddhismo mahayana da quello hinayana (o del 'piccolo veicolo'), corrispondente alla prima fase monastica di questa religione. Il Buddha, ossia 'lo svegliato', perciò, possiede il dharmakaya, vale a dire 'corpo di essenza' o 'corpo della legge', che corrisponde al Brahman dei Veda, al 'principio assoluto'; il sambhogakaya, cioè 'il corpo di beatitudine' o 'corpo mistico' come traduce G. Tucci (1934), che altro non è se non un'emanazione del primo; e, infine, il nirmanakaya, ossia 'corpo fenomenico' (Tucci), l'aspetto con il quale Buddha si mostra. Bisogna infatti rammentare che il suo aspetto muta in funzione dei suoi interlocutori, giacché si mostra dio (deva) agli dei, brahmano ai brahmani e così via. È questo 'corpo' che giustifica teologicamente la possibilità di rappresentare il Buddha, tanto è vero che P. Mus (1933-34), pur avvertendo che si tratta di una traduzione incompleta, lo traduce come 'corpo artistico'.
Raffigurare Buddha, però, non significa umanizzarlo, anche perché vengono impiegati parte di quei 32 segni derivati dal pensiero vedico (Sénart 1875), che pongono l'immagine su un piano trascendente. In questo senso è importante notare con Mario Bussagli che l'immagine letteraria del Buddha preesiste a quella iconografica vera e propria, secondo un fenomeno artistico riscontrabile anche in altri contesti (Marco Bussagli 1992). Solo quando si creano le condizioni culturali idonee, infatti, avviene il passaggio dalla realtà testuale a quella figurativa. Così, entrambe le scuole, quella del Gandhara e quella di Mathura, utilizzano gli stessi segni corporei per rappresentare il Beato: l'urna, ossia il ciuffo di peli fra le sopracciglia che allude alla sapienza esoterica (resa con una sporgenza, una pietra o un cristallo) e l'ushnisha, ovvero la protuberanza sul cranio, altro simbolo di sapienza. Gli altri segni (lakshana), come, per es., quello delle membrane fra le dita dei piedi e delle mani, raramente sono presenti. Tuttavia, la diversità fondamentale fra le due scuole è che quella del Gandhara sfrutta il fondo figurativo di tradizione greco-classica che ha a disposizione, mentre la scuola di Mathura si lega strettamente alla tradizione artistica indiana. Non sarà infatti difficile riscontrare tratti apollinei nelle immagini del Buddha gandharico (che si riconnettono anche al simbolismo solare del Beato), come mostra una splendida testa in stucco proveniente da Tapa-i-Kfariha (verso il 4° sec. d.C.). Analogamente, la statua in stucco di Buddha stante, proveniente da Hadda e conservata nel Museo di Kabul, mostra, per il modo di trattare il panneggio e per l'atteggiamento con il braccio ripiegato sul petto, sorprendenti analogie con le pose dei filosofi o degli oratori greci (per es. il Demostene dei Musei Vaticani).
La scuola di Mathura è più rigorosa nel seguire i dettami dei testi, come mostra il Buddha seduto conservato nel Government Museum di Mathura e databile al 1° sec. d.C. La figura, infatti, è rasata, come prevede l'ordinamento monacale, una sorta di spirale segna la protuberanza cranica dell'ushnisha, le piante dei piedi sono segnate e la posa è quella codificata di una mudra. Le mudra (letteralmente 'sigilli') sono posizioni delle mani che esprimono particolari condizioni del Buddha: in questo caso si tratta dell'abhaya-mudra, il gesto del dono. Sempre in ossequio ai lakshana, gli artisti di Mathura tengono a realizzare la capigliatura, quando è necessario, con piccoli ricci orientati verso destra: possiamo ammirarli su un'opera che mostra il Bodhisattva Maitreya conservata presso il National Museum di Nuova Delhi. Il Bodhisattva Maitreya è il 'Buddha del futuro', ma per comprendere le diversità stilistiche rispetto alla scuola gandharica sarà sufficiente confrontarla con opere coeve (2° sec. d.C.) come il Bodhisattva Siddhartha (ossia il 'Buddha storico') conservato al Musée Guimet di Parigi: in quest'ultimo risulta evidente l'impronta classica.
Con la fine del 4° sec. d.C., i territori dell'impero kushana vengono in parte occupati dall'impero gupta, che avrà vita fino alla metà del 6° sec. e che si estenderà orizzontalmente dalla foce dell'Indo a quella del Gange. Fortemente legato alla potenza gupta da un vero e proprio patto politico, stipulato alla fine del 4° sec., è il regno dei Vakataka, eredi della zona occidentale del dominio dei Satavahana. Ora, è proprio a opera dei Vakataka che fiorisce al centro del loro territorio uno dei complessi di pittura rupestre più spettacolari del mondo, quello delle Grotte di Ajanta, che si sviluppa nel corso di otto secoli, ma che ha l'apice fra il 475 e il 550.
È in questo stesso periodo che comincia a formarsi il Vishnudharmottara-purana (450-650), quella "antica raccolta (purana è un aggettivo e vuol dire 'antico') relativa alla legge di Vishnu", che in maniera enciclopedica raccoglieva notizie e precetti su danza, musica, letteratura, architettura, pittura ecc. Anche se non è possibile considerare i capolavori di Ajanta come applicazione diretta dei precetti pittorici raccolti nel Vishnudharmottara, è pur vero che le analogie sono fortissime. Non è infatti difficile rilevare il linearismo delle figure femminili e maschili, come per es. nelle ancelle dipinte nella grotta nr. 1, caratterizzate da un accentuato calligrafismo corrispondente agli insegnamenti del testo: "i maestri lodano la linea" (Sivaramamurti 1980). Inoltre le figure rappresentate nell'atto di danzare, con in mano dei cimbali, ricordano la teoria del Vishnudharmottara secondo cui "la danza è considerata il culmine della varietà figurativa". Del resto, come abbiamo già visto, il termine tala è utilizzato tanto per la teoria musicale che per quella delle proporzioni corporee. La concezione indiana dell'arte, perciò, lega la figura umana all'idea del ritmo e dell'armonia in un intrecciarsi di elementi religiosi ed estetici che arrivano addirittura alla codificazione dei gesti e degli atteggiamenti. Molte delle figure rappresentate ad Ajanta, come per es. la Fanciulla seduta dipinta nella grotta nr. 17, oppure la coppia Kinnari e apsara nella medesima grotta, mostrano da parte degli anonimi artisti l'applicazione di quegli accorgimenti prospettici che i testi chiamano kshayavriddi e che corrispondono al nostro 'scorcio'. Il termine letteralmente vuol dire 'accrescimento e diminuzione'; il che indica esattamente il modo di procedere dei pittori indiani. In particolare la ricordata Fanciulla seduta mostra il volto di tre quarti, la sovrapposizione dei due seni, lo scorcio delle spalle e quello della sua coscia destra, che vengono realizzati 'diminuendo' l'estensione sulla superficie pittorica di quel particolare distretto anatomico.
Le pitture di Ajanta, con le scene che mostrano le effusioni amorose fra Il principe e la principessa, ci introducono a un altro tema centrale per l'arte indiana: quello dell'erotismo. Il Natyashastra ("Trattato di arte"), trattato di drammaturgia scritto da Baharata verso il 1° sec. d.C., definisce lo shringara, ossia l'erotismo, come rasaraja, vale a dire il 're dei sentimenti' (élisséeff, in Rasa 1986). Bisogna però precisare che con la parola rasa non si vuole indicare il sentimento nel senso che attribuisce a questo termine la cultura occidentale, perché rasa (letteralmente 'gusto') è l'essenza stessa dell'arte intesa come poesia, danza, mimica, teatro ecc., tutte discipline strettamente connesse con le arti figurative: per questo le ritroviamo nel Natyashastra che ha carattere enciclopedico.
L'erotismo è materia affine all'arte figurativa, ma anche alla vita e alla religione, perché rasa (Coomaraswamy 1927), significa tutto questo. Altrimenti non si capirebbe per quale motivo gli splendidi templi di Khajuraho (10° sec.) possano essere interamente ricoperti da figure di cui molte in atteggiamenti inequivocabilmente erotici, come pure nel Tempio del Sole di Konarak (13° sec.), dove le scene erotiche ricorrono addirittura sui raggi delle immense ruote dell'edificio, realizzato come se fosse un carro, quello di Surya, il dio Sole. Opere di questo tipo non solo spiegano quanto fosse importante il ruolo della figura umana nell'arte dell'India, ma chiariscono come l'erotismo in genere, e addirittura l'atto sessuale (mithuna), non appartengano soltanto alla sfera privata. Già nel Brhadaranyaka Upanis.ad (VI, 4, 20) l'atto sessuale rientra nella sfera religiosa ("io sono il cielo, tu sei la terra" dice lo sposo alla sposa), fin negli aspetti per così dire tecnici: "Preliminarmente la donna viene trasformata: essa diviene il luogo consacrato ove si celebra il sacrificio, 'il pube è l'altare', i peli sono l'erba, la sua pelle è lo spremitoio dal quale si stilla il soma, il fuoco è in mezzo alla vagina. Tanto si ottiene dal sacrificio vajapeya, quanto ottiene colui che, sapendo queste cose, pratica il giuoco da sopra" (ibid. VI, 4, 3). Varrà la pena ricordare che soma è la bevanda degli dei che conferisce l'immortalità (amrta) e che vajapeya è un rito regale per non invecchiare. Questo, infatti, è uno degli scopi dell'atto sessuale: provocare la sospensione del tempo ed entrare nella dimensione dell'Assoluto (Éliade 1954; Bussagli 1972). Si spiega così la grande proliferazione di opere d'arte indiane che abbiano per tema l'erotismo o la sensualità, come la celebre Yakshi proveniente da Gyaraspur e oggi conservata all'Archaeological Museum di Gwalior (11° sec.), che con le sue flessuosità ricorda le descrizioni del più importante poeta e drammaturgo indiano, Kalidasa (6° sec.): "dalle labbra rosse come un frutto maturo di bimba, sottile alla vita, con grandi occhi [...] e l'ombelico profondo, lenta nel passo per le sue anche floride, un po' curvata dal suo seno grande, è come furono le prime e migliori fra le modulazioni del femminino operate dal Creatore" (Meghaduta, II, 2, in Bussagli 1972, p. 45).
L'accostamento fra la poetica descrizione di Kalidasa appena citata e la Yakshi del museo di Gwalior (ma se ne sarebbero potute ricordare molte altre) ci rammenta che esiste una totale compenetrazione ‒ dal momento che Kalidasa era un drammaturgo ‒ tra il teatro e la raffigurazione artistica. Prova ne è che nei trattati tecnici abbiamo visto raccolti insieme precetti e riflessioni legati a entrambe le espressioni artistiche. Nel dramma infatti confluiscono, in armonica sintesi, la recitazione, il canto, la mimica e i sentimenti (Botto 1969) e tutto ciò che attiene alla sfera visiva della drammaturgia può essere trasferito alle arti figurative; il che non solo conferisce una certa teatralità all'arte indiana, ma spiega come possa esser nato, nell'ambito della rappresentazione artistica, una sorta di linguaggio corporeo codificato che ha una certa affinità con quello dei mimi. Del resto abbiamo già avuto modo di accennare al linguaggio delle mani (mudra), che hanno un preciso significato religioso. Allo stesso modo il corpo, assumendo particolari atteggiamenti, non solo comunica precise indicazioni, ma, spesso, certi atteggiamenti sono specifici di alcune divinità, jina (Buddha dei punti cardinali) o Bodhisattva, piuttosto che di altri.
Due sono le grandi categorie degli atteggiamenti corporei: quella che esprime serenità (caratterizzata da un volto disteso, da una posa quieta, da un'acconciatura ordinata, da monili ornamentali e da vesti di stoffa) e quella che comunica collera e incute timore (con il volto accigliato, gli occhi sgranati, la bocca ghignante o urlante con tanto di zanne, una posa dinamica se non addirittura agitata, i capelli spettinati, collane di serpenti o di teste recise e vesti di pelle animale). In ogni caso, la medesima divinità può assumere l'uno o l'altro dei due atteggiamenti secondo le circostanze (Martin du Gard 1977). Così, appare chiaro il motivo per cui il Bodhisattva Avalokiteshvara (ossia 'compassionevole'), come per es. quello in arenaria rossa, purtroppo mutilo, conservato al National Museum di Nuova Delhi, appaia nell'atteggiamento di samapada, ossia stante. Lo troviamo infatti con il fiore di loto in mano e con l'altro braccio (il destro) nella posa della varada-mudra, vale a dire il 'gesto del dono' (perfettamente coerente con la sua natura compassionevole), che vuole l'arto disteso e la palma della mano ‒ di cui nel Bodhisattva di Delhi rimane un moncone ‒ rivolta in avanti. Tutto il corpo, perciò, comunica un senso di serenità e di quiete.
Allo stesso modo, si capisce perfettamente per quale motivo una divinità come la dea Vajravarahi, il cui compito è quello di difendere il credo buddhista, si presenti in modo aggressivo e per questo assuma l'atteggiamento di alidha (ossia con le gambe divaricate e quella sinistra piegata) o, come nel caso di una statuetta nepalese in argento databile al 17° sec. (Newark, Newark Museum), quello di ardaparyanka, che la vuole danzante. Questo tipo di codificazione è in qualche modo sovranazionale perché legato alla religiosità buddhista, tanto è vero che lo ritroviamo anche in opere prodotte in luoghi assai distanti dall'India, come la Cambogia, quale, per es., il citato Buddha khmer del Musée Guimet, che ha assunto l'atteggiamento meditativo di sattvaparyanka, ossia con le gambe ripiegate l'una nell'altra, non incrociate. La parola sattvaparyanka nasconde riflessioni assai profonde perché è composta dal termine sattva che letteralmente significa 'essenza', ma che nella visione filosofica del Samkhya, integralmente adottata dallo Yoga (l'altra componente da cui deriva questo codice gestuale), designa l'elemento nobile, luminoso e leggero della materia (prakhrti) che è una delle due componenti del mondo. L'altra è costituita dalle anime (purusha) o monadi spirituali. Non c'è contrapposizione fra l'una e l'altra, nel senso che la prima non solo non ha nulla di malvagio, ma agisce per liberare l'anima. Per questo "la liberazione consiste [...] nel riconoscere la differenza radicale di questi due principi. L'anima liberata è completamente isolata in sé stessa, conclusa nella sua coscienzialità, priva ormai per sempre dell'inquieto agitarsi della psiche, che è [...] uno stato allotropico della materia. La situazione dell'anima in questo stato di isolamento è ineffabile: di là dal piacere e dal dolore, in una coscienzialità metempirica, paragonata allo stato di sonno profondo" (Gnoli 1958, p. 642). Assumere l'atteggiamento di sattvaparyanka significa disporsi a tutto questo.
Come si vede, la riflessione indiana sul corpo, che si esplica attraverso un'arte figurativa di natura essenzialmente religiosa, si colora di risvolti filosofici e mistici che della religiosità, poi, diventano parte integrante. A questo proposito si deve prendere in considerazione un particolare tipo d'iconografia religiosa, quella induista, che usa moltiplicare gli arti di una divinità per esprimerne appieno la potenza. Anche in questo caso, il codice figurativo creato dalla religiosità e dall'iconografia induiste non interessa soltanto l'India, ma tutte quelle aree geografiche che con l'induismo hanno a che fare. Una delle immagini tipiche di questo mondo figurativo è quella di Shiva, una delle massime divinità indù, rappresentato come Nataraja, ossia 'sovrano della danza', le cui statue bronzee, praticamente identiche, furono riprodotte, attraverso i secoli, in un gran numero di esemplari e con minime varianti. Shiva, qui, ha quattro braccia; i suoi gesti e gli oggetti che ha in mano servono a chiarire la sua natura e la sua funzione cosmica. Egli infatti danza all'interno del cerchio di fuoco dell'universo; un piede poggia sul nano Apsamara a indicare che egli è signore della maya, dell'illusione, e che la schiaccia; la gamba sollevata, invece, ha il significato della grazia che rende possibile l'illuminazione liberatrice. In una delle quattro mani tiene il damaru, il tamburo a bocce fluttuanti degli asceti che rappresenta il suono della creazione; dal lato opposto tiene una fiamma che ha il significato della distruzione; con la terza mano fa il gesto della salvaguardia (abhaya-mudra), mentre l'ultima delle quattro mani è piegata verso il piede sollevato, l'omaggio al quale assicura la salvezza (Tucci 1958, p. 605). Tuttavia, le braccia possono essere moltiplicate indefinitamente, come nel caso di Ravana, il re-demone di Lanka (Ceylon) che ha piu di quaranta braccia, oppure come in certe particolari iconografie del Bodhisattva Avalokiteshvara, dove la moltiplicazione delle mani e delle braccia forma addirittura una ruota dietro la figura.
Una celebre statua del 15° sec., conservata nel monastero di Tabo, nella valle himalayana dello Spiti (Ladak), mostra, oltre alla ruota di braccia, tre giri di occhi che la concludono all'esterno: la moltiplicazione degli occhi, infatti, è un altro segno della potenza soprannaturale che allude all'onniscienza (Singh 1968, p. 118). Sarà appena il caso di ricordare che Surya, il dio del sole, è uno dei due occhi di Varuna, il creatore del cielo, e nei testi vedici è detto 'onniveggente', 'lungimirante' e 'iningannabile' (Pettazzoni 1955, p. 173). Legato al simbolismo uranico dell'occhio (perché il cielo ‒ visto che possiede le stelle-occhi ‒ è onnisciente) è anche Indra, il dio del tuono nella mitologia vedica. Egli, infatti, è sahasraksha, ovvero 'dai mille occhi' e nel Mahabharata (il piu celebre poema epico dell'India vedica) è spiegato il motivo: avendo Indra insidiato Ahalya, la moglie del saggio Gautama, questi ottenne che il corpo del dio fosse cosparso da mille vagine (sa-yoni), ma la forza spirituale di Indra le mutò in altrettanti occhi. Non staremo qui ad approfondire il simbolismo, basti però sapere che le divinità arcaiche del buddhismo erano rappresentate con gli occhi sul dorso della mano e che la funzione simbolica dell'urna nella figura di Buddha è omologa a quella del terzo occhio che ha sede nello stesso luogo (fra le sopracciglia) ed è attributo tanto di Shiva quanto di Vishnu, divinità raffigurate non di rado con più braccia o più teste.
L'adozione anche per l'arte islamica del criterio geografico secondo cui è organizzata la trattazione delle altre aree culturali extraeuropee avrebbe richiesto l'aggiunta di un paragrafo per ognuna delle aree interessate, il che tuttavia avrebbe fatto perdere di vista l'insieme della problematica per inseguire particolarismi sterili e poco efficaci per la comprensione del fenomeno. L'islam (letteralmente 'abbandono'), infatti, è sì una religione, ma finisce poi per essere una cultura sovranazionale che raggruppa insieme, in una visione sostanzialmente unitaria (al di là dei particolarismi delle sette) popoli e regioni del mondo completamente diverse l'una dall'altra. È appena il caso di ricordare che dal momento della morte di Maometto (632 d.C.), contestualmente alla conquista territoriale, la fede islamica si espanse in poco più di un secolo dai picchi dei Pirenei alla valle dell'Indo, passando ovviamente per la penisola arabica, in un continuum territoriale che, successivamente, sia pure con tutte le modulazioni del caso, finì per diventare anche continuum culturale.
Denominatore comune di questo immenso coacervo di genti diverse, è la shari'a, ossia la 'legge' islamica, che fra le sue prescrizioni fa esplicito divieto di riprodurre immagini di esseri viventi e addirittura di possederne, con esclusione delle piante (Bausani 1958, p. 328). Naturalmente l'impatto di una simile proibizione sulle culture artistiche dei popoli conquistati fu deleterio e, prima di vedere in che misura le conseguenze di un simile assunto poi di fatto si vanificarono, sembra giusto ricordare (per dare il senso della furia iconoclasta) che la statua colossale di Buddha a Bamyan, in Afghanistan, alta 53 metri, venne mutilata al volto e alle gambe, nella speranza di abbatterla, proprio in ossequio a tale precetto.
È vero che anche l'impero di Bisanzio attraversò (730-842) il lungo 'tunnel' dell'iconoclastia e che lo stesso Occidente durante il regno di Carlo Magno s'interrogò sulla opportunità o meno di raffigurare immagini sacre; ma propria dell'islamismo è la mancanza di distinzione fra sacro e profano. La possibilità di rappresentare la divinità era questione già risolta nel Corano (Sura V, 92), che condanna apertamente chi adori delle immagini, proprio per scongiurare qualsiasi pericolo di paganesimo (problema esistente anche nel primo cristianesimo). Tuttavia il divieto del Corano si limita a questo, mentre sono gli hadit, ossia le 'tradizioni', in realtà raccolte di detti, gesti e fatti del Profeta codificati verso il 9° sec., che considerano l'atto stesso di dipingere figure umane o animali blasfemo di per sé: infatti, il termine per indicare il pittore, mussawwir, è composto dal verbo sawwara che vuol dire 'fare, formare', ma è anche sinonimo di 'creare' (bara'a). Pertanto, dipingere esseri viventi significherebbe 'crearli' e quindi rivaleggiare con Dio (Ettinghausen 1962, p. 13). Ne scaturisce un divieto, peraltro non così distante da quello espresso nella Bibbia (Esodo 20, 4).
La rapidissima conquista islamica portò i seguaci del Profeta a contatto con genti fra le quali la tradizione artistico-figurativa era radicata da millenni e anzi costituiva una delle forme di espressione più vicine all'anima di ogni popolo. Per questo, nonostante i divieti e le prescrizioni, attraverso i secoli, fiorirono scuole di pittura in ognuna delle aree geografiche interessate dall'islamismo, che a volte, come nel caso di quella persiana di Tabriz o di quella prosperata sotto il dominio moghul nell'India dal 16° al 17° sec., raggiunsero livelli di grandissima raffinatezza. Nell'arte moghul è ravvisabile un forte influsso persiano, dovuto alle preferenze stilistiche dell'imperatore Humayun e al fatto che gli artisti indiani vennero formati a questa scuola, divenuta sotto il regno di Akbar una vera e propria istituzione. Così, troviamo addirittura miniature a carattere erotico, sempre molto raffinate come una Giovane donna che si pettina, conservata a Londra e databile alla metà del 17° secolo. La scuola miniaturistica fiorita sotto gli islamici moghul si apre addirittura agli influssi occidentali, come mostra una celebre copia secentesca da una Madonna con il Bambino di Dürer (Windsor Castle) oppure una Figura di donna che tiene in mano uno strumento a corda, di poco precedente, conservata al Musée Guimet a Parigi. La perizia tecnica dei miniatori moghul derivava dalla grande scuola persiana che aveva prodotto opere di grandissima raffinatezza e fantasia, come quelle uscite dallo scriptorium di Chiraz, quali per es. un'Antologia delle imprese d'Iskandar (1410), oggi conservata alla Fondazione Gulbenkian di Lisbona. Iskandar altri non è che Alessandro Magno e la sua storia divenne oggetto di composizioni epiche e liriche note come Iskander-name ("Libro di Alessandro"), all'interno delle quali si trovano mescolate leggende, storie fantastiche e addirittura la storia del mondo. Nella raccolta di Lisbona, infatti, sono presenti scene assolutamente irreali, come quella dove Alessandro osserva le sirene che si fanno il bagno. Quel che interessa sottolineare è la capacità di stilizzazione e di riduzione dell'immagine nuda delle sirene a uno splendido arabesco. Un intento più naturalistico, invece, compare nella raffigurazione degli arboricoli nella copia dello Aja'ib al-Makhluqat ("Libro delle meraviglie del mondo"), prodotto a Chiraz nel 1545 e oggi conservato a Dublino.
La maniera di trattare la figura umana nell'ambito dell'islamismo è fondamentalmente legata all'idea di ornamento, come dimostra lo splendido frontespizio delle Lettere dei fedeli puri, redazione duecentesca di un testo enciclopedico del 10° sec. (Istanbul, Biblioteca di Solimano), dove l'accenno prospettico che caratterizza le due costruzioni rappresentate è immediatamente negato dalle figure degli autori, dello scriba e dei domestici. Il fatto si spiega anche con la constatazione che nessuna delle culture islamiche ha elaborato un metodo proporzionale o comunque di costruzione della figura umana. Qualche cosa di teorico, ma che nulla aveva a che vedere con la pratica artistica, si ritrova appunto nelle elaborazioni dei 'fedeli puri', una setta ismailita che, nella seconda metà del 10° secolo, produsse un'opera enciclopedica in 51 trattati in cui venivano esaminati tutti gli aspetti della scienza aristotelica, salvo la metafisica, sostituita dalle dottrine proprie della setta. Il canone da loro elaborato, come spiega E. Panofsky (1988, p. 81), non si riferisce all'adulto, ma al neonato, "[...] un essere che ha importanza secondaria nelle arti figurative, ma che ha un ruolo fondamentale nel pensiero cosmologico e astrologico". Lo stesso Panofsky sottolinea come nella vasta letteratura islamica di carattere scientifico non esista alcun riferimento ai problemi proporzionali legati all'immagine dell'uomo, mentre si trovano indicazioni per la giusta proporzionalità nella realizzazione delle lettere e della scrittura. Ciò è perfettamente coerente con i presupposti religiosi dell'islam, ma contrasta con l'interesse medico per il corpo umano, particolarmente curato dai dotti islamici: è ben noto, infatti, quale sia stato l'apporto della medicina islamica al progresso medico dell'Occidente medievale, anche grazie al ruolo svolto dalla corte di Alfonso X il Saggio. Basterà ricordare in proposito la diffusione del Kitab al-Kulliyyat fi-l-tibb di Averroè, ovverosia il "Libro sulle generalità della medicina", noto in Occidente con la forma latineggiante Colliget (corruzione della parola kulliyyat, cioè 'generalità'), composto di ben sette libri che comprendono anatomia, fisiologia, patologia generale, diagnosi, materia medica e terapeutica. I dotti più accreditati, come Armengaud de Blaise, medico personale di Filippo il Bello e professore all'Università di Montpellier, guardavano alla medicina araba con immenso interesse, tanto che Armengaud tradusse in latino l'Uriguza fi l-tibb in 1316 versi, intitolandolo, forse basandosi su una precedente versione di Gerardo da Cremona, Cantica de medicina.
Le prime manifestazioni artistiche della millenaria civiltà cinese si svilupparono fra il 5° e il 4° millennio a.C., dopo quel lungo periodo di vuoto e di silenzio che separa i manufatti del Paleolitico Superiore (22.000-13.000 anni fa), quali grattatoi e punte di freccia, da quelli più complessi e più elaborati ‒ anche per l'impiego di materiali diversi, come la ceramica ‒ delle fasi più tarde del Neolitico, appunto fra il 4000 e il 3000 a.C. È infatti dopo il 5000 a.C. che si assiste alla fioritura, ampiamente documentata dai reperti archeologici, di differenti culture sedentarie, verosimilmente attratte dalla presenza dei depositi argillosi di löss, il terreno trasportato dal vento depositato in accumuli naturali alti fino a 200 m e notevolmente fertile. Questa particolare conformazione del terreno si estende dalla regione del Gansu fino a quella dello Shanxi, rispettivamente all'interno e all'esterno, verso occidente, della grande ansa del Fiume Giallo (Huang He) che attraversa l'area settentrionale della Cina (La civiltà del Fiume Giallo 1993, p. 25). In questa enorme regione si sono sviluppate le prime culture neolitiche: quella di Yangshao nella zona settentrionale, caratterizzata soprattutto da vasellame in ceramica rossa, e quella di Longhshan (cui si deve la produzione di una ceramica nera, tipo bucchero) nella pianura meridionale, da dove poi si espanse interagendo e sovrapponendosi alla cultura di Yangshao.
È proprio da questo ambito che provengono le testimonianze più antiche relative alla rappresentazione della figura umana nell'arte cinese: ci riferiamo in particolare a una statuina assai rozza in argilla, emersa dalla regione di Hupei negli scavi del 1955, che rappresenta un uomo accovacciato; ma soprattutto pensiamo alle testimonianze fittili provenienti dal sito di Banshan, nel Gansu, che appartengono alla cultura di Yangshao. In questo caso non si tratta di figure intere, ma soltanto di teste rotondeggianti di ceramica lavorata e dipinta, dalla faccia piatta, talora addirittura concava, che portano incisi il naso, gli occhi e la bocca. La testa sferoidale sormonta un collo cilindrico che si raccorda a un disco, di ceramica come tutto il resto, dai bordi dentellati e anch'esso dipinto. Secondo alcuni studiosi (Fontein 1962, p. 1034) potrebbe trattarsi di coperchi, mentre altri (Hentze 1967) vi hanno visto un simbolismo legato da una parte agli usi funerari e, dall'altra, alla rappresentazione del cielo. L'evoluzione del modo di rappresentare la figura umana nell'arte cinese si coglie bene a cominciare dall'epoca shang (1523-1028 a.C.), quando si profila anche una precisa relazione fra le prime manifestazioni di scrittura e le successive raffigurazioni della figura umana stilizzata nei bronzi di epoca zhou. I primi documenti scrittori, appartenenti alla tarda epoca shang, compaiono su frammenti ossei di animali (generalmente scapole, perché larghe), che venivano incisi con veri e propri pittogrammi, ritenuti di origine divina; l'uso che si faceva di questi oggetti e il significato di queste iscrizioni era infatti di tipo mantico, in altri termini si trattava di iscrizioni oracolistiche (bu ci), che venivano poi accumulate in depositi, come quelli scoperti ad Anyang (l'ultima capitale degli Shang) durante la campagna di scavi del 1936-37, quando furono trovati, fra ossa e conchiglie incise, 17.096 pezzi, oltre a 300 gusci di tartaruga adibiti alla medesima funzione. La scrittura ideografica è concepita in modo tale che ogni pittogramma esprima l'idea di ciò che rappresenta (ma non la fonetica, che deve essere imparata per consuetudine); di qui la necessità di stilizzare con un numero esiguo di tratti la figura umana, che viene presentata in tre posizioni tipo: in piedi, seduta e in offerta (non è difficile scorgere una stretta vicinanza con l'ideogramma moderno che designa l'uomo, da leggere in cinese jen). Il carattere grafico pone l'accento sulla capacità di spostamento della figura umana stilizzando il movimento di falcata che si esegue quando si cammina o si corre, considerato evidentemente come tratto distintivo del genere umano. Gli antichi pittogrammi di epoca shang vennero con poche modifiche riprodotti anche sui manufatti di bronzo; queste incisioni, chiamate jin wen, cioè 'iscrizioni metalliche', sono gli antecedenti diretti delle figurette che compaiono sui bronzi rituali di epoca zhou. Si deve sottolineare che la tecnica della lavorazione del bronzo comparve in Cina con l'epoca shang; anzi, dopo gli ultimi scavi a Zenghzou che hanno portato alla luce manufatti in bronzo non così raffinati come quelli precedentemente rinvenuti ad Anyang, gli studiosi sono propensi ad attribuire la scoperta del bronzo in Cina ai cinesi stessi, escludendo che l'uso del metallo sia stato importato dall'Occidente, come si era pensato in un primo tempo (Fossati 1982, p. 19). Nel lungo arco di tempo dominato dagli Shang (la cui area d'influenza diretta è fra le regioni dello Henan, dello Shanxi e dello Shandong) si fissano le tipologie degli oggetti in bronzo creati generalmente per scopi rituali, cui poi si rifaranno anche gli Zhou.
Su alcuni di questi manufatti compare, in modo più o meno diretto, un riferimento iconografico all'immagine umana, il più delle volte costituito dalla presenza della testa. Così accade per un'ascia rituale databile fra il 13° e l'11° sec. a.C., che si presenta con l'innesto 'a cannone' sormontato da una testa umana dalla stilizzazione assai sobria, anche se vale la pena di notare il sovradimensionamento dell'occhio (visto di profilo) e lo spostamento completo della posizione dell'orecchio. Assume invece tratti decisamente terrificanti il volto, sicuramente umanoide, che emerge dalla larga lama di un'ascia in bronzo databile fra il 12° e l'11° sec. a.C., conservata al British Museum di Londra. Il motivo di una stilizzazione che tende a comunicare il senso del terrore è perfettamente giustificato dall'uso che si faceva di quest'ascia rituale, destinata a eseguire sacrifici umani attraverso la decapitazione.
A tutt'altra atmosfera s'ispira, invece, il coperchio antropomorfo (una testa) che completa un vaso rituale di tipo huo conservato alla Freer Gallery of Art di Washington. Databile fra il 12° e l'11° sec., l'oggetto potrebbe rappresentare (vista la lavorazione del corpo del vaso che mostra due sole zampe anteriori, un'enorme coda posteriore e le tozze appendici sulla testa umanizzata) una gigantesca salamandra dal volto umano che dovrebbe simboleggiare il Signore del Nord e il mondo delle tenebre (Hentze 1967, p. 200). Qualcosa di molto simile compare sulla base di un vaso di tipo yü, completo di manico e coperchio, conservato al Musée Cernuschi di Parigi. In questo caso si tratta di una vera e propria salamandra, che per le caratteristiche corna potrebbe ricordare in particolare l'anfiuma dalle due dita, se lo habitat di questo animale non fossero i fiumi limacciosi dell'America settentrionale. Comunque sia, la presenza della salamandra è perfettamente coerente con il simbolismo che pervade gli altri elementi che compongono il vaso, formato da un'immensa tigre che apre le fauci su un uomo rannicchiato fra le sue zampe. Contrariamente alle apparenze, però, la tigre non vuole divorare l'uomo, che invece è raffigurato in posizione fetale. Il vaso, infatti, è una sorta di allegoria della creazione, quasi dell'alba dell'umanità, come indica la presenza del cervo in cima al vaso che rappresenta il sole mattutino, polo opposto della salamandra che simboleggia, invece, le tenebre. Posto fra questi due estremi è l'uomo, realizzato con grande plasticità nel volto, mentre il corpo si confonde sostanzialmente con il resto della decorazione del vaso, quasi a dimostrare che la sua natura è parte integrante del cosmo.
Con il termine della fase shang e l'avvento degli Zhou, intorno al 1027 a.C., si assiste a un orientamento diverso della produzione dei bronzi, all'interno della quale compaiono vere e proprie statuine, soprattutto di animali come elefanti, cavalli o tigri, che testimoniano un preciso cambiamento di gusto che poi si concretizza anche in un allontanamento dai complessi simbolismi degli Shang. D'altra parte, non bisogna dimenticare che è con gli Zhou che si procede alla laicizzazione della scrittura, considerata in precedenza, come si è visto, pratica di carattere religioso e addirittura esoterico. Nell'ambito di questo mutamento di clima si giunge a una riconsiderazione della figura umana, rappresentata ora nel contesto della sua vita quotidiana. Ci troviamo così ad ammirare piccole scene di genere come il Giocoliere con orso ammaestrato conservato alla Freer Gallery di Washington: l'immagine è estremamente spontanea e, sebbene la figura abbia subito un chiaro processo di semplificazione e stilizzazione, questo non ha impedito all'anonimo artista di cogliere con arguzia i caratteri fisionomici e il costume tipico delle genti del Nord, nonché l'estrema naturalezza del movimento. Assai più stilizzato e di qualità nettamente inferiore è un Offerente inginocchiato della Rockhill Nelson Gallery di Kansas City, che doveva svolgere funzioni di sostegno. Di migliore fattura e, soprattutto, di più brillante concezione è una presunta Ammaestratrice di uccelli del Museum of Fine Arts di Boston, che unisce l'impiego della giada (gli uccelli) e del bronzo. Anche in questo caso, non si può fare a meno di notare quanto sia acuta la capacità di osservazione che, nel riproporre una posa statica, sa mostrarla con grande naturalezza.
La storia della dinastia zhou si divide in due lunghi periodi che corrispondono all'estensione dei domini della dinastia stessa. La prima fase, quella degli Zhou occidentali (1027-771 a.C.), è immediatamente successiva alla distruzione del regno degli Shang, il cui territorio venne inglobato nella conquista zhou e la cui popolazione, che si differenziava dagli Zhou anche per caratteristiche etniche, venne ridotta allo stato servile. Il tipo di organizzazione feudale degli Zhou, se da una parte permetteva una grande capacità di espansione, dall'altra portava però in sé il germe della decadenza che consisteva, poi, nel frazionamento territoriale. Così, quando nel 771 le popolazioni barbariche di frontiera devastarono il regno zhou uccidendo perfino il sovrano e distruggendo la capitale, s'innestò un processo di parcellizzazione del territorio cinese che si sarebbe arrestato soltanto cinque secoli dopo. Costretti a trasferire la propria capitale a Loyang (l'antica capitale shang), gli Zhou, detti ora orientali, rimasero al margine della storia (771-221 a.C.), mentre sul territorio cinese nascevano entità politiche autonome che si fronteggiavano l'un l'altra. È questo il periodo dei 'regni combattenti' che corrisponde, appunto, all'ultima fase del regno zhou. Il fatto singolare, però, è che mentre si andava intensificando questo processo di feudalizzazione, cresceva contemporaneamente l'idea della Cina come unità nazionale e addirittura centro dell'universo, Zhong Guo, ossia 'paese di mezzo'; allo stesso modo si andava facendo strada l'idea che si dovesse ritornare alla monarchia. Ammoniscono i testi: "Come il cielo non ha due soli, così la terra non ha due sovrani, la famiglia non ha due capi" (Petech 1957, p. 31).
Ritirandosi verso Oriente, gli Zhou lasciarono la propria eredità ai signori di un piccolo stato sorto intorno al bacino dello Wei he, il maggior affluente della riva destra dello Huang he: i conti di Qin. Abituato a dover fronteggiare il pericolo di genti esterne, il principato qin approntò un formidabile esercito che riuscì laddove altri erano falliti, nell'unificazione della Cina. A portare a termine l'impresa fu Zheng, principe di Qin, salito al trono nel 246 a.C., che dopo aver definitivamente debellato lo stato meridionale di Qu, ultimo baluardo degli Zhou, si fregiò del titolo di Shi Huang Di, 'primo imperatore', divenuto da allora (221 a.C.), il titolo ufficiale del monarca in Cina fino al 1912. Il grande impero di Qin Shi Huang Di sopravvisse pochi anni alla morte del suo fondatore, ma ormai l'idea di un impero cinese era divenuta una realtà che tornò a essere concreta con la dinastia degli Han (202 a.C.-220 d.C.).
Appartiene a questo periodo una delle più straordinarie imprese artistiche dell'umanità, che ha per protagonista proprio l'immagine dell'uomo: l'armata di terracotta posta a guardia della tomba di Qin Shi Huang Di, scoperta casualmente nel marzo del 1974, quando un gruppo di contadini stava trivellando un pozzo poco lontano dalla città di Xian. Tuttora oggetto di scavo, la tomba, articolata in tre fosse che 'presidiano' la 'stanza del sonno' dove riposa l'imperatore, ha dato finora alla luce centinaia di statue di guerrieri perfettamente conservati, che costituiscono un documento unico sugli usi, sugli armamenti, sulle tecniche belliche della Cina del 3° sec. a.C. Dal nostro punto di vista, quel che preme sottolineare è da una parte la grande attenzione alla caratterizzazione fisionomica, tanto che si è pensato a una serie infinita di ritratti: non ci sono due statue di terracotta uguali, né per quel che riguarda il volto, né per quel che riguarda la veste che, sebbene risulti essere una divisa, si differenzia sempre per le pieghe delle maniche, per il modo in cui fascia il corpo o quello con cui si porta la cintura. D'altra parte, non si può fare a meno di considerare la prodigiosa capacità di semplificazione della figura, che viene ridotta ai suoi piani volumetrici essenziali. Inoltre la terracotta è piegata a suggerire la consistenza dei diversi materiali: dalla pesantezza della stoffa alla leggerezza dei capelli raccolti in masse omogenee.
Nonostante quanto potrebbero far supporre le centinaia di statue di terracotta dell'esercito di Qin Shi Huang Di, la figura umana non costituisce il centro di riferimento dell'arte cinese. Lo dimostra il fatto che non sia mai stata elaborata alcuna teoria delle proporzioni per la rappresentazione della figura umana, anche se la medicina cinese si è occupata del corpo con grande attenzione, come mostrano, tra l'altro, le numerose illustrazioni dei manuali di agopuntura. Il fatto è che i cinesi "non considerano l'uomo centro dell'universo, ma solo parte, e minima, di esso; amano, sì, la rappresentazione umana, ma nel ritratto, cioè nella narrazione biografico-morale di un determinato soggetto, e quindi soltanto come espressione figurativa e filosofica del concetto di umano" (Giuganino 1959, p. 9).
Si comprende perciò il motivo per il quale, a maggior ragione, il nudo non costituisca canone di bellezza, ma venga utilizzato solo in particolari contesti narrativi, come, per es., nella pittura murale della cosiddetta 'Grotta del pavone' (Baicheng, Xinjiang), che rappresenta l'assalto di Mara, lo spirito del male, al Buddha. Questi, assorto in meditazione, provato dai digiuni e quasi ridotto a uno scheletro, riesce a respingere la tentazione della carne e a trasformare le avvenenti figlie di Mara, fanciulle nude come quella che gli sta dinanzi, in donne anziane dai capelli bianchi come quelle dipinte alla sua sinistra. Qui il nudo ha una precisa funzione narrativa e dimostra che nel 6° sec. d.C., anche in Cina, la nudità femminile aveva il medesimo valore seduttivo e peccaminoso attribuitole dalla cultura occidentale, anche se con tutte le differenze del caso, dovute al fatto che, per il buddhismo, abbandonarsi ai piaceri della carne non vuol dire venire meno alle regole morali imposte dalla religione, quanto piuttosto scambiare per duraturo quel che è soltanto transitorio, inconsistente e illusorio come il godimento del corpo.
Prendendo in considerazione il più antico e famoso trattato d'arte della letteratura cinese, scritto da Xie-He alla fine del 5° sec. d.C., il Gu Hua Pin Lu, ovvero "Note sulla classificazione delle antiche pitture", si può constatare come fra i 'sei principi' (liu fa) che costituiscono le regole d'oro per creare capolavori, non c'è il minimo accenno al corpo umano. Si tratta, è vero, di regole generali di natura estetico-filosofica che esulano da questioni particolari; ciò non toglie, però, che la figura umana sia considerata alla stregua di qualsiasi altro soggetto. Del resto, la presenza del poderoso esercito di terracotta nel mausoleo dell'imperatore Qin Shi Huang Di, composto da soldati a grandezza naturale (anzi, per la verità, più alti della media di allora, visto che le misure oscillano fra 1,80 e 1,96 m), deve essere intesa non solo come esaltazione della potenza imperiale, ma come eccezione caritatevole all'uso, invalso in epoca shang, di seppellire, insieme al sovrano, vittime sacrificali talora immolatesi spontaneamente. Per l'imperatore di tutta la Cina sarebbe stato necessario seppellire buona parte dei sudditi, cosa evidentemente impossibile: si ricorse dunque a simulacri di terracotta.
Con l'avvento degli Han, le grandi statue divennero statuette (non soltanto figure umane, ma anche animali ‒ cani, cavalli ‒, oggetti e perfino riproduzioni di case e templi) che popolano le sepolture cinesi. Non solo, ma con l'andar del tempo, l'aspetto paludato lasciò il posto a raffigurazioni di maggiore spontaneità, come nel caso della terracotta che raffigura due Acrobati intenti a provare un esercizio, conservata all'Ashmolean Museum di Oxford. Emerso da una sepoltura databile fra il 5° e il 3° sec. a.C., il gruppo ‒ che mostra i due uomini praticamente nudi ‒ doveva avere la funzione di divertire il defunto nell'altra vita. I manufatti in terracotta affiorati dalle tombe han testimoniano del modo assai raffinato con cui si sapeva rappresentare la figura umana. Ne troviamo un bell'esempio nella statuina di un Guardiano tombale (Londra, Victoria and Albert Museum), vestito alla maniera degli Han, che doveva tenere in mano un oggetto votivo. Databile al 1° sec. d.C., la statuetta, stilizzata nella lunga veste dalle larghe maniche e che mostra ancora tracce di colore, comunica un senso di grande compostezza. Ben diverso è il dinamismo che caratterizza un Danzatore, pure di terracotta, conservato al Musée Cernuschi di Parigi: modellato a mano e lavorato con il coltello, l'omino sintetizza bene, con la sua postura, il ritmo della danza. La grande novità di epoca han fu la contestualizzazione della figura umana. Finora, infatti, abbiamo trovato immagini singole, magari utilizzate per oggetti rituali come vasi oppure con funzione funeraria. In questa fase, invece, compaiono le prime scene, come la caccia al cervo rappresentata su una lastra di argilla incisa, conservata presso il Museo Nazionale d'Arte Orientale di Roma. È con il 3° sec. d.C., infatti, che abbiamo le prime testimonianze pittoriche su lastra di terracotta preparata (come quelle del Museum of Fine Arts di Boston) che, al di là di una prodigiosa capacità di stilizzazione, riflettono una delle più antiche definizioni che i cinesi danno della pittura (hua), secondo la quale, per l'appunto, dipingere significa 'disegnare delle frontiere' (Bussagli 1966, p. 31). Non è infatti difficile constatare quanto sia importante nella pittura cinese il ruolo del contorno: ciò svela immediatamente la stretta parentela della pittura con quella che era considerata l'arte per eccellenza, la calligrafia. L'immagine dell'uomo non può non risentire di questa impostazione, sicché il più delle volte essa viene ridotta a un arabesco o, per meglio dire, a una forma che abbia assai pronunciate le caratteristiche ornamentali e in cui il senso del volume è affidato semplicemente alla diversa pressione esercitata dal pennello nel disegnare il contorno.
Un esempio classico, in questo senso, può essere considerato La toletta delle dame, particolare del lungo rotolo a carattere didattico dedicato al tema degli Ammonimenti della istitutrice alle dame di palazzo. Conservato al British Museum di Londra, il rotolo è attribuito a Gu Kaizhi (345-406), artista vissuto durante il periodo detto, piuttosto impropriamente, 'delle sei dinastie' (si noti, per inciso, come, la Cina, insieme al Giappone, sia una delle pochissime culture figurative orientali in cui i nomi degli artisti non solo sono stati tramandati nel tempo, ma hanno goduto di una considerazione che nulla ha da invidiare a quella che gli occidentali attribuiscono ai loro). A proposito delle figure del dipinto del British Museum, si può notare che, sebbene esista una percezione prospettica dello spazio, è del tutto assente qualsiasi senso di plasticità e la poesia dell'insieme, al di là dei delicatissimi passaggi cromatici, è tutta affidata al tratto, che descrive con assoluta maestria una situazione di grande intimità, in cui protagonista assoluta è la figura umana. In altri termini, la pittura è una macroscopica attitudine calligrafica, anche se talora emergono tentativi di resa volumetrica, come nel caso del Pianeta Saturno (Osaka, Museo Municipale), dipinto da Zang Seng-you, artista fra i più famosi, come raccontano le cronache, fra quelli dell'inizio del 6° secolo. Giunta fino a noi in una copia di epoca song (960-1279), l'opera denuncia un influsso evidente dell'arte dell'India che si esplicita, per l'appunto, nella plasticità della resa anatomica e nell'accorto impiego dello scorcio.
L'attitudine calligrafica non significa infatti che gli artisti cinesi non sapessero rendere autonomamente, e in maniera soddisfacente, l'anatomia umana. Basterà citare in questo senso una delle scoperte archeologiche di questi ultimi anni: i quattro Buoi di ghisa, accompagnati da altrettanti vaccari, venuti alla luce nel 1989 nel distretto di Yongjixian e ora completamente restaurati (La civiltà del Fiume Giallo 1992, p. 127). Realizzati nell'anno 724, in pieno dominio dei Tang, questi mandriani a torso nudo, del peso di una decina di tonnellate ciascuno (i buoi pesano fra le 55 e le 75 t), mostrano un'attenzione e una cura per l'anatomia che nulla hanno da invidiare ai più attenti artisti rinascimentali, al punto che È addirittura evidenziato, nello sforzo espressivo e muscolare, il gruppo degli scaleni del collo, muscoli dello strato intermedio che normalmente non si vedono.
Un ruolo di rilievo in relazione all'immagine umana lo ebbe poi senz'altro il buddhismo, sicché vale la pena di menzionare almeno due importanti complessi pittorici, come quello delle grotte di Dunhuang, nel Gansu, dove troviamo opere realizzate fra il 5° e l'8° sec., e quello costituito dalle pitture parietali dell'oasi di Turfan, nello Xinijang, del pieno periodo tang.
L'altro genere che si diffuse in epoca tang fu il ritratto, la cui funzione era sostanzialmente quella di ricordare ai contemporanei e ai posteri, attraverso la descrizione della fisionomia del personaggio, quali fossero le sue doti morali e quanto alto fosse stato il suo esempio, come avviene, per es., nel rotolo con I tredici imperatori, pervenutoci in copia ma dipinto nel 7° sec. da Yan Li-ben (600-673) e conservato a Boston nel Museum of Fine Arts, dove ognuna delle tredici figure imperiali è racchiusa nella sua calligrafica monumentalità. L'attenzione agli aspetti fisionomici, già presente in epoca han (come dimostrano quattro zhen, 'fermacarte' antropomorfi in bronzo conservati presso il Museo Distrettuale di Yuanpingxian), si fece ancora più acuta in epoca tang: lo dimostra il cospicuo numero di statuine che raffigurano personaggi di etnie differenti rappresentati secondo il mestiere tipico di quei popoli e il loro caratteristico ruolo. Così troviamo i mercanti ebrei dal naso adunco, i venditori di vino armeni dalla faccia larga e i falconieri turchi dagli eleganti costumi.
L'altra grande novità della pittura cinese del 10° sec. è sicuramente costituita dall'utilizzo, come unico mezzo espressivo, dell'inchiostro steso a rapide pennellate su carta. Si tratta di una forma di espressione, ispirata alla corrente di meditazione buddhista denominata Chan (assai più nota nella sua versione giapponese Zen), che costituisce una ventata di rinnovamento nel panorama pittorico cinese. Riducendo i mezzi espressivi al minimo (inchiostro di china e carta, generalmente di fibra di riso), infatti, i pittori chan, che eliminano dal loro orizzonte artistico la presenza dei colori tipica del precedente periodo tang, si pongono nelle condizioni di affrontare, portando soluzioni estetiche e stilistiche innovative, tanto i temi legati alla rappresentazione del paesaggio quanto quelli strettamente connessi alla figura umana.
Sfruttando la raffinata esperienza derivata dalla disciplina calligrafica, i maestri chan riassumono l'immagine dell'uomo in un susseguirsi di tratti che sempre più tendono alla sintesi della forma. Lo mostra bene il confronto fra il ritratto del Patriarca buddhista e tigre, conservato a Tokyo e quello che mostra Il poeta Li Bai mentre declama. Si tratta di due capolavori, ma mentre il primo (attribuito a Shi Ke, attivo nella seconda metà del 10° sec., unanimamente considerato il fondatore della pittura chan) mostra ancora delle campiture cromatiche grigie che s'incastonano nelle aree delimitate dalle rapidissime e sfilacciate pennellate dense d'inchiostro nero, il secondo ritratto, pure conservato a Tokyo, fa a meno anche di queste. Opera di Liang Kai (attivo agli inizi del 13° sec., con una produzione nella quale prevale nettamente la presenza della figura umana), il ritratto immaginario del poeta Li Bai mostra tutta la freschezza di un'opera dipinta di getto dopo lunga e attenta meditazione. Riassunta in due o tre pennellate al massimo, la massiccia fisicità del corpo del poeta si appunta su quegli addensamenti d'inchiostro che descrivono la veste e le calzature del personaggio storicamente esistito, ma qui completamente reinventato da Liang Kai in un ritratto idealizzato di fantasia. Capelli, barba e baffi, poi, sono ridotti a semplici macchie, mentre un tratto sottile, quello degli occhi, riempie di vita e anima di profondità psicologica l'intera figura. In altri termini, si tratta di una tecnica pittorica (volendo ridurla all'essenziale) che sfrutta il 'vuoto' bianco del foglio per creare volumi e suggestioni di profondità, provocati proprio dalla presenza dei tratti e dalle macchie nere d'inchiostro che ne costituiscono il contrappunto formale. È un processo visivo che si può apprezzare anche in opere che non appartengano necessariamente alla corrente chan, come in alcune di Ma Yuan (1190-1224), che finisce per isolare la figura umana sulla superficie pittorica. Così, il suo Pescatore solitario (Tokyo, Museo Nazionale) galleggia nello spazio 'vuoto' del rotolo orizzontale di seta grezza, offrendo, oltretutto, un modo per intendere quale sia la giusta collocazione dell'immagine dell'uomo nell'ambito della pittura cinese. Non si può fare a meno, poi, di soffermarsi su un aspetto particolare della rappresentazione della figura umana in Cina: quello caricaturale.
Più che in altre civiltà figurative, dove l'elemento caricaturale è quasi sempre impiegato per descrivere il demoniaco e la sua deformità (si pensi, per es., all'India e ai suoi demoni, accostati da A. Malraux a quelli delle cattedrali gotiche francesi), la pittura cinese, infatti, non di rado indulge a sottolineare aspetti comici della figura umana, indipendentemente da eventuali relazioni con il demoniaco. Derivata dal sommo distacco predicato dal buddhismo nei confronti delle cose del mondo, la dimensione ironica si concretizza, a volte, in immagini tradizionali come le figure di Han-shan e Shi-de (14° secolo), opera di Yan-Hui. Entrambi sorridenti, i due personaggi sintetizzano bene quale debba essere il giusto atteggiamento del saggio nei confronti delle cose del mondo: non per nulla Shi-de è armato della tradizionale scopa che serve per spazzare via metaforicamente affanni e malanimo dal pavimento dello spirito. Ironia, infatti, vuol dire distacco dalle beghe della quotidianità, come ben sanno gli immortali taoisti, spesso rappresentati in statuine d'avorio come, per es., quella di epoca ming conservata al Victoria and Albert Museum di Londra, dai tratti decisamente caricaturali. Il che spiega, oltretutto, la crescente popolarità di simili oggetti, assai diffusi fra il 16° e il 17° secolo. In conclusione si deve sottolineare nuovamente un aspetto della rappresentazione umana nell'ambito dell'arte cinese sul quale avevamo già richiamato l'attenzione in precedenza: la pressoché totale assenza della figura nuda. Vistosa eccezione in questo senso è costituita dalle raffinate statuette in avorio del 19° sec. realizzate per dar modo ai medici cinesi di condurre visite virtuali per le donne, soprattutto di alto rango, altrimenti impossibili sulla paziente.
Simili piccoli simulacri, come per es. quello conservato al Museo Nazionale d'Arte Orientale di Roma, ancorché piuttosto diffusi, testimoniano bene del rapporto fra la cultura, la morale e la civiltà cinese in genere con il corpo femminile nudo, rapporto ben diverso, per es., da quello che abbiamo visto svilupparsi nell'ambito del mondo indiano. Se è vero, infatti, che una delle divinità cinesi più amate e popolari è la Guanyin, figura femminile riprodotta in gran numero di esemplari fra cui quelli settecenteschi in porcellana bianca spiccano per delicatezza e candore, è altrettanto vero che la divinità è sempre raffigurata pudicamente vestita. Soltanto quando la Guanyin si dispone ad allattare, in ossequio alla propria natura misericordiosa (il nome, abbreviazione di Guanshiyin, vuol dire "colei che percepisce gli accenti del mondo"), allora gli artisti possono rappresentarla con il seno scoperto.
Anche a uno sguardo superficiale, non è difficile constatare che in Corea, Giappone e Indonesia l'influenza culturale e artistica va sicuramente riferita, sia pure con tutte le sfumature e variazioni del caso, a due paesi in particolare: la Cina e l'India. Se, infatti, bisogna riferirsi all'India per il credo religioso e l'iconografia che ne deriva, che ha egemonizzato l'intera zona dove il buddhismo si è dovuto misurare tanto con lo scintoismo quanto con l'islamismo, dalla Cina, invece, le popolazioni di queste aree geografiche ricavarono potenti influssi sulla lingua e sull'arte. In questa sede ci si limiterà a sottolineare solo i fatti salienti fra quelli relativi alla rappresentazione della figura umana nell'ambito delle civiltà fiorite nell'Estremo Oriente.
L'arte della Corea, come del resto tutta la storia di questo paese, risente di un potente influsso proveniente dalla Cina fin dall'età più remota, tanto che la leggenda narra che il mitico Ij zi (Ki Ja in coreano), primo capo del popolo coreano, fosse della stirpe shang. Per questo non stupirà trovare il medesimo calligrafismo dell'arte cinese nel modo di trattare la figura umana, come mostra un frammento di lastra del 7° sec. d.C., conservato a Seul (Museo Nazionale di Corea). Vi si rintraccia addirittura quella sottile vena caricaturale che diviene poi più evidente quando il soggetto è legato all'iconografia demoniaca, comune, peraltro, anche all'arte giapponese. Identico carattere caricaturale ha un vaso di ceramica a forma di personaggio a cavallo, conservato pure a Seul.
L'unica caratteristica peculiare del modo di rappresentare la figura umana in Corea può essere individuata nella tendenza degli artisti coreani ad allungare le figure, come mostra, per es., una statua lignea di Bodhisattva Avalokiteshvara (7° sec.) conservata nel monastero giapponese di Horyu-ji. Talora questa tendenza degenera nella mancanza di senso delle proporzioni, come nel caso della statua lignea di Yokasa Yurai, realizzata durante il regno del Grande Silla, quando la Corea venne unificata (8°-9° sec. d.C.). La sproporzione di questo manufatto dimostra il persistere di certi arcaismi che si conservarono anche in epoca più tarda sotto forma di un'accentuata rigidità, come quella che pervade il Ritratto di religioso dipinto su seta nel 14° secolo. Nonostante il raffinato calligrafismo, infatti, la figura risulta inconsistente e inespressiva. Assai diversa, invece, è l'impressione che suscita un'opera come Il saggio in meditazione del pittore coreano Kang Hui-an (1419-1465), conservata presso il Museo Nazionale di Corea di Seul. Realizzata a inchiostro su carta, quest'opera è figlia delle esperienze chan della grande pittura cinese, di cui conserva anche la sottile ironia, forse addirittura accentuandola (Swann 1974, p. 202). Va infatti notata la grandissima capacità di sintesi che l'artista pone in essere nella rappresentazione del saggio ‒ dipinto con pochissimi, equilibrati tratti d'inchiostro ‒ , la cui presenza anima, fin quasi a confondersi con esso, lo sperone roccioso sul quale si è sdraiato. Il suo gesto, tipico del pensiero chan, allude alla necessità di immergersi completamente nella natura per raggiungere il vero equilibrio interiore.
La rappresentazione della figura umana compare nell'arte giapponese fin dai suoi albori. Gli idoletti del periodo jomon (che designa l'età più arcaica del Neolitico giapponese, dal 5° millennio al 200 a.C. circa), pur essendo di fattura piuttosto rozza, costituiscono un'interpretazione dell'immagine dell'uomo d'indubbia suggestione. Si deve notare che, a differenza di quanto avverrà più tardi, l'arte giapponese delle origini nulla deve a quella cinese ma, semmai, va collegata a quella degli Ainu, popolazione paleoasiatica di razza bianca tutt'oggi esistente e concentrata nelle isole di Hokkaido e Sakhalin, che produceva vasi di terracotta di tipo jomonshiki (ossia 'a ornamenti di corde', che venivano impresse sull'argilla ancora molle) comuni anche alla cultura giapponese. Anzi, non è per nulla facile distinguere, nelle fasi più arcaiche, l'appartenenza a questo o quel nucleo etnico di tale vasellame, mentre per le fasi più tarde, le terrecotte jomonshiki, dalle quali trae la denominazione il periodo, appartengono di sicuro agli Ainu che poi, però, lasciarono decadere l'arte della terracotta (Buhot 1962). In ogni modo, le figurine del periodo jomon, le cui dimensioni possono variare dai 5 ai 50 cm, costituiscono i più antichi documenti figurativi della cultura artistica giapponese che rappresentino l'immagine dell'uomo. Si trattava, probabilmente, di raffigurazioni degli spiriti della natura in generale e della fertilità in particolare, quando a caratterizzare l'idoletto c'è la presenza di un'enorme vulva. Contenute, sostanzialmente, nei limiti di un piano rigorosamente frontale (la parte posteriore è poco o nulla lavorata) e piatto, queste figurine di terracotta sono quasi sempre ornate da decorazioni incise (che definiscono le vesti, ma anche il volto), oppure da cordoncini d'argilla applicata che costituiscono l'unico elemento plastico dell'insieme. In particolare, il modo di rappresentare il volto, con la presenza di grandi occhi 'a gufo' o di occhi abnormi caratterizzati dalla pupilla a fessura come quella dei serpenti, collega la natura di questi idoletti alla cultura funeraria. Il tipo di stilizzazione impiegato per rappresentare gli organi della vista, infatti, è generalmente utilizzato, nelle culture neolitiche di quest'area geografica, per rappresentare gli occhi dei morti (Buhot 1962, p. 1264).
Alla cultura jomon si sostituisce, intorno al 2° sec. a.C., probabilmente in concomitanza con l'inizio dell'età del bronzo, la cultura detta Yayioi dal nome della strada di Tokyo dove venne rinvenuto il primo vaso di terracotta appartenente a questo secondo corso. Cambiano le forme, più sobrie, e il modo di decorare il vasellame, ornato con incisioni sottili (yayioishiki) e contenute, senza più l'uso di corde, ma soprattutto muta il modo di rappresentare la figura umana. Adesso, infatti, si producono statuine fittili a tutto tondo dette haniwa, la cui funzione era quella di accompagnare i defunti nella sepoltura. Come le statuine funerarie cinesi che rappresentano uomini, animali, oggetti quotidiani e talora case, così gli haniwa giapponesi rappresentano spesso guerrieri, donne assise o altre figure. Per via di questi manufatti a destinazione funeraria, il periodo Yayioi, a cominciare dal 1°-2° sec. d.C., prende il nome di 'periodo delle grandi sepolture' (o kofun), che dura fino al 6° secolo. Particolarmente interessante è la cura con la quale vengono rappresentati i guerrieri nell'ambito di questa produzione fittile, giacché gli anonimi artisti si spingono fino alla rappresentazione delle armature di tipo keiko, della spada corta (la katana) e dei bracciali, ossia della protezione per mani e avambracci (kote). Probabilmente, lo scopo era quello di proteggere il defunto o d'indicare le sue virtù militari, il che ‒ in un caso o nell'altro ‒ giustifica ampiamente l'attenzione ai particolari tecnici. In termini generali, poi, bisogna notare che gli haniwa (tutti collocati su basi più o meno cilindriche, tali da permettere alle statuine di essere infisse nel terreno) hanno forme più arrotondate e plastiche rispetto agli idoletti del periodo jomon. Il volto, assai meno stilizzato, è caratterizzato dalla presenza di tre tagli: due profondi per gli occhi e uno per la bocca. Queste sostanziali diversità stilistiche hanno indotto gli studiosi a ipotizzare che simili varianti stilistiche siano da imputare addirittura a una sostituzione etnica che avrebbe prodotto questa nuova civiltà figurativa.
A cominciare dal 6° secolo il Giappone, per motivi di carattere commerciale e militare, entrò sempre più nell'ambito culturale coreano (che poi voleva dire cinese), adottò il buddhismo come religione ufficiale e, grazie a questi contatti, fece enormi passi in avanti anche sulla strada della rappresentazione della figura umana. Durante il periodo asuka (552-645 d.C.), si delinearono due correnti artistiche: una più vicina ai moduli allungati delle immagini coreane e l'altra, più tozza, rappresentata dalla produzione scultorea di Tori, l'artista che lavorò al servizio di Shotoku, considerato il fondatore del buddhismo giapponese.
La grande scultura giapponese cominciò ad affermarsi a partire dal tardo periodo Nara (645-794 d.C.) e poi nel corso del periodo Heian (794-1185 d.C.), cosiddetto perché la capitale venne spostata dalla città di Nara a quella di Heian, appunto. Si affinò, infatti, la capacità tecnica e si dedicò grande attenzione alla resa anatomica, anche dei volti, come nel caso delle maschere utilizzate dagli attori dell'allora popolarissimo dramma Gigaku, recitato nei templi di tutto il Giappone. Si tratta di vere e proprie sculture in legno, nelle quali l'espressione sorridente o terrificante è resa con grande capacità plastica. In particolare, l'espressione terrificante è ottenuta modificando i tratti fisionomici della faccia in senso quasi caricaturale. Il naso si fa largo, gli occhi oblunghi quasi escono dalle orbite, si evidenziano i capillari che afferiscono al tratto distale della vena temporale superficiale, le pieghe della fronte scendono verso il basso trascinate dai muscoli corrugatore del sopracciglio e procero che agiscono in sinergia. La bocca, poi, si schiude in una smorfia che lascia intravvedere la chiostra inferiore dei denti.
L'insieme non differisce di molto dalle statue dei guerrieri divini, come quella conservata a Nara (Monastero Todai-ji). D'altra parte, le immagini dei guerrieri e delle divinità guardiane celesti costituivano un'ottima occasione per gli scultori giapponesi (che realizzavano in un unico blocco ligneo le loro opere, perciò dette ichibokubori, ossia "immagini ricavate in un unico albero") di mostrare tutta la loro abilità nella cura anatomica della figura umana. Questo aspetto appare evidente, per es., in una suggestiva Immagine di guardiano celeste del periodo kamakura (1185-1333) conservata a Nara (Monastero Kofuku-ji). Per quanto si tratti di un'anatomia in parte stereotipata, è interessante osservare come lo scultore si sia preoccupato di rendere il senso plastico delle coste presenti nella regione pettorale (articolazione costosternale) e di descrivere ‒ sebbene in maniera un poco fantasiosa ‒ la regione addominale, immaginando un trasverso dell'addome privo di linea alba, nonché di offrire, in genere, un senso di potenza la cui fisicità si colora immediatamente di trascendenza, visto il tipo di soggetto trattato. Queste divinità intermedie, infatti, esprimono anche il senso della terribilità del sacro e la loro ipertrofia muscolare è direttamente proporzionale alla capacità d'incutere timore e rispetto agli uomini che vivono sulla terra.
Naturalmente, il concetto è identico nella rappresentazione delle divinità negative, con la sola differenza che in queste la potenza muscolare è segno di una natura malvagia e incoercibile che solo la preghiera e la corretta condotta morale possono domare. Per questo, nel medesimo complesso religioso di Kofuku-ji a Nara possiamo ammirare la statua lignea di un Demone porta lanterna, la cui tremenda potenza è docilmente piegata al servizio del tempio. Eseguita intorno al 1215 da Kohen, uno dei due figli del più importante scultore del periodo kamakura, Unkei, la statua mostra una cura dell'anatomia che si spinge fino alla corretta descrizione dell'arcata epigastrica. D'altra parte, Unkei perfezionò la tradizione artistica precedente dando vita a opere di grande impatto visivo, come per es. il ritratto idealizzato del Patriarca Muchaku (Nara, Kofuku-ji), dove la resa della statura morale, oltre che a un'impostazione larga e solida della figura, è affidata alla complessa tessitura delle pieghe della veste che scendono verso il basso, quasi fossero le ritmiche onde di una cascata.
Con mezzi completamente differenti, anche la pittura del periodo kamakura mantiene il medesimo livello e la medesima suggestione, come accade nei ritratti del pittore Fujiwara Takanobu. L'artista, infatti, applica alle sue figure la 'formula' del contrasto fra la grande massa del kimono nero e la sottile raffinatezza dei tratti del volto. La 'formula' diviene una vera e propria cifra stilistica che il pittore ripete per i vari ritratti che esegue, come quelli di Minamotono-Yoritomo o del guerriero Takanobu, conservati a Kyoto (Jingo-ji). In entrambi i casi, la massa astratta del kimono è ridotta quasi a un poligono irregolare e viene interrotta dalla presenza della tsuka, l'impugnatura della spada che sporge fra le pieghe delle vesti. Così, da una parte, si attutisce il contrasto fra il pallore del volto e il nero del kimono e, dall'altra, quello fra la minuzia del viso e la compattezza dell'abito. In questo modo l'artista è in grado di dar vita a un sapiente equilibrio fra decorativismo calligrafico e capacità di sintesi, che costituiscono un nuovo punto di arrivo nella rappresentazione artistica dell'immagine dell'uomo, non solo per la pittura giapponese. Il fatto, poi, che si tratti di una 'formula' o di un metodo di raffigurazione, è testimoniato dal fatto che qualcosa di assai simile la si ritrova anche in artisti come Fujiwara-no-Nobuzane, cui è attribuito il Ritratto di Ko-ogimi, che rispecchia sostanzialmente i medesimi canoni estetici.
Con il periodo edo (1614-1867), al di là della molteplice presenza di diverse correnti pittoriche (tra cui una denominata Maruyama-Shijo, ossia 'scuola di pittura occidentale'), non ci furono novità di rilievo nel modo di trattare la figura umana. Anzi, oggetti come i pannelli per paravento favorirono l'impiego della figura umana come elemento decorativo. È il caso di una Danzatrice del 17° secolo, dipinta a colori su carta d'oro, chiusa nei valori decorativi della stoffa del suo kimono appena increspata dalle pieghe prodotte dal movimento sinuoso della danza. Aspetti caricaturali nel modo di descrivere la figura umana emergono, invece, in altri soggetti, come per es. la Divinità del tuono dipinta su un altro pannello per paravento del 17° secolo (Kyoto, Kemin-ji), dove è pure mantenuto il carattere decorativo dell'immagine. È interessante, infatti, notare come le componenti che dovrebbero incutere terrore, proprie di quella divinità, finiscano invece per scivolare impercettibilmente da una dimensione terrificante a una caricaturale, se non addirittura comica.
Del resto questa è una condizione dell'immagine umana evidente nell'arte giapponese, dovuta, almeno in parte, alla pratica della pittura zen, ispirata ai principi dello chan cinese e, come questa, realizzata con l'inchiostro nero (sumi) su carta di riso, il cui bianco di fondo è simbolo concreto del vuoto (yohaku) quale realtà ultima (Bigliani 1982). Anche qui emerge la prodigiosa capacità di sintesi nel rappresentare, per es., la figura di Ho-tei che guada il fiume, un dipinto di Kano Tanyu (1602-1674) conservato a Tokyo (Museo Nazionale). Ho-tei è il Buddha della fortuna, grasso e gioviale, che ‒ con il solo conforto del sacco (che qui porta sulla testa affinché non si bagni) e del bastone ‒ affronta le difficoltà della vita con sano distacco e il sorriso sulle labbra. Pochi tratti d'inchiostro raccontano tutto questo.
La grande novità del periodo edo è rappresentata dalla tecnica xilografica a più colori con l'impiego di matrici lignee diverse. Ne è considerato inventore Hishikawa Moronobu (1618-1694) che, pur eseguendo ancora xilografie monocrome, in bianco e nero, eleva la tecnica xilografica da semplice sistema illustrativo ad arte per antonomasia, prediligendo la rappresentazione delle geishe e i soggetti femminili in generale. Okunurra Masanobu (1686-1764) fu il primo a introdurre altri tre colori (rosso, arancione e verde) nell'esecuzione della stampa, utilizzando tasselli di legno di varia forma e dimensione, secondo le esigenze della matrice dove venivano introdotti. Tuttavia, a perfezionare la tecnica delle stampe a colori, note come nishiki-e o 'pittura di broccato', fu Suzuki Horunobu (1725-1770). Le innovazioni di Horunobu permisero la nascita dei grandi capolavori di Hutamaru e Hokusai che ebbero, come è noto, notevolissima influenza sullo sviluppo della pittura francese del secolo scorso. Per quel che ci riguarda, non si può fare a meno di notare un ulteriore accentuarsi delle componenti decorative che talora giungono fin quasi a disgregare l'immagine umana. Lo mostrano in modo esemplare alcune stampe di Utagawa Toyokuni (1769-1825), come quella che rappresenta Cantanti, attori e musicista sulla scena (Tokyo, Teatro Nazionale, inv. nr. 2674), dove la figura dell'attore Onoe Matsusuke II (1784-1849) emerge a fatica dalla sua splendida veste da scena, risucchiato com'è in una sorta di horror vacui. Ma, in definitiva, quel che si evidenzia è il mirabile equilibrio, nella resa dell'immagine dell'uomo, fra la capacità di sintesi e la considerazione della forma come motivo decorativo, valore intermedio, questo, comune alla gran parte delle stampe giapponesi.
La particolare posizione geografica dell'arcipelago indonesiano, situato a sud della penisola di Malacca, fra l'Indocina e l'Australia, ha permesso lo sviluppo di una complessa e variegata cultura figurativa che, se da una parte risente degli influssi cinesi e indiani (si pensi al proliferare dei templi buddhisti nell'isola di Giava e ai bassorilievi di Borobudur di cui non parleremo perché poco apportano rispetto al tema di questa trattazione), dall'altra, nella zona più orientale dell'arcipelago, ha prodotto vere e proprie civiltà tribali. Nell'ambito di questo multiforme universo culturale, la figura umana riveste un ruolo tutt'altro che secondario, visto l'impiego che se ne fa tanto come elemento decorativo quanto come immagine di culto. Nell'un caso come nell'altro, la rappresentazione degli antenati risulta essere il tema privilegiato di una larga fetta dell'arte indonesiana.
Caratterizzata dagli influssi della cultura di Dongson (nella penisola indocinese), la stilizzazione della figura umana su alcuni tessuti provenienti dall'isola di Sumba, ancora oggi riflette tradizioni figurative assai precedenti. Va infatti rammentato che il tessuto ha un ruolo importante nella cultura religiosa indonesiana, dal momento che viene utilizzato non soltanto in termini di vestiario, ma come vero e proprio oggetto cerimoniale in riti importanti come quello della circoncisione o della limatura degli incisivi. In altri termini, assume un preciso valore di sacralità, il che giustifica il tipo di decorazione. Generalmente realizzati con la tecnica dell'ikat (mazzetti di fili tinti solo in certe zone, quelle non schermate dalle fibre vegetali, e poi annodati insieme), questi tessuti mostrano motivi decorativi di profondo valore simbolico, che alternano l'immagine degli antenati a quella dell'albero della vita. Ridotta alla visione frontale, la figura umana realizzata su questi tessuti segue un rigoroso schema geometrico comune tanto alla rappresentazione maschile quanto a quella femminile, con poche differenze, come, per l'immagine della donna, la presenza degli orecchini sotto i padiglioni auricolari o di un ornamento geometrico sul petto, visibile per es. in una gonna pure provienente da Sumba e conservata a Praga. Per il resto, colpiscono la stilizzazione dei denti fissati in un sorriso 'a spina di pesce', la posizione degli arti superiori piegati verso l'alto con le palme rivolte in avanti, la stilizzazione delle coste ridotte a brevi segmenti che fanno angolo e quella degli arti inferiori con le ginocchia che sporgono lateralmente. Da notare che, contrariamente a quanto avviene nella realtà, le figurette maschili hanno le anche larghe per lasciare posto al membro virile nettamente evidenziato, mentre le anche femminili sono più strette, vista la sola presenza della fessura vaginale. Infine, per evidenti motivi di semplificazione rappresentativa e di migliore lettura iconografica, i piedi, pur applicati agli arti inferiori visti frontalmente, sono invece raffigurati come veduti dall'alto. Si tratta di un modo di rappresentare la figura umana che soddisfa perfettamente i criteri di massima leggibilità e semplificazione, anche se questi ultimi finiscono per venire accentuati in oggetti o raffigurazioni che non permettono adeguato sviluppo di spazio, come i cestini di fibra di palma o le scene particolarmente affollate, quali per es. la Tela delle navi, che mostra la nave per le anime dei morti (Amsterdam, Koninklijk Instituut van den Tropen).
Il culto degli antenati ha determinato la nascita di una produzione scultorea con preciso valore apotropaico e propiziatorio. In particolare intendiamo riferirci ai cosiddetti hampatong, caratteristici della popolazione dei Daiacchi, nel Borneo meridionale. Si tratta generalmente di bastoni, infissi all'ingresso dei villaggi, sui quali è scolpita una figura umana o una testa, talora sormontata dall'immagine di un animale, il cui compito specifico è quello di proteggere i villaggi stessi dagli influssi demoniaci. In termini assai meno sofisticati, l'hampatong svolge la medesima funzione assolta dalle figure di singa tipiche della cultura dei Toba-batacchi, nella zona occidentale di Sumatra. In questo caso si tratta di teste lignee stilizzate e dai grandi occhi, che venivano sistemate all'ingresso delle case (pure di legno), con la stessa finalità apotropaica. Accanto a queste figure di tipo quasi mitologico, esistono quelle che rappresentano i veri e propri antenati scolpiti in statuette di legno, alte poco più di una cinquantina di centimetri, che finiscono per essere del tutto identificate con gli antenati stessi. Caratterizzati da una tipica acconciatura e dal prolungamento dell'orecchio destro, gli antenati vengono volutamente rappresentati con la sproporzione per eccesso della testa e degli organi genitali perché gli anonimi artisti indonesiani tendono a sottolineare così gli elementi più importanti e più nobili della figura umana, quelli nei quali risiedono la potenza e la forza dell'individuo (Wagner 1959, trad. it., p. 64).
Una forma particolare del culto degli antenati può, infine, essere rintracciata nella pratica del teatro delle ombre caratteristico dell'isola di Giava. È infatti certo, al di là della controversia sulle origini di questa forma di spettacolo, che il wayang-kulit (i due termini significano rispettivamente 'ombra' e 'cuoio', il materiale con cui vengono realizzate le marionette) abbia avuto fin dall'inizio un significato religioso. Genere ormai popolare e diffuso a Giava fin dal 1000 d.C., il wayang rappresentava il punto d'incontro fra il mondo dei vivi e quello dei morti, le cui ombre si proiettano su un telo trasparente illuminato dalla tremula luce di una lampada. Quel che qui interessa sottolineare è che l'impiego così singolare di questi burattini ha obbligato gli artisti a cercare una stilizzazione della forma umana funzionale alla resa scenica. Così, a differenza di quanto accadeva per la decorazione delle stoffe, la figura umana non viene più rappresentata frontalmente ma di profilo, secondo il criterio della migliore leggibilità. Il volto, infatti, è di profilo, il busto è frontale con la caratteristica disposizione delle spalle 'a stampella' che, oltre a facilitare l'articolazione degli arti superiori, rende inequivocabile la comprensione dei movimenti, che così finiscono per avvicinarsi alle angolosità delle danze giavanesi. Da notare che, talvolta, le spalle sono asimmetriche, conferendo così minore rigidità alla figura. I piedi sono pure di profilo e seguono il medesimo verso del volto. In questo modo risulta ancora più chiara la direzione del personaggio, la cui macroscopica sproporzione è accentuatta dagli arti superiori lunghi fin quasi ai piedi. I burattini del teatro wayang possiedono un loro vocabolario corporeo che non possiamo non evidenziare nei tratti essenziali. Così, se la posizione divaricata delle gambe è tipica degli eroi bellicosi o dei demoni aggressivi, quella a gambe unite appartiene al sesso femminile. Anche le dimensioni giocano un ruolo importante: demoni e dei sono molto più grandi degli uomini. Infine, pure il profilo e la fisionomia caratterizzano il personaggio: gli eroi hanno lineamenti delicati anche se aguzzi, con il naso e la fronte sulla stessa linea, gli occhi allungati in una mandorla e la barba sul mento. I demoni e i personaggi negativi in genere (con l'eccezione del valoroso Bima, la cui fisionomia è più vicina a quella dei demoni che a quella degli eroi) hanno invece il naso sporgente 'a patata', gli occhi rotondi che quasi escono dalle orbite e la bocca atteggiata in una sorta di ghigno.
Per concludere, non si può fare a meno di ricordare le maschere per le danze rituali della cultura batacchi (Sumatra), usate per le cerimonie in onore dei morti.
Il primo punto da chiarire quando ci si accinga a occuparsi della rappresentazione dell'immagine dell'uomo in culture così primitive come quelle australiane è che devono necessariamente essere abbandonati tutti i parametri estetici che in un modo o nell'altro sono sottesi all'espressione artistica delle civiltà evolute. Se è vero, infatti, che non esiste una ricerca estetica in quanto tale (nel senso che essa si ponga come elemento propulsore per il perfezionamento di una forma data), è altrettanto vero che esiste un percorso evolutivo nell'espressione artistica. Non è infatti difficile apprezzare la differenza fra le striature incise con le dita sulle pareti di calcare delle grotte di Koonalda (Australia meridionale), databili a 20.000 anni fa circa, le impronte delle mani realizzate in negativo (spruzzando pigmento sulla mano che, tolta, lascia l'impronta) sulle pareti delle caverne della Tasmania (Bacino di Maxwell), databili fra i 20.000 e i 14.000 anni fa, e le pitture filiformi di uomini o donne in corsa rappresentate sulle rocce della Terra di Arnhem (Australia del Nord). Il fatto, però, è che a determinare questo processo di sviluppo non sono motivi di carattere estetico, ma necessità espressive di origine magica e religiosa. Tutta l'arte australiana e degli arcipelaghi dell'Oceania (ma la valutazione è valida anche per l'arte africana e per certe culture nordamericane) è infatti un'arte sacra, dove per tale non deve intendersi una forma di espressione da contrapporsi all'arte profana, ma una forma di comunicazione simbolica in grado di sanare ogni possibile frattura fra la realtà contingente e il passato mitico che garantisce il perpetuarsi dell'ordine nel presente. In altri termini, la funzione dell'arte è quella di connettere il mondo vissuto quotidianamente a quella che si suole chiamare 'era del sogno', quando esseri mitici, demiurghi ed eroi plasmarono la terra, i fiumi, le piante, le stelle e perfino gli uomini.
Lo prova il fatto che oggetti cultuali come i tjurunga e i rombi (tavolette di legno di varia dimensione e dalla forma ovoidale, i secondi perforati) e oggetti d'uso per così dire comune, come i propulsori per le lance o i bumerang, traggono la loro efficacia funzionale dalla decorazione che li orna (Grottanelli 1987, p. 8). Infatti, come spiega H. Petri, "un bumerang ornato con i loro simboli non è, agli occhi del suo proprietario, semplicemente un bel bumerang, ma anche un bumerang dotato d'efficienza, in quanto trae la propria sanzione dal mondo extraumano" (Petri 1959, col. 205). Si comprende bene, allora, quale sia il ruolo dell'immagine dell'uomo nelle espressioni artistiche scaturite da un simile contesto. Nella gran parte dei casi, infatti, per quel che ci è dato sapere, le figure antropomorfe che compaiono incise o dipinte sulle rocce del continente australiano rappresentano antenati o esseri totemici la cui presenza ha il compito di garantire equilibrio e continuità fra il mondo spirituale e quello materiale.
Questa unità d'intenti, però, non deve far ritenere che gli esiti formali, nel modo di concepire la figura umana, siano ovunque identici nel vasto territorio australiano dove le pitture rupestri costituiscono il mezzo espressivo privilegiato dagli aborigeni. Possiamo, infatti, individuare una serie di 'stili' profondamente diversi l'uno dall'altro, circoscrivibili in particolari zone geografiche del continente. Abbiamo già accennato alle figure filiformi della Terra di Arnhem, che rappresentano sicuramente l'esito esteticamente più accattivante fra quelli noti, tanto da meritarsi l'appellativo di 'stile elegante' coniato da A. Lommel (1959). Reperibili nella zona nordoccidentale (Kimberley e Northern Territory) e sudorientale (Nuovo Galles del Sud e Victoria) del vasto territorio australiano, le figurine in 'stile elegante' appartengono probabilmente al periodo più antico. Simili a certe immagini rupestri del Sahara e del sud dell'Africa (ma il confronto soddisfa solo l'analogia formale), questi omini filiformi, spesso rappresentati in scene di caccia dall'accentuato dinamismo, mostrano un'elevata capacità di sintesi nel raffigurare l'immagine umana. Braccia e gambe sono elegantemente rese con un tratto affusolato che, generalmente, non descrive né mani né piedi. L'appartenenza al sesso femminile è sinteticamente indicata dalla presenza delle mammelle, mentre talora compare un'acconciatura sulla testa.
Una così asciutta stilizzazione offre agli artisti la possibilità di adattare le figurette alle più diverse funzioni narrative con una duttilità sconosciuta alle immagini appartenenti a un altro stile, quello wondjina, proveniente dalla medesima zona geografica dell'Australia nordoccidentale. Sono infatti queste figure antropomorfe di grandi dimensioni che rappresentano antenati totemici, come per es. quello dipinto su corteccia proveniente dalla zona del fiume Prince Regent e oggi conservato presso lo Städtisches Völkermuseum di Francoforte sul Meno. Caratterizzata da un grande copricapo e dalla presenza dei piedi visti dall'alto, come quelli delle stoffe ikat dell'Indonesia, questa figura ha però nel modo di trattare il volto il suo vero tratto distintivo. La gran parte delle immagini d'antenati rappresentati in questo 'stile', infatti, è ridotta alla sola rappresentazione della testa. Questa, generalmente circondata da un ornamento a 'ferro di cavallo', è priva di bocca, mentre gli occhi sono tondeggianti come la cavità del naso, che rimanda chiaramente alla stilizzazione del cranio. In ogni caso, si tratta di esseri mitici, responsabili della pioggia e della fertilità.
Un altro stile è quello che gli studiosi sono soliti indicare come 'pittura a raggi X', visto che gli animali rappresentati in questo modo sembrano mostrare la struttura scheletrica e gli organi interni. Provenienti esclusivamente dalla Terra di Arnhem, pitture di questo tipo (come quella conservata al Museo Pigorini di Roma ed eseguita su corteccia), mostrano una semplificazione e una rigidità della figura umana piuttosto grossolane. Talvolta, l'immagine dell'uomo è ridotta a una struttura nastriforme, come nel caso delle pitture rupestri presso Oerberna (Terra di Arnhem), non prive di una certa suggestione. In simili casi, la presenza degli organi sessuali maschili e femminili assume una notevole rilevanza.
Finora non si è fatta alcuna menzione di opere scultoree o, quanto meno, realizzate con mezzi plastici piuttosto che pittorici, e infatti non esiste nel continente australiano una produzione in vasta scala che possa definirsi scultorea. Le forme espressive degli aborigeni australiani sono limitate alle pitture rupestri che abbiamo esaminato, ai dendroglifi (incisioni sui tronchi degli alberi), ai petroglifi (incisioni rupestri), alle pitture su corteccia, ai disegni sulla sabbia e agli ornamenti degli oggetti di legno. In altri termini, pochissimi e rari sono gli esempi di plastica. Fra questi i più diffusi sono rombi o tjurunga le cui sagome oblunghe sono state trasformate in oggetti dalla forma naturalistica che richiama quella degli animali. Alcuni fra questi esemplari, provenienti dalle culture desertiche dell'interno, hanno assunto un profilo antropomorfo che rappresenta esseri totemici, spiriti bambini che hanno valore didattico e non esoterico, come una sculturina lignea antropomorfa e piatta proveniente dall'Australia centrooccidentale (tribù dei Mandjidjara) conservata presso l'University Museum di Perth. In ogni caso si tratta di opere piatte. A tutto tondo sono invece scolpiti i maraiin o i ranga provenienti dalla Terra di Arnhem, mentre l'unico esempio di scultura litica è la testa di un medico-stregone proveniente dalla tribù dei Njangòmada e oggi conservata a Francoforte sul Meno (Museum für Völkerkunde).
Con il termine Oceania s'intende tutto quel complesso di arcipelaghi e di isole che s'estende a oriente del continente australiano, coprendo una superficie che corrisponde, grosso modo, a 150 volte quella dell'Italia. La suddivisione di questa immensa area geografica in zone più piccole, corrispondenti agli arcipelaghi della Melanesia a occidente, di cui fa parte anche la Nuova Guinea, della Micronesia a settentrione e della Polinesia, che occupa la parte più orientale e ha la sua ultima propaggine nell'isola di Pasqua, non è una ripartizione artificiale, ma corrisponde anche a differenze di carattere etnico e culturale. La prima e fondamentale è che le popolazioni che vivono nella Melanesia, a differenza delle altre, sono di pelle scura con tratti somatici che li avvicinano a quelli negroidi. Tuttavia, le culture della Melanesia (il cui nome, per l'appunto, vuol dire 'isole dei neri') sono il risultato, semplificando, di quattro successivi flussi migratori di cui il più antico fu quello di genti australoidi. A questo seguirono popoli indicati come paleomelanesiani o papuasici, cui succedettero gruppi umani dalla pelle più chiara che colonizzarono anche gli arcipelaghi della Polinesia. L'archeologia più recente ha individuato in questi ultimi i portatori della cultura Lapita (dal nome della località dove emersero i primi manufatti in ceramica) i quali emigrarono nella zona fra il 1500 a.C. e il 500 d.C. Ma mentre nell'area polinesiana la loro rimase l'unica etnia, in Melanesia essi finirono per essere assorbiti dal preesistente ceppo negroide. La quarta ondata migratoria che interessò la Melanesia, infine, fu quella delle popolazioni propriamente melanesiane. Il ceppo etnico della Micronesia, invece, mostra caratteristiche etniche di tipo sud-mongolide.
Questo complesso mosaico di genti diverse ha prodotto una notevole varietà di culture tribali che hanno utilizzato la figura umana per scopi di carattere sacro e cerimoniale. Sia pure con tutte le differenze e le diversificazioni del caso, in tutta la vasta area oceanica l'elemento religioso portante è costituito dal culto degli antenati in una diversificazione di esiti formali e di oggetti così vasta che non è possibile, in quest'ambito, documentarla compiutamente. La sola Nuova Guinea, per es., conta poco meno di dieci culture diverse che hanno espressioni artistiche ben caratterizzate l'una dall'altra. Accanto alle figure di antenati accovacciati scolpiti in blocchi di legno di una ventina di centimetri, infatti, troviamo oggetti come i korwaar, pure provenienti dalla costa nordoccidentale dell'isola (Roma, Museo Pigorini) che hanno la funzione di veri e propri ostensori, in quanto su di essi venivano sistemati i crani degli antenati oggetto di venerazione. È interessante notare che, a differenza di quel che abbiamo avuto modo di osservare nel continente australiano, nella vasta area degli arcipelaghi dell'Oceania è la scultura mobiliare a costituire il mezzo di espressione privilegiato. Questa si esplica, poi, anche nella realizzazione di oggetti d'uso comune, come poggiatesta o cucchiai in cocco dove la figura umana ha la doppia funzione ornamentale e sacrale. Esemplare, in questo senso, un pettine ligneo cerimoniale proveniente dallo stretto di Torres e conservato a Bruxelles (Musées Royaux d'Art et d'Histoire) che mostra chiaramente come l'artista abbia saputo avvicinare la forma umana delle spalle e della testa a quella funzionale del pettine. Un tipo di stilizzazione particolare del volto lo troviamo nella cultura gravitante intorno al bacino fluviale del Sepik, sempre in Nuova Guinea, dove la figura umana viene stilizzata secondo due concezioni diverse. Una pone l'accento sull'accrescimento dimensionale degli occhi che occupano la gran parte della testa determinandone la forma sferoidale, come in un gancio ligneo conservato all'Historisches Museum di Berna. L'altra, invece, dà vita a una specie di uomo-uccello caratterizzato dalla presenza di un pronunciato naso arcuato che ritorna anche sulle maschere rituali o nelle tipiche figure di antenati conservate a Roma nel Museo Pigorini.
Completamente diversa la stilizzazione di manufatti lignei come i malanggan provenienti dalla Nuova Irlanda nelle Isole Bismarck. Si tratta di assi scolpite con rappresentazioni antropomorfe stilizzate in modo fortemente geometrizzante e angoloso, nelle quali, talora, si sovrappongono addirittura più figure. Tali opere, "destinate a esaltare la posizione genealogica o totemica (noi diremo araldica) del defunto" (Grottanelli 1987, p. 69), venivano esibite durante le cerimonie che i parenti organizzavano a uno o a cinque anni di distanza dalla morte del loro congiunto. Simili manufatti, come quello del Museo Pigorini, possono superare il metro di altezza. Improntati a una resa che potremmo definire, con termine tanto vago quanto inadeguato, naturalistica, sono gli ingiet e i kulap, pure provenienti dalla Nuova Irlanda; si tratta di statuine di pietra gessosa destinate a ricordare i defunti. La scelta del materiale, piuttosto deperibile, potrebbe essere imputata al fatto che dopo un certo periodo questi manufatti venivano rimossi o distrutti. Gli ingiet in particolare, poi, erano prodotti da una società segreta locale e la loro funzione doveva essere quella di ricordare i membri defunti della setta. In ogni caso, è interessante notare come, anche in opere non destinate a durare, la cura dei particolari giungesse fino alla resa naturalistica delle unghie, e come le statuine bianco-grigiastre venissero poi rifinite con tinta nera o rossa.
La devozione per i defunti, da intendersi naturalmente nei termini che abbiamo detto, produsse un fenomeno che è comune a tutta l'area oceanica: l'uso di costruire, con mastice o altri materiali facilmente plasmabili, teste umane sulla base ossea di veri crani umani. Talvolta i supporti ossei finiscono per costituire la parte anteriore di una maschera; talaltra, invece, completamente ricoperti e magari impreziositi dalla presenza della madreperla, come nel caso dell'esemplare conservato al Museo Pigorini di Roma, costituivano oggetti di culto, simili, in questo senso, alle teste maori (Nuova Zelanda) tatuate e mummificate.
Caratteristiche della cultura maori e particolarmente interessanti per questo rapido excursus, sono le figurine antropomorfe dalle membra contorte in posizione quasi fetale dette tiki o hei tiki. Quasi sempre di sesso femminile, talvolta scolpiti in osso umano (Roma, Museo Pigorini), tali manufatti dovevano avere un significato beneaugurante connesso con la fertilità. Non per nulla, simili figurette ricordano i piccoli esseri che brulicano sul corpo del dio polinesiano Tangaroa o Ta'aroa: divinità creatrice per eccellenza, Tangaroa ha il volto segnato da questi piccoli uomini dalla bocca larga, disposti in luogo degli occhi, del naso e della bocca del dio; questo modo di conferire fisionomia alla divinità non fa altro che esaltarne la capacità creatrice che ha, come fulcro centrale, proprio la ripetizione (virtualmente all'infinito) dell'immagine dell'uomo.
Per concludere, un discorso a parte va fatto per l'Isola di Pasqua, cosiddetta perché scoperta dall'ammiraglio olandese J. Roggeveen la domenica di Pasqua del 1722. È solo in quest'isola, infatti, che troviamo la presenza di scultura monumentale, rappresentata da enormi monoliti scolpiti con la foggia di uomini dalla grande testa, abbattuti dai locali e ripristinati dalle spedizioni scientifiche. Alti fino a 12 m, questi busti umani rappresentavano gli antenati, il cui compito era quello di proteggere Rapa Nui (questo il nome polinesiano dell'isola), popolata soltanto a cominciare dal 1° millennio d.C.
Quando si pensa alle culture autoctone americane, generalmente l'attenzione si focalizza sull'idea che ci è stata tramandata dall'immaginario collettivo del 20° secolo, il quale, sulla base della produzione filmica nordamericana, ha finito per istituire l'equazione fra le civiltà dei pellerossa e l'intera storia etnologica del continente americano. Per la verità, invece, non solo all'interno dell'immenso territorio del continente americano hanno coabitato per secoli culture completamente diverse fra loro, ma l'immagine stessa dei pellerossa, come quella di guerrieri a cavallo armati di fucile o anche semplicemente di arco e frecce, appartiene a una fase assai tarda del percorso etnologico di queste popolazioni. Solo con la colonizzazione degli spagnoli nell'America meridionale, infatti, fa la sua comparsa nel nuovo continente il cavallo, prima di allora completamente sconosciuto. A portarlo nell'America settentrionale furono, oltre agli spagnoli, gli olandesi, i francesi e gli inglesi. L'adozione di questo nuovo mezzo di trasporto (che non ne sostituì alcuno a esso preesistente, a parte il cane e il lama, visto che, prima, gli indigeni americani si spostavano a piedi) provocò l'accentuazione di un nomadismo latente che indusse le tribù gravitanti intorno alle foreste orientali del continente nordamericano a trasformarsi da genti stanziali con regime di economia agricola in popolazioni nomadi dedite alla caccia nelle grandi pianure.
Semmai, una cultura legata alla caccia e alla raccolta la troviamo fra gli eschimesi, mentre nell'America centrale e meridionale ci imbattiamo nella fioritura delle grandi civiltà degli Aztechi, dei Maya e degli Incas, la cui complessità sociale non è neppure lontanamente paragonabile a quella delle altre etnie. Dunque, l'America, lungi dall'essere un insieme etnicamente omogeneo, è la variegata composizione di genti e popoli diversi che hanno adattato la loro cultura alle differenti condizioni climatiche e ambientali. Per la gran parte di essi, però, la figura umana costituisce un punto centrale del loro mondo espressivo.
Appartenenti a quel variegato complesso etnico e culturale (legittimamente considerato per molti aspetti omogeneo) che va sotto il nome di 'popoli artici', gli eschimesi occupano un vastissimo territorio che va dall'Alasca occidentale fino alla penisola del Labrador e alla Groenlandia, passando per le coste canadesi che si affacciano sul mar Glaciale artico. Di stirpe mongolica, a differenza per es. dai lapponi, che sono europoidi, gli eschimesi si trovano anche in Asia (Penisola di Ciuki), che costituisce la loro terra d'origine. I primi passaggi verso il continente americano dovettero avvenire intorno a 25.000 anni fa, quando lo stretto di Bering non esisteva e al suo posto si estendeva una lunga lingua di terra, emersa per via dell'abbassamento del livello delle acque marine dovuto all'ultima glaciazione. Tuttavia, la colonizzazione vera e propria delle terre americane da parte degli antenati degli eschimesi attuali dovette iniziare intorno all'8000 a.C. e ripetersi, a ondate successive, per i due millenni a venire (Marucci 1979). Legati fondamentalmente a un'economia di tipo venatorio, gli eschimesi produssero, per la gran parte, oggetti intagliati in avorio di tricheco o in osso, strettamente connessi con le loro attività di caccia. Il modo di realizzare simili utensili ha indotto gli studiosi a catalogarli secondo il differente tipo di decorazione, corrispondente a tre stili diversi che costituiscono l'evoluzione l'uno dell'altro e che corrispondono a una durata complessiva di circa mille anni. È questo il cosiddetto stile 'vecchio mare di Bering', ripartito in tre fasi (VMB I; VMB II; VMB III), che va grosso modo dal 300 a.C. al 500 d.C. La gran parte dei manufatti è costituita da teste di arpone e manici di coltelli ornati con motivi zoomorfi. Gli unici esemplari che potrebbero avere riferimenti antropomorfi sono i cosiddetti 'oggetti alati' e in particolare uno, proveniente da Okvik e pubblicato da H.B. Collins (1958), che vi individua occhi grandi simili a quelli di un gufo, sopracciglia sporgenti e il naso centrale. Simili manufatti dovevano fungere da contrappeso alle aste degli arponi che venivano lanciati dal propulsore; starebbe a provarlo la tacca posteriore.
Tuttavia, gli oggetti artistici legati a rappresentazioni antropomorfe si fanno più consistenti nel periodo successivo al VMB III, dominato dalla cultura di Punuk, dal nome dell'isola su cui sono state trovate le prime testimonianze. La diffusione della cultura di Punuk è assai maggiore rispetto a quella del VMB da cui in parte deriva e si hanno testimonianze circa la conoscenza rudimentale della metallurgia da parte degli eschimesi che appartenevano a quella cultura. Fra gli oggetti più importanti di questo periodo si deve citare una statuina in avorio, conservata presso lo United States National Museum di Washington, che rappresenta una figura femminile acefala. Realizzata con grande cura per i particolari anatomici, la figuretta mostra una donna incinta, forse un idolo, il cui valore non doveva essere così distante da quello ricoperto dalle sculturine che a tutt'oggi gli eschimesi di San Lorenzo utilizzano per la caccia alla balena (Collins 1958, col. 15). L'oggetto più suggestivo, però, è sicuramente costituito da una scultura in avorio composta da sette pezzi riuniti in forma di cornice, rinvenuta in una sepoltura a Point Hope (Alasca); questo manufatto, che rappresenta verosimilmente una maschera, è da ritenersi l'esempio più bello di stile ipiutak (Collins 1958, col. 15). Quel che interessa notare è soprattutto la caratteristica capacità di 'smontare' la costruzione del volto umano relegandone gli elementi costituitivi ai margini e trasformandola in un oggetto fortemente decorativo. L'impiego di maschere rituali dalle forme più varie costituisce, anche oggi, una delle caratteristiche di questa cultura, legata a una religiosità di tipo sciamanico.
Anche sulle coste canadesi troviamo insediamenti eschimesi appartenenti alla cosiddetta cultura di Dorset, che sviluppò un peculiare modo di lavorare l'avorio e l'osso producendo oggetti dove la figura umana ha una notevole importanza. Ci riferiamo in particolare alle bizzarre sculture ornate dalla presenza di più teste umane giustapposte l'una vicino all'altra fino a ricoprire tutta la superficie del manufatto. Un esemplare significativo, conservato nel Royal Ontario Museum di Toronto, è stato trovato nell'isola di Prince of Wales sulla costa settentrionale del Canada. Realizzato in corno, l'oggetto, di cui non si conosce esattamente l'uso, mostra otto facce che s'incastrano l'una con l'altra. Di queste, quella che conclude il manufatto nella sua parte inferiore risulta essere la più curata e mostra una particolare attenzione alla resa fisionomica, che rivela indiscutibilmente i tratti mongolici caratteristici degli eschimesi. Molto meno curata, invece, è una statuina in avorio proveniente dall'isola di Southampton, al limite settentrionale della baia di Hudson, oggi conservata al Pitt Rivers Museum di Oxford. Eseguita piuttosto rozzamente, la statuina, alta poco più di 9 cm, raffigura un uomo dalla faccia larga, con il corpo troppo piccolo percorso da evidenti incisioni che alludono probabilmente a tatuaggi. Rappresentata nuda, con gambe e braccia arcuate, la figuretta non ha qualificazioni sessuali, né è chiaro quale dovesse essere la sua funzione. Scendendo verso sud, nell'entroterra canadese, si trovano gli insediamenti delle tribù indoamericane appartenenti alle famiglie linguistiche degli Algonchini e degli Athabaska, con economia prettamente venatoria. Legati a una religiosità sciamanica, unico punto di riferimento in un ambiente naturale profondamente ostile, gli indiani delle Grandi Pianure produssero un'arte in buona parte aniconica, caratterizzata da motivi geometrici dipinti su mantelli di pelle o sugli scudi, dove talora compariva anche l'immagine del guerriero, con evidente valore apotropaico. La vicinanza dell'uomo bianco e l'introduzione delle perline ha poi determinato la nascita di forme espressive tendenti a raccontare per figure le imprese belliche degli indiani o scene di vita quotidiana. La presenza del cavallo sulla borsa dimostra l'ormai avvenuto processo di acculturazione alla civiltà dei bianchi che porterà le culture indoamericane sull'orlo dell'estinzione.
La scarsa importanza che simili culture attribuivano alla rappresentazione della figura umana è testimoniata dal fatto che, per es., gli sciamani del Labrador consideravano il loro tamburo non come uno strumento di lavoro, ma come un essere vivente capace di parlare il linguaggio degli uomini. Addirittura, gli appartenenti alla tribù dei Penobscot indicavano il tamburo con la parola medeolinu, che letteralmente vuol dire 'persona con la voce di tamburo' (Speck 1919). Il che significa che l'aspetto umano non è determinante per la considerazione della dignità della persona umana e che la religiosità sciamanica disegna una realtà nella quale esiste l'intercambiabilità dei ruoli e delle coscienze.
Maggiore attenzione alla rappresentazione della figura umana si rileva invece nelle culture delle foreste orientali che giungono fino alla Florida. Nota anche come 'cultura dei tumuli funerari' (burial mounds), questa civiltà, sostanzialmente agricola, si spostò dal nord verso il sud, scendendo al di sotto del 44° parallelo e seguendo il corso dell'Ohio (cultura di Adena, 1000 a.C.-300 d.C.; cultura di Hopewell, 300-700 d.C.) e quello del Mississippi (cultura del Mississippi, 700-1700 d.C.). Lavoravano la pietra, l'osso, ma anche la ceramica, con cui facevano fornelletti per pipa antropomorfi, generalmente con l'immagine di uomini nudi accovacciati, come quello proveniente da Moundeville, di fattura piuttosto rozza. Alla cultura di Hopewell appartengono i tumuli di forma antropomorfa che si estendono sul terreno per chilometri, tanto da risultare visibili solo dall'aereo. Con la cultura del Mississippi, i tumuli persero l'antropomorfismo o gli altri motivi zoomorfi che li caratterizzavano per assumere la foggia di una piattaforma su cui venivano poi costruiti i templi.
Dalla zona settentrionale delle foreste orientali provengono manufatti lignei quali maschere dal terribile ghigno. Alcune hanno fattezze intermedie fra quelle degli uomini e quelle degli animali, come gli esemplari conservati presso il Museum of the American Indian di New York. Queste maschere, utilizzate per scacciare gli spiriti maligni e realizzate in legno, sono ornate di crine e dipinte a vivaci colori; caratterizzate da grosse labbra e da un naso prominente, riassumono in sé forme umane e zoomorfe. Altre maschere d'impronta decisamente umana vengono utilizzate nei villaggi irochesi per le cerimonie di primavera organizzate da due distinte confraternite, che prendono il nome proprio dal tipo di maschere utilizzate. Quella detta delle 'facce finte' usa maschere lignee ornate di crine e opera i suoi riti pubblicamente; la società detta dei 'volti di mais', invece, adopera suggestive maschere realizzate con fibre vegetali annodate e intrecciate insieme in modo da mimare il volto umano. L'effetto non è troppo distante da quello che si nota osservando il Vertumno del nostro Arcimboldi. Le maschere venivano indossate dai membri della confraternita durante le cerimonie della 'lunga casa', nel corso della quale i presenti venivano aspersi con acqua medicinale e cenere, considerate entrambe efficaci rimedi terapeutici e profilattici. La mitologia irochese attribuisce infatti l'origine delle malattie e delle cure umane in genere al 'grande gobbo', una sorta di copia di Tawiskaron (letteralmente 'pietra focaia'), la divinità negativa uccisa nella notte dei tempi dal fratello buono Oterontongnia, che ne trasformò le spoglie nelle Montagne Rocciose. Il 'grande gobbo' ha al suo servizio le 'facce finte', esseri deformi dalle grosse teste e dai volti fissi in una orrenda smorfia. Il rito consiste nel fare in modo che i giovani prendano il posto delle 'facce finte' del 'grande gobbo' e, ripetendo il gesto di aspersione, che nel caso della realtà mitologica sarebbe letale, finiscano per annullarne ogni effetto. Il ruolo della maschera e del mascheramento è dunque quello di permettere una manipolazione della realtà spirituale, altrimenti destinata a sfuggire completamente al controllo degli uomini. Bisogna precisare che questi riti sono piuttosto recenti e costituiscono l'evoluzione del mito cosmologico dei due gemelli (uno buono e uno cattivo, Oterontongnia e Tawiskaron), proprio delle tribù irochesi dell'Ontario (Müller 1966). La riproduzione artificiale e deforme delle fattezze umane, assume perciò qui particolare significato e notevole importanza.
Lungo la costa occidentale del continente nordamericano, invece, erano stanziate altre popolazioni di religiosità sciamanica, per le quali uno dei punti di riferimento della sacralità era costituito dal totem posto all'ingresso dell'abitazione. I Tsimshian, gli Haida e i Tlingit, infatti, usavano porre questi enormi pali lignei, alti fino a 25 m, dinanzi alla loro dimora, con la funzione di commemorare i morti, mostrare la ricchezza della famiglia e gli aspetti mitici della tribù. Eseguiti tutti nel corso del 19° sec., questi esemplari totemici sono caratterizzati dalla presenza di una figura a bocca aperta posta alla base, che simboleggia la porta d'ingresso. Presso i Tlingit, in particolare, va rilevata la presenza dei cosiddetti uomini-gufo, scolpiti in legno e vivacemente colorati, come quello conservato al Portland Museum of Art di Portland. Mezzi uomini e mezzi uccelli, queste divinità sono una classica espressione della religiosità sciamanica. Anche lungo la costa occidentale del continente nordamericano, dunque, l'impiego dell'immagine dell'uomo è strettamente legato agli usi religiosi e costituisce un preciso strumento rituale utilizzato tanto nella forma totemica quanto in quella della maschera. A proposito di quest'ultima forma d'arte, poi, si devono ricordare le fantasiose maschere dei clan della tribù dei Kwakiutl, una popolazione di pescatori stanziati nell'isola di Vancouver, o quelle della cultura Tsimshian. Da qui, infatti, provengono manufatti come la grande maschera conservata presso il British Columbia Provincial Museum di Victoria, che, oltre alle vistose decorazioni policrome, ha occhi e mandibola mobili.
Esiste una discrepanza fra le convenzioni geografiche moderne e le considerazioni di tipo storico-culturale connesse alle civiltà che fiorirono nell'America centrale. Secondo le prime, infatti, i territori che si estendono a settentrione del Golfo di Theuántpec appartengono al continente nordamericano, mentre, ripercorrendo le tappe del complesso percorso storico di quest'immensa area geografica, è del tutto evidente che le nobili culture che ne furono protagoniste sono connesse alle civiltà propriamente mesoamericane. Basterebbe, in questo senso, pensare agli influssi reciproci fra la cultura degli Olmechi (fiorita nell'attuale Messico) e quella dei Maya, che occupava il territorio fra la penisola dello Yucatán e l'attuale Honduras. Gli Olmechi, che svilupparono una civiltà estremamente sofisticata fra l'800 a.C. e il 600 d.C., possono essere considerati come i precursori delle maggiori culture che si succedettero nel Messico precolombiano, anche per quanto riguarda l'uso rituale del sacrificio umano. Sebbene siano scarse le notizie e la documentazione intorno a questa antica civiltà, cui, tra l'altro, si deve l'invenzione della scrittura di tipo geroglifico poi adottata dai Maya, risulta indubbia la centralità dell'immagine dell'uomo nella sua espressione artistica. Lo testimoniano, da una parte, le teste colossali, i cosiddetti cabezones, 'testoni', alte oltre 2 m, ancora in situ nella località messicana di La Venta (Tabasco) e, dall'altra, le statue di bimbo nano. Non si conosce con precisione il significato né dell'una né dell'altra raffigurazione. Probabilmente, i bimbi nani sono da connettere a rituali esoterici ancora ignoti, mentre i cabezones sono da considerare immagini divine. Nell'un caso e nell'altro è evidente la maestria degli scultori che davano alle loro figure precisi tratti somatici, caratterizzati nel caso dei cabezones da naso camuso e labbra carnose, nel caso dei bimbetti da tratti di tipo mongolico, con occhi a fessura, lineamenti schiacciati e naso appuntito. L'attenzione per la figura umana può senz'altro essere considerata uno dei tratti distintivi delle culture che si succedettero dopo quella olmeca (e delle quali qui non è possibile dare conto esaustivo), prima del costituirsi dell'impero azteco. In questo senso, basterà ricordare la produzione di maschere funerarie provenienti dalla città di Teotihuacán (letteralmente la 'città degli dei'), fondata dai Toltechi a 40 km dall'odierna Città di Messico e che raggiunse il massimo splendore fra il 250 e il 650 d.C., anche se la sua storia è lunga più di mille anni (200 a.C.-900 d.C.). Caratterizzate da una stilizzazione geometrica che semplifica i tratti del volto, le maschere provenienti da Teotihuacán, realizzate in serpentina verde, come quella conservata al Museo etnografico di Castello d'Albertis a Genova, o decorate a mosaico su base lignea, come quella conservata al Museo Nacional de Antropología di Città di Messico, mostrano uno strano modo d'intendere la funzione della maschera funeraria che qui non ha lo scopo di perpetuare i tratti somatici del defunto (da questo punto di vista sono pressoché tutte uguali), ma piuttosto quella di abbellirlo e garantirne l'immortalità nell'estremo viaggio. La tendenza alla geometrizzazione delle forme è presente nell'arte tolteca anche nelle opere monumentali, come la divinità dell'acqua Chalchiuhtlicue proveniente da Teotihuacán o i pilastri, ancora in situ, che, in guisa di statue colossali, sormontano la piramide B di Tula. In entrambi i casi, infatti, si assiste alla riduzione della figura umana alla dimensione di un parallelepipedo le cui facce sono occupate dalle vedute frontali, posteriori e laterali dell'immagine umana, che finiscono per diventare quasi elementi decorativi del pilastro.
La continuità dell'arte degli Aztechi (che a partire dal 1168 si sostituiscono ai Toltechi, la cui civiltà era già insidiata dai Chichimechi, che nel 1156 avevano distrutto Tula) è testimoniata dalla ripresa di certe divinità e di alcuni usi. Non c'è infatti una grande diversità fra le maschere mortuarie tolteche e quelle azteche, come lo splendido esemplare in giada verde conservato al Museo di Antropologia di Firenze. Qui le forme sono solo più arrotondate e il naturalismo si spinge fino alla realizzazione dei denti. Particolarmente interessante è il tipo di stilizzazione adottato per raffigurare una divinità come Chalchiuhtlicue, anche presso gli Aztechi divinità dell'acqua. Le forme arrotondate della statua, con le braccia che corrono lungo il corpo, la testa incassata e la posa in ginocchio, sono particolarmente adatte a suggerire l'idea dello scorrere dell'acqua. Occorre però precisare che anche in questo caso, come del resto per tutte le culture americane, non si devono considerare simili scelte stilistiche come consapevoli opzioni legate a dettami e intenzioni di carattere estetico. La rappresentazione delle divinità è solo funzionale a necessità cultuali e, anzi, varrà la pena di rammentare che per gli Aztechi lo stesso concetto di sacro è strettamente connesso all'idea dell'efficienza: lo studioso danese A. Hvidtfeldt (1958) nota che il termine azteco teotl, che ritroviamo nella gran parte dei nomi composti delle divinità, non significava originariamente 'dio', ma 'sacro', nel senso però di 'efficace'. In altri termini, la sacralità e l'apparato sacrale in genere nascevano per rendere 'efficiente' l'universo.
La stessa pratica dei sacrifici umani, che tanto colpì (negativamente) l'immaginario dei conquistadores europei, deve essere considerata alla luce di questo concetto. Il terrore della civiltà azteca, infatti, era quello che il sole potesse perdere il suo potere, il suo vigore e la sua forza generatrice, e questa preoccupazione non era remota, perché, nella loro concezione, una simile catastrofe non solo poteva avvenire al principio di ogni ciclo di 52 anni del loro computo (costituito da un anno di 18 mesi e 360 giorni), ma anche ogni anno, nel giorno '4° moto rotatorio', quando, secondo la profezia, l'età in corso nel mondo sarebbe stata distrutta, come era accaduto alle quattro precedenti (Krickeberg 1966, p. 71); allora il sole avrebbe interrotto il suo corso. Per cercare di scongiurare questa eventualità c'era bisogno di 'nutrire' il sole con il sangue umano e il sacrificio del cuore, offerto ancora palpitante alla divinità. L'apparato e il sacrificio sacrali avevano perciò lo scopo di garantire l''efficienza' dell'intero sistema cosmologico. Molte delle immagini che costituiscono il patrimonio figurativo degli Aztechi hanno il fine di supportare l'intero apparato del sacro, come per es. la figura di Chac-Mool a Tula, che rappresenta un uomo disteso a terra con il busto sollevato e le gambe piegate, mentre volta la testa di lato. La sua funzione è quella di accogliere sul piatto ventre di pietra i cuori appena estratti dal torace squarciato delle vittime. Nonostante l'aspetto macabro, perciò, la figura umana costituiva l'elemento centrale della costruzione sacrale e artistica degli Aztechi. Sarà bene in questo senso ricordare la pratica di esporre nella grande piazza di Tenochtitlán, sopra un'enorme rastrelliera, le teste recise delle vittime; alcune venivano conservate e i crani ornati di pietre dure che ne facevano un'autentica opera d'arte, come il cranio ricoperto di un mosaico di turchesi che oggi si conserva al British Museum di Londra.
L'uomo, insomma, era il nutrimento dell'intero universo e per questo gli Aztechi sacrificavano anche alle divinità della terra e della vegetazione, generalmente scorticando le vittime. Anzi, questa pratica venne stigmatizzata nella rappresentazione delle statuette del dio Xipe Totec, letteralmente 'nostro signore lo scorticato', divinità della rinascita e della primavera, originaria delle coste messicane del Pacifico, che entrò a far parte del pantheon azteco nel 15° secolo. La statua della divinità, di cui esistono anche maschere, mostra un fanciullo con la bocca aperta e gli occhi tirati che ha dei nastri sulla schiena. Realizzata in modo molto naturalistico (a differenza delle maschere), la statua rappresenta il macabro uso di rivestirsi con la pelle della vittima scuoiata. Il significato era, ovviamente, quello di cambiare pelle e quindi di rinascere. Nel secondo mese dell'anno azteco, infatti, i sacerdoti sfilavano con indosso la pelle degli ultimi sacrificati. La pelle mostrava ancora le mani penzolanti, mentre quella delle gambe veniva recisa. La nuova pelle veniva indossata a rovescio, cioè con la parte interna esposta all'esterno. Infine, vale la pena di rammentare che presso gli Aztechi, come del resto per tutti i popoli mesoamericani, la nudità totale aveva un valore negativo, nonostante l'uso di vestirsi con un semplice perizoma e un mantello. Le punizioni di poco conto, infatti, consistevano nel denudare il reo e pungerlo con delle spine di agave. Anche i bambini venivano puniti in questo modo: dopo essere stati completamente denudati, venivano esposti al fuoco affinché il fumo provocato da una catasta umida impedisse loro di respirare.
Molti sono i punti di contatto fra la cultura azteca in senso lato (intendendo per tale anche quella olmeca, tolteca e chichimeca) e quella dei Maya, il cui dominio, caratterizzato da alterne vicende, ebbe il suo periodo aureo fra il 317 e il 900 d.C., detto per questo classico. Basterà, in questo senso, confrontare la figura di Chac-Mool a Tula con quella che campeggia al limitare della piattaforma del Tempio dei Guerrieri a Chichén Itzá per renderci conto che si tratta della medesima divinità (della pioggia) che assolve l'identica funzione sacrificale. Con la scoperta del ciclo di pitture murali di Bonampak nel 1944 si è definitivamente accertato che anche i Maya erano dediti ai sacrifici umani per ragioni cosmologiche sostanzialmente identiche a quelle degli Aztechi. Quel che cambia, semmai, è il modo di rappresentare le figure, meno geometrizzato e più attento agli aspetti naturalistici dell'immagine umana.
Occorre precisare che certi aspetti fisionomici che potrebbero sembrare frutto di stilizzazione sono invece l'attenta riproduzione di usi e costumi maya. Mi riferisco al profilo dalla fronte schiacciata, caratteristico delle figure di questa complessa civiltà, che si fa particolarmente evidente in opere come il rilievo proveniente da Yaxchilán. Lungi dall'essere una fantasiosa invenzione dell'artista, il profilo schiacciato rifletteva l'uso maya di modificarsi il cranio schiacciandolo in ossequio a un canone estetico e alla volontà di creare una migliore base d'appoggio per portare i pesi. Allo stesso modo, lo strabismo presente in molte maschere maya, come quella che rappresenta la divinità solare conservata presso il Museo Nacional de Antropología di Città di Messico, rifletteva un altro canone di bellezza. È noto, infatti, che le cure amorevoli delle madri nei confronti dei piccoli le spingevano a sospendere una pallina sulla fronte delle loro creature all'altezza degli occhi in modo da provocarne lo strabismo.
Anche la civiltà maya, come quella azteca, utilizzava maschere funerarie in giada verde, considerata simbolo di vita e d'immortalità. Esemplare, in questo senso, una maschera regale conservata nel Museo Nacional de Antropología di Città di Messico, che ha gli occhi e i denti in ossidiana. Questi ultimi hanno la forma a T, tipica della divinità del giaguaro e considerata ulteriore segno d'immortalità.
La capacità artistica dei Maya nella resa fisionomica è ampiamente dimostrata dalle teste in stucco a grandezza naturale provenienti dalla cripta di Palenque (Museo Nacional de Antropología di Città di Messico), che probabilmente rappresentano altrettanti ritratti regali. A fronte di una così spiccata capacità di resa naturalistica, presente anche in opere secondarie, come la figurina fittile di sacerdote conservata al Museo Pigorini di Roma, non abbiamo notizia di metodi sistematici per la rappresentazione della figura umana. Questa pare invece piuttosto libera e basata sull'abilità di rendere intuitivamente il senso dello scorcio, come mostra chiaramente la grande pittura murale della seconda stanza del già ricordato complesso templare di Bonampak, dove il sovrano, attorniato dai nobili, sta per decidere della sorte dei prigionieri, rappresentati quasi completamente nudi e distesi sulla scalinata. Infine, vale la pena citare la figuretta fittile di un gobbo proveniente dalla città messicana di Colima e oggi conservata presso il Museo Nacional de Antropología di Città di Messico, che mostra ancora una volta la capacità di resa naturalistica lontana da qualsiasi idealizzazione dell'immagine umana.
Se è vero che l'impero degli Inca finì per attrarre nell'ambito della sua influenza la gran parte delle culture fiorite nell'America meridionale, non escluse quelle amazzoniche, è altrettanto vero che il loro dominio si sovrappose alle culture andine preesistenti. Il periodo che vede la nascita e la massima espansione della civiltà inca, infatti, va posto dal 1100 d.C., anno in cui il leggendario Manco Capac, primo imperatore inca, avrebbe fondato la città di Cuzco, fino al 1498, quando Huyana Capac conquista quella che oggi è la Columbia e completa la strada che attraversa le Ande, lunga 5200 km. A questa data, infatti, tutta la Cordigliera, dall'attuale Cile al Perù, alla Bolivia, all'Ecuador, alla Columbia, era sotto la dominazione inca.
Pochissimo si sa, però, delle civiltà che precedettero l'impero degli Inca, anche perché, come è stato sottolineato dalla gran parte degli studiosi (per es. von Hagen 1962), i conquistatori autoctoni avevano tutto l'interesse ad accreditare l'ipotesi che loro fossero i soli e unici portatori di civiltà, quando invece avevano assorbito usi e costumi di culture progredite come quella dei Nazco o dei Tiahuanaco. Sono rimaste testimonianze figurative di culture, come quella ancora non troppo evoluta sviluppatasi agli inizi del 1° millennio d.C. nella penisola di Paracas (da cui prende il nome), nel Perù centrale: vale la pena di ricordare le piatte figurette fittili femminili, come quella conservata presso l'University Museum of Archaeology and Ethnology di Cambridge (Massachusetts), che mostra una singolarissima stilizzazione del volto, ridotto a un rettangolo, e dei capelli che lo sormontano come una torre. Molti degli usi di culture precedenti, come quella chimú, entrarono a far parte della civiltà inca, e per questo non si può parlare di arte inca vera e propria. Ne è un esempio la maschera funeraria d'oro rinvenuta nel sarcofago di un sovrano peruviano appartenente all'impero chimú, conquistato dagli Inca nel 1466. Databile fra il 12° e il 15° sec., la maschera in lamina d'oro ha tracce di tinta rossa che dovevano forse mimare il sangue spalmato sul volto degli idoli nelle cerimonie sacrificali. La stilizzazione è fortemente geometrizzata e si avvicina ai modi della ricordata cultura Paracas e alla rigidità di certe maschere funerarie dei Nazca, pure realizzate in oro. La tendenza a geometrizzare e semplificare irrigidendo la figura umana, d'altra parte, appartiene un po' a tutta quest'area geografica e certo trova un chiaro esempio in un altro capolavoro dell'arte chimú: la serie dei coltelli sacrificali conservati a Berlino. Incrostati di turchesi, questi manufatti in oro dalla caratteristica lama di pietra a fungo rovesciato venivano utilizzati per sacrifici umani (più rari nell'area incaica) o per immolare i lama, l'unico animale da traino noto in quell'area geografica prima dell'arrivo degli europei. Il manico è realizzato con estrema maestria e mostra le figure di semidei lavorati in oro, appunto, e ornati da turchesi. In tutti si può notare un'accentuata stilizzazione geometrica che deforma le proporzioni dell'immagine umana, riducendola quasi a un modulo rettangolare. Anche le coppe intarsiate provenienti da Cuzco, il cuore dell'impero inca, e conservate nel museo locale (Museo Arqueológico) dimostrano come l'immagine della testa umana si prestasse assai bene a essere ridotta e stilizzata in modo da costituire il vaso stesso del recipiente. L'esiguità dei dati a disposizione non consente di comprendere il perché di simili stilizzazioni. Non si deve dimenticare peraltro che, a differenza di quanto avviene per la civiltà maya, per quella inca mancano completamente testimonianze scritte.
La scelta di riservare all'Africa l'ultima parte di questa trattazione sul modo di rappresentare la figura umana nelle culture extraeuropee, ha un po' il sapore del ritorno al punto di partenza, visto che abbiamo preso le mosse dall'arte egiziana, per seguire un percorso circolare che ha portato a esaminare i vari aspetti della raffigurazione dell'immagine dell'uomo prima nell'antico continente asiatico, poi in quello australiano, successivamente in quello americano, giungendo finalmente all'immensa area geografica africana. Nel trattare di quest'area, talmente vasta da ospitare culture diversisssime le une dalle altre, non si prenderà in considerazione la fascia delle culture che si affacciano sul Mediterraneo, se non per gli aspetti più antichi delle pitture rupestri, visto che tutte appartengono al mondo islamico dove, come si è visto, l'immagine dell'uomo riveste un ruolo marginale nell'economia dell'espressione artistica; non si riparlerà altresì dell'Egitto, anche perché il fenomeno culturale egiziano esula completamente dal contesto africano, essendo proiettato verso le civiltà asiatiche e occidentali come la Grecia, sebbene contatti ci siano stati sicuramente, soprattutto con l'area sudanese. Non saranno trattate infine le culture cuscitiche del Corno d'Africa perché, assorbite da quella etiopica, esse hanno un profondo carattere cristiano che condiziona l'arte del luogo, rendendola assai vicina alla visione culturale e religiosa europea. Pertanto, ci occuperemo sostanzialmente delle culture sudanese e guineana, collocate nell'area meridionale dell'Africa orientale che si affaccia sull'Atlantico, nonché della cultura bantu, che si estende in tutta l'area centromeridionale del continente, e delle pitture rupestri dei Boscimani.
La comparsa della figura umana nel panorama artistico delle pitture rupestri dell'Africa settentrionale appartiene a una fase più tarda di quella che vede il fiorire della grande arte naturalistica nel Nord Sahara. La cronologia è però incerta, anche se questa nuova fase può essere datata intorno ai 6000 anni fa. Quel che sorprende è il tipo di stilizzazione delle figure scoperte da H. Lhote (1958) presso Tassili, in Algeria. Si tratta, infatti, di immagini dalla testa perfettamente rotonda, realizzate in ocra rossa, che non hanno riscontro in altre culture; questa singolare caratteristica ha anzi provocato la nascita di epiteti tanto errati quanto efficaci nel designare figure come il cosiddetto 'dio marziano' di Giabbaren, la cui testa praticamente globulare non ha alcuno dei tratti umani tipici della disposizione occhi-naso-bocca, ma una sorta di 'occhio' circolare al centro che, nel rincorrersi delle similitudini, potrebbe icasticamente rimandare al ciclope. Non esistono spiegazioni plausibili per una simile stilizzazione che, però, ha dato il nome a tutto il periodo, denominato dagli studiosi delle 'teste rotonde'; esso ha la sua espressione monumentale nel grande pannello dipinto di Sefar, che mostra al centro una grande figura bianca e dovremmo dire trasparente, con le braccia allargate, le gambe divaricate che lasciano vedere il sesso maschile, una sorta di copricapo cornuto e nessun tratto umano nel volto. Convenzionalmente indicato come il 'dio di Sefar', l'essere bianco sembra visto da dietro; è circondato da animali e da esseri in tutto simili al 'dio marziano' di Giabbaren. Indubbiamente, però, si tratta del modo più originale d'interpretare la figura umana. Ben diverse sono le pitture rupestri dell'Africa australe, che per vivacità e dinamismo ricordano quelle neolitiche del Levante spagnolo o quelle assai più recenti della cultura boscimane. Ne è un chiaro esempio la Donna in corsa proveniente da Ndema Gorge, oggi al Southafrican Museum di Città del Capo.
Il primo punto da chiarire prima d'intraprendere una disamina necessariamente sommaria della rappresentazione della figura umana nelle culture africane è che, a differenza di quel che normalmente si è soliti pensare, ci si trova dinanzi a una gamma vastissima di espressioni artistiche, prodotte da culture eterogenee, molto diverse fra loro per complessità e livello, talora tali da poter essere considerate delle vere e proprie civiltà. Risultato di una storia tutt'altro che lineare, la civiltà africana ha visto avvicendarsi, anche nella fascia sudsahariana, imperi (come quello del Mali) e regni (come quello del Ghana fiorito nell'8° secolo d.C.) che per raffinatezza e opulenza poco avevano da invidiare a quelli europei. Tuttavia, l'espansione islamica prima e le vicende coloniali assai più tardi, nonché l'assoluta penuria di testimonianze scritte e di materiali (gli oggetti di uso comune venivano prodotti generalmente in legno e quindi erano altamente deperibili), permettono di risalire assai faticosamente indietro nel tempo, sicché ‒ nella gran parte dei casi ‒ è come se, spiega V. Grottanelli (1987), si volesse fare la storia dell'arte europea partendo da Canova o giù di lì. Alla luce di queste considerazioni, si è preferito esaminare il materiale a disposizione secondo l'area di appartenenza, adottando un criterio espositivo di tipo geografico piuttosto che cronologico, sembrandoci esso più funzionale per l'illustrazione e la comprensione di un mondo che risulta essere lontano oggi come ieri. Dalle cosiddette civiltà progredite l'Africa sudshariana veniva infatti indistintamente indicata come 'nera': così i romani e così pure gli arabi, che chiamarono quest'area bilab-al-Sudan, ovvero 'paese dei neri'.
L'area geografica sudanese consiste in quell'ampia fascia di steppe e savane che, al di sotto del deserto del Sahara e al di sopra delle foreste tropicali della Guinea, si estende dalle coste del Mar Rosso fino a quelle del Senegal. Nonostante la ragguardevole estensione, però, tutta l'area orientale di questa zona, ovvero quella che, grosso modo, corrisponde agli attuali Sudan e Ciad, non presenta etnie che offrano una produzione figurativa di rilievo artistico. La causa va probabilmente rintracciata (Grottanelli 1987) nella precoce diffusione della religiosità islamica, inseritasi su un disinteresse per l'espressione artistica già endemico in queste culture tutte dedite alla pastorizia e all'agricoltura.
Una singolare eccezione è costituita dalla tribù dei Nuba, stanziati nell'attuale Kordofan, provincia dello Stato del Sudan, sulle colline che guardano il corso del Nilo Bianco. Organizzati in tribù e residenti in villaggi di capanne, i Nuba hanno mantenuto l'uso di esibire la completa nudità, esaltata ‒ e questa è la loro forma d'arte ‒ dall'applicazione di pitture, per gli uomini, e dalla scarificazione (rilievi permanenti sulla pelle, prodotti artificialmente) per le donne. Studiati da J.C. Faris (1972), i Nuba, almeno allo stato attuale delle conoscenze, sembra che facciano del proprio corpo l'unica vera opera d'arte della loro cultura. Non si sono riscontrati significati simbolici reconditi nelle loro decorazioni, ma solo l'espressione del desiderio di rendere più attraente il loro corpo. è da notare, però, che questo vale per il presente, ma non si è in grado di sapere se tali decorazioni abbiano avuto significati profondi in altre epoche. è indicativo, infatti, che quelle eseguite sul corpo femminile seguano tre fasi distinte, che corrispondono all'evoluzione della condizione femminile: prima della pubertà, a pubertà incipiente, dopo il primo figlio. In ogni modo, presso i Nuba non troviamo né scultura mobiliare, né maschere, tanto diffuse in Africa, né altro tipo di espressione artistica che non sia legata alla decorazione del corpo.
La prima cultura, andando da Oriente a Occidente, che invece si preoccupa di rappresentare l'immagine umana è quella attestata dal complesso archeologico del Sao, geograficamente collocato nell'area limitrofa al lago Ciad. Non si tratta di una cultura attuale (la zona è oggi occupata dai Kotoko), ma di insediamenti databili intorno al 6° secolo a.C., il cui sviluppo cronologico, diviso in due fasi (Sao I e Sao II), giunge però fino a tutto il 16° secolo d.C. Studiata dai coniugi Lebeuf (1977), la cultura di Sao (termine che in lingua locale significa 'gli uomini di un tempo') ha il suo centro più importante nel cosiddetto 'santuario' di Tago, dal quale sono emerse le statuine fittili che, probabilmente, sono da connettere con il culto degli antenati. Alte fin oltre 30 cm, sono piuttosto tozze e di rozza fattura, anche se estremamente suggestive (Parigi, Musée de l'Homme). Particolarissimo è il tipo di stilizzazione adottato per le teste, rappresentate forse con maschere dagli occhi a taglio e bocche sporgenti, talora decorate con sottili incisioni.
Nella grande area circoscritta dall'ansa del fiume Niger troviamo invece una cultura più recente, anche se d'incerta datazione nel suo sviluppo storico, quella dei Dogon. Permeata da un profondo simbolismo sessuale che considera coesistenti in ogni individuo il pensiero maschile e quello femminile, indipendentemente dal sesso di appartenenza (in particolare l'elemento femminile dell'uomo è identificato nel prepuzio e quello maschile della donna nel clitoride), l'arte dei Dogon tiene conto di questa concezione del mondo (che ha poi riflessi anche nelle cerimonie d'iniziazione), dando vita a figurine di tipo ermafrodita caratterizzate da un'evidente stilizzazione verticale (De Rachewiltz 1959). Ne troviamo un bell'esempio nelle figurette conservate a Dallas, i cui duri tratti del volto mal si conciliano con la presenza di seni femminili. D'altra parte, la presenza delle figure maschili e femminili sulle belle e complesse serrature lignee conservate al Museo Pigorini di Roma non fanno altro che ribadire il concetto di un'umanità sessualmente differenziata solo in apparenza.
Ancora più a occidente, verso le fonti del fiume Niger, vi è un altro insediamento di grande interesse fra quelli dell'area sudanese: quello dei Bambara. Considerati dalle genti islamiche, come del resto i Dogon, degli infedeli (bambara vuol dire 'miscredenti'), i Bambara hanno mantenuto integre le loro tradizioni connesse a un'economia di carattere agricolo. I loro prodotti artistici più importanti sono costituiti dalle maschere per riti agrari e iniziatici. Prima vassalli e poi avversari dell'impero del Mali, di cui causarono il crollo nel 1670 dando vita a due regni minori (Soninke e Mandingo), rimasti indipendenti per due secoli fino alla dominazione francese, i Bambara hanno nella gazzella il loro più importante animale simbolico (vorremmo dire totemico), in funzione del quale realizzano maschere di grande eleganza (ci wara è il nome di quelle con aspetto zoomorfico), molto apprezzate dagli europei. L'importanza della gazzella, però, è tale che non di rado le maschere antropomorfe per i riti d'iniziazione dei giovani (ndomo o ntomo) sono combinate con elementi zoomorfi, quali appunto le corna della gazzella, che possono arrivare fino al numero di dieci. Ne abbiamo un bell'esempio in una maschera conservata al Museu de Etnologia di Lisbona, che conta sette corna di antilope e un'elegante decorazione di conchiglie. Da notare, fra i Bambara, la tendenza all'allungamento non soltanto nella rappresentazione della figura umana, ma anche di alcuni tratti, come appare evidente, nel caso della maschera di Lisbona, dal naso esageratamente allungato in senso verticale.
Assai più varia e complessa è la situazione nell'area delle foreste della Guinea (denominazione, questa, intesa anche qui in senso geografico), che si estendono dalle coste meridionali dell'Atlantico lungo tutte le sponde settentrionali del Golfo di Guinea fino all'attuale Camerun, dove si incontrano culture diverse, appartenenti al ceppo linguistico dei Bantu. L'area della Guinea è particolarmente ricca di culture e civiltà diversissime, distanti nello spazio e nel tempo, anche se tutte, in un modo o nell'altro, correlate fra loro. Escluse le manifestazioni artistiche dei Bidyogo, che dipingono ometti stilizzati (talora con la testa di toro) sull'esterno delle capanne delle isole Bissagos, la prima cultura importante, dal nostro punto di vista, che incontriamo in questo secondo percorso (stavolta da Occidente verso Oriente), è quella dei Nalu e dei Baga, insediati lungo il corso del Gambia, fra la Guinea e il Senegal. Il nostro interesse si appunta su un particolare tipo di maschera (il termine è però improprio), detta nimba, connessa al culto della fecondità e nata probabilmente per proteggere le madri, tanto che qualche studioso ha ipotizzato che il culto possa esser connesso con l'ideogramma egiziano mwt, rappresentato da un volatile e che significa 'madre' (De Rachewiltz 1959). In genere, infatti, i nimba, come per es. quello conservato al Museu de Etnologia di Lisbona, combinano teste aviformi con tratti antropomorfi femminili legati al volto e al corpo (le mammelle). Si tratta di grossi manufatti in legno, pesanti fra i 60 e i 70 kg, che venivano portati a spalla dai cerimonieri. In questo senso i nimba non sono maschere nel senso classico del termine.
L'associazione fra elementi aviformi e la figura femminile (vale la pena, peraltro, di rammentare che il pittogramma sumerico mud che indica la madre è costituito da un uccello in cova con l'uovo vicino) si ritrova anche presso un'altra cultura dell'area guineiana: i Senufo della Costa d'Avorio, la cui cultura a settentrione interferisce pure con la zona sudanese. Quel che qui interessa sottolineare è il profondo legame simbolico fra l'uccello kono (il nostro calao o bucero) e la figura femminile, dovuto alla relazione con le mitologie cosmogoniche di queste genti. Non è raro vedere lo stilizzato uccello kono fungere da elegante acconciatura sulle statuine femminili dei Senufo, caratterizzate dalla presenza di turgidi seni e dall'ombelico sporgente. Forme assai più arrotondate ha invece la statuina conservata a Lisbona (Museu de Etnologia), volutamente ricordata a dimostrare una varietà stilistica che talora si tende a dimenticare e che invece, al pari delle culture cosiddette evolute, è da riferire ai diversi, sebbene anonimi, artisti. L'area che potremmo definire della 'civiltà delle maschere' è però propriamente quella a cavallo della Liberia e della Costa d'Avorio, occupata dai Dan, la cui produzione scultorea è quasi esclusivamente imperniata appunto sulle maschere, caratterizzate non solo dal rispetto delle proporzioni del volto umano e da tratti in genere delicati, ma anche dall'andamento convesso dell'intera scultura. Elemento centrale della vita tribale, la maschera era infatti realizzata in funzione dell'impiego cui veniva destinata ed era strumento indispensabile alla riuscita e all'efficacia della cerimonia. Da un punto di vista puramente estetico, a una valutazione 'occidentale', le maschere dan possono considerarsi le più belle del continente africano, tanto è vero che unanimamente si applica loro la definizione di 'classiche'.
Ben diversi sono gli esiti formali raggiunti dai vicini Ghere, siti a sudest dei Dan. Le loro maschere, a linearità convessa, giungono quasi a smontare l'armonica struttura maxillo-facciale, praticando nel blocco ligneo con cui è realizzata la maschera profonde e incongrue fenditure che deformano completamente la fisionomia, ma che costituiscono indubbiamente un tentativo estremo e suggestivo d'interpretare il volto umano.
Assai più equilibrati nelle loro espressioni artistiche sono invece i Guro, a nord dei Ghere, che usano la figura umana (come del resto fanno i Senufo) per ornare oggetti d'uso comune. Le forme sono proporzionate e contenute, come mostra un rocchetto per tessitura conservato a Lisbona (Museu de Etnologia): concluso da una raffinata testina umana scolpita in legno, esso acquista così l'aspetto di un piccolo busto femminile. Un'altra puleggia lignea, conservata anch'essa nel Museu de Etnologia di Lisbona, di produzione baulé, permette di confrontare l'arte di questa popolazione con quella dei Guro, ai quali, secondo alcuni studiosi, i Baulé, raffinati scultori appartenenti all'area etnico-linguistica degli Akan e non più dei Dan, sarebbero debitori della loro estrema perizia. I Baulé vantano una produzione di oggetti di vario tipo, che vanno dalle maschere, come per es. quella del Museum für Völkerkunde di Francoforte, che rappresenta un uomo-elefante, alle statuine lignee alte non più di 40 cm che si pensava raffigurassero antenati. Uno studio di S.M. Vogel (1972) ha invece dimostrato che statuette del genere (esposte anch'esse a Francoforte) rappresenterebbero spiriti della natura ostili all'uomo. In ogni modo, le statuine baulé si caratterizzano per la raffinata capacità naturalistica nella resa delle acconciature e per la capacità di rendere motivo ornamentale la riproduzione dei segni di scarificazione sulla pelle.
Appartenenti alla stessa area sono le statuine propiziatorie per il parto degli Ashanti (akua-ba), realizzate in legno per favorire la fecondità; è interessante notare che, se si desiderava un maschio, allora la testa assumeva la forma geometrica di un quadrato; se invece, come nel caso della statuetta conservata al British Museum di Londra, si desiderava una femmina, allora la testa diveniva rotonda. Con la cultura degli Yoruba (che contano circa 11 milioni d'individui) entriamo nel territorio nigeriano. Gli Yoruba si considerano eredi delle nobili civiltà di Ife e di Benin; genti dalla complessa mitologia, hanno una raffinata produzione scultorea dove la figura umana viene impiegata anche per la decorazione, dalle sconosciute pregnanze simboliche, di strumenti rituali in bronzo come gli edan, talora caratterizzati dalla presenza di teste collocate ognuna all'estremità dell'asta che fungeva da manico.
La produzione figurativa nigeriana è fra quelle di grande tradizione storica nel continente africano: basterà ricordare i tre celebri centri stilistici di Nok, Ife e Benin, che costituiscono un percorso cronologico oltre che stilistico. L'insediamento di Nok, scoperto nel 1944 dall'archeologo inglese B. Fagg, si sviluppò dal 4° secolo a.C. fino al 2° d.C. Le terrecotte prodotte in questo periodo costituiscono uno degli esempi più antichi di arte africana; rappresentano teste (come quella del National Museum di Lagos) dall'arditissima e affascinante stilizzazione, che raggiunge risultati di grande espressività. Il canone stilistico, se così si può dire, è piuttosto rigido e ripetitivo, caratterizzato dalla presenza di veri e propri fori praticati per la bocca, le narici e le pupille. Il loro vuoto contrasta piacevolmente con la compattezza dell'insieme, dove è stata quasi del tutto eliminata la sporgenza del naso. Grande clamore nel mondo archeologico fu provocato dalla scoperta nel 1910, da parte dell'etnologo tedesco L. Frobenius, delle splendide teste in terracotta e bronzo provenienti dal sito di Ife, che abbiamo già ricordato nella premessa iniziale. Gli studi successivi hanno consentito di datare queste opere fra l'11° e il 15° sec. d.C. Di alcune di esse (per es. quella del Museum of Mankind di Londra) si ritiene che rappresentino il leggendario dio del mare Olokun, mitico fondatore della civiltà umana secondo una visione che ritroviamo simile addirittura in ambito babilonese. Tuttavia, il mistero intorno alle teste di Ife permane, anche se i ritratti regali che esse rappresentano affascinano per la loro ineguagliabile bellezza. Si capisce bene allora perché gli Yoruba si considerino eredi di una tradizione figurativa che si fa concreta nelle ragguardevoli maschere di bronzo conservate al Museum für Völkerkunde di Francoforte e che appartengono appunto alla cultura yoruba. Anche la celebre città-stato di Benin, sita a circa 200 km da Ife, deriva idealmente la propria cultura figurativa da Ife. Poco sappiamo delle origini di Benin, che venne cinta di mura nel 1270 sotto il regno di Oba Oguola (oba significa 're') e che ebbe strette relazioni commerciali con il Portogallo, destando nel 1686 l'ammirazione del navigatore olandese Dapper; fu libera fino al 1897, quando cadde in mano inglese. Per apprezzare l'alto livello delle opere prodotte da questa civiltà, basterà considerare la testa bronzea raffigurante una regina madre o l'elegantissima maschera d'avorio, entrambe conservate a Londra. Appare chiarissimo che queste ultime manifestazioni artistiche, pur mantenendo intatte le caratteristiche culturali dell'arte africana, rappresentano canoni estetici più vicini a quelli europei, il che dimostra ancora una volta l'immensa varietà culturale del continente africano.
Con il termine bantu, che letteralmente significa 'uomini', come buona parte dei nomi dei popoli africani (anche i Sao sono gli 'uomini', mentre gli Zulu sono il 'popolo'), non si indica un'unica etnia, ma un coacervo di genti che occupano la gran parte del continente africano nella sua area centrale e meridionale. La parola, infatti, ha una valenza etnico-linguistica, in quanto il comune denominatore di questi popoli è costituito da lingue che procedono con il sistema dei prefissi, indicanti genere, numero e classe delle parole. Così, il prefisso ba o bu indica la moltitudine degli individui e se ba-Luba vuol dire 'gente di Luba', con riferimento al mitico capo Luba, bu-Shongo significa 'popolo di shongo', che è un coltello da lancio. Il prefisso mo o mu, invece, si antepone a un termine quando si vuole indicare il singolo individuo: se i ba-ntu sono gli 'uomini', mu-ntu vuol dire 'uomo'. Il prefisso ci, poi, indica la lingua di quell'etnia sicché, per es., il popolo di Luba parlerà il ci-Luba. Ma, in realtà, il termine bantu può essere considerato un nome collettivo che indica etnie diverse, rese affini da caratteri razziali (il ceppo negroide) e linguistiche, anche se altamente differenziate per storia, cultura, usi e costumi. Senza addentrarci in sottoclassificazioni come quella di J.H. Greenberg (1949-50), che appunto su base linguistica indica le popolazioni della Nigeria sudorientale come 'semibantu', possiamo però ragionevolmente affermare che la cultura bantu è un mosaico di genti, spesso organizzate in piccole signorie, che poi la fase coloniale europea ha compattato in realtà politiche artificiali. Per questi popoli non si può quindi certo parlare di un'arte nazionale o di espressioni artistiche omogenee, giacché ognuna di esse ha caratteri propri, inconfondibili e talora contrastanti, come la scelta delle genti rega (warega) di prediligere il cosiddetto 'stile concavo' nella realizzazione dei volti umani, mentre i baLuba preferiscono quello detto 'stile convesso'.
La 'catalogazione' delle maschere africane teorizzata da H. Lavachery negli anni Trenta, cui si è accennato (v. sopra: Premessa), è forse un po' schematica, ma risulta ancora utile per comprendere differenze formali che altrimenti potrebbero passare inosservate. La distinzione in 'stile concavo' e 'stile convesso' evidenzia infatti i due modi diversi in cui la cultura artistica africana interpreta l'eminenza plastica della testa. Le genti, come i Rega, che fanno proprio quello che, con una certa artificiosità, gli studiosi chiamano 'stile concavo', scavano il blocco ligneo nel quale si scolpisce il massiccio facciale in modo che occhi, naso e bocca siano eminenze plastiche 'risparmiate' dall'intaglio: esemplari, in questo senso, statuine in avorio e legno conservate a New York, appartenenti alla cultura rega, sita nell'area del Ruvenzori, fra il corso dello Zaire e la zona dei grandi laghi del Congo. Al contrario, lo 'stile convesso' dei baLuba considera il volto come un volume compatto sul quale si 'applicano' le eminenze plastiche degli occhi, del naso e della bocca, come si può ben apprezzare in opere di scultura mobiliare, quali per es. una statuetta lignea che mostra una figura femminile seduta accanto a un recipiente, conservata nel museo di Tervuren in Belgio e proveniente dall'area del Katanga. Sono sufficienti questi due esempi per fornire un'indicazione preziosa: la cultura bantu artisticamente più vivace e attiva si sviluppa intorno all'area del fiume Zaire (o Congo), dalle coste fin nell'interno.
Questo, grosso modo, è quindi il percorso che ora ci accingeremo a compiere nel tentativo di descrivere per sommi capi in qual modo le genti bantu rappresentino e utilizzino la figura umana nella loro produzione artistica. L'area corrispondente all'attuale Camerun, soprattutto nella zona settentrionale, costituisce un punto di passaggio geografico ed etnico fra le culture delle savane, della Guinea e quelle bantu, giacché è qui che si trovano le etnie semibantu dei Bekom, dei Bamun, dei Bali, dei Bamessing e dei Babungo, per citare soltanto le più note. L'espressione artistica più rilevante ed elaborata di questi popoli, dal nostro punto di vista, è data dall'impiego della figura umana nella decorazione di sedili regali che assumono, talora, il piglio monumentale di veri e propri troni, come nel caso del trono bekom conservato a New York, caratterizzato dalla presenza della figura stessa del sovrano che funge da spalliera al sedile vero e proprio, sorretto da teste di bovidi. Realizzato a grandezza naturale, il re-spalliera ha un volto decisamente realistico, la cui veridicità è resa ancora più evidente dall'impiego di capigliatura e sopracciglia reali. La collana e lo scettro sono ornate di una miriade di perline bianche e azzurre che contrastano con il colore ligneo dell'insieme, ravvivandolo. L'anatomia del corpo è, invece, sommaria e denota la tendenza alla semplificazione e all'allungamento decorativo, come si riscontra anche in un seggio da parata conservato nel Museum für Völkerkunde di Francoforte sul Meno, tutto impostato sulla figura umana a gambe divaricate e piegate cui corrispondono le braccia allargate e piegate verso l'alto, che riducono l'immagine a una sorta di 'forchetta alla Capogrossi', elemento ornamentale e portante del manufatto. L'importanza della figura umana in queste culture, condizionate in qualche modo anche da una committenza regale (e quindi del potere centrale e costituito, come a Ife o Benin), è testimoniata altresì dalla produzione di pipe cefalomorfe, come quelle della collezione conservata nel medesimo museo. Realizzate il più delle volte in terracotta, questa pipe hanno il fornello a forma di testa umana sormontata da un'elaborata acconciatura; talora, le teste sono più d'una e s'incastrano l'un l'altra dando vita al fornello.
Proseguendo lungo la costa, nell'area dell'odierna Guinea equatoriale, troviamo nei Fang (la cui presenza è peraltro attestata anche nel Camerun e nel Gabon) la cultura artistica dominante. La loro produzione scultorea è legata soprattutto alle pratiche funerarie, dal momento che usano realizzare in legno statuine o teste di antenati che vengono poi collocate su contenitori cilindrici destinati ad accogliere le ossa del defunto, detti byeri. Nel caso si tratti di teste, l'assenza degli arti è stata interpretata dagli studiosi come espressione del desiderio d'impedire allo spirito di allontanarsi. Per le sproporzioni delle statuette, caratterizzate dalla testa grossa e dal corpo piccolo, nonché da una fisionomia bambinesca dovuta alla presenza della bozza frontale e ad altre peculiarità come il volto tondeggiante, alcuni studiosi hanno messo in evidenza come, nella concezione dei Fang, l'antenato defunto venga rappresentato come un neonato (Fernandez 1966): i neonati sono visti come esseri estremamente vicini agli antenati defunti, dai quali via via si allontanano percorrendo le tappe previste dal rituale della crescita, fino a raggiungere la condizione umana di adulto. È, questo, un raro caso di consapevole uso di determinati elementi stilistici legati a un'immagine dell'uomo derivata da una concezione pseudofilosofica e religiosa dell'esistenza. D'altra parte, in tutt'altra area, la ricordata setta ismaelita dei 'fedeli puri' vedeva proprio nel neonato l'essere di riferimento della loro complessa religiosità.
La problematica legata agli antenati, comunque, ha prodotto fra le culture bantu soluzioni artistiche per la rappresentazione del corpo umano completamente diverse l'una dall'altra, anche se ugualmente affascinanti. Assai vicina alla pratica dei Fang di ornare i 'reliquiari' delle ossa degli antenati con statuette lignee o teste degli antenati stessi, è quella dei Kota o (baKota) del Gabon, che, infatti, raccolgono i crani degli antenati in ceste a loro volta custodite in capanne apposite poste al di fuori del perimetro del villaggio. Su questi contenitori a cesto i Kota pongono delle statuine, alte circa 40 cm, che hanno la medesima funzione di quelle fang, anche se la loro forma è completamente differente, visto che il corpo è praticamente ridotto a una losanga geometrica e vuota al centro. Realizzate in legno, sono sempre ricoperte, come per es. quella del Museo Pigorini di Roma, di metallo (generalmente ottone e rame). La testa occupa la metà dello sviluppo in altezza, e su di essa, piatta e dalla forma ovoidale, sono appena accennati i tratti del volto, quasi sempre solo il naso e gli occhi. Gli studiosi hanno ipotizzato che la leggera concavità del volto sia da riferire a rappresentazioni di antenati di sesso femminile, mentre l'altrettanto leggera convessità dell'ovoide della faccia rimandi a un antenato di sesso maschile. In ogni modo, il mbulu ngulu, ossia l'immagine dello spirito del defunto', come viene chiamato questo tipo di statuetta dagli indigeni, ha un forte potere evocativo e di suggestione, che ha suggerito agli studiosi le ipotesi più diverse. Alcuni, infatti, l'hanno semplicemente considerata alla stregua di una maschera; altri l'hanno interpretata come una rappresentazione semplificata del corpo umano; altri ancora hanno visto nell'estrema semplificazione un modo per alludere al disfacimento del corpo dopo la morte. In tutti i casi, si tratta di una singolarissima modalità di sintetizzare le fattezze umane.
Il rapporto con il mondo dei defunti, così presente nelle società tribali, ha prodotto nella società mpongwe, una tribù del Gabon meridionale, la necessità di utilizzare per i propri rituali vigorose maschere femminili dipinte di bianco (il colore dei morti), indossate dai danzatori durante alcune cerimonie. Come ha notato B. De Rachewiltz (1959), queste maschere altro non sono che ritratti realizzati da artisti-stregoni per offrire una 'veste' corporea ai defunti. Si tratta di un fenomeno di 'vampirismo' rituale per il quale il defunto, grazie alla maschera che riproduce, a sua insaputa, i tratti di una donna, può appropriarsi momentaneamente delle sue fattezze. I caratteristici occhi 'a fessura' hanno lo scopo, anch'esso rituale, d'impedire al defunto di danneggiare chi porta la maschera durante la cerimonia.
Ancora rimanendo sulla costa, all'altezza dell'estuario dello Zaire, va segnalata la cultura woyo, che utilizza la figura umana come elemento ornamentale di oggetti destinati all'uso quotidiano, come coperchi lignei da cucina o pentole. La diversità rispetto ad altre culture che impiegano l'immagine dell'uomo per decorazione, risiede nel fatto che qui viene adombrato l'elemento narrativo, tanto che talora le scene rappresentano proverbi figurati. All'interno dell'area prospiciente il bacino del fiume Zaire troviamo altri stanziamenti umani come, a settentrione, quello dei Mangbetu, la cui espressività artistica risente anche della vicinanza del Sudan. Tuttavia, la caratteristica saliente delle figurette umane della cultura mangbetu è data dall'uso di stilizzare la testa in forma allungata verso l'alto, come mostra un bell'esempio di arpa lignea ridotta a immagine umana (Roma, Museo Pigorini). La testa, che conclude lo strumento musicale, è allungata verso l'alto: questa popolazione, infatti, usa modificare il profilo della scatola cranica, considerato canone di bellezza, in senso turriforme, non soltanto adottando complesse acconciature, ma anche fasciando il morbido cranio dei neonati, in modo da favorire lo sviluppo delle ossa in questo senso.
Dei Rega e dei baLuba, collocati nell'area prospiciente il lago Tanganica abbiamo già parlato, mentre, più a meridione, la cultura dei Songye (o Songe) mostra una produzione di maschere rituali che è senz'altro da considerarsi fra le più suggestive del territorio africano: la kifwebe, infatti, costituisce un singolarissimo modo di stilizzare il volto umano, in cui la bocca è ridotta a un quadrato, gli occhi a semplici fessure orizzontali e tutta la superficie è intagliata con incisioni parallele, ora curvilinee ora rettilinee, che la rendono praticamente inconfondibile nel panorama etnico africano. Interessante notare che, talora, maschere simili svolgono una funzione ornamentale anche sugli scudi.
L'area geografica sudoccidentale rispetto a quella occupata dai Songye è sede di varie culture disperse su un vasto territorio al confine fra Congo, Angola e Zambia, che sono state però influenzate dalla presenza del regno indigeno dei baKuba, identificabili con i baShongo, le 'genti del coltello'. Priva di testimonianze scritte, la fondazione del regno baKuba viene collocata in un'imprecisata epoca medievale, ed è confermata dalla tradizione orale dei Kuba, che narra il succedersi di oltre centoventi sovrani. Formato da diciassette tribù che si considerano pienamente baKuba, il regno ha avuto influenza su altre società bantu della zona, come per es. i baLuba e i Lulua. Quello dei baKuba è il terzo caso di produzione artistica direttamente legato alla 'classe' dominante, giacché buona parte della produzione della scultura mobiliare dipende dagli usi di 'corte' e in particolare dall'usanza introdotta da re Shamba Bolongongo, vissuto nel primo ventennio del 17° secolo, che pretese la realizzazione di statue lignee con la propria effigie, dei veri e propri ritratti che perpetuassero in eterno la sua immagine. Naturalmente, i sovrani che seguirono non ebbero difficoltà a far propria l'usanza e oggi di simili statue ne abbiamo diciassette, sparse nei musei di tutto il mondo. È particolarmente interessante il fatto che esse siano tutte esemplate, al di là delle differenze di fisionomia, sul modello di quella di re Shamba, conservata a Londra, in quanto probabilmente si riteneva che solo quel particolare modo di rappresentare la figura umana avrebbe garantito all'opera dignità regale. Le statue mostrano il sovrano seduto con una mano appoggiata sul ginocchio e l'altra che brandisce, il più delle volte, lo shongo, ossia il coltello da lancio. La datazione e l'identificazione di alcuni dei sovrani sono incerte.
All'abilità dei baKuba si devono anche oggetti di tipo rituale, come le coppe utilizzate per il cosiddetto 'giudizio di dio'; ovvero recipienti, antropocefali o antropomorfi, nei quali si usava mettere una pozione velenosa da far bere all'accusato. L'esito, quasi sempre letale, confermava la verità della colpa che così veniva, ovviamente, punita. Altri recipienti scolpiti in forma umana erano quelli utilizzati per la conservazione della tukula, una polvere rossa da spargere sul corpo a mo' d'unguento. Ne abbiamo un bell'esemplare conservato a Francoforte sul Meno (Museum für Völkerkunde), che ha l'aspetto di un nanerottolo le cui mani, come le braccia, spuntano direttamente, senza soluzione di continuità, dalle ginocchia piegate. Una forma assai simile a quella appena descritta è impiegata anche da un artista lulua per scolpire un singolare mortaio per tabacco conservato al Museo Pigorini di Roma. In entrambi i casi, al di là delle reciproche influenze formali, vale la pena di notare come forme consimili possano essere impiegate per oggetti dall'uso del tutto diverso e come l'immagine dell'uomo finisca per divenire elemento strutturale e ornamentale insieme per la realizzazione di manufatti di grande importanza sociale. Lo dimostra anche una bella ascia da guerra baLuba conservata nel medesimo Museo Pigorini, che presenta una raffinata testa femminile a fungere da raccordo fra il manico, sistemato al posto del collo, e la lama che esce dalla bocca. Da ricordare infine la produzione scultorea dei Ciokwe, che costituiscono la propagine situata all'estremo meridionale del mondo bantu artisticamente più attivo. Assoggettati per lungo tempo dal regno lunda, riuscirono ad abbatterlo nella seconda metà del secolo scorso.
Come si è visto, la massima parte delle espressioni artistiche africane è di carattere scultoreo, mezzo espressivo particolarmente congeniale alla sensibilità degli indigeni e, nello stesso tempo, adatto a sfruttare la materia prima di cui l'Africa subsahariana è ricca: il legno. Vistosa eccezione è costituita dalle pittura dei San, meglio noti con il nome olandese di 'uomini dei boschi', bosjeman, italianizzato in Boscimani. Differenti per razza (statura piccola e pelle giallastra) e cultura dal ceppo negro, i boscimani occupano l'immensa area dell'Africa australe, dove hanno lasciato testimonianze artistiche di grande interesse, rappresentate da mirabili pitture rupestri. Genti nomadi, dedite alla raccolta e alla caccia, i Boscimani hanno fatto di queste attività i soggetti privilegiati delle loro pitture nelle quali, ovviamente, un ruolo di rilievo hanno gli animali, dipinti con grande capacità di osservazione, riscontrabile, naturalmente, anche nella rappresentazione degli uomini o delle donne. Sebbene piuttosto stilizzate e con la testa smisuratamente piccola, le figurette femminili mostrano sempre la caratteristica steatopigia dei glutei che contraddistingue questa etnia. L'abilità artistica, però, si riscontra soprattutto nel dinamismo che acquistano le immagini maschili, realizzate con pochi tratti. Nei dipinti rupestri dei Boscimani, che furono riprodotti ad acquerello da G.W. Stow e D.F. Bleek (1930), è rilevante anche l'esagerazione dei tratti somatici nella rappresentazione di etnie diverse, come per es. quella di alcuni guerrieri bantu intenti ad attaccare gli arcieri boscimani. La pittura, riprodotta da Stow, mostra anche la differenza di dimensione fra i due gruppi, forse per segnalare la superiorità bantu e rendere epica la narrazione figurata.
Trarre delle conclusioni in una materia così complessa e articolata può essere pericoloso, perché necessariamente si deve ricorrere alla semplificazione. Tuttavia, assumendo una posizione distaccata in modo da comprendere con uno sguardo d'insieme l'intera problematica, possiamo sicuramente affermare che, nell'ambito delle civiltà extraeuropee, sono due soli i casi in cui sia stato sviluppato un sistema coerente per stabilire le proporzioni convenzionali della figura umana. Ci si riferisce, ovviamente, all'Egitto faraonico e all'India dei Gupta, a cui pure sembra possa spettare il merito di aver elaborato la più profonda riflessione filosofica sul corpo umano e sulla possibilità o meno di raffigurare la divinità in termini antropomorfi, possibilità che al contrario viene del tutto esclusa dalla religiosità islamica. In tutte le civiltà che abbiamo preso in considerazione, invece, abbiamo riscontrato la tendenza a utilizzare il corpo umano come elemento decorativo, a partire da strutture macroscopiche, quali il Tempio del Sole di Konarak, fino ai manufatti baLuba o alle stoffe ikat dell'Indonesia. La presenza della figura umana in questi contesti qualifica l'oggetto, nobilitandone la funzione, sia che si tratti di un tempio, appunto, o del mortaio per tabacco: l'immagine dell'uomo si pone come la chiave per accedere al mondo soprannaturale di cui, nello stesso tempo, l'antropizzazione degli oggetti rende più vicina la presenza, oltre a giustificare, in alcuni casi, la funzione degli oggetti stessi. Basterà, in questo senso, ricordare la scure shang conservata al British Museum di Londra che, mostrando sulla lama un volto terrificante, ne autorizza l'impiego, dal momento che quell'immagine tremenda dà all'oggetto una propria giustificazione morale. Infine, dobbiamo ricordare che nelle culture che utilizzano pittogrammi per scrivere (egizi, sumeri e cinesi) appare evidente il rapporto fra la parola scritta e il corpo: la rappresentazione del corpo umano va bene al di là della semplice raffigurazione imitativa, ma si colora di valori e significati che sono parte integrante della condizione umana.
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