Le dolci rime d'amor ch'i' solia
. Questa canzone (Rime LXXXII) è stata commentata da D. nel trattato IV del Convivio. È costituita di 7 stanze di 20 versi endecasillabi (13) e settenari (7), e un congedo di 6, dei quali 4 endecasillabi e due settenari. La struttura metrica della stanza (due piedi di 4 versi ciascuno, e sirma di 12 versi) segue lo schema abbc baac: cde e dd ff egg.
Oltre che nella tradizione manoscritta del Convivio, la canzone si trova, insieme con altre rime di D., in codici autorevoli del sec. XIV, come il codice Martelli, il Chigiano L VIII 305, il Magliabechiano VI 143, il Veronese 445, i due autografi del Boccaccio (Chigiano L V 176 e Toledano 104 6), dove occupa il quarto posto nella serie di 15 canzoni che comincia con Così nel mio parlar e si chiude con Amor, da che convien. Indipendentemente dalle edizioni a stampa del Convivio, la canzone fu pubblicata per la prima volta in appendice all'edizione di Pietro Cremonese della Commedia (Venezia 1491) insieme con le altre quattordici canzoni della tradizione Boccaccio, alle quali si trovano aggiunte altre due canzoni della Vita Nuova in principio, e il discordo Aï faux ris, in fine. Nell'edizione Giuntina del 1527 è al terzo posto, dopo Voi che 'ntendendo e Amor che ne la mente, seguita da Poscia ch'Amor, nel Libro IV della sezione dantesca, che comprende cinque " canzoni morali ". Nell'edizione del '21 il Barbi la collocò nel Libro IV, che comprende " Rime allegoriche e dottrinali ", al quarto posto dopo Amor che ne la mente, e prima di Poscia ch'Amor.
Cronologicamente, la collocazione proposta dal Barbi è coerente con quanto D. afferma nel Convivio (IV I 3-8) sulla composizione di questa canzone avvenuta nel periodo dei suoi intensi studi filosofici cominciati qualche anno dopo la morte di Beatrice e precisamente poco tempo dopo la composizione di Voi che 'ntendendo e Amor che ne la mente (1294-95).
Nella prima stanza della canzone, che fa da proemio, D. ci fa avvertiti del nuovo corso della sua poesia, di un nuovo indirizzo di poetica, che solo qualche anno prima esplicitamente aveva escluso (cfr. Vn XXV 6): non più dolci rime d'amor, non più il soave stile che aveva tenuto nel trattar d'amore (v. 11), ma rima aspr'e sottile (v. 14) per confutare le errate opinioni sulla nobiltà dell'uomo, e per dimostrare in che cosa essa veramente consiste.
Si può avere l'opinione che si vuole intorno all'allegoricità o meno della Donna gentile della Vita Nuova, di Voi che 'ntendendo, di Amor che ne la mente, ecc., cioè si può anche mettere in dubbio che tale gruppo di rime sia stato composto originariamente per la Filosofia, ma nessun dubbio può esistere sul fatto che veramente D., qualche anno dopo la morte di Beatrice, si diede allo studio della filosofia, cominciando con il De Consolatione di Boezio e col De Amicitia di Cicerone, e continuando con altre opere e con altri autori che via via veniva apprendendo frequentando le scuole de li religiosi e le disputazioni de li filosofanti (Cv II XII 7). Studiando in quel tempo l'Etica a Nicomaco di Aristotele nella traduzione latina commentata da s. Tommaso, D. credette di scoprire che cosa è la vera nobiltà, e questa sua scoperta volle mettere a disposizione dei suoi concittadini e degl'Italiani tutti che avevano opinioni errate su l'umana bontade in quanto in noi è da la natura seminata e che ‛ nobilitade ' chiamare si dee (Cv IV I 7). È probabile, inoltre, che le particolari condizioni politiche e sociali del comune di Firenze in quel periodo di tempo in cui D. si era dedicato agli studi filosofici (1293-95: dittatura delle masse popolari rappresentate da Giano della Bella), abbiano contribuito a far meditare il poeta sul problema della nobiltà, e a spingerlo a trattarne di proposito in una canzone.
Con la seconda stanza comincia la trattazione della questione, suddivisa in due parti principali di tre stanze ciascuna: nella prima parte si esaminano e si confutano le opinioni di coloro che sostengono che la nobiltà sia fondata su antica tradizione di ricchezza, e che si trasmetta di padre in figlio; nella seconda si propone e si dimostra in che cosa consiste la vera nobiltà.
L'ordine del discorso segue rigorosamente il procedimento caratteristico della quaestio disputata secondo la tradizione tomistico-aristotelica: prima si riprova il falso e poi si dimostra il vero. Prima, dunque, dimostrerà l'errore della falsa opinione attribuita all'imperatore Federico II, secondo cui la nobiltà consiste nella ricchezza che si è tramandata da antico tempo, accompagnata dai bei costumi: Tale imperò che gentilezza volse, / secondo 'l suo parere, / che fosse antica possession d'avere / con reggimenti belli (vv. 21-24). D. nel Convivio sentirà il bisogno di circondare di cautele la sua confutazione dell'opinione dell'imperatore (cfr. IV VIII e IX). Nel testo poetico, invece, dei versi che abbiamo citato e dei successivi 45-48, D. non ha scrupoli di sorta né timore reverenziale verso l'imperatore; si direbbe, anzi, che egli provi un certo compiacimento polemico nel rilevare il difetto dell'opinione imperiale. E in verità, al tempo in cui componeva la canzone, D. non aveva motivo di usare particolari riguardi all'opinione dell'imperatore perché appartenente a famiglia di lunga tradizione guelfa. Ma quel che D. non sapeva, e lo ignorerà anche al tempo della composizione del Convivio, è che la definizione attribuita all'imperatore corrispondeva in parte alla definizione che della nobiltà aveva dato Aristotele nella Politica, che D. stesso citerà nella Monarchia (II III 4). La definizione dell'imperatore, dice D., è falsa perché dà come predicato della nobiltà, che vuol dire perfezione, la ricchezza, che è cosa vile e perciò imperfetta per sua natura, in quanto chi la possiede non s'acqueta mai nel suo desiderio di accrescerla (Che siano vili appare ed imperfette, / ché, quantunque collette, / non posson quietar, ma dan più cura, vv. 55-58). La ricchezza, quindi, non solo non può generare nobiltà, ma è il contrario della nobiltà: l'imperfezione di contro alla perfezione. Non meno falsa è la parte della definizione che riguarda l'antichità delle ricchezze, perché coloro che sostengono che gentile sia colui che può vantare grandi ricchezze trasmesse da antico tempo nella propria schiatta, escludono con ciò che un uomo da vile che è possa diventare gentile; e che da un padre vile possa nascere un figlio gentile; ma così essi vanno contro la loro stessa definizione nel punto in cui essa sottolinea che occorre del tempo per costituire la condizione della nobiltà. Inoltre, se fosse vera tale definizione, ne deriverebbe di necessità: o che tutti gli uomini sono gentili o villani, secondo che il primo uomo, Adamo, sia stato gentile o villano (il che contrasta con l'evidente distinzione che c'è nella realtà di questo mondo fra uomini nobili e uomini vili); oppure, che all'origine del genere umano non ci sia stato un solo uomo, ma più uomini, e ciò non si può ammettere perché contrasta con la verità insegnata dalla religione cristiana: Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo, / che siam tutti gentili o ver villani, / o che non fosse ad uom cominciamento; / ma ciò io non consento, / ned ellino altressì, se son cristiani! (vv. 69-73). Dimostrata la falsità della definizione dell'imperatore, D. dirà ora che cosa si debba intendere per nobiltà. La nobiltà e la virtù morale, la quale è, secondo che l'Etica dice, / un abito eligente / lo qual dimora in mezzo solamente (vv. 85-87), convengono ambedue in questo: che l'una e l'altra producono un medesimo effetto, cioè lodare e rendere pregiato colui cui esser si dicono (Cv IV XVIII 3). Infatti, la nobiltà, essendo perfezione dell'esser di una cosa, comporta sempre il bene della cosa stessa, e quindi, nel nostro caso, dell'uomo; come il suo contrario, la viltà, essendo imperfezione, comporta sempre il male; e la virtù morale, che è disposizione nell'uomo ad agire con la sua libera volontà per essere felice nella vita attiva, si manifesta sempre come un bene di chi ne è dotato. Stando così le cose, il convenire insieme la nobiltà e la virtù morale nel medesimo effetto di procurare lode alle persone che ne sono dotate, porta come conseguenza che, o l'una deriva dall'altra, o tutte e due da una terza; ma se l'una val ciò che l'altra vale, / e ancor più, da lei verrà più tosto (vv. 98-99). La nobiltà vale di più della virtù, perché si estende di più. L'esercizio di ogni virtù presuppone, infatti, la perfezione del soggetto operante, che è appunto la nobiltà, mentre questa può essere nell'uomo senza che ci sia operazione di virtù: È gentilezza dovunqu'è vertute, / ma non vertute ov'ella; / sì com'è 'l cielo dovunqu'è la stella, / ma ciò non e converso (vv. 101-104). È questa, dunque, che deriva dalla nobiltà, e non viceversa. Nessuno perciò si vanti di essere nobile per diritto ereditario di stirpe, perché coloro che hanno una tal grazia sono quasi esseri divini, e solo Iddio la dona all'anima che è perfettamente posta nella persona a cui è stata destinata: Però nessun si vanti / dicendo: ‛ Per ischiatta io son con lei ', / ch'elli son quasi dei / quei c'han tal grazia fuor di tutti rei; / ché solo Iddio a l'anima la dona / che vede in sua persona / perfettamente star (vv. 112-118).
Quali sono, dunque, i segni che distinguono l'uomo che ha ricevuto da Dio, fin dalla nascita, il dono della nobiltà? Èquesto l'argomento dell'ultima stanza della canzone: vi si afferma che nella prima età, che corrisponde al periodo dell'adolescenza (fino al venticinquesimo anno) l'anima nobile si mostra ubidente, soave e vergognosa (v. 125), e adorna il corpo a cui appartiene di bellezza, disponendo armoniosamente tutte le sue parti a perfezione. Nel periodo della giovinezza (fino al quarantacinquesimo anno) l'anima nobile si mostra temperata e forte (v. 129), esercitando le virtù della temperanza e della fortezza, necessarie ad attuare la propria perfezione; amorosa verso i suoi maggiori e verso i suoi minori; piena... di cortese lode (v. 130), perché la giovinezza è l'età in cui massimamente è bello essere di cortesi costumi; leale, cioè rispettosa e lieta nel seguire le leggi. Nella terza età, cioè nella senetta (dal quarantaseiesimo al settantesimo anno) l'anima nobile si mostra prudente e giusta, esercitando la virtù della prudenza e la virtù della giustizia; larga, esercitando la virtù della liberalità; lieta del bene altrui, esercitando la virtù dell'affabilità. Nella quarta e ultima età, detta ‛ il senio ' (gli ultimi anni della vita dopo il settantesimo anno) l'anima nobile ritorna a Dio, a Dio si rimarita, / contemplando la fine che l'aspetta, / e benedice li tempi passati (vv. 137-139).
L'ideale dell'uomo nobile e virtuoso vagheggiato qui da D. è di stampo aristotelico, possibile a realizzarsi nel tempo antico, prima del cristianesimo, e nei tempi moderni, ma sempre, in tale perfezione, per pochi eletti. In questa canzone ci sono già le premesse per la creazione dantesca del nobile castello del Limbo per gli spiriti eletti dell'antichità che bene operarono nella loro vita in questo mondo, facendo dare buoni frutti al seme di felicità infuso da Dio nella loro anima. Non per loro colpa personale è a essi negata la beatitudine celeste.
Nel congedo il poeta si rivolge alla canzone chiamandola Contra-li-erranti... nome d'esta canzone, tolto per essemplo del buono frate Tommaso d'Aquino, che a uno suo libro, che fece a confusione di tutti quelli che disviano da nostra Fede, puose nome Contra-li-Gentili (IV XXX 3), invitandola ad andare dov'è la sua donna, a cui potrà dire: ‛ Io vo parlando de l'amica vostra ' (v. 146). Come per i versi della prima stanza in cui si accenna alla donna del poeta (vv. 5-8, 18-20), anche per questi egli nel Convivio dà significato allegorico alla sua donna, che è la Filosofia. Per chi è convinto che con la canzone Voi che 'ntendendo D. diede inizio a un gruppo di rime di significato originariamente allegorico, non c'è che da rilevare la sua coerenza nel sostenere che la Donna gentile di cui egli s'innamorò dopo la morte di Beatrice è la Filosofia.
Bibl.-C. De Lollis, Quel di Lemosì, in Scritti vari di filologia in onore di E. Monaci, Roma 1901, 353-372; D.A., Le Rime, a c. di D. Mattalia, Torino 1943, 147; B. Nardi, D. e la cultura medievale, Bari 1949², 59; S. Santangelo, D. e i trovatori provenzali, Catania 1959², 109-129; M. Corti, Le fonti del ‛ Fiore di virtù ' e la teoria della nobiltà nel Duecento, in " Giorn. stor. " CXXXVI (1959) 65 ss.; V. Pernicone, Le prime rime dottrinali di D., in " Belfagor " XX (1965) 501-513; Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, Oxford 1967, 210 ss.; Barbi-Pernicone, Rime 411-437.