Le culture popolari e l'impatto con le regioni
Culture popolari, l’impronta iniziale La storia che si cercherà di rappresentare ha i ritmi e i cambiamenti di scenario di un sessantennio della storia culturale italiana, ma se si vuole trovare un filo conduttore, un emblema di questo quadro di pratiche e pensieri, i versi di Andrea Zanzotto possono essere d’aiuto:
[...] io là vi collocai, fragili Italie
i cui minuti segmenti
avido sale stinse (“Atollo”, 1951).
Una poesia che nasce negli stessi anni dai quali comincia anche il nostro percorso. Negli anni Cinquanta del Novecento in Italia, nel contesto della particolare situazione sociale e politica che si era venuta creando, permeata dei fermenti intellettuali del postfascismo e della nuova Repubblica, la nozione di popolare in connessione con quella di cultura ebbe un particolare rilievo e credito. Un contributo assai importante in questo senso lo diedero i Quaderni del carcere (1948-51; ed. critica 1975) di Antonio Gramsci e il dibattito su di essi (che coinvolse in modo trasversale politici, critici letterari, poeti, scrittori, filosofi, storici e studiosi), in specie sulle pagine dedicate al folclore, ciò che allora si chiamava Storia delle tradizioni popolari e che negli anni Novanta prese il nome di Studi demoetnoantropologici (DEA). Demo indica gli studi di storia delle tradizioni popolari italiane, che Alberto Mario Cirese propose di chiamare demologici perché concernenti il popolo; etno si riferisce agli studi dei popoli extraeuropei, in specie di quelli legati a culture tradizionali e antropologia definisce gli studi generalisti sulle culture umane o sulla complessità del mondo contemporaneo.
Nell’intensità e nell’atmosfera di nuova fondazione che ebbero gli anni Cinquanta, agli studi sulla cultura popolare furono dedicate, benché con poche risorse, ricerche empiriche significative, promosse anche da istituzioni rilevanti (il Centro nazionale di studi sulla musica popolare dell’Accademia di Santa Cecilia, in collaborazione con la RAI) e da ricercatori che influenzarono e cambiarono il senso di quegli studi. Ernesto de Martino, Cirese, Diego Carpitella furono i più dinamici in quegli anni, dialogando a tutto campo con la cultura più accreditata e prevalentemente legata alla sinistra politica e ai movimenti della società civile.
Via via questi studi si attestarono anche come area disciplinare accademica, che continuò a interagire con i temi della società e della politica. Un certo grado di impegno sociale fu loro proprio: essi vedevano nel loro ‘oggetto di ricerca’ un soggetto che si emancipava e il cui processo di cambiamento gli studiosi condividevano. Una modalità resa emblematica da un passo di de Martino considerato spesso come un giuramento di Ippocrate in questo campo:
Ma io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un ‘compagno’, come un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che ritrovavo (Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, «Società», 1953, 9, 3).
E anche, in stile d’epoca assai marcato:
Altre volte, quando mi accadeva di partecipare alla loro vita migliore, alla fraterna giocondità dei conviti contadini, ravvivata e ingentilita da quella vena di poesia che assai spesso vi fiorisce in versi improvvisati, qualcuno mi diceva con orgoglio, vedendomi partecipe e a mio agio: dite, raccontate che noi cafoni non siamo poi delle bestie, e che quaggiù non c’è soltanto miseria. Essi vogliono entrare nella storia non soltanto nel senso di impadronirsi dello Stato e di diventare protagonisti della civiltà, ma anche nel senso che, fin da oggi, fin dal presente stato di indigenza, le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente nel grande sfacelo del quartiere rabatano, e di affogare senza orizzonte di memoria nel fango o nello sterco delle sue sordide giornate. Essi vogliono che queste giornate senza luce, vissute in tane immonde, che stanno di mezzo tra la tomba, la grotta e la stalla, siano notificate al mondo, acquistino carattere pubblico mediante il giornale, la radio, il libro, e formino così tradizione e storia (E. de Martino, Note lucane 1950, rist. in Furore simbolo valore, 1989, p. 179).
O anche, con le parole di Cirese:
nel corso dell’inchiesta sul campo è da porre particolare cura perché un grossolano e inconsapevole etnocentrismo non vizi i risultati sovrapponendo i quadri ideologici della ‘cultura osservante’ cui l’indagatore appartiene ai dati e ai fatti della ‘cultura osservata’ […] gli accorgimenti relativi al colloquio […] non servirebbero a gran cosa se l’impianto della ricerca non recasse in sé stesso le condizioni per stabilire un rapporto di reale comunicazione con gli uomini e le donne con cui si intende aprire il colloquio: non si può comunicare se non si è, o se non si diventa, ‘dei loro’, per contatto umano e soprattutto per prese di posizione ideologiche (Cirese 1973, p. 251).
Lungo gli anni Cinquanta, Cirese elaborava il tema dei ‘dislivelli di cultura’ in una dispensa dell’Università di Cagliari, ispirato anche dalle idee espresse da Gramsci sul folclore e sul suo ruolo nel comprendere le condizioni culturali delle classi subalterne e nel trasformarle in qualcosa che Gramsci chiamava cultura moderna popolare e di massa.
Lo studio della cultura delle classi subalterne (o popolari o anche non egemoniche), sottratto ai regionalismi e ai campanilismi o agli interclassismi risorgimentali, è stato per decenni sia un campo di studi sia un movimento intellettuale che, aprendosi ai temi della riproposta, della valorizzazione delle forme locali e dei performers locali di canti e musica, è entrato anche nel mondo dello spettacolo e della comunicazione (si pensi negli anni Sessanta agli spettacoli Bella ciao e Ci ragiono e canto e alla sinergia che mostrarono tra ricercatori, cantanti folk, musicisti, performers tradizionali, nonché al carattere innovativo che ebbero nella cultura elitaria). Parlare di culture popolari dunque ha questa cornice di riferimento e questo profilo di fondazione, che, pur nei mutamenti avvenuti, giunge fino al tempo delle regioni, e al presente, sempre in qualche modo dialogando sulle tematiche delle identità culturali e dei territori italiani.
Nell’ambito della ricerca universitaria, nel corso degli anni, il carattere di questo movimento intellettuale ed espressivo si affievolisce, a favore di problematiche diverse e di ambiti di confronto più generali legati anche agli studi internazionali. Anche sul piano disciplinare nel tempo va crescendo l’area specifica dell’antropologia culturale, che tuttavia in Italia si connette in buona parte alle eredità specifiche dei nostri studi. La cultura popolare, o le culture popolari, sono oggi ambito di studi plurali, che vanno dalla etnomusicologia (separatasi dalle discipline DEA) alla sociologia culturale, restando però tema centrale degli studi antropologici ‘italianistici’ in dialogo con quelli europeistici e relativi all’Occidente. Questi ultimi si occupano di differenze culturali sia legate al territorio sia legate alle generazioni, e ai processi di consumo e dell’abitare. Un nuovo impulso è venuto dal diffondersi del pensiero gramsciano in nuove e varie interpretazioni in America e in Asia, e dal nascere di un ambito internazionale di studi sulla subalternità che, tornando a influenzare l’Italia negli anni Duemila, ha riportato l’attenzione su temi da tempo rimasti in sordina.
Permane nella cultura italiana un insieme di associazioni di ricerca e valorizzazione di attività performative di musica, canto, danza, che a livello nazionale vedono nell’ARCI (Associazione Ricreativa e Culturale Italiana) il principale riferimento, ma anche associazioni di studiosi territorialistici non accademici, di archivi documentari privati o degli enti locali, ma soprattutto di musei (detti etnografici, o demoetnoantropologici, o del mondo contadino) che caratterizzano questo ambito ancora in forma di ‘movimento’. Il settore infine, come campo di intersezione tra la formazione universitaria e l’ambito pubblico del Ministero dei Beni culturali, ha avuto il riconoscimento di un profilo lavorativo nel Codice dei beni culturali del 2004 (d. legisl. 22 genn. 2004 nr. 42). Una legge molto discussa in base alla quale il patrimonio è solo materiale:
Articolo 2.
(Patrimonio culturale)
1. Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici.
2. Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà (art. 2).
In questo ambito l’interesse etnoantropologico è dichiarato ma è del tutto privo di contenuti e di concorsi reali. Il termine, senza il riferimento a ‘demo’, fu scelto dal Ministero per semplicità e non per intenzionale stravolgimento.
Gli anni Settanta – dopo la nascita delle regioni – vedono uno sviluppo degli studi e dell’uso sociale della cultura popolare, legati ai movimenti ereditati dagli anni Sessanta. Dalla cinematografia (Novecento, 1976, di Bernardo Bertolucci; L’albero degli zoccoli, 1978, di Ermanno Olmi), alla fotografia (Lello Mazzacane, Francesco Faeta), alla narrativa, alla pedagogia (Mario Lodi), alla memoria storica (La strada del Davai, 1966; Il mondo dei vinti, 1977, di Nuto Revelli), perfino nei media (un girone folk fu realizzato nella trasmissione canora “Canzonissima” nel 1974), al dibattito teorico, alla politica, il tema delle culture popolari, del carnevalesco e dell’inversione, del canto e della riproposta si connettono alla vita sociale collettiva, al femminismo, ai diritti (divorzio, aborto), restando segnati da tratti di carattere nazionale, o meglio dalla estensione negli ambiti locali dei temi di dibattito comune.
La cultura popolare viene valorizzata a vari livelli, in specie quello comunale, ma anche regionale e provinciale, ma senza caratteri identitari o rivendicazioni politiche e linguistiche. Così come le radio libere, il movimento per la chiusura degli ospedali psichiatrici, la memoria storica, in particolare legata a una rilettura della Resistenza, la storia orale della vita quotidiana, le lotte sociali vedevano connessioni e intersezioni anche con la vita universitaria e la formazione studentesca. In seguito ai cambiamenti in atto nella finanza locale dei comuni e alle prime disponibilità finanziarie delle regioni, cominciarono anche le domande di contributi agli enti locali e di riconoscimento formale alle istituzioni, con la crescente tendenza a considerare il campo delle culture popolari come una sfera di valorizzazione partecipativa, non solo conoscitiva e professionale: un esempio di attività culturale che nasceva dal basso e si manifestava nella sua differenza basandosi su forme di volontariato e competenze di attori locali. La sociologia e la psicologia vedono una crescita impetuosa di applicazioni pubbliche e private, mentre l’antropologia e il mondo delle discipline che in seguito si sarebbero dette DEA manifesta piuttosto una vocazione critica e politico-partecipativa. In questi anni, pur crescendo l’attenzione verso strumenti di valorizzazione ufficiale (schede ministeriali, festival e così via) il settore non si afferma pubblicamente, come invece avviene per il macrosettore ‘arte - archeologia - teatro - cinema - spettacolo’, bensì viene marginalizzato. Talvolta le culture artistiche assumono al proprio interno tratti delle culture popolari e le sottopongono a un processo di professionalizzazione entro il mercato dello spettacolo: così facendo, danno anche un rinforzo di valore alle pratiche locali, ma al tempo stesso tolgono a queste autonomia di valore e comunicazione, di interesse pubblico, possibilità di finanziamento e di professionalità diverse, che nascano dai contesti locali delle culture popolari. Ciononostante, si può dire che negli anni Settanta si manifesti l’esplosione di una editoria ricca di tematiche legate alla cultura popolare, finanziata per lo più dalle amministrazioni comunali che entrano in una nuova fase di protagonismo culturale.
Nascono o vengono in evidenza in questo periodo molteplici iniziative locali finalizzate alla conservazione della memoria delle grandi trasformazioni del mondo contadino, artigiano e protoindustriale che si concretizzano in collezioni e musei aperti al pubblico per iniziativa dal basso. Tra questi, emblematico è il Museo di Ettore Guatelli a Ozzano Taro, in provincia di Parma, dedicato alla cultura del mondo contadino mezzadrile e cresciuto entro la casa colonica di famiglia (www.museoguatelli.it), che avrà un riconoscimento pubblico solo negli anni Novanta. Anche il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari di Roma (oggi Istituto centrale per la demoetnoantropologia, ICDEA), eredità della stagione della Mostra di etnografia italiana e della grande raccolta che l’aveva preparata (1906-1911), si attiva nel creare schede di catalogazione e iniziative di valutazione del quadro nazionale dei musei locali e delle iniziative culturali locali, nella prospettiva di partecipare alla creazione di un grande corpus nazionale di tutti i beni culturali (cfr. Bravo, Tucci 2006), attività che anni dopo sarebbe stata trasferita all’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione (ICCD). Un ruolo del tutto particolare nell’associazionismo diffuso ha l’Istituto Ernesto de Martino, nato a Milano nel 1966 intorno a Gianni Bosio e oggi operativo a Sesto Fiorentino, ma con forti nessi a livello nazionale.
Gli anni Settanta sono dunque gli anni del maggiore fermento degli studi e delle pratiche performative della cultura popolare, anni in cui è ancora attivo un progetto complessivo di nuova cultura popolare e di massa (per dirla ancora con le parole di Gramsci), in cui la cultura popolare, intesa come cultura locale legata ai ceti sociali popolari, poteva avere un ruolo significativo e, secondo alcune prospettive, anche alternativo alla cultura del consumo. Sono anche anni in cui, come nei Quaranta e nei Cinquanta e nel Sessantotto, la ricerca sulla cultura popolare si definì entro un movimento collettivo nel quale gli studi avevano una forte impronta ‘pubblica’, in qualche modo condividevano con associazioni e iniziative locali una ipotesi di ‘egemonia’ di una nuova cultura critica e scientifica, ma radicata nell’esperienza storica, nella memoria comune e nelle forme culturali dei ceti popolari. La cultura popolare si presenta come una comunità plurale autonoma dalle istituzioni pubbliche, impegnata nella sinistra politica e di movimento, che è al tempo stesso un oggetto studiato e una soggettività studiante.
Lungo gli anni Settanta maturò parallelamente anche una grande trasformazione sociale e culturale, che sarebbe stata evidente negli anni successivi, e che, a livello collettivo, si caratterizzava per l’esperienza di un nuovo mondo del benessere e dei consumi, e di rifiuto della memoria e delle forme culturali locali che il movimento di valorizzazione della cultura popolare intendeva far diventare egemoniche. L’assenza di una struttura di riferimento nazionale nel quadro del Ministero dei Beni culturali e ambientali, nato anch’esso nel 1975, la marginalità dell’attenzione delle neonate regioni, più attente a sostenere le forme tradizionali della cultura elitaria (nonostante una forte attenzione dei Comuni), produssero una cesura pesante nel passaggio agli anni Ottanta, in parallelo con la sconfitta politica della sinistra e una fase di cambiamento di struttura della società italiana a seguito della quale il mondo operaio e sindacale avrebbe progressivamente perduto la centralità nella scena.
Negli anni Ottanta, la società civile che aveva investito sulla cultura popolare continuò tenacemente a essere presente, ma senza una legittimazione e un progetto egemonico, e finendo talora per perdere anche la capacità di leggere i fenomeni della società in trasformazione. In questo passaggio venne meno anche l’orizzonte delle grandi teorie che avevano caratterizzato l’Ottocento e il Novecento, tra cui il marxismo e lo strutturalismo, nonché la tradizione italiana del marxismo gramsciano, che erano state il riferimento anche per il dibattito antropologico degli anni Settanta.
Gli anni Ottanta, tuttavia, videro un più forte radicamento universitario e una maggiore prospettiva scientifica negli studi antropologici. Quando Cirese, all’inizio degli anni Novanta, propose l’espressione ‘Studi demoetnoantropologici’ per sintetizzare le tre anime universitarie dell’antropologia italiana, quell’espressione aveva un carattere ormai interno al mondo degli studi e alla loro possibile professionalità. Il campo DEA della ricerca fu però negato sia dal Ministero per i Beni e le Attività culturali (MIBAC), dove pure si affermava, nell’ambito del Codice dei beni culturali, l’espressione ‘funzionario DEA’, ma del tutto vuota, sia da componenti degli studi accademici che avrebbero preferito mettere in evidenza i singoli settori nella loro specificità e sviluppi indipendenti di essi. Eppure, in Francia negli stessi anni si sviluppava la Mission du patrimoine ethnologique, che metteva in connessione ricerca universitaria e territori dei Dipartimenti, e che nel tempo ha acquisito una esperienza pubblica ricca e problematica, della quale in Italia non c’è neppure il sentore (cfr. www.culture. gouv.fr/mpe).
In altri Paesi, dopo l’approvazione nel 2003 della Convenzione UNESCO per la Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, si mobilitarono iniziative pubbliche di ricerca e di monitoraggio sulle culture popolari anche ai fini dello sviluppo locale, con il forte coinvolgimento degli studi antropologici. In Europa, il Belgio soprattutto e molti Paesi dell’Est investirono sulla diversità culturale. L’Italia firmò la Convenzione nel 2007, il ministro Francesco Rutelli attivò una commissione di consulenza e promozione di iniziative che aveva al centro studiosi e istituzioni legate ai temi DEA, ma la Commissione durò pochi mesi e, alla caduta del governo di centro-sinistra, di lì a poco, a metà del 2008, la commissione scomparve senza lasciare traccia.
In Francia presso il CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) è stato creato nel 2002 il Laboratoire d’anthropologie et d’histoire de l’institution de la culture (LAHIC), che si occupa di quella che potremmo definire appunto la ‘istituzione della cultura’, ovvero di quelle attività istituzionali che costruiscono patrimoni culturali condivisi, che su essi stabiliscono regole, tutele, danno finanziamenti: a partire dalla pluralità di significati del termine cultura – quello della scolarizzazione, quello delle arti e dei servizi pubblici per esse, quello infine dell’antropologia – e anche dal riconoscere che «la lotta per la giusta definizione di cultura o di arte è in effetti uno dei tratti salienti della modernità» (Fabre 2003, p. 185).
Questo riferimento serve ora a suggerire due possibilità. La prima è quella di riflettere sul significato della cultura. Tra la forma antropologica del concetto di cultura e quella tradizionale (scolarizzata e artistica), c’è un’ulteriore modalità che fu proposta proprio da Gramsci e che con la sua opera è tornata nel dibattito internazionale. Essa connetteva la cultura con i gruppi sociali e le concezioni del mondo: la cultura sintetizzava pratiche, tendenze, poteva aiutare a comprendere gli scopi di azioni politiche o sociali, o essere letta in termini di uso sociale, di ‘distinzione’ (il tema che anni dopo Pierre Bourdieu ha proposto in La distinction. Critique sociale du jugement, 1979, trad. it. 1983). Una modalità che faceva parte anche dell’uso critico della cultura come aspetto dell’analisi della società nella tradizione del marxismo e del movimento politico della sinistra. Di fatto, queste note si collocano in un’epoca che ha completamente mutato questo quadro, ha spento la funzione degli intellettuali a favore di grandi processi anche plurali di intellettualizzazione gestiti nel sistema delle comunicazioni di massa e nella società civile, e ha perso la nozione critica di cultura di Gramsci – che era anche la più vicina alle nozioni antropologiche – a favore della cultura come sfera dei consumi culturali. In un’analisi dei processi culturali è quasi indispensabile riproporre l’uso gramsciano del concetto. Il secondo percorso è quello di evidenziare i processi di ‘istituzione della cultura’ che si sono realizzati in Italia, che danno l’idea della possibilità di diversi nessi tra culture popolari ed enti locali.
Nel periodo lungo c’è una sola configurazione in Italia che abbia resistito nell’età delle regioni, mutando forma e cambiando anche missione, una configurazione esemplare non per interna coerenza ma per reale esistenza: quella della cultura popolare in seno alla Regione Lombardia. Gli estremi cronologici complessivi sono dal 1974 a oggi, nella forma dell’Ufficio cultura del mondo popolare, tra 1974 e 1990, e in quella dell’Archivio di etnografia e di storia sociale (AESS), da allora a oggi.
L’Ufficio cultura del mondo popolare opera nell’ambito del Settore cultura della Regione Lombardia (oggi Direzione generale culture, identità e autonomie della Lombardia), promuovendo «ricerche a carattere etnografico e storico-sociale relative alle culture popolari, al lavoro e ai modi di produzione, alla cultura materiale, alle forme di aggregazione sociale, alla ritualità e allo spettacolo popolare, ai fenomeni migratori e alle trasformazioni del costume» (www.aess. regione.lombardia.it). Il progetto nasce insieme a quello di una collana di studi per province e per casi sul territorio lombardo, gestito da un comitato scientifico di studiosi universitari etnomusicologi, antropologi, dialettologi, storici, tra questi ultimi Sandro Fontana (1936-2013), che è stato assessore alla Cultura della Regione Lombardia, ma anche il protagonista istituzionale della nascita degli Uffici della cultura popolare.
La formula è quella, disponibile anche altrove, di un incontro tra associazionismo e ricerca locale con l’Università e la politica in una missione comune. Il profilo politico di Fontana, assessore democristiano, che fu anche vicesegretario del partito, ministro dell’Università nel governo Amato, e confluì dopo gli anni Novanta nel Centro cristiano democratico (CCD), indica un’apertura sorprendente, legata anche a radici territoriali nella Val Trompia, ma ciò che più colpisce in Lombardia è che dopo gli anni Settanta, cambiando giunte e governi, in diverse fasi critiche, il progetto iniziale non è stato abbandonato, come avviene in genere nei progetti meno consolidati (via l’assessore, via il progetto: è quasi la regola): anzi, si è trasformato mettendo al centro l’Archivio di etnografia e di storia sociale, nato nel 1990 come eredità del progetto precedente. Rinato nell’Archivio, l’Ufficio della cultura popolare, come si può leggere ancora nel sito web della Regione Lombardia, si dà una nuova missione:
L’Archivio di etnografia e storia sociale è una istituzione pubblica che si occupa del patrimonio di cultura tradizionale delle comunità lombarde, della cultura delle differenze, del patrimonio immateriale nelle sue varie componenti.
La Regione Lombardia inoltre, più recentemente, ha incorporato in una legge le linee della Convenzione UNESCO del 2003, attivandola nel proprio ambito e mettendola subito in azione con varie iniziative tra le quali il Registro delle eredità immateriali della Lombardia (REIL). Si tratta pertanto di una ‘istituzione della cultura’ dai costi modesti, ma chiara nelle finalità, che è rimasta estranea a ragioni extradocumentarie, e anche all’influenza in Lombardia della Lega Nord. L’AESS in questo quadro ha sempre dialogato con gli studi italiani, con le altre esperienze di lavoro sul territorio, partecipato a convegni, promosso attività, fino ad assumere, negli anni successivi alla l. reg. 23 ott. 2008 nr. 27, un ruolo di riferimento, con iniziative di promozione del REIL e convegni sull’attività legata al patrimonio immateriale e all’UNESCO.
Esistono dunque buone pratiche, anche se parziali e sempre discutibili, nella istituzione di usi dell’antropologia nell’ambito dell’attività delle regioni.
Tra quelle a statuto ordinario è la Regione Lazio, e tra quelle a statuto speciale, la Regione Sicilia, ad avviare tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta attività sui musei, la cultura materiale e le culture popolari. La Regione Lazio con legge regionale ha istituito nel 1985 il Centro regionale di documentazione dei beni culturali del Lazio (CRD) con compiti di ricerca, documentazione e servizio pubblico, impiegando catalogatori professionali reclutati su liste pubbliche, compresi i catalogatori demoetnoantropologi. La Sicilia ha bandito alcuni posti specialistici in ambito DEA, ma ha poi modificato le denominazioni e attribuzioni, seguendo una indicazione amministrativa basata sulla funzione istituzionale e non sulla competenza. In Sardegna, inoltre, è stato istituito nel 1972 un Istituto superiore regionale etnografico (ISRE, con la l. reg. 5 luglio 1972 nr. 26) con compiti primariamente legati a collezioni museali, ma anche a progetti di cinema etnografico e documentazione delle culture popolari sarde, con un crescente impegno anche sui temi del patrimonio immateriale. La Regione Emilia-Romagna ha realizzato un’importante istituzione: l’Istituto beni culturali (IBC). La Regione a statuto speciale Friuli Venezia Giulia ha istituito il Centro regionale di catalogazione e restauro dei beni culturali del Friuli Venezia Giulia, che ha sede a Villa Manin di Passariano, a Codroipo (Udine): entrambe non hanno dato uno spazio sistematico alle culture popolari.
Tra le restanti regioni, il Veneto, che in anni recenti ha avviato procedure di riferimento alla Convenzione UNESCO sulla salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale, e la Regione Piemonte, a partire dalla fine degli anni Novanta, hanno avviato una legislazione sugli ecomusei con intenti di sviluppo locale della montagna. In tutto il quadro nazionale solo la Regione Lazio, tra quelle a statuto ordinario, negli anni Ottanta ha bandito concorsi per personale specificamente DEA.
A questo scenario va aggiunto quello dello Stato e del MIBAC. Nelle soprintendenze territoriali, nonostante il pomposo nome che ha in coda l’espressione demoetnoantropologico, non è mai stato assunto un operatore del settore, e anche ispettori onorari e consulenti sono stati rarissimi. Nel Ministero si trovano invece a essere funzionari demoetnoantropologi un numero limitato di addetti che dopo il Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004) hanno scelto la denominazione DEA; si tratta in prevalenza di addetti ai due Musei nazionali di Roma: il Museo delle arti e delle tradizioni popolari (oggi Istituto centrale per la demoetnoantropologia) e il Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini. Due importantissime istituzioni ricche di storia degli studi etnologici e demologici, rimaste marginali nel MIBAC, l’una da sempre gestita da direttori non del settore DEA (questi ultimi infatti per assenza di un decreto in merito non possono accedere al ruolo della direzione), l’altra senza autonomia della parte etnografica e senza direzione DEA.
Tutto il campo definito dalle culture locali, dalle dimensioni territoriali, dal rapporto globale/locale ha subito una forte trasformazione sia negli ultimi decenni del secolo scorso sia ancora nei primi anni del nuovo millennio. Nel campo DEA ci sono vari fattori marcanti il finale del Novecento. Uno è degli anni Ottanta: la rilettura delle culture popolari in chiave sia urbana sia di massa, e la conseguente ripresa – a livello nazionale – di attività che apparivano in fase terminale. Il segnale è il libro di Gian Luigi Bravo Festa contadina e società complessa (1984), che parla di un Venerdì santo rinato a Belvedere Langhe con una drammaturgia da teatro contadino, ma fatto da persone ormai urbanizzate e legate al mondo dell’industria. Il medesimo fenomeno di rilettura della cultura popolare, e di riattivazione modernizzata di processi tradizionali riguarda carnevali, ‘Maggi’, spettacoli popolari, che spesso si trasferiscono dal calendario tradizionale a quello estivo delle feste e del turismo. Sono anche gli anni del diffondersi quasi epidemico delle sagre e delle feste a carattere alimentare, legate alla promozione di prodotti locali, ma spesso in scadenze che avevano precedenti nel calendario religioso. Dal punto di vista delle culture popolari e del rapporto con le regioni, sembra utile mostrare la spinta diffusa della società locale a volere essere attiva e protagonista, sia attraverso le Pro loco, che attraverso le associazioni, la spinta dei produttori e ancora dei comuni, verso il pluralismo delle iniziative territoriali.
Tra gli aspetti della cultura locale in crescita c’è la museografia legata al territorio, al mondo contadino, agli artigianati, che viene variamente definita della ‘cultura popolare’, ‘etnoagricola’ ‘etnografica’ e che lungo gli anni Ottanta e Novanta testimonia un incremento numerico e una diffusione assai significativa, passando dai 275 musei di una prima segnalazione del 1980 a una seconda di 476 negli anni Novanta (R. Togni, G. Forni, F. Pisani, Guida ai musei etnografici italiani, 1997), fino al migliaio registrato negli anni Duemila.
Molti processi avviati negli anni Ottanta avranno maggiore evidenza nei Novanta, per es. la valorizzazione delle fonti scritte della vita quotidiana, legate inizialmente alla Prima guerra mondiale e poi a tutto campo, con la nascita di forme nuove e dal basso di istituzione della cultura: è questo il caso dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano (AR), che, nato nel 1984 per iniziativa di un giornalista (Saverio Tutino) e di un sindaco, diventa in breve tempo nazionale e, da un lato, intercetta una volontà di testimoniare e di fare la storia con la voce di tutti, dall’altro, mette in scena i singoli individui, irriducibili alle ideologie, ai partiti, alle identità regionali o anche popolari. Una sorta di decostruzione delle forme collettive, ma anche un nuovo luogo di riti civili e laici sulla trasmissione delle memorie, che anticipa il grande dibattito internazionale sulla Shoah e sull’era dei testimoni.
Le forme semi-istituzionali che connettono volontariato, supporto dei comuni, piccoli finanziamenti pubblici di vari enti, sono già degli anni Settanta, ma si sviluppano negli Ottanta: la formula è quella stessa dei musei, e delle istituzioni realizzate presso le poche regioni di cui si è trattato. Un incrocio tra iniziative e invenzioni dal basso, convergenza di competenze di ricerca, volontariato e associazionismo, supporto degli enti locali. Un esempio analogo è quello delle stagioni del teatro popolare, in cui le forme del canto tradizionale legate a fasi del calendario vengono riorganizzate e spostate nel tempo delle vacanze sia per essere praticate dagli attori/cantori, sia per rivolgersi a un pubblico di emigrati che tornano e di turisti che arrivano. I volontari che organizzano le compagnie dei Maggi in Toscana e in Emilia, si organizzano per resistere, adattarsi e difendere la loro differenza, costruendo questi festival estivi e imparando a misurarsi con i festival internazionali e a dialogare con il teatro di ricerca. Invece, il settore della narrazione fiabistica non ha avuto in Italia significative forme di performance pubblica, come in altri Paesi, o regioni d’Europa dove esso accede alla comunicazione pubblica (Fulvia Caruso, La voce narrante. Espressività narrativa tradizionale in una comunità aragonese, 2008): si è avuto solo qualche caso di lavoro teatrale che si rifà alla tradizione e, anche in modo lato, a livello di creazione professionistica (teatro di narrazione e di affabulazione con figure come Marco Paolini, Ascanio Celestini, Mario Perrotta, Davide Enia, interessati a contenuti e forme e stili della narrazione popolare). D’altra parte, anche il settore della musica e del canto popolare hanno visto affermarsi una prospettiva professionistica, con cicli di rinascita e revival, interpretazione libera e scambi sempre molto forti tra performers professionisti e portatori di cultura musicale e canora locali. L’investimento di regioni e altri enti locali in questa dimensione è minimo, e dove queste forme di cultura popolare non sono sopravvissute è evidente la responsabilità di chi le ha poste al margine. Anche il rapporto tra il professionismo artistico e la competenza della cultura popolare dovrebbe essere regolato, sulla base di una tutela della seconda. È importante che artisti come Celestini abbiano successo, ma sarebbe ancora più importante che la Regione Lazio o la Regione Toscana, sulla base di questo successo, andassero alle fonti, valorizzassero i racconti orali dei narratori locali, promuovessero nuovi protagonisti. Invece, la categoria dei ‘famosi’ è diventata il passe-partout delle politiche culturali.
Negli anni Ottanta, su un percorso aperto negli anni Settanta dal Festival di Santarcangelo di Romagna, nascono anche le imprese culturali del teatro di strada, che diventano festival con direttori artistici, proposte culturali accolte nel circuito dei contenitori estivi e del turismo culturale. Il caso di Mercantia, a Certaldo, è interessante anche per il nesso posto, entro la città storica del Boccaccio, tra teatro di strada e artigianati locali. Così per il festival On the road di Pelago (Firenze). Il crescere a livello nazionale di questo impianto di volontariato organizzato, nella forma dei festival, delle associazioni di promozione, al quale nel tempo si aggiungeranno anche gli istituti storici della Resistenza, costituisce uno dei fattori nuovi della cultura italiana che risponde alla cultura-spettacolo, con processi di radicamento e partecipazione in continuità con gli anni Settanta.
Negli stessi anni nasce a Rovereto l’Archivio della scrittura popolare, con una rete italiana di ricerche e di riferimenti. La pertinenza ai temi che andiamo indicando è evidente:
Possiamo iniziare con una definizione sintetica: l’Archivio della scrittura popolare è una istituzione che recupera, conserva e studia testi autobiografici e autografi, riconosciuti come popolari, ovvero di scriventi appartenenti ad una classe sociale medio-bassa (barbieri, contadini, falegnami, fornai, frustai, muratori, negozianti, operai, ruotai, segantini, tipografi…), che condividono, in altri termini, una prossimità sociale e una medesima esperienza scolastica (Q. Antonelli, L’archivio della scrittura popolare, http://www.trentinocultura.net/doc/radici/ storia/grande_guerra/archivio_scrittura_popolare_h.as).
Pensiamo a casi, che abbiamo già citati, come Tutino per la scrittura popolare, e la costituzione dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, a Revelli per gli archivi orali e la pubblicazione delle voci della memoria e della marginalità contadina, a Guatelli per la museografia dei mezzadri dell’Italia centrale, dimenticati nella loro dimensione ed esperienza fondativa dell’Italia repubblicana, perfino da se stessi. Essi hanno rappresentato altre centinaia di appassionati cultori della memoria e della differenza culturale, spesso in stretta connessione con un mondo universitario legato alla cultura politica degli anni Settanta e impegnato a partecipare e promuovere iniziative sul territorio. In ogni caso, gli anni Ottanta vedono un lento ridefinirsi della cultura popolare nelle forme prevalenti della rilettura, adattamento, dei fenomeni delle culture locali, pur nel quadro di un prevalere quantitativo dei processi di abbandono dei paesi e delle montagne, e in generale delle forme tradizionali della cultura popolare. Un processo descritto con efficace sintesi da Bravo (2013) in termini di trasformazione del mondo contadino, paesano, artigiano, a favore dell’urbanizzazione e della società di massa, con l’adesione all’innovazione e ai linguaggi dei media, ma anche con la capacità da questa nuova posizione di trasformare in risorsa quello che era stato un condizionante retaggio rurale (Bravo 2013, pp. 208-09).
Un caso esemplare di rivalutazione delle culture locali che nel tempo ha saputo affermarsi è quello che è passato da Arcigola (1986) a Slow food (1989), estendondosi dal Piemonte a tutta l’Italia e a livello internazionale con alcune iniziative che connettono nuove agricolture e gastronomia locale (Salone del Gusto e Terra madre, manifestazioni biennali a Torino si sono avviati nel 1996). Nell’analisi di Bravo, il fenomeno Slow food, insieme ad altri (ecomusei, Rete italiana di cultura popolare) caratterizza un nuovo modo di essere delle culture popolari in una Italia postcontadina, ma nella quale viene a essere protagonista una nuova realtà di coltivatori moderni, legati a culture della differenza. Ma anche una idea di gastronomie moderne basate sul Buono pulito e giusto (2005) di Carlo Petrini, che è radicato nel locale (Presidi di Slow food), in una idea di sviluppo ecosostenibile, di ciclo dell’anno e di chilometro zero, che rappresenta radicalmente lo stacco tra culture tradizionali e nuove culture popolari: queste rileggono il popolare in un contesto sociale e comunicativo nuovo, segnato dai disastri del mercato di massa, per cui questo tipo di culture ‘tradizionali’ e basate sulla differenza si propongono come fortemente orientate al futuro, in un modo che in buona parte è stato teorizzato dagli antropologi che hanno riletto il concetto di tradizione (Oltre il folklore, 2001).
Lo scenario di Slow food è un punto di osservazione adeguato per i processi davvero complessi degli anni Novanta: un caso di successo di iniziativa dal basso, ma che crea una nuova istituzione a partire dal mondo del volontariato organizzato (l’ARCI) su scala nazionale, che parte da una regione, ma non dalla regione, e si diffonde per una iniziativa a forte leadership personale, estendendosi a fenomeni collaterali (Eataly) del mercato, confluendo con GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), negozi a chilometro zero, in una nuova idea di alimentazione, per ora anche limitata dall’essere condivisa da élites non della ricchezza ma dello ‘stile’ di vita. Anche le culture popolari non sono più legate alle classi sociali subalterne, ma a culture locali, a parti di generazioni, a gusti e stili. È utile ricordare che lo scenario di insieme in cui si colloca Slow food, per reazione e per consonanza di orizzonti, è quello definito dall’Europa, dove i prodotti locali entrano nella scena del DOP (Denominazione di Origine Protetta), dopo che il vino era entrato nel DOC (Denominazione di Origine Controllata) già dagli anni Sessanta. Il DOP è più ampio e ‘democratico’ e attiva un processo che si definirà meglio nel nuovo secolo. Infatti nasce come regolamento europeo nel 1992 insieme a IGP (Indicazione Geografica Protetta), STG (Specialità Tradizionali Garantite), e mostra, da un lato, una nuova dialettica di possibilità e controlli di scala assai ampia, che avranno effetti di uniformizzazione, dall’altro, una domanda diffusa e capillare di riconoscimenti che parte da una manifestazione di pluralità e di differenza; da un lato, producendo dichiarazioni di pluralismo e multiregionalismo, dall’altro, abolendo di fatto molti dei prodotti più radicalmente legati alle culture locali della differenza. Una dialettica che caratterizza gli anni Novanta in modo marcato, anche in ragione della crescita della globalizzazione.
Un altro punto di riconnessione è quello legato al turismo che si intreccia con quanto abbiamo fin qui detto, creando spazi di viaggio e di consumo che rilegittimano le culture tradizionali, ovvero la nuova cultura popolare di creatività, come occasione di incontro e di esperienza della diversità. Al tempo stesso, con le leggi sullo sviluppo sostenibile, quelle sul turismo rurale, gli ecomusei (tutte degli anni Novanta), si crea una vera e propria nuova frontiera della diversità che si presenta con tratti di forte focalizzazione di singoli territori, con intense narrazioni relative a luoghi isolati, e nella forma sempre più diffusa dei percorsi (per es. la via Francigena, o i sentieri del vino).
Negli anni Novanta si consolida una nuova realtà sociale in cui si incontrano reti nazionali (ARCI, Istituti storici della Resistenza), associazioni locali, movimenti culturali e attività diffuse di rivalutazione e riadattamento di tradizioni, insieme a una effettiva ripresa economica di settori che apparivano precedentemente in scomparsa, come l’artigianato, l’agricoltura, la pastorizia. Il tutto collocato in una scena di trasformazione delle comunicazioni, delle generazioni, di crescente urbanizzazione mondiale e di informatizzazione dell’industria e della vita quotidiana. Si pensi al gigantesco e vivacissimo sistema festivo siciliano analizzato da Ignazio E. Buttitta (La memoria lunga. Simboli e riti della religiosità tradizionale, 2002) e studiato in termini di uso da parte del potere locale da Dino Palumbo (Palumbo 2003 e 2009), in cui sono protagoniste comunità locali contemporanee che rileggono quelle pratiche nel mondo globale. Gli studi antropologici hanno dunque radicato la loro esperienza nel contemporaneo delle società complesse, ben lontano da quel modello passatista che a esse viene talvolta attribuito. Sant’Agata a Catania o Santa Rosalia a Palermo sono tutt’altro che cose del passato, sono sempre più del presente, incorporano cambi di generazioni, di stili religiosi, di migranti da varie parti del mondo, di gusti e tempi delle comunicazioni di massa. In un certo senso, l’invenzione della tradizione, concetto ironicamente elaborato da Eric Hobsbawm (The invention of tradition, 1983) come paradosso del mondo del potere nella società delle masse, diventa creazione di tratti culturali che reinterpretano il passato in forma di futuro (P. Clemente, Diversità dietro l’uguaglianza. Tradizioni e trasformazioni nelle Italie regionali e locali, in A. Falassi, Tradizioni italiane: codici, percorsi e linguaggi, 1993).
Sembra tornare alla ribalta, come un motivo di riferimento concettuale rilevante, una considerazione fatta da Luciano Gallino in prefazione al libro di Bravo su Belvedere Langhe (Bravo 1984). Presentando il tema della rinascita delle feste connesso al ‘pendolarismo’ tra mondo industriale urbano proprio della settimana lavorativa e mondo paesano del week-end, egli tratteggia il tema della coesistenza di vari tipi di formazione economico-sociale entro un sistema produttivo, e il possibile ‘pendolarismo’ dei soggetti sociali tra essi. È un argomento che tratta anche in alcune pagine più generali in altri scritti:
Da decenni in Italia, in Germania, in Francia, nel Regno Unito, in Spagna, coesistono fianco a fianco formazione economico-sociale contadina e formazione economico-sociale capitalistico-imprenditoriale, formazione economico-sociale capitalistica oligopolistica e formazione economico-sociale statuale dirigista. La dinamica politica, economica e socioculturale di tali società è stata contrassegnata per gran parte del XX secolo tanto dal conflitto quanto dalla cooperazione tra le diverse formazioni economico-sociali in esse compresenti (L. Gallino, Formazioni economico-sociali, in Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, 4° vol., 1994, ad vocem).
Ma, presentando il libro di Bravo (1984), Gallino, che probabilmente considera le feste una forma meno congeniale alla modernità, usa una valutazione di fase sintetica e forte, che fa riflettere: «Nelle aziende, nell’amministrazione pubblica, nei partiti, nei sindacati, nella scuola, essa sfocia di continuo ‒ non solo in Italia ‒ in forme di tradizionalizzazione della modernità, in luogo dell’attesa e prevista modernizzazione della tradizione» (p. 8).
Sembra un giudizio negativo, alla Voltaire («Le feste le inventano gli osti per vendere il vino»), un desiderio di razionalità nei processi e delle intermediazioni, con un’idea che può implicare che tutta la sfera delle relazioni sociali debba essere ‘fredda’ e che ci sia più rischio di mafia o di clientelismo in queste modalità che in altre. Ma i fenomeni che vengono descritti da Bravo non sono fenomeni che si danno per mediazioni politiche o clientelari, o addirittura criminose, ma per desiderio di relazioni basate su tempi e modi diversi da quelli della vita lavorativa.
Nella scena italiana della fine degli anni Settanta, anche in relazione con processi sociali e aperture internazionali (il femminismo, i movimenti giovanili), era cresciuta una domanda di cambiamento della qualità delle relazioni, che aveva posto l’individuo e i sentimenti al centro (il personale è politico), ma aveva comportato anche la perdita di un senso rituale e comunitario. Un fattore molto forte di domanda simbolica, detta spesso identitaria, era apparso in quegli anni: oggi possiamo meglio comprendere che esso era mirato ad arricchire di valori emozionali la vita personale, al riconoscimento maggiore delle differenze, alla creazione di nuovi tipi di comunità.
Un caso significativo, con una impegnativa presenza della regione e che ben si inserisce nel quadro di ciò che stiamo considerando è quello della notte della Taranta, con il rilancio della cultura salentina: un evento festivo di tipo nuovo, una invenzione territoriale di grande rilievo. Concepita nel 1998 come Festival, questa iniziativa legata a musica, danza e tradizioni, ispirata in senso lato al tarantismo studiato da Ernesto de Martino (1961), ma anche influenzata dall’antropologo francese George Lapassade e dalle sue teorie sul dionisiaco, ha suscitato un grande dibattito sul ‘tradimento spettacolare’ delle tradizioni a favore di mescolanze che hanno scarso rispetto dei suonatori tradizionali e del tarantismo come patologia, come analizzato da de Martino. La manifestazione, che è stata però al tempo stesso una iniziativa di cultura musicale professionale ispirata e dialogante con la musica e la danza tradizionale, ha avuto un grandissimo successo. È nata anche una forma di festival itinerante. L’effetto di sviluppo locale e di marketing territoriale è vistoso, anche se i costi hanno cominciato a creare problemi all’inizio della crisi. La Notte della Taranta si è costituita in Fondazione per gestire l’evento dopo più di un decennio di vita. In grandi dimensioni, è lo stesso principio che ha dato vita al Venerdì santo di Belvedere Langhe.
La riflessione di Gallino ci aiuta a non vedere in modo univoco questi processi di nuova cultura popolare, e a trattarli con attenzione alla complessità.
Con molto ritardo emerge alla vista l’intricata composizione della società che, trasformatasi in quegli anni, difficile da descrivere oltre le grandi metafore (si può forse definire ‘società liquida’ riprendendo la celebre espressione di Zygmunt Bauman in Liquid modernity del 2000), mostra la connessione ormai inevitabile tra lavoro autonomo e lavoro dipendente, tra precariato e artigianato, e il carattere conservativo che hanno quasi tutte le strategie sia sindacali sia politiche radicali basate sul modello hegeliano del processo dialettico e marxiano delle classi. Il tema del lavoro giovanile precario e delle culture dei giovani diventa oggi strategico per una comprensione adeguata di questi processi. La crisi della politica all’inizio degli anni Novanta, le nuove identità del Partito socialista italiano (PSI) e del Partito comunista italiano (PCI), con la forte trasformazione del mondo simbolico di riferimento, hanno imposto una rottura morale del patto ideologico che aveva legato gli studi italiani sulla cultura popolare a Gramsci e alla sinistra, senza che nascessero nuovi sodalizi. Il disagio dell’antropologia in quegli anni è segnalato anche dall’avvio di studi antropologici sulla Lega Nord, in gran parte non giunti a pubblicazione. Gli studi saggistici più significativi sulla Lega sono assai recenti (L. Dematteo, L’idiotie en politique. Subversion et néopopulisme en Italie, 2007, trad. it. 2011; M. Aime, Verdi tribù del Nord. La lega vista da un antropologo, 2012).
Emblema di questo periodo complesso è la caduta del Muro di Berlino, che apre gli anni Novanta e facilita il definirsi di un campo postideologico e lo sviluppo di un periodo caratterizzato dalla memoria dell’Olocausto (in Italia la Legge che istituisce il Giorno della Memoria è del 2000). Anche a livello internazionale, questi anni si possono definire come ‘era del testimone’ (A. Wiewiorka, L’ere du temoin, 1998; J. Assman, Das kulturelle Gedächtnis: Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen, 1992, trad. it. La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, 1997). Gli studi antropologici – in forte dialogo con quelli storici – partecipano a questa scoperta del passato già dai primi anni Novanta, con la ricerca sulla memoria delle stragi naziste in Toscana, e varie collaborazioni sui temi dei bombardamenti e della Resistenza. Nel 1994 fu importante la partecipazione antropologica alla ricerca che raccolse il racconto dei testimoni delle stragi nella Val di Chiana, in provincia di Arezzo (G. Contini, La memoria divisa, 1997), ricerca in parte poi pubblicata in Storia e memoria di un massacro ordinario (a cura di L. Paggi, 1996). Su iniziativa del Consiglio regionale della Toscana una ricerca a tutto campo sulle stragi e il passaggio del fronte vide gli antropologi attivi nei primi anni del nuovo secolo con la pubblicazione, di impostazione interamente antropologica, di Poetiche e politiche del ricordo (a cura di P. Clemente, F. Dei, 2005); il nuovo clima degli studi era stato aperto dal libro di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (1991).
Il lavoro sulle memorie portò gli antropologi a scoprire come le culture locali, elaborando il lutto delle stragi, avessero in modi diversi costruito una cultura della differenza, distinguendosi dalla cerimonialità della Resistenza e della Liberazione, costruendo riti e memorie particolari, creando identità e trasmissione di memoria attraverso le generazioni. Memorie divise, memorie non egemoniche, memorie marginali, vengono in evidenza e corrispondono anche a paesi che resistono, o crollano e smottano, a processi attuali di costruzione della memoria (il parco della Pace di Sant’Anna di Stazzema), a richieste di riconoscimento pubblico. Ben lontane dall’essere ‘passato’, le stragi sono state meccanismi poderosi di resistenza e di identità, hanno prodotto culture locali della memoria nel quadro del rapporto complesso tra mondo locale e mondo globale Anche qui, mentre il dibattito storico affronta documentariamente i lati oscuri della memoria di guerra, gli antropologi trovano comunità di eredità, comunità di memoria, ibridate nel passaggio delle generazioni, il cui passato è diventato ragione di distinzione presente, ragione di interpretazione dell’attualità.
Una forma di passaggio tra memoria e museografia è negli anni Novanta il mondo degli ecomusei, nati per un atto esplicito questa volta della Regione Piemonte e poi esteso alla Lombardia e al Veneto.
La politica degli ecomusei che, grazie alla legge che la Regione Piemonte ha emanato nel 1995 (Legge regionale n. 31 del 14 marzo), ha visto il primo esempio, a livello nazionale, di una normativa in materia. Essa dispone l’istituzione di Ecomusei sul proprio territorio per ricostruire, testimoniare e valorizzare la memoria storica, la vita, la cultura materiale e le relazioni fra ambiente naturale e ambiente antropizzato. L’Ecomuseo è visto come espressione della cultura di un territorio considerato nella sua globalità, strumento per il suo recupero, rilancio e potenziamento. Una sorta di laboratorio dove, con la partecipazione attiva e il coinvolgimento della comunità, salvaguardare il passato ma soprattutto progettare un futuro.
All’interno della progettualità ecomuseale, il ‘territorio’ emerge nelle sue componenti come un sistema di valori e di relazioni, come il prodotto di una specifica e irriproducibile storia (http://www.regione.piemonte.it/cultura/cms/memoria-e-cultura-del-territorio-e-patrimonio-linguistico/ecomusei.html).
Anche gli ecomusei ridefiniscono arealità, costruiscono spazi simbolici e sociali forti, che non sono autonomi ma guardano al mondo globale, al turismo, allo sviluppo locale come possibilità. Un’assunzione di responsabilità delle regioni, spinte dalla situazione particolare di abbandono ma di forte attrazione identitaria e turistica del sistema alpino. L’ecomuseo gioca tra tradizione e innovazione, tra gastronomie locali, musei, sistema turistico e tentativo di attrarre nuovamente la popolazione emigrata. Si colloca in spazi trasversali, itinerari e percorsi nuovi, popoli di rifermento anche inediti (l’alpinismo, il turismo montano).
Questa cultura di rinascita e di mescolanza, di pluralismo e di generazione connette anche il mondo antico e in ripresa dei cantori che improvvisano in ottave in varie regioni italiane (Toscana, Lazio, Sardegna, Abruzzo) e le culture giovanili di avanguardia e di movimento. È proprio l’improvvisazione poetica in ottava rima che viene interpretata come una sorta di rap di tradizione autoctona. Una sorta di paradigma è quello che si viene definendo tra il 1991 e il 1994 con l’incontro tra le posse e il canto sociale tradizionale, in una fase di slancio e di espansione del movimento dei centri sociali e di rilancio dell’Istituto de Martino, da Milano giunto a Sesto Fiorentino a metà degli anni Novanta.
Nell’analisi di molti fattori della cultura popolare italiana, gli anni Novanta appaiono fortemente significativi, e quasi un confine di certi processi. Questo periodo fu contraddistinto, da un lato, da una sempre maggiore effervescenza della società civile e da un forte pluralismo di iniziative locali, dall’altro, dalla più evidente diffusione della globalizzazione nella scena mondiale, con una nuova conseguente accentuazione delle iniziative locali. La globalizzazione ha reso pensabile il mondo come scena delle culture locali, sottraendole a quella dialettica tra localismo e centralismo che le aveva marcate. In un certo senso il localismo diventa globale.
Dal punto di vista delle risorse e dei territori gli anni Novanta sono gli anni della legge sulle fondazioni bancarie; ecco come viene autorappresentato questo mondo nel sito dell’Associazione di fondazioni e casse di risparmio Spa (ACRI):
le fondazioni di origine bancaria sono soggetti non profit, privati e autonomi, nati all’inizio degli anni Novanta con la cosiddetta legge Amato (n. 218 del 30 luglio 1990), che portò alla privatizzazione delle Casse di risparmio e delle Banche del Monte. [...] Le fondazioni di origine bancaria sono 88, diverse per origine, dimensione e operatività territoriale. Il loro ruolo è di promuovere lo sviluppo dei territori su cui insistono e sono radicate, ma anche dell’intero Paese. È un ruolo che si esprime a due livelli: come enti erogatori di risorse filantropiche al non profit e agli enti locali, e come importanti investitori istituzionali (http://www.acri.it/6_ news/6_news_files/Ita/Fondazioni.PDF).
Dall’inizio degli anni Novanta le fondazioni di origine bancaria hanno concretamente supportato nel corso di poco più di un ventennio di esistenza migliaia di istituzioni pubbliche e private, prestando particolare attenzione ai settori dell’arte, della cultura e della formazione. Alcuni dati permettono di comprendere in modo immediato la rilevanza di questo sostegno: nel solo 2011 le erogazioni complessive delle 88 fondazioni bancarie [...] sono state pari a 1.092, milioni di euro, di cui il 30,7% destinati al settore Arte, attività e beni culturali (F. Quadrelli, Fondazioni bancarie e nuova economia della cultura, http://www.tafterjournal.it/2013/05/06/fondazioni-bancarie-e-nuova-economia-della-cultura).
Se ne deduce facilmente una nuova modalità di erogazione di risorse anche culturali, e anche una nuova regionalizzione dell’Italia sulla base delle fondazioni.
La presenza delle fondazioni bancarie ha prodotto una mobilitazione impensabile prima in ambiti come i musei, garantendo risorse per l’investimento in tecnologie informatiche e comunicative e per la gestione. In quegli anni, prima della crisi, il numero dei musei DEA è cresciuto vistosamente. Quasi tutti i musei DEA senesi nati tra il 1993 e il 2004 hanno avuto contributi della Fondazione Monte dei Paschi (pur restando tra i settori meno finanziati in assoluto). Le amministrazioni comunali hanno costruito i bilanci per la cultura su risorse di origine bancaria, fino a trovarsi disseccati nella attuale fase di crisi di queste.
La domanda è se questi nuovi scenari finanziari e culturali creino una situazione di «coacervo indigesto» (espressione che Gramsci usò per il folclore), con la produzione di aberrazioni, anomalie, cattive imitazioni del mondo dello spettacolo, o producano attive risorse e soggetti nuovi. Negli anni Novanta coesistono entrambi questi aspetti. Sarà la crisi a mostrare quelli più negativi. Questi anni sono anche quelli della nascita delle associazioni degli antropologi, l’Associazione italiana per le scienze etnoantropologiche (AISEA) e la Società italiana di antropologia medica, che ai primi del 2000 si arricchiranno di altre due associazioni, la Società italiana per la museografia e i beni demoetnoantropologici (SIMBDEA) e l’Associazione nazionale universitaria degli antropologi culturali (ANUAC).
Le feste, tornando a un tema affrontato a proposito del lavoro di Bravo (1984), sono forme di vita, modalità di scambio e di comunicazione, costruzione di socialità. Solo in una concezione razionalista, individualista, delle società contemporanee si può immaginare un mondo senza feste. La loro rinascita e diffusione, lungi dall’essere segno di imbarbarimento, di ‘tradizionalizzazione della modernità’, è segno di un bisogno complesso di equilibrare sfera dei sentimenti e sfera delle azioni razionali ed economiche, della socialità più che della solitudine. Sebbene in esse si possa esprimere anche il consumismo compulsivo, fondamentalmente vi si può riconoscere uno dei bisogni che fondano la ‘natura’ degli esseri umani, quello di vivere il festivo.
Le regioni italiane nascono da processi storici che hanno messo insieme mondi locali legati ad ambienti costruiti entro insediamenti preistorici e storici che conosciamo ancora con i nomi di popolazioni locali (sardi, sanniti, lucani, irpini, lunigianesi), tutti interconnessi dall’insediamento di nuove popolazioni (le invasioni barbariche) stanzializzate e, nei tempi della storia moderna, nella modalità degli stati regionali, i principati e le signorie, fino al complesso processo dell’Unità nazionale. In un testo poetico (La chiesa di Polenta) entrato nel circuito degli studi demologici italiani, Giosue Carducci parlò di «Itala gente dalle molte vite». Le regioni intese come popolazioni locali sono per lo più caratterizzate da ambienti di minore estensione rispetto a quelli delle regioni politiche ed è noto che le diversità linguistico-dialettali attraversano anche le configurazioni più piccole, segnalando differenze tra valli, crinali di montagna, isole (Bravo 2013, 1° cap.). Ciononostante, già nell’Ottocento, matura un’idea di regionalità simile a quella attuale. Nel tempo, nonostante i manuali per le scuole elementari nati negli anni Venti, finalizzati a costruire identità regionali (il più noto negli studi è E. Cirese, Gente buona, dedicato al Molise, uscito nel 1925 e riedito dalla Biblioteca provinciale P. Albino della Provincia di Campobasso, 2007), le regioni ancora non amministrativamente riconosciute si caratterizzano piuttosto come spazi marcati dai capoluoghi e non dalle periferie, dai processi storici di prevalenza politica di certe zone su altre più che dall’equilibrio di aree culturali omogenee. Negli anni Novanta esse vivono anche, indirettamente, i traumi dei conflitti europei (baschi, irlandesi, corsi, fiamminghi, catalani). La Toscana nell’esperienza demologica si presenta internamente diversificata: Lunigiana, Garfagnana e Lucchesia hanno storie distinte rispetto all’area centrale a dominante fiorentina. La Maremma tende a essere regione a sé, traversando la provincia di Pisa, Livorno, Grosseto, Viterbo, fino a quella di Roma. La Toscana geografica si distingue per vocazioni orografiche e produttive tra montagna, piano-colle, e aree storicamente palustri. La prima, area povera e mobile, transumante e itinerante, la seconda, luogo della mezzadria classica e dei commerci, l’ultima, terra di bonifiche, di sopravvivenza, di malaria e di transumanza.
Le regioni a statuto ordinario non hanno ‘istituito’ nuove culture regionali: hanno accentuato antichi centralismi, riconosciuto campanilismi e localismi, ma hanno avuto un ruolo di costruzione e istituzione solo limitatamente e spesso trascurando il potenziale tema di una specificità regionale da trovarsi nelle culture locali e non nell’arte, nel cinema, e nel teatro che sono venuti identificandosi sempre più con ‘la cultura’ anche in sistemi di reti nazionali attivi nella società civile, come l’ARCI.
Il mondo degli studi DEA, fatto di musei, di canti popolari, di narrazioni fiabistiche, di feste, di cerimonie, ma anche di vita quotidiana, stili del consumo, memoria storica, ha per lo più riscontrato il valore culturale di piccoli insiemi, comuni, gruppi di comuni, subaree. La pubblicazione di volumi regionali di fiabe popolari, per es., non ha costituito ‘regionalità’ sul piano culturale, giacchè in tutta evidenza i corpora fiabistici sono internazionali nelle loro trame e subregionali nei loro contesti di racconto, stili, affabulazioni vernacolari. I musei insistono su luoghi, e dialogano con reti, associazioni, web, turisti. Alle regioni si possono chiedere soldi, e le regioni in alcuni casi hanno posto regole per darli sensatamente.
Anche il nuovo mondo del turismo culturale e naturalistico, o della gastronomia, ha un andamento simile, e quasi anticipa i tratti culturali con le sue ‘regioni alimentari’ fatte da tipologie viticole, spesso, e in generale agricole, che si innestano in sotto-aree storiche (il Chianti, la Franciacorta, l’Astigiano). Il riconoscimento della Dieta mediterranea nel quadro della Convenzione UNESCO sul patrimonio immateriale, al di là dei dibattiti su un progetto che è apparso a molti forzoso e catapultato dall’alto (e anche poco fondato scientificamente), ha segnalato questa sostanziale ‘transitività’ delle aree colturali e degli stili alimentari. Reti di differenze puntiformi, in cui il focus è molto piccolo, e nella rete trova riferimenti, familiarità, somiglianze. Negli anni Duemila, a partire dal lavoro nel campo DEA della Provincia di Torino, referente di una rete delle province italiane, è nata una Rete italiana della cultura popolare che cerca di aderire a quel modello. Il turismo dei parchi, delle aree protette, degli outlet, dei prodotti regionali, dell’agriturismo, del chilometro zero, condivide essenzialmente questa natura puntiforme reticolarmente connessa, ampliata ormai alla scena e al mercato mondiale.
Geografi e storici, dopo il dibattito suscitato dalla Lega Nord sull’idea di macroregione, hanno lavorato alla revisione delle regioni e al confronto tra quelle elaborate dalla Fondazione Agnelli e quelle dell’ideologo della Lega Nord Gianfranco Miglio. Intanto, sul piano europeo veniva avanti il tema dell’Europa delle regioni, intese come regioni culturali in dialogo, e in contrasto con i processi di unificazione violenti e mercantili. Gli antropologi, da sempre attenti ai fenomeni delle culture regionali in senso lato, hanno seguito e sperato in questa dimensione (Bausinger 1994), criticando il dibattito sulle origini e i fondamenti dell’Europa e le proposte di una Europa chiusa e concentrata sulle sue radici ‘cristiane’. Un bel dibattito su questi temi è contenuto in un volume (Una e plurale, 2013), legato a un convegno promosso nel centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, in cui si indicano varie strade di cambiamento, da leggere sempre più in un quadro europeo: il neoregionalismo, un federalismo bottom-up, una nuova capacità di essere corporation e di favorire sviluppo, sono tra le parole chiave. Il presidente della Società geografica italiana, Sergio Conti segnala che:
A livello continentale è andata configurandosi, dunque, una nuova visione: un’Europa delle varietà, una pluralità di valori che differenziano l’Unione Europea dalle altre aggregazioni statuali esistenti, proprio per il ruolo assegnato alle diversità storico-culturali, alle identità territoriali. Forse per questo stesso motivo, nei più recenti documenti dell’Unione, le regioni destinatarie di sostegno finanziario non verrebbero più definite in base ai limiti amministrativi: le politiche di intervento dovrebbero indirizzarsi, invece, verso sistemi territoriali in cui determinate caratteristiche di omogeneità funzionale si intrecciano con coalizioni di attori e istituzioni cementate da valori comuni. I loro confini sarebbero quindi altri rispetto a quelli amministrativi (e possono cambiare nel tempo), mentre diventano decisive le agglomerazioni e le reti, entrambe forze motrici dello sviluppo (Conti in Il riordino territoriale dello Stato, 2013, p. 5).
I geografi propongono nuovi possibili modelli di regionalizzazione su base pluriregionale, e/o interregionale, e/o infraregionale (Il riordino territoriale dello Stato, 2013). Uno scenario interpretativo che appare condivisibile.
Negli anni Settanta molti musei sono nati da incontri avvenuti sul territorio tra collezionisti appassionati, spesso ex contadini, studiosi locali, studiosi universitari, sindaci, assessori. Una sorta di alleanza per valorizzare le culture locali, ignorate e in via di abbandono definitivo. Spesso i collezionisti erano spinti dal desiderio di opporsi al crollo di un mondo che scompariva senza essere in alcun modo trasmesso. In questa volontà c’era l’idea di valorizzare un’altra faccia della cultura, disdegnata dal mondo dei colti elitari e dei possidenti che disprezzavano i contadini, quelli che amavano l’arte e la musica delle città, lontane dal sudore e dal lavoro, plasmatore di vita materiale, ma anche di habitus, di stili, di culture alimentari, di memoria, di trasmissione tra le generazioni.
L’assunto implicito era che i vecchi monumenti – pale d’altare e cippi ai morti della Prima guerra mondiale, passaggi di Garibaldi e transiti del Barbarossa – avevano finito di rappresentare la storia comune. La cultura locale da ricordare era invece quella dei contadini e degli artigiani. I musei nacquero ovunque in Italia dall’intento quasi religioso di salvare le culture del fare, i saperi, ma l’implicazione etica era quella che i nuovi monumenti del Paese erano i musei delle culture della gente comune e del saper fare, della cultura materiale, della fame e del lavoro. Monumenti nuovi e moderni perché poli di comunicazione non enfatici né epici, non limitati socialmente né elitari, ma capaci di didattica, di racconto, di trasmissione, di costituire archivi e di fare memoria delle generazioni che avevano plasmato con il lavoro il paesaggio e fatto la storia misconosciuta, quella che non si trova nelle guide rosse del Touring, piene di nomi di artisti, di chiese e di palazzi.
Paradigmatico il caso di Canepina (Viterbo), dove un gruppo di studiosi in dialogo con un sindaco sensibile nel 1988 ha realizzato un museo in un antico monastero, che rappresenta quindi un sodalizio e rinforzo tra edifici storici e museo come monumento moderno. Di recente, nel festeggiamento di un importante anniversario (i 25 anni), ex sindaci ed ex assessori delle giunte successive alla nascita del museo, fino alle attuali, hanno ricordato la memoria del primo sindaco fondatore. Anche se questo museo rischia la crisi – non è più gestito dal Comune ma dalla Comunità montana, e le Comunità montane sono in corso di ridefinizione –, al centro di questi festeggiamenti permaneva la sensazione e il riconoscimento che c’erano stati un sindaco, un professore e un gruppo di studiosi dal cui sodalizio era nato qualcosa di nuovo, di epico per quella comunità. Le collezioni e i musei si moltiplicano a partire da una volontà che non è più quella delle élites colte, ma di pensionati, di ex contadini, di maestri, che ha tratti pedagogici e rivendica uno spazio nella memoria delle comunità. Il museo di San Marino di Bentivoglio (Bologna), capostipite di questa museografia, inaugurato nel 1975 in concomitanza con un convegno nazionale di museografia agricola, nasceva dalla collezione di parti dei carri agricoli dismessi, per iniziativa del Gruppo della Stadura, un’associazione di ex contadini che poi promosse, insieme a un gruppo di storici dell’Università di Bologna e a funzionari e assessori dell’Amministrazione provinciale, il Museo della civiltà contadina.
Non sempre le amministrazioni comunali sono state sensibili e attente e, soprattutto nel Sud, ci sono stati piuttosto casi di impegno solitario da parte di generosi e appassionati collezionisti: per es., Antonino Uccello nella Casa museo di Palazzolo Acreide (Siracusa), ma anche Guatelli, a Ozzano Taro, che costruì il suo museo in polemica con la comunità contadina di riferimento, imbarazzata da un passato povero e che investiva nel presente della società dei consumi. Ed è tipico del modo dominante di vedere la cultura il fatto che Guatelli ebbe popolarità sulla stampa con il titolo storico artistico Un Louvre agricolo (G. Soavi, «Corriere della Sera», 26 sett. 2000). I musei furono anche riti di ‘istituzione’ di nuove comunità immaginate, che mettevano in primo piano figure ignorate della storia e della cultura (i migranti, gli orsanti, gli scimmiai, i mendicanti, oltre ai contadini e ai braccianti); Bertolucci per il suo film Novecento utilizzò strumenti di lavoro e memorie del museo Guatelli. Altri musei avevano nomi di fondatori e si riferivano a sodalizi tra studiosi, collezionisti ed enti pubblici (San Michele Adige, Trento, tra questi). In Toscana si avviarono molti progetti di musei partecipativi, come quello del Gruppo D’Erci (Firenze), che nel 1977 acquisì un complesso colonico per farne un museo in cui trasmettere anche i saperi e le pratiche dei mezzadri. Una esperienza diffusa.
I musei progettati da esperti della comunicazione, architetti innovativi, antropologi, cominciano ad apparire negli anni Novanta in presenza di un ciclo di risorse più vivace, caratterizzandosi spesso anche per l’uso di strumenti informatici e interattivi. Con i nuovi costi, l’investimento e la responsabilità dei musei crescono, ma già tende a venire meno il sodalizio attivo negli anni Settanta e Ottanta tra operatori del territorio, studiosi, ed enti locali. Questo processo nel tempo ha visto un vero scollamento e si è accentuato dopo il patto di stabilità che ha prodotto tagli di contributi, conflitti tra vari settori della cultura, chiusura di fatto di vari musei. I musei progettati nell’età delle tecnologie, i primi interamente progettati e anche allestiti da antropologi e non da collezionisti, vissero difficoltà maggiori, per i costi, ma anche perché visti dalla politica come più legati al ‘corredo del territorio’ di strutture di spicco che non a orientamenti culturali. Il rapporto con la generazione dei politici che veniva dalla nascita della Repubblica, dalla conquista delle regioni da parte dei mezzadri era già esaurito. Dell’inizio degli anni Novanta è un importante progetto che il gruppo di antropologi dell’Università di Siena aveva immaginato fin da un documento del 1975, legato al dialogo con San Marino di Bentivoglio e agli storici dell’Università di Bologna che lo avevano organizzato: un Museo del lavoro contadino dei mezzadri. Esso fu avviato con una ricerca e con un progetto di allestimento in una sede di proprietà dell’Amministrazione provinciale di Siena, ma fu interrotto – all’atto del bando per la realizzazione degli arredi espositivi – perché la Provincia aveva deciso di vendere la struttura (Palazzo al Piano), cosa che poi non riuscì a fare. La struttura per la quale erano stati ipotizzati vari investimenti possibili (ristorazione di cooperativa, foresteria per seminari, escursioni naturalistiche e così via) decadde totalmente. Circa dieci anni dopo fu identificata la sede nel Comune che più ampiamente aveva lavorato sui temi della museografia contadina, quello di Buonconvento; furono avviati una nuova ricerca e un nuovo progetto di allestimento e la Fondazione Monte dei Paschi diede un finanziamento (avendo da sempre speso soprattutto nel campo artistico). Nacque dunque il Museo della mezzadria senese del Novecento, con un direttore che era anche ideatore del progetto di allestimento e veniva da una formazione antropologico-museale. Dopo essere stato leader nelle iniziative sul territorio, referente per la Regione Toscana per iniziative regionali, e aver dato vita anche ad altri progetti museali, nel 2011 il Museo è stato privato del suo direttore e inserito nel quadro di una gestione provinciale centralizzata assunta dalla Fondazione Musei senesi, in cui tutta la vivacità dell’iniziativa locale è stata spenta. Questo tipo di esperienza di negoziazioni e conflitti era già inscritto nel titolo di un volume internazionale, Museum frictions (2006).
Pur continuando a crescere per numero e per professionalità e costi, i musei etnografici cominciavano a creare imbarazzo nelle spese e nelle iniziative comunali. Nuove generazioni di amministratori non li sentivano più come monumenti della cultura locale, sentivano invecchiate le ragioni di testimoniare la voce di un’altra cultura, preferivano puntare su eventi di socializzazione festiva. In un certo senso sono stati i sindaci a decretare di fatto la fine della rappresentatività collettiva dei musei, o chiudendoli, o modificandoli arbitrariamente, o usandoli per propri fini, o affidandoli a sistemi di gestione discutibili pur di eliminare i costi. Nonostante nel tempo molte regioni si siano date leggi sui musei, abbiano attivato uffici per i musei, in molte altre non è avvenuto, o la legge è rimasta inapplicata. Alcune regioni hanno creato gli ecomusei, riconoscendo una presenza territoriale alpina soprattutto di sedi museali e di comunità attive nella salvaguardia del territorio e dei saperi, ma il sistema dei musei comunali è entrato sempre più in crisi. Crisi di perdita di ruolo, di abbandono da parte dei protagonisti delle politiche locali, a causa del tradimento dei sindaci, che avevano perso la memoria degli impegni presi dai loro predecessori.
A Siena, il ‘sistema dei Musei senesi’ (Fondazione Musei senesi), che nasce per accedere alle risorse della Fondazione bancaria del Monte dei Paschi, favorisce l’abbandono da parte dei Comuni dell’impegno finanziario sui musei e una delega a una direzione lontana e burocratica. I sindaci sentono ancora il museo come un fattore identitario, di promozione del Comune, ma preferiscono non avere spese e perderne la responsabilità.
Nel 2013 la SIMBDEA ha realizzato un’inchiesta sulla base di una scheda sulla situazione dei musei etnografici in Italia, traendone l’impressione di una fase drammatica, anche rispetto alla soglia cronologica, come tante volte si è detto e scritto per le generazioni dei testimoni dell’olocausto e della Resistenza; una fase di vicinanza a una svolta catastrofica della memoria dei testimoni. In molte risposte si segnala che non c’è più nessuno che conosca l’uso o il sapere pratico relativo a certi strumenti e usi di essi. In molti casi si dice che i Comuni ostacolano i musei, non favoriscono i finanziamenti. Eppure il 24 febbraio 2014, in Sicilia, è stato prodotto un atto (il decreto di vincolo dell’itinerario Buscemi-Palazzolo Acreide) che lascia ben sperare, perché in questo caso è la Soprintendenza di Siracusa, con l’Assessorato alla Cultura e alla identità della Regione Sicilia, a venire in soccorso di due musei importanti, ma finanziariamente trascurati, come quelli di Palazzolo Acreide e di Buscemi, realizzando il primo vincolo nel settore DEA esercitato su un percorso di cultura materiale. Vengono così vincolati gli immobili del percorso ‘I luoghi del lavoro contadino’, che contiene una casa del massaro, un palmento, una casa del bracciante, le botteghe del calderaio, del falegname e del calzolaio, il frantoio e il mulino ad acqua.
Pian piano negli anni Ottanta il mondo degli studi, della conoscenza e della cultura sociale non elitaria hanno perso peso nel profilo della sinistra. Probabilmente oggi l’incontro tra un antropologo che abbia mantenuto il progetto di far vivere la memoria contadina nel presente e un giovane assessore alla cultura sarebbe visto dal secondo come dialogo impossibile tra due profili che non hanno possibili punti di incontro: l’interlocutore sarebbe visto come uno dei tanti postulanti, con in più la supponenza degli accademici, uno che parla di cose vecchie e ignote ai più, e ne parla come se fossero cose importanti per un Comune oggi.
Oggi si parla sempre più spesso, in tema di sviluppo sostenibile, di artigiani e contadini come nuova risorsa del territorio, si parla dei loro saperi, dei loro habitus preziosi per il futuro, delle gastronomie regionali e di zona, legate al ciclo dell’anno agrario e alla parsimonia, di tutto ciò di cui i musei avrebbero potuto essere presidio. Anche la memoria storica ha conquistato il web, spesso in modo dilettantesco, come una sorta di nuova cultura popolare e in molti siti sono intervistati gli anziani (per tutti, http://www.memoro. org/it, un progetto non profit, con «un archivio in costante evoluzione che chiunque può arricchire raccogliendo le esperienze di vita delle persone nate prima del 1950 sotto forma di racconti audio e video»). Intanto la rete nazionale dei musei DEA vive un disagio senza precedenti, di risorse e di autorevolezza culturale: il tradimento dei sindaci produce una vertigine, un vuoto nel valore pubblico che ha sempre animato i musei e per cui sono nati.
Tuscamelot è il nome con il quale Ivan Della Mea (1940-2009), voce amata e cantata dalla generazione della politica giovanile del Sessantotto, battezzò la Toscana quando tornò a viverci per esercitare il lavoro di presidente dell’IEdM (Istituto Ernesto de Martino). Lucchese di nascita, aveva continuato la sua storia a Milano nel Nuovo canzoniere italiano, nell’Istituto Ernesto de Martino e nel circolo ARCI/Corvetto, sempre a Milano, di cui era presidente. Un giorno ricevette una telefonata che gli cambiò la vita. Era il 1996 e dovette traslocare in Toscana, per seguire la rimessa in moto dell’Istituto, che rinasceva a Sesto Fiorentino grazie alla generosa offerta del Comune. Della Mea si dedicò all’IEdM fino alla fine della sua vita, e, nove anni dopo la telefonata che lo aveva riportato nella terra natia, scrisse Accadde a Tuscamelot. Cose di vita, cose di delirio (2005), in cui racconta le sue azioni di organizzatore di cultura:
La partecipazione a ‘Porto Franco-Toscana. Terra dei popoli e delle culture’ è stata una buona cosa anche se molto faticosa per via del progetto che era in se stesso portatore di mille generosità e altrettante confusioni. […] è stato importantissimo il seminario fatto a San Pancrazio frazione di Bucine Arezzo il luogo di una strage nazista, un seminario su storia e memoria e su significato e funzione della memoria: sei giorni che ci hanno dato modi veri e vivi di trovarci e parlarci e di conoscerci con la possibilità di allargare i rapporti di trovare e radicare amicizie, affetti anche; a nessuno dei relatori o seminaristi che fossero è stato permesso di portarsi dietro la propria scienza e la propria più o meno luminosa carriera accademica […] chi c’era si faceva portatore di se stesso delle proprie memorie delle memorie del passato da cui veniva quindi aveva una vita, delle vite da mettere sul tavolo, con le quali confrontarsi con altre memorie e altre storie (p. 43).
Sono queste le parole di un testimone particolare in un caso abbastanza rilevante della vicenda toscana degli assessori alla cultura.
La vicenda di Franco Cazzola che, assessore alla Cultura della Regione Toscana, dal 1995 al 2000 impresse un segno molto forte con la creazione di una politica culturale marcatamente orientata verso l’intercultura e la lanciò come ispirazione generale per la Regione. Studioso di scienza politica, in particolare della corruzione, con competenze soprattutto di area ispanica, latinoamericana e italiana, Cazzola era stato, prima che alla Regione Toscana, assessore al comune di Catania, in una giunta assai difficile. Il suo passaggio resta come un tentativo veramente raro nel quadro italiano delle regioni, di uscire dall’ordinaria amministrazione della cultura, e di ‘istituire’ una forma di cultura per una regione che entrava nel nuovo millennio, centrata sul viaggio, sulle migrazioni, sull’accoglienza, sulla contaminazione delle culture:
Toscana. Terra dei popoli e delle culture.
Siamo in viaggio. E portiamo con noi la nostra storia, passata e presente. Per viverla insieme nei modi più diversi. Perché la cultura è il luogo degli scambi. Perché la Toscana sia, consapevolmente, il porto franco dei popoli e delle culture. Donne, uomini, bambini, anziani, ognuno di noi è un mondo, ma non ci conosciamo. Ognuno di noi è diverso, e non solo per le tradizioni che porta in sé. Abbiamo in comune la diversità dei punti di vista. E la necessità di farli incontrare, con rispetto e curiosità, con passione e intelligenza. Questo viaggio ci renderà più simili e più diversi, e la grande Babele delle culture e dei linguaggi si trasformerà nel laboratorio collettivo di culture nuove, di nuovi linguaggi. Affermando il diritto di essere diversi, avendo tutti uguali opportunità. Affermando i valori della cultura e della civiltà contro l’ignoranza e la barbarie (Il manifesto di Porto franco, http://www.cultura.toscana.it/intercultura/progetto/idea_progettuale.shtml).
Un proclama pressoché unico nel mondo che raccontiamo. Il progetto fu avviato nel 1999 e confermato con la l. reg. 23 marzo 2000 nr. 42. Questa legge, con un manifesto dal grande afflato ideale, si dava anche delle forme organizzative in cui non si puntava a un comitato scientifico universitario, ma a un gruppo di rappresentanti dell’associazionismo culturale, con un rilievo particolare per le associazioni che rappresentavano gli immigrati. Il progetto aveva varie implicazioni, doveva organizzare campus internazionali, incontri tra Paesi tra loro in guerra, archivi della memoria dei nuovi cittadini migranti, interventi didattici nelle scuole, esperienze di empowerment di genere a favore delle donne.
In effetti, esso ha lasciato una forte immagine pubblica e forse ha contribuito a ridare vita alle iniziative dell’ARCI sui temi delle migrazioni e del razzismo, a rafforzare attività della società civile, ma diventando sempre più un comparto della spesa, piuttosto che una ispirazione generale della regione, che lo sentiva invece come molto ideologico e turbativo di un clima culturale piuttosto perbenista. Alcune parole d’ordine, come contaminazione, apparivano un po’ eccessive per l’immagine che a livello generale si aveva dei compiti di una regione. Piuttosto che contrastato, il progetto fu isolato e progressivamente si spense. Esso nasceva nell’anno in cui l’assessore Cazzola terminava il suo mandato, e, pur restando l’espressione porto franco per molti anni tra le voci di spesa, lo spirito non sopravvisse a lungo; un caso forse di eccesso di ‘istituzione della cultura’, ma che mostra le grandi potenzialità di un assessorato dove c’era una forte volontà di imprimere una idea guida, non solo di distribuire voci di bilancio.
Insieme a Fontana per la Regione Lombardia, il caso di Cazzola si propone come esemplare di altri usi possibili delle politiche culturali regionali.
In Toscana, gli assessori alla cultura hanno costantemente ricevuto, fin dalla nascita della regione, proposte di coordinamento, monitoraggio e partecipazione provenienti da reti di volontari, universitari e musei, ma le hanno per lo più ignorate a favore di altri settori o del finanziamento a pioggia. Tra i successi, molto limitati, uno dei più importanti, forse, è la ricerca sugli Archivi orali in Toscana, che ha dato vita a un fondamentale volume documentario: I custodi delle voci. Archivi orali in Toscana: primo censimento (a cura di A. Andreini, P. Clemente, 2007), senza esiti ulteriori. La Toscana non è una regione ‘classica’ delle culture popolari del Novecento; lo era stata piuttosto nell’Ottocento, patria di canti e di novelle. Si tratta di una regione abbastanza paradigmatica della situazione di quelle a statuto ordinario: è una regione attiva, che nel tempo è riuscita a coordinare nei limiti del possibile le province e ha avuto un ruolo anche nel dialogo nazionale tra le regioni. Verrà usata come riferimento per segnalare temi che sono più generali e comuni. Le osservazioni critiche che saranno fatte nel rapporto con le culture popolari non intendono considerare negativo quel percorso, ma mostrare come la politica, anche in una regione di una certa vivacità, non abbia interesse o capacità di progettare culturalmente in modo autonomo e innovativo.
Dentro le giunte regionali sono presenti forti dinamiche areali, legate ai territori elettorali dei politici, e ai loro luoghi di provenienza come parte della rappresentanza regionale complessiva. La politica culturale essendo meno vincolata di altre politiche si presta di più ad accontentare una domanda che è complessivamente marginale, ma permette una certa visibilità e diffusione sul territorio. È dalla nascita delle regioni a statuto ordinario che la politica culturale e gli assessorati alla cultura stabiliscono con i cittadini rapporti di domanda-offerta che non sono tanto mirati a obiettivi unitari di natura progettuale, quanto a soddisfare e incoraggiare un protagonismo plurale dei territori, che va dalla pubblicazione di un libro, al finanziamento a un gruppo musicale, alle associazioni culturali, a quelle naturalistiche, ai centri locali, ai musei. Il che viene fatto senza una razionalità progettuale centrale e per lo più ‘a pioggia’, e in modo orientato anche dai riferimenti territoriali e professionali degli assessori. Il comparto della cultura è diventato un settore della spesa pubblica, più libero di altri e più soggetto a varietà di richieste. In generale si può dire che l’idea gramsciana della cultura come legata a gruppi sociali e pratiche egemoniche, che comportava un progetto di nuova cultura moderna e di massa ad alto protagonismo sociale in una delle principali ‘regioni rosse’, si è spenta sulle prime propaggini dell’istituzione regionale, trasformata in battaglie plurali per l’accesso alle risorse di molteplici soggetti. Soggetti che sono anche essi costitutivi della democrazia, come le classi sociali progressive di Gramsci, ma la coniugano come una sorta di trattativa per accedere ai finanziamenti.
Su questo terreno è visibile meglio che altrove il dato di una sconfitta storica del concetto antropologico di cultura, oltre che di quello sociopolitico di Gramsci. Nel senso che, con il configurarsi della cultura come una sorta di luogo del finanziamento di soggetti costituiti, essa è diventata un ambito del consumo e della mediazione, favorendo una domanda dal basso che, priva di progettualità comune tra istituzioni e società civile, ha privilegiato in modo vistoso, da un lato, il dilettantismo, dall’altro, ciò che era già radicato in ambito culturale e quindi gli intellettuali tradizionali, le forme elitarie della cultura, e ciò che essi intendevano per cultura, ovvero quella idealistica diffusa e radicata, legata all’arte e alla letteratura, e, più avanti, estesa al cinema e al teatro, ma radicalmente inadeguata a capire la pluralità delle culture locali e ‘altre’.
Il carattere di cultura come luogo di organizzazione del consumo e della mediazione è apparso, come si diceva, in modo vistoso negli anni Novanta con la nascita delle fondazioni bancarie, che hanno duplicato, per territori spesso più limitati di quelli regionali e provinciali, la disponibilità di risorse a favore dei molteplici protagonisti della richiesta. A Siena per molti anni è stato un grande rito collettivo quello di acquistare «La Nazione» un certo giorno d’autunno per leggere l’assegnazione dei finanziamenti legati agli utili della Banca senese e poi in modo strutturato dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena: migliaia di nomi di soggetti associativi, ma anche comuni, ospedali, istituzioni private e pubbliche o miste, nate proprio per orientare la ricezione dei fondi. Un fenomeno vistoso in Toscana, in cui la distribuzione delle risorse è asimmetrica ma capillare, diffusa in province, regioni e subaree. La cultura, considerata uno dei punti forti dell’erogazione delle fondazioni bancarie, è stata la cultura dello spettacolo e della tradizione idealistica, in competizione con ogni tipo di attività sportiva di base e ogni tipo di associazionismo, socialmente esistente o no. La provincia di Siena ha da sempre un’anomalia nella distribuzione delle risorse, se vista su scala nazionale o regionale, perché a 270.000 abitanti, contro i 3.704.152 della regione, è stato possibile accedere a risorse del tutto inimmaginabili per altri territori; le risorse bancarie hanno sostituito – almeno nell’ambito della cultura – i bilanci dei comuni e della provincia, nutrendo centinaia di associazioni, enti, squadre, iniziative, gruppi, attività di assessorati.
Con una spesa mirata, Siena e la sua provincia avrebbero potuto essere luoghi di eccellenza della cultura, e invece oggi sono una terra desolata. La diffusione di risorse senza progetti e regole ha fatto sì che la cultura sia rimasta ai margini, giacché lo spazio culturale richiede progettualità e il consumo culturale dal basso richiede formazione e partecipazione. Una città che ha già una così forte base di partecipazione, centrata sulle contrade, che ha avuto delle risorse proporzionalmente gigantesche in confronto ad altri contesti, sempre gestita dalla sinistra, è invero culturalmente all’anno zero, ha chiuso le sue istituzioni più significative e vede vacillare quelle strutture di rete, create in totale separatezza dalle politiche regionali, che erano nate per valorizzare il finanziamento della Fondazione. È chiaro che in questa scena la politica e le sue mediazioni giocano un ruolo così potente da fare sì che essa abbia finito per coincidere con la gestione della Fondazione bancaria del Monte dei Paschi. Nella distribuzione a pioggia delle risorse, e nel condizionamento lobbistico e politico delle spese più consistenti, la cultura ne è uscita massacrata, priva di idee guida, sommersa dalla moltiplicazione di domande di ogni tipo. Nel 2008, per es., la Fondazione ha erogato contributi a 1345 soggetti vari, per un totale di 135.369.500 euro; sono state oggetto delle erogazioni più consistenti associazioni molto diverse tra loro, laiche e religiose (in grande quantità), e amministrazioni comunali. La fonte (rilevata sul web alla voce Fondazione Monte dei Paschi, contributi) meriterebbe una pubblicazione a sé, con note a piè di pagina per illustrare il concetto di contributi senza progetto, a pioggia, e il concetto di cultura inteso come distribuzione di soldi.
Nello scenario regionale italiano sono cresciuti processi di partecipazione culturale originali e significativi, in cui gruppi di attori locali hanno aperto piccoli luoghi marginali a dimensioni internazionali di cultura e di visibilità: anche la Toscana ne è ricca. Ma la Toscana resta per definizione una regione dove contano le città, la grande arte, le figure di Leonardo e di Botticelli, dove il paesaggio agrario e la vita della gente non sono rappresentati se non nelle opere d’arte, e sono assenti nel mondo intellettuale come nelle guide rosse del Touring club italiano. La prima iniziativa della Fondazione Musei senesi, con alti costi di gestione, fu quella di organizzare una mostra in cui le opere della grande arte venivano diffuse nei piccoli musei comunali, spesso legati ai temi della cultura contadina, artigiana, o alla archeologia, così che la grande arte potesse benedire i poveri mondi della storia della gente comune.
La Toscana moderna non ha più il ruolo che aveva nel passato, è una regione importante, piena di potenze plurali, che non riesce a pensarsi nel passato prossimo e deve ricorrere al passato remoto e agli stereotipi per definirsi. Negli anni del Novecento in cui la conobbe Gramsci, nel lavoro sugli intellettuali, ne scrisse: «la Toscana oggi non ha una particolare funzione nella cultura nazionale e si nutre della boria dei ricordi passati» (Gramsci 1975, pp. 1288-89). Ed è in questo senso che appare mirabile, anche se forse troppo radicale, il progetto di Cazzola, con Porto franco, di dare un segno alla cultura di questa regione.
I tempi cambiano, anche le istituzioni si trasformano; probabilmente negli anni Settanta un assessore alla Cultura e uno studioso di cultura popolare avevano qualcosa in comune, nel lessico almeno, nell’intendere ciò di cui si parla, nel condividere tratti di ideologie, sul ‘dove si va lavorando nel campo della cultura’. Da tempo non è più così. Lo scenario della politica e del rapporto tra cultura e società è mutato in modo fondamentale, e spesso difficile da comprendere. In qualche modo l’attività degli intellettuali ha finito per apparire parte di un disegno di conservazione, di privilegio, di ‘distinzione sociale’. Chi fa un progetto di istituzione della cultura animato da uno ‘spirito pubblico’ può essere visto come un pericoloso concorrente nell’uso del pubblico denaro e come esponente di una ‘casta culturale’ che cerca di trovare spazio. Lo scollamento storico tra la cultura e la sinistra è avvenuto lungo il tempo, negli anni Ottanta, e ha fatto perdere reti di intercomprensibilità e di scambio. In questo agire degli studi, di tanti appassionati della memoria e degli oggetti, verso le regioni, c’era la convinzione che le regioni sono forme di autonomia e di attivazione di cittadinanza, c’era la fondamentale condivisione ‘ideologica’ e politica di uno ‘spazio istituzionale’ adeguato, giusto. Le regioni alla loro nascita avevano un mondo davanti. Possibili laboratori tra istituzioni e società civile. Avevano nell’Italia centrale un elettorato e una cittadinanza vivaci, attive, che si esprimevano anche nelle case del popolo, nell’associazionismo, nelle feste pubbliche, riviste, intellettuali, movimenti.
Facendo un bilancio, si può dire che, con qualche eccezione, le regioni (anche quelle a statuto speciale) non hanno puntato alla cultura come tratto identificante, ma l’hanno considerata un comparto secondario del lavoro amministrativo. Ci sono iniziative culturali locali portate avanti con passione, impegno, buona volontà di sindaci e associazioni che, viste da vicino, rappresentano una ‘alterità’ preziosa, veramente importante come tesoro della varietà delle forme, e che sono fuori dell’occhio dell’evidenza culturale: un assessore sa dei grandi musei, sa dell’opera lirica, non dell’ottava rima, nè dei Maggi della Garfagnana, del Maggio di Buti, dove il lavoro si intreccia con la vita quotidiana della gente comune, attuando quella salvaguardia che l’UNESCO suggerisce come paradigma delle culture della diversità: con fatica e scarso riconoscimento, con fragilità. Hanno il valore delle lingue che si perdono, e si riconquistano, dei diritti dei nativi. Ma tutto questo non è noto, non lo è come la Galleria degli Uffizi, o lo skyline di Venezia. Non c’è soprintendenza che se ne occupi .
Sarebbe stato possibile per le regioni elaborare progetti culturali caratterizzanti? A provare che esiste la possibilità di fare diversamente sono proprio i nuclei di quelle istituzioni della cultura popolare e/o della museografia diffusa che abbiamo segnalato per la Lombardia, il Lazio, la Sicilia, il Piemonte, come anche la ‘fiammata’ di progettualità culturale che animò la Regione Toscana con la creazione di Porto franco e il breve passaggio di un assessore venuto da altrove. Tra le amministrazioni provinciali, quella di Torino ha lungamente tenuto punti di ricerca sul territorio, e infine coordinato una rete di province che intervenivano sui temi della cultura popolare, e da Torino è nata la Rete italiana della cultura popolare. Tra i funzionari regionali quelli della Regione Lazio hanno saputo scrivere regole in spirito di servizio territoriale e mantenerle a lungo nel tempo, orientando lo sviluppo dei musei, creando anche liste di professionalità cui accedere per la ricerca territoriale sulla base di un punteggio pubblico, tra cui una lista di antropologi.
Soprattutto, stanno a testimoniarlo le iniziative esterne all’Italia, come in Francia la Mission du patrimoine ethnologique, dove gli antropologi sono professionisti del monitoraggio sulle culture locali dei dipartimenti del territorio francese, fanno progetti di territorio, lavorano con i musei. Oppure i molti casi europei di forte investimento anche con associazioni ONG sulle tematiche del patrimonio culturale immateriale. In particolare il Belgio, soprattutto nell’area fiamminga promuove un lavoro tra studiosi e società civile di straordinario rilievo, il cui esito è attivare la compartecipazione delle culture locali alla propria valorizzazione e salvaguardia; una associazione come FARO (Flemish interface centre for cultural heritage), collabora con il governo regionale.
L’esperienza dei Paesi dell’Est europeo verso la diversità culturale presenta molti casi interessanti: in evidenza l’Istituto di folclore della Croazia, un centro di ricerche territoriali che dialoga con la popolazione, studia, segnala, salvaguarda, documenta, produce archivi, composto da specialisti antropologi ed etnomusicologi. Nei Paesi dell’Est ci sono anche forme istituzionali di introduzione, nelle Accademie delle arti, delle manifestazioni della cultura popolare, così che la loro ‘diversità’ sia appresa dagli artisti in tutti i campi.
«La lotta per la giusta definizione di cultura o di arte è in effetti uno dei tratti salienti della modernità» veniva ricordato dal Laboratoire d’anthropologie et d’histoire de l’institution de la culture del CNRS francese (Fabre 2003, p. 185). Sembra lecito immaginare che le regioni a statuto ordinario avrebbero potuto essere protagoniste di importanti processi di ‘istituzione della cultura’, capaci di dialogare con i cambiamenti e con le memorie, di orientarli entro direzioni condivise. Era questo un tema del dibattito culturale degli anni Settanta di cui si è persa traccia (per una rivalutazione del dibattito anni Settanta, cfr. Caliandro, Sacco 2011).
Sulla base di queste esperienze assai critiche si intravedono però oggi diversi modelli di possibilità per le culture popolari. Sono quelli attivati dal tema internazionale del patrimonio culturale immateriale, quello che chiamiamo ICH (Intangibile Cultural Heritage), perché l’Italia ha un Codice dei beni culturali che nel ‘patrimonio’ non riconosce l’immateriale, e quindi una legislazione in cui l’immateriale (espressione d’altra parte molto controversa) è presente solo nelle forme di legislazione di indirizzo e non vincolanti (la soft law), come lo sono appunto le Convenzioni ICH (2003) e sulla diversità culturale (2005) e la Convenzione europea di Faro (2005).
In effetti, si tratta di un’idea di espressione della diversità culturale attraverso un progetto di autogestione dal basso, di costituzione di comunità, in cui sono i gruppi locali i soggetti sia di diritti sia di pratiche di salvaguardia: questo approccio può dare vita anche a ‘inventari partecipati’, una sorta di monitoraggio fatto con la popolazione locale che riflette e si attiva sulla definizione e la salvaguardia dei fenomeni di cui la popolazione stessa è protagonista, competente, animatrice. È un nuovo campo di iniziativa anche per le regioni. La regione delle Fiandre, in Belgio, ha usato questo ambito per una sorta di rivoluzione anche negli studi e nel modello di antropologia della collaborazione, secondo formule vicine a quelle dei diritti e della cooperazione internazionale, della mediazione culturale.
Il Ministero per i Beni e le Attività culturali in Italia non ha ancora investito chiaramente in questo campo. Nel 2007, anno in cui l’Italia ha firmato la Convenzione del 2003, l’allora ministro Rutelli istituì un Comitato scientifico per la valorizzazione delle tradizioni italiane: era composto da antropologi culturali, funzionari del MIBAC impegnati nel settore DEA, etnomusicologi ed esponenti di alcune importanti associazioni culturali. Questo comitato scrisse un documento sulle linee da seguire per fare del rapporto con l’UNESCO un progetto condiviso e plurale, e non delle assurde classifiche tra i fenomeni culturali più importanti. Da quella ispirazione nacque il dossier per la candidatura della Rete delle grandi macchine a spalla, che nel 2013 è stata riconosciuta nella lista internazionale ICH come buon esempio di candidatura. Il ministro aveva identificato una strada di mediazione e condivisione, che però fu interrotta con la caduta del governo Prodi nel 2008; il ministro successivo lasciò cadere ogni iniziativa. Eppure, in questo ambito, si può oggi anche guardare con fiducia al futuro delle regioni, quando esse si vogliano immaginare piuttosto come agenzie collettive che investono sulla molteplicità dell’offerta di un territorio che non come luoghi della mediazione politico-amministrativa.
Ragionando sulle diverse fasi del rapporto tra antropologi e regioni, nella nostra storia recente, Vito Lattanzi, segnala il passaggio intervenuto dal censimento delle culture e delle tradizioni nelle aree extraurbane delle regioni storiche dell’Italia, allo studio sui processi di patrimonializzazione, e infine a una nuova fase:
Il dato indiscutibile è che la situazione contemporanea è invertita di segno rispetto al passato, quando erano gli sguardi degli osservatori a costruire identità. Oggi sono le diverse realtà territoriali a costruire localismi da utilizzare in termini di politica ideologica e culturale. Quel patrimonio di sguardi è evidentemente ormai tesaurizzato e costituisce una fonte di cui servirsi per definire un’immagine di sé, in tanto autentica in quanto storicamente fondata. Quella odierna dunque è un’altra storia (A piccoli passi oltre il folklore: antropologia e culture regionali, in Il cannocchiale sulle retrovie, a cura di A.M. Sobrero, 2012).
Che si tratti di fenomeni di tradizionalizzazione della modernità, o di costruzione politica di consenso, o di comunità di eredità costruite dal basso, i cui i diritti si affermano nella scena internazionale, il rapporto culture/regioni deve essere rivisto secondo questo tipo di prospettiva in uno scenario europeo e mondiale.
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Una e plurale. L’Italia della cultura, a cura di L. Zannino, Roma 2013.
Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta il 14 luglio 2014.