Le donazioni e la formazione del Patrimonium Petri
Nella tarda antichità il Patrimonium Sancti Petri1 era formato da estesi complessi fondiari, secondo il significato proprio dell’espressione e come altri dello stesso tipo (ad esempio Terra Sancti Benedicti), che, nell’incertezza perdurante circa la titolarità della proprietà ecclesiastica, attribuivano al santo protettore, o fondatore, i diritti di proprietà di una chiesa o di un monastero. Tali complessi dal quarto-quinto decennio del V secolo furono raggruppati al fine di centralizzare la gestione dei beni immobili della Chiesa romana. Ciascuno dei patrimoni così formati prese il nome da una provincia o da una città (c’era, per esempio, un patrimonium Siciliae, un patrimonium Ravennate, un patrimonium Appiae, etc.); ma tutti erano anche a un tempo ‘patrimoni di San Pietro’. Tuttavia tale espressione legata al possesso patrimoniale e non politico si mantenne in uso anche dopo che nell’VIII secolo la Chiesa romana uscì dall’orbita dell’Impero e il papa iniziò a governare in proprio i domini bizantini nell’attuale Lazio (ma solo nella seconda metà del XII secolo con il nome di Patrimonio di San Pietro si cominciò a designare specificamente tale territorio compatto). Infine, quando poi nel corso del XIII secolo altri territori (ducato di Spoleto, marca di Ancona, Romagna) vennero ad aggiungersi effettivamente al preesistente Patrimonio, il nome di questo fu usato sia in modo generico per l’insieme dei possedimenti papali, sia per indicare con precisione la parte settentrionale del nucleo originario, ovvero la Tuscia romana, che, diventata provincia a sé stante nel 1199-1200, assunse la designazione ufficiale di Patrimonio di San Pietro in Tuscia. L’espressione Patrimonium Sancti Petri è dunque utilizzata propriamente fino all’VIII secolo, ma in seguito suggerisce l’idea errata che il territorio sul quale la Chiesa romana ‘governava’ nel senso più o meno pieno del termine, a seconda delle epoche e delle singole regioni, si fosse formato mediante l’accorpamento dei patrimoni fondiari preesistenti. Al contrario, a partire dalla metà circa dell’VIII secolo inizia una effettiva amministrazione del dominio territoriale, ossia il governo di uno Stato della Chiesa come ‘eredità’ bizantina. In questa evoluzione Costantino è talora richiamato. Nella biografia di papa Silvestro nel Liber Pontificalis, Costantino destinava all’alimentazione delle lampade delle basiliche da lui fondate le rendite di alcuni possessi fondiari situati in Italia e in Africa e da un certo momento in poi anche in Egitto e in Siria2; invece, come è noto, nel Constitutum egli donava al papa la potestas sull’Italia e sull’intero Occidente3.
Nella suddetta biografia di papa Silvestro nel Liber Pontificalis, nel VI secolo, le notizie circa le donazioni fatte da Costantino a ciascuna delle basiliche da lui fondate sono articolate in due gruppi: da un lato i vasi liturgici e i lampadari; dall’altro i beni immobili relativi. Trattando della basilica del Laterano l’elenco dei beni immobili è collegato all’inventario delle lampade dalla frase «constituit in servitio luminum» per precisare che le rendite dei fondi rustici elencati di seguito erano destinate ad assicurare l’alimentazione delle lampade già enumerate4. Tali informazioni sarebbero state ricavate dal compilatore da documenti d’archivio, soprattutto donazioni, contenenti gli elenchi dei beni immobili e degli arredi liturgici, due aspetti che sarebbero collegati anche nelle altre fondazioni costantiniane5. L’abbinamento sembra sproporzionato; tuttavia le basiliche costruite per i cristiani dagli architetti di Costantino, molto simili all’esterno alle ‘basiliche’ laiche, si distinguevano all’interno per lo splendore della decorazione, la ricchezza dell’arredo e l’abbondanza dell’illuminazione: i 169 lampadari della basilica del Laterano portavano ben 8.730 lampade6. Nella Vita Silvestri si citano nove possessi situati in Sabina destinati a S. Lorenzo, almeno uno dei quali in origine doveva far parte dei beni indivisi della Chiesa romana prima di essere assegnato specificamente all’alimentazione delle lampade della basilica, probabilmente compreso tra quelli «ad ius corporis eorum (Christianorum), id est ecclesiarum, non hominum singulorum pertinentia», che Costantino e Licinio fecero restituire ai cristiani con l’editto di Milano7. I papi ottennero dal VI secolo la piena disponibilità sui vari tipi di possessi già assegnati alle singole basiliche, a formare un unico complesso patrimoniale gestito dai vicari di San Pietro, ma la destinazione, ad esempio per l’illuminazione delle basiliche, ebbe ancora un’importanza. Si trovano, infatti, ancora casi di assegnazione di rendite di alcuni beni immobili a tale uso specifico. Nel 604 Gregorio Magno destinava all’illuminazione della basilica di S. Paolo la «massa Aquas Salvias»; il suddiacono Felice, rector del patrimonium Appiae in cui questa massa era stata finora incorporata, era invitato a cassarla dall’inventario del patrimonium medesimo. Ancora intorno al 730 Gregorio II confermava la destinazione di una trentina di oliveti, inclusi nei patrimoni dell’Appia e della Labicana, alla «preparazione delle lampade» delle basiliche di San Pietro e di S. Paolo. Il documento relativo fu inciso su una lastra di bronzo che esiste tuttora sotto il portico della basilica vaticana8. In seguito, il richiamo alla «preparazione delle lampade sacre» appare invece uno stereotipo. Nell’VIII secolo si colloca l’avvio della fase decisiva della formazione del «dominio temporale» dei papi. La prima lettera del Codex Carolinus, inviata nel 739 da papa Gregorio III a Carlo Martello, lamenta che «non possiamo più sopportare le persecuzioni e l’oppressione dei Longobardi. Essi hanno portato via con la violenza l’intera illuminazione presso il principe degli apostoli» («omnia enim luminaria ad ipsius principis apostolorum [...] abstulerunt»). Qui luminaria è usato in senso metonimico: indica «terre i cui redditi servono a assicurare l’alimentazione delle lampade sacre nella basilica del principe degli apostoli»9. Le esigenze connesse con l’illuminazione delle basiliche degli apostoli appena dieci anni prima costituivano ancora un problema concreto nel solco di una tradizione che risaliva al tempo dell’imperatore Costantino. Esse vengono ora sostenute in modo generico allo scopo di giustificare l’appello dei papi ai maestri di palazzo carolingi. Nella seconda lettera del Codex Carolinus nel 740 Gregorio III dichiara a Carlo Martello che «il poco che era rimasto l’anno passato nel Ravennate, per il soccorso e il nutrimento dei poveri di Cristo e la preparazione delle lampade sacre», lo avevano ora devastato i Longobardi»10. Gregorio non si riferisce qui al patrimonium Ravennate: le devastazioni riguardavano in generale il territorio dell’esarcato. Accanto alla «preparazione delle lampade», diventata uno stereotipo, compaiono nel testo i bisogni dei poveri. L’estensione ha un sapore demagogico, anche se la destinazione ai poveri di un quarto dei redditi dei beni della Chiesa era teoricamente un punto fermo. Retoricamente sono così associati il subsidium et alimentum pauperum Christi e la luminariorum concinnatio, dando vita alla formula stereotipa che si troverà ancora documentata (come si vedrà) nelle lettere in cui Adriano I rivendicherà fra 781 e 783 l’‘intero territorio della Sabina’11.
Il primo dei due termini, il «sostentamento dei poveri», ricorre, in una formulazione ricalcata sulla Bibbia, anche nel Constitutum Constantini, redatto con ogni probabilità a Roma sotto il pontificato di Paolo I (757-67)12, dove è di nuovo usato in senso proprio come motivazione della donazione da parte dell’imperatore di alcuni praedia possessionum destinati specificamente alle basiliche di San Pietro e di S. Paolo13. Il falsario in questo punto evidentemente imita la sezione più antica del Liber Pontificalis e le due lapidi che recavano incisi i suddetti documenti di Gregorio Magno e di Gregorio II, tralasciando la ‘preparazione delle lampade’, poco confacente a una donazione smisurata di territori come quella che il Constitutum attribuisce a Costantino nei riguardi non più delle basiliche dei due apostoli ma di papa Silvestro e dei suoi successori sulla cattedra di Pietro:
Sia il nostro palazzo che la città di Roma e tutte le provincie, contrade e città d’Italia nonché delle regioni occidentali al beatissimo pontefice, il nostro padre Silvestro, papa universale, consegnando e accordando alla potestà e al dominio di lui e dei pontefici suoi successori per irremovibile giudizio imperiale, mediante questo nostro sacro diploma e costituzione dommatica decretiamo che siano resi disponibili e concediamo che permangano nel potere della santa chiesa romana14.
Il Constitutum ha cominciato a circolare verso la metà del IX secolo, inglobato nelle decretali pseudoisidoriane; fino all’età gregoriana le collezioni canoniche accolgono estratti della sola prima parte del Constitutum (malattia e conversione di Costantino); soltanto a partire dal pontificato di Leone IX (1049-1054) l’attenzione dei canonisti si rivolge anche alla seconda parte (cessione del palazzo del Laterano e delle insegne imperiali e soprattutto di Roma e dell’Occidente a papa Silvestro e ai suoi successori). Vi è tuttavia un riferimento indiretto al falso in una lettera di Adriano I a Carlo Magno. Adriano aveva denunciato numerose volte l’inadempienza del re dei franchi riguardo alle promesse di Pipino e sue, in particolare la promessa di donazione fatta da Carlo a San Pietro il 6 aprile 774 in occasione del suo primo viaggio a Roma. In una delle due lettere inviate al sovrano nel maggio 778 Adriano scrive:
Come ai tempi del beato Silvestro romano pontefice, dalla generosità del religiosissimo Costantino di santa memoria grande imperatore, la santa, di Dio, cattolica e apostolica chiesa romana fu levata in alto e esaltata (egli si degnò di accordarle il dominio in queste regioni dell’Esperia), così anche in questi felicissimi tempi vostri e nostri la santa chiesa di Dio, cioè del beato Pietro apostolo germogli e esulti e rimanga più e più esaltata in modo che tutte le genti che abbiano udito ciò possano dire: «Signore, fa salvo il re e esaudiscici il giorno in cui ti avremo invocato perché ecco che un nuovo cristianissimo, di Dio, imperatore Costantino è spuntato in questi nostri tempi e per mezzo suo, Dio si è degnato di accordare tutto alla sua santa chiesa del beato Pietro principe degli apostoli»15.
La lettera, pur accennando unicamente a «queste regioni dell’Esperia» cioè dell’Italia, mentre la clausola territoriale della donazione include «tutte le province contrade e città» non solo dell’Italia bensì anche delle «regioni occidentali», sembra riferirsi al Constitutum. L’essenza è infatti l’utilizzo di Costantino quale modello di grande imperatore che ha concesso alla Chiesa romana il «dominio», ben oltre quanto si poteva leggere, in termini patrimoniali, nel Liber pontificalis. Adriano distingue bene le due cose, dominio e patrimonio. Infatti, proseguendo, avanza a Carlo la richiesta che anche tutti gli altri beni che da diversi imperatori, patrizi e altre persone [...] erano stati concessi al beato Pietro apostolo e alla santa di Dio e apostolica chiesa romana nelle regioni della Tuscia, Spoleto, Benevento e anche Corsica e patrimonium Sabinense, e che nel corso degli anni erano stati sottratti e portati via dall’esecrabile gente dei Longobardi, fossero ai giorni vostri restituiti. Di questi beni, in più casi il nostro scrinium del Laterano conserva i relativi atti di donazione. Nondimeno ve li mandiamo in visione affidandoli ai latori della presente. Di questo preghiamo l’eccellenza vostra, che dia ordine di restituire integralmente i patrimoni medesimi al beato Pietro e a noi16.
Qui non si fa nessun riferimento alla potestas, al «dominio», cioè ai diritti connessi con l’esercizio della sovranità territoriale sulle regioni indicate nel testo, ma soltanto ai singoli patrimoni in esse compresi. E tuttavia si evoca l’esempio di Costantino, autore di una donazione che aveva avuto per oggetto il dominio su interi territori, mentre nella lettera si trattava semplicemente di sollecitare Carlo perché provvedesse a restituire alcuni antichi patrimoni della Chiesa romana che le erano stati sottratti dai longobardi. Allegati alla lettera Adriano mandava a Carlo gli atti di donazione relativi a quei patrimoni e non la donazione di Costantino né la ‘promessa di donazione’ fatta da Carlo a San Pietro il 6 aprile 774 in occasione del suo primo viaggio a Roma. Questa promessa non aveva avuto seguito. La lettera del maggio 778 accenna di passaggio a questo punto, poi muta strategia: prima richiama la straordinaria donazione di Costantino; poi scende sul terreno del possibile e avanza le sue richieste dettagliate, corredate da pezze d’appoggio documentarie. Dunque, come già rilevava Louis Duchesne: «In questa arringa sono presenti tutti gli argomenti: prima il migliore, la promessa di Carlo del 774, poi la donazione di Costantino, infine gli antichi titoli di proprietà, precedenti all’invasione longobarda»17. La strategia di Adriano conseguì un certo successo nel 781, in occasione della seconda venuta a Roma di Carlo, il quale soddisfece la richiesta del maggio 778 relativa al patrimonio in Sabina, ove l’erosione longobarda a opera del confinante ducato di Spoleto era stata particolarmente forte, come e più di quanto il papa avesse inteso ottenere:
Abbandonata ogni speranza di espansione verso Spoleto, il papato fin dagli anni 778-781 ripiegò su una linea di condotta più realistica: la sua politica mirò allora a ottenere dal sovrano franco la restituzione dei propri antichi patrimoni in Sabina e, al tempo stesso, a ottenere da Carlo il riconoscimento di poteri d’amministrazione pubblica sul complesso del territorio sabino. [...] È possibile ricostruire con precisione le tappe dell’azione papale che portò a una conclusione felice per il papato stesso: la determinazione da parte dei missi regi nel 781 di una frontiera fra la Sabina pontificia e il ducato di Spoleto […]. Riferendosi espressamente ai lavori di due missi del 781, il Ludovicianum [il privilegio concesso da Ludovico il Pio a papa Pasquale I nell’817] fa un’importante precisazione […]: gli inviati regi [...] non hanno proceduto alla delimitazione dei patrimoni privati ricuperati dal papato, come si è talvolta sostenuto, bensì alla definitio per signa di un confine pubblico18.
Avuto l’assenso di Carlo, Adriano chiese una rapida fissazione del nuovo confine fra le terre di San Pietro (dominio temporale) e il ducato di Spoleto con ben quattro lettere fra il 781 e il 78319. Le sue intenzioni sono rivelate dall’oscillazione terminologica fra patrimonium Sabinense e territorium Sabinense. Una di tali epistole costituisce l’ultimo esempio nel Codex Carolinus.di richiamo all’illuminazione delle basiliche e al sostentamento dei poveri20: che, ancor più della menzione dei titoli di proprietà conservati nell’archivio del Laterano, presenta le recenti rivendicazioni territoriali della Chiesa romana come semplici atti dovuti, puri recuperi di beni posseduti da tempo immemorabile. Adriano ricorda infatti a Carlo la promessa di concedere a San Pietro «l’intero territorio della Sabina per la preparazione delle lampade sacre e il sostentamento dei poveri»21: una formula ormai stereotipa e non corrispondente alla concreta situazione e alle rivendicazioni effettive della fine dell’VIII secolo, ma funzionale al disegno di Adriano I. In realtà, infatti, l’origine del ‘dominio temporale dei papi’ non si realizza affatto mediante l’accorpamento dei preesistenti patrimonia sancti Petri, bensì grazie alla conquistata autonomia da Costantinopoli. Ciò è in parte l’esito di avvenimenti non determinati dall’iniziativa dei beneficiari, che pure non esitarono trarne le debite conseguenze a loro favore. Il processo da cui avrebbero preso forma la Chiesa, il papato e anche l’Impero d’Occidente medievali, fu innescato dai decreti iconoclastici del basileus.Leone III Isaurico (726 e 730). La ferma opposizione di papa Gregorio II contro questa ‘novità’ in materia di fede, che non concerneva più soltanto le sfere della speculazione teologica ma arrivava a investire la pratica religiosa, trovò una larga eco nelle popolazioni e negli stessi presidi bizantini in Italia che insorsero contro i duchi di nomina imperiale, eleggendone altri al loro posto. Leone III, da parte sua, replicò con la confisca dei patrimoni di San Pietro in Calabria e in Sicilia e con il distacco dall’obbedienza romana delle diocesi dell’Illirico, nonché di quelle calabresi e siciliane. Ciò bastava per spezzare definitivamente il delicato equilibrio che, dalla fine del V secolo, aveva consentito la permanenza della Chiesa romana nell’orbita dell’Impero. In particolare in seguito alla conquista di Ravenna, sede del comando unificato imperiale della penisola, da parte dei longobardi (750), i superstiti ducati bizantini, compreso quello di Roma, vennero a trovarsi in una situazione di sostanziale autonomia. A Roma non fu eletto, come nelle Venezie o a Napoli, un nuovo duca di estrazione locale, ma la conquistata autonomia fu gestita in prima persona dal papa, che prese così a esercitare i ‘diritti concreti legati alla sovranità’22. L’acquisto del dominio temporale provocò un cambiamento nell’immagine del papato, così come veniva colta sia a Roma che fuori di Roma, e quindi nelle aspettative di coloro che ambivano ad assicurarsi il controllo di un centro di potere che ora era anche di carattere politico-territoriale. Rivelatori immediati di questo cambiamento furono, da un lato, la successione, nel 757, di Paolo I al fratello Stefano II, con cui l’aristocrazia locale, alla quale essi appartenevano, mise in atto o subì da parte di uno dei gruppi familiari in cui era articolata, forte dell’appoggio di un settore del personale del palatium Lateranense (a cui entrambi erano appartenuti), un tentativo di instaurazione dinastica, analogo a quelli che avrebbero caratterizzato gli altri ex ducati bizantini; e, dall’altro, alla morte di Paolo I (767), due tentativi di occupazione armata della cattedra papale. L’ordine fu restaurato da Stefano III (768-772) nel concilio Lateranense dell’aprile del 769, cui prese parte una delegazione di vescovi della Chiesa franca, guidati da Vilcario di Sens, inviata a Roma su richiesta di Stefano dai ‘patrizi dei romani’ Carlomagno e Carlomanno, subentrati al loro defunto padre Pipino. A creare un nuovo equilibrio, che sostituisse l’antico, si erano invero candidati i longobardi, con re Astolfo (749-756), il quale aveva dichiarato che l’intero ‘popolo dei romani’ della penisola era stato consegnato a lui dal Signore. Ma i vescovi di Roma non avevano mutato l’atteggiamento di diffidenza nei loro confronti, che aveva indotto Gregorio Magno a sostenere di essere terrorizzato dall’idea di diventare vescovo non dei romani bensì dei longobardi, e si erano rivolti assai presto per aiuto ai franchi. Nel luglio 754 a Saint-Denis papa Stefano II impartiva a Carlo, ancora giovinetto, al fratello Carlomanno e al padre, la ‘cresima dei re’, una pratica inaugurata nel 751, a Soissons, da Bonifacio nei confronti del solo Pipino23.
Non è possibile sapere se Zaccaria e Stefano II abbiano potuto coltivare l’illusione di un [ex] ducato di Roma che, alla guida del vicario di Pietro, sopravvivesse entro confini certi e rispettati in un’Italia tutta longobarda, al riparo di una teorica sovranità imperiale non rinnegata formalmente (fino al 781 i documenti pontifici continuarono a essere datati secondo gli anni di regno del basileus), con la sola assicurazione dell’amicizia e riconoscenza del lontano re dei franchi, Pipino. Zaccaria, infatti, aveva avallato la successione regia del 751 e a Soissons nel novembre dello stesso anno Bonifacio, facendo le veci del vicario di San Pietro, con un cerimoniale del tutto inedito (la cresima dei re, per sanare la rottura dell’ordine costituito), aveva ‘unto’ il neo-eletto. Se su questi fragili fondamenti Zaccaria e Stefano II potevano avere coltivato l’illusione di cui si diceva, il secondo non tarderà a rendersi conto che l’ex ducato continuava a essere la quantité négligeable cui Liutprando dieci anni prima aveva promesso venti anni di respiro. Infatti già nel 750, nel prologo alle leggi del suo primo anno di regno, senza nessun riguardo per la quota di romani d’Italia comprensiva di quelli di Roma e dintorni che il Liber Pontificalis dava ormai per scontato si trovassero nelle mani del papa in quanto a Deo illi commissi, Astolfo aveva dato per scontato che l’intero ‘popolo dei romani’ della penisola fosse stato «consegnato a lui dal Signore». Di fronte allo squilibrio delle forze e al timore che Astolfo attuasse quanto scritto, i papi non avrebbero potuto rimanere tranquilli nel ducato che lo sfaldamento del governo imperiale in Italia aveva messo nelle loro mani, salvo il persistere della sovranità teorica del basileus. L’estensione da parte loro del concetto di populus peculiaris, ossia romano, fino a fare rientrare in esso le popolazioni dell’esarcato e della pentapoli era tutt’altro che naturale, ma in termini politici fu la necessità a spingere i papi delle decadi centrali dell’VIII secolo a farsi carico dell’assetto dell’intera penisola. Astolfo, infatti, dopo avere promosso una serie di avvisaglie offensive in territorio romano, accondiscese a stipulare una tregua quarantennale, salvo poi venire meno all’impegno preso appena quattro mesi dopo. Legata a una croce portata nella processione che nella notte fra il 14 e il 15 agosto 753 accompagnò dalla basilica lateranense a Santa Maria ad Praesepe l’immagine acheropita del Redentore, la pergamena con il pactum sottoscritto da Astolfo sarebbe stata sbandierata davanti agli occhi dei romani come la prova lampante dello spergiuro del sovrano longobardo. Questa la versione del biografo di Stefano II nel Liber pontificalis. Nell’autunno del 753 per una serie di coincidenze fortuite, i segnali lanciati da Stefano ricevono le risposte sperate: da Pipino gli giunge l’invito più volte sollecitato a recarsi nel regno dei franchi; dal basileus Costantino V la delega a trattare con Astolfo la restituzione di Ravenna e delle altre città che aveva occupato. Il 14 ottobre il papa lasciava Roma per superare le Alpi (mentre Astolfo cercava di negoziare con Bisanzio un nuovo accordo di pace che sostituisse quello del 680, che le successive conquiste longobarde avevano progressivamente invalidato, prima che la caduta di Ravenna lo facesse decadere del tutto). Già dopo la processione del 753 Stefano II, nella lettera ai duces gentis Francorum che accluse a quella indirizzata a Pipino in risposta alla sua missiva, sollecitava l’appoggio dei grandi del regno alle auspicate iniziative del re volte a perseguire l’utilitas s. Petri, il vantaggio, il bene, di San Pietro, offrendo loro in cambio la remissione dei peccati, e minacciando in caso contrario di escluderli dall’eterna beatitudine24.
Il viaggio di Stefano II in Francia ebbe come prologo la sosta a Pavia nella veste di rappresentante di Costantino V. Nel viaggio di ritorno Stefano andò di conserva con la spedizione militare condotta da Pipino fin sotto la capitale longobarda. Ma questa prima spedizione franca, benché vittoriosa, non bastò a risolvere il problema per cui Stefano II l’aveva invocata. Ce ne volle una seconda che, altrettanto vittoriosa, gli assicurò almeno in parte i frutti territoriali che se ne riprometteva, nel 756. Al termine della seconda campagna Pipino rinnovò l’impegno non mantenuto che Astolfo aveva già assunto a conclusione della prima campagna, che prevedeva la cessione al principe degli apostoli di Ravenna e delle altre città dell’esarcato e della pentapoli che il re longobardo aveva conquistato dopo la sua ascesa al trono. Si convenne che le città in questione fossero prontamente consegnate ai missi del re franco, dopo di che, mediante la consegna a Stefano II, a Roma, di un atto di donazione sottoscritto a Pavia da Pipino, esse sarebbero state concesse in proprietà a San Pietro e, per lui, al pontefice e ai suoi successori in perpetuo. A operazione terminata furono depositati presso la ‘confessione’ di San Pietro in Vaticano il documento (donatio) e la serie di claves portarum civitatum che provavano l’avvenuto trapasso alla proprietà e al reggimento di San Pietro dei centri abitati e fortificati. Formalmente la donazione di Pipino ricalcava precedenti dei re longobardi Ariperto e Liutprando, nonché di quest’ultimo per il castello di Sutri nel 728 (destinatario era stato allora anche l’apostolo Paolo) e per Bieda, Orte, Bomarzo, Amelia nel 742. Ma solo i castelli di Ceccano e di Narni rientravano nei tipi di donazione/restituzione fino allora praticati: l’uno era di proprietà della Chiesa, l’altro posto a guardia della frontiera nord-orientale di quel ducato di Roma che dai tempi di Zaccaria non veniva più distinto dalla proprietà del principe degli apostoli. Al contrario, per i centri abitati e fortificati dell’esarcato e della pentapoli non poteva essere invocato nessun precedente del genere: non si può più parlare di donazione/restituzione, ma di una donazione vera e propria perché queste località non erano né di proprietà di San Pietro né parte dell’ex ducato bizantino di Roma. Partito da Roma nell’ottobre del 753 in ottemperanza alla iussio del basileus Costantino V che gli ingiungeva di recarsi a Pavia per farsi riconsegnare da Astolfo Ravenna e le altre città imperiali che aveva occupate, Stefano II ottenne invece che le città e i castelli in questione fossero prima ricuperati con la forza da Pipino e poi da questo concessi «beato Petro atque sancte Romane ecclesiae vel omnibus in perpetuum pontificibus apostolice sedis».
Risulta incerto se Stefano II nel rinnovare l’appello ai franchi si proponesse dall’inizio un obiettivo del genere. L’utilitas s. Petri che Pipino venne invitato a perseguire avrebbe potuto comportare solo una garanzia per gli abitanti di Roma e dell’ex ducato contro Astolfo. La parificazione fra le sorti delle oves periturae (i romani di Roma minacciati da Astolfo) e delle oves perditae (i romani delle terre già occupate da lui), accomunate nella sollecitudine del ‘buon pastore’ romano per l’intero gregge che gli era stato affidato dal Signore, aveva però finito con il creare un nesso inscindibile, nella visione che Stefano ereditava dai suoi predecessori, fra il problema della garanzia per Roma e il suo ducato e quello del recupero delle città dell’esarcato e della pentapoli; di modo che pure il recupero di queste ultime veniva fatto rientrare nell’utilitas s. Petri e anzi l’appello ai franchi si risolveva in un invito a intervenire militarmente in Italia proprio per conseguire tale obiettivo, visto come la sola garanzia anche per l’incolumità dei territori fino allora risparmiati. Se Costantino V aveva incaricato Stefano di trattare con Astolfo la restituzione delle città contese; se a Pavia il pontefice era giunto con il silentiarius Giovanni, latore di lettere dell’imperatore; se entrambi vi avevano perorato fianco a fianco senza successo la medesima causa, tuttavia a un dato punto (a Ponthion?), suggerita da Stefano, finì con l’affermarsi l’ipotesi alquanto audace secondo cui, poiché era in primo luogo l’utilitas di San Pietro a esigere che Astolfo fosse indotto a restituire le città dell’esarcato e della pentapoli, sarebbe stato anche a Pietro in persona che Pipino avrebbe dovuto rimettere in perpetuum le città stesse una volta entratone in possesso. Solo a questo punto Stefano venne meno alla linea di lealtà verso l’Impero cui i suoi predecessori si erano attenuti. Stefano si premurò inoltre di sancire in modo formale la responsabilità che Pipino e i suoi due figli Carlo e Carlomanno venivano ad assumere nei confronti dei romani tutti dell’Italia centro-settentrionale, sempre in pericolo finché un re della perfida gens Langobardorum avesse continuato a regnare. Così oltre a impartire (a Saint-Denis), per una seconda volta dopo Bonifacio a Soissons, la cresima dei re a Pipino e figli, Stefano li unse anche ‘patrizi dei romani’ concedendo con un rito sacerdotale una distinzione imperiale, seguita da un genitivo (dei romani) necessario per distinguere questo patriziato peninsulare attribuito dal papa, dal patriziato usuale: qui i ‘romani’ erano il popolo di Dio romano-ravennate-umbro-marchigiano oggetto della sollecitudine spirituale e temporale del papa. Il titolo aveva il vantaggio di sottrarre i rapporti con i protettori d’Oltralpe al terreno delle consuetudini germaniche per ricondurla nella cornice della tradizione amministrativa imperiale. A Saint-Denis Stefano usurpò coscientemente la potestà di creare patrizi, propria dell’imperatore. Già a Ponthion, nel corso del primo incontro, Stefano aveva supplicato Pipino di «provvedere a regolare con trattati di pace la causa del beato Pietro e della respublica Romanorum»; e il re franco aveva giurato di essere pronto a «restituire l’esarcato di Ravenna nonché i diritti e siti della respublica così come Stefano avesse mostrato di gradire»: la restituzione dei territori occupati era la causa beati Petri che il pontefice era venuto a perorare in Francia; non però la causa del solo apostolo bensì anche della respublica Romanorum, a Pietro collegata in modo stretto, e altra cosa dalla respublica senza ulteriori specificazioni cui si dava per scontato che quei territori e diritti appartenessero prima della conquista longobarda.
Pipino si risolse a scendere in campo a favore della causa della Chiesa che, secondo il biografo di Stefano, abbandonate le circonlocuzioni generalizzanti tipo causa redemptionis, viene fatta consistere nella restituzione a suo favore dei territori occupati, essendo ormai pacifico a chi veramente spettasse di diritto di essere reintegrato nei propri averi. Poiché gli accordi avrebbero contemplato la cessione alla Chiesa romana dei territori che prima di essere invasi dai longobardi appartenevano all’Impero, per camuffare la violazione del diritto di quest’ultimo, si ricorse all’espediente di configurare il beneficiario della ‘donazione’ come il braccio ecclesiastico dell’Impero medesimo, che però non era più quello di Costantinopoli; ma, con uno slittamento analogo a quello praticato per la dignità di patrizio, un fantomatico Impero dei romani, limitato cioè ai soli abitanti delle province dell’Italia centro-settentrionale rimaste ‘romane’ fino a qualche anno prima e molto più simile allo Stato della Chiesa dei secoli XIII e seguenti che non a ciò che sarebbe stato cinquant’anni più tardi l’Impero di Carlo Magno (sancta Dei ecclesia reipublicae Romanorum). La riduzione dell’Impero alla sola area italiana portava con sé una grave autolimitazione degli orizzonti anche della Chiesa che contestualmente era definita come sua25.
Prima della ‘donazione’ (alla fine della seconda campagna) delle località dell’esarcato e della pentapoli, a Pavia Pipino accenna a «ciò che aveva già destinato a san Pietro», ossia a una ‘promessa di donazione’ che aveva fatto in precedenza e della quale si ha però notizia solo dal biografo di Adriano I. Il 6 aprile 774 nella basilica di San Pietro papa Adriano avrebbe esortato infatti Carlo Magno, venuto a Roma per la prima volta, a adempiere alla promessa con cui, quando Stefano II si era spinto in Francia, suo padre Pipino ed egli stesso con il fratello Carlomanno si erano impegnati a donare al beato Pietro e ai suoi vicari diverse città e territori d’Italia. L’atto contenente la promessa, che era stato redatto nel 754 a Quierzy-sur-Oise, fu allora letto su richiesta di Carlo, che ordinò a un suo cappellano di redigere un’altra ‘promessa di donazione’ prendendo a modello la precedente. Di questo secondo documento il biografo di Adriano dà un riassunto particolareggiato. Come il primo, non si è conservato, benché si fosse provveduto a farne più copie e un esemplare fosse stato riposto nella confessione dell’apostolo. Accettata l’attendibilità dell’avvenuta promessa, è dubbia la sua reale corrispondenza con la promissio Carisiaca di Pipino di vent’anni prima. L’entità della promessa è inoltre molto maggiore in entrambi i casi rispetto a ciò che Pipino e Carlomagno hanno effettivamente ‘donato’ alla Chiesa. A Quierzy nel 754, secondo il biografo di Stefano, fu anche deliberata la prima spedizione in Italia. Nel momento in cui la spedizione fu decisa nulla poteva lasciare prevedere che questa non sarebbe stata condotta fino alle estreme conseguenze, il che voleva dire annientamento del regno dei vinti. È perciò verosimile che nella previsione, rivelatasi poi infondata, di una scomparsa del regnum Langobardorum, Pipino abbia largheggiato in promesse con Stefano II. Se la promessa di donazione fatta poi da Carlo nel 774 ebbe l’estensione che dice il biografo di Adriano26, e se davvero la promessa di suo padre nel 754 l’aveva anticipata almeno nelle grandi linee, la porzione d’Italia che a conclusione vittoriosa della campagna di Pipino sarebbe dovuta toccare a San Pietro era delimitata a nord da un confine che partendo da Luni, sul Tirreno, attraverso la Cisa, Berceto, Parma, Reggio e Mantova raggiungeva Monselice (pur non toccando l’Adriatico). Il confine così designatum divideva l’Italia in due in base a criteri di relativa razionalità: le due Italie preconizzate a Quierzy sarebbero state ‘a tinta unita’, ben diverse dall’Italia a pelle di leopardo che si era venuta delineando a partire dagli anni Novanta del VI secolo e che aveva trovato il suo provvisorio assestamento dopo le conquiste di Rotari (640 circa).
Rispetto all’ammontare delle ‘restituzioni’ disposte da Pipino durante la seconda spedizione in Italia, così come li prospetta il biografo papale, l’appannaggio territoriale previsto per la Chiesa a Quierzy a sud della linea Luni-Monselice era tutt’altra cosa: diverso non solo per maggiore estensione, ma anche dal punto di vista ‘qualitativo’, perché non concerneva più soltanto territori rimasti bizantini fino all’avvento di Astolfo, e nemmeno soltanto territori che erano bizantini al momento della pace longobardo-imperiale del 680 (questi, come si vedrà, Stefano li rivendicò nel 757); bensì anche territori longobardi fin da subito dopo l’invasione, e cioè la parte di pianura del Po fino a Parma, Reggio, Mantova, Monselice non compresa nell’esarcato; nonché di qua dell’Appennino il ducato di Tuscia e i ducati di Spoleto e di Benevento. Per quanto concerneva il ducato di Roma la promessa veniva ad assumere invece il carattere di una garanzia per la sua salvaguardia, configurando un qualche diritto su di esso del regno franco. C’erano in più il Mezzogiorno ancora bizantino e le isole, che erano passati in secondo piano dopo la confisca da parte dell’Impero dei patrimoni di San Pietro in Calabria e in Sicilia, e il distacco dall’obbedienza romana delle diocesi calabresi e siciliane. Ma se il Mezzogiorno e le isole in quanto regioni poste a sud della linea Luni-Monselice fossero stati pure essi contemplati nella promessa, il papato avrebbe riottenuto anche ciò che fino al 732/733 era stato suo e non si era rassegnato ad avere perso: finalmente una ‘restituzione’ nel senso proprio e non una donazione camuffata da restituzione.
Tuttavia è stata avanzata l’ipotesi secondo cui le regioni delimitate dalla frontiera Luni-Monselice non si dovevano intendere come cedute per intero, ma solo in quanto contenevano ex patrimoni della Chiesa romana di cui questa rivendicava il possesso: la promessa acquisterebbe così in parte quel fondamento che le manca invece del tutto in riferimento alla situazione dell’Italia centro-settentrionale dove i patrimoni di San Pietro, di entità assai minore, erano stati confiscati dai longobardi subito dopo il 569 e di cui non si sa di tentativi papali per riaverli indietro27.
Consegnata alle pagine del Liber Pontificalis e non attuata, la promissio Carisiaca di Pipino e poi Romana di Carlo, dopo un periodo di obnubilamento durato finché restò vivo e bruciante il ricordo della sua mancata attuazione (il privilegio di Ludovico il Pio dell’817 per la Chiesa romana non fa parola del confinium Luni-Monselice), avrebbe segnato per secoli (forse già a partire dall’876 con il pactum perduto di Carlo il Calvo, ma certamente dal 962 con il privilegio di Ottone I che menziona il confinium28) la frontiera estrema delle aspirazioni del papato temporale e di quello che si potrebbe definire il ‘guelfismo perenne’, in concorrenza con la donazione di Costantino che prometteva anche molto di più ma non fu utilizzata fino alla metà dell’XI secolo. Beninteso, di mancata attuazione si può parlare solo in parte: oltre al caso particolare dell’esarcato, restò inattuata la clausola relativa alle Venetiae; ma quella riguardante i due ducati longobardi centro-meridionali, benché inoperante per l’immediato dopo lo spegnimento già nel 776 delle speranze sorte per Spoleto, troverà parziale attuazione nei tempi lunghi. In riferimento al ducato di Spoleto il privilegio dell’817 confermò al papato i censi che questo ducato e quello di Tuscia erano tenuti a versare al palatium di Pavia e che Carlo aveva devoluti a Adriano I in seguito a un accordo che prevedeva in cambio il riconoscimento della sua sovranità sui due ducati. Probabilmente l’accordo era stato stipulato nel 787 in occasione della sua terza visita a Roma. Devolvendo alla Chiesa quei censi e proventi il sovrano franco aveva riconosciuto l’esistenza di un ‘diritto e di un’‘autorità teorica’ che essa poteva vantare su quei territori grazie alla ‘promessa’ di suo padre Pipino e sua, e ottenuto a un tempo che le pretese che ne discendevano venissero ibernate con il consenso di Adriano, tacitato con compensi di carattere economico. La tradizione del regno di Pavia si rivelò più forte del vago ricordo della linea di demarcazione tracciata.
A sé, si diceva, sta il caso dell’esarcato e della pentapoli. A tale riguardo, vivente Stefano II, in favore della Chiesa romana si susseguirono nell’ordine: la promessa di Pipino di restituirgli l’esarcato (754); la ‘donazione’ di una striscia di esso, compresa Ravenna, sempre da parte di Pipino, resa esecutiva nell’estate del 756; la ‘promessa’ di Desiderio di restituirgli le rimanenti città (inizio del 757); la solenne conferma di questa promessa; la consegna infine (marzo 757) del primo lotto di città e territori (Bagnocavallo, Faenza, ducato di Ferrara). A parte la promessa del 754, della cui straordinaria estensione si è detto, e la donazione del 756 che contemplava anche Narni e Ceccano, le ‘promesse di donazione’ e le donazioni citate, che sono anche tutte quelle che vennero compiute sotto il pontificato di Stefano II, non solo concernono l’esarcato ma lo concernono in maniera esclusiva. Oltre a cercare presso i franchi una garanzia per l’ex ducato di Roma, Stefano perseguì con costanza l’obiettivo di annettere a quel nucleo originario di dominio temporale il complesso esarcato-pentapoli. Ebbe successo sul primo punto, fallì nel secondo. Le città e i territori dell’esarcato che Pipino e Desiderio cedettero alla Chiesa romana furono trasferiti probabilmente con termini richiamanti il dominio e l’amministrazione di un proprietario nell’ambito del suo patrimonio fondiario, e non di un sovrano nell’ambito del suo Stato. Ma l’esercizio del dominio sui beni ceduti, trattandosi invece di territori, metteva in essere dei veri atti di governo. E difatti a Ravenna appena liberata (estate 756) Stefano non inviò un rector, un rettore di patrimoni di San Pietro, ma una coppia di personaggi altolocati come il presbitero Filippo e il duca Eustachio (l’ultimo duca di Roma), «giudici che dovevano rendere giustizia a tutti coloro che subivano violenza». La loro giurisdizione, che non era solo giudiziaria ma anche politico-amministrativa, si estendeva a tutta la striscia di esarcato ceduta alla Chiesa e non alla sola Ravenna; ma i funzionari periferici, di estrazione locale, ricevevano direttamente a Roma dal papa i praecepta actionum che li abilitavano ad assolvere alle loro funzioni. L’assunzione dei poteri temporali nell’esarcato da parte della Chiesa romana aveva incontrato l’opposizione degli arcivescovi locali. Se gli arcivescovi di Ravenna non riuscirono nell’intento di creare un loro dominio temporale analogo a quello dei papi, questi da parte loro fallirono nell’impresa avviata da Stefano II mirante a ristabilire a proprio profitto l’unità dei domini bizantini nell’Italia centro-settentrionale così come si presentavano al momento della pace longobardo-imperiale del 680. A sbarrare loro la strada pensarono subito il clero e l’esercito ravennati, e dal 774 anche Carlo re dei franchi e dei longobardi e per ciò stesso meno incline a favorire le aspirazioni temporali del papato sulla penisola. Ma negli archivi e nella memoria della Chiesa romana le ‘promesse’ e le restituzioni/donazioni degli anni 754-757 e 774 non avrebbero conosciuto prescrizione29.
Il disegno definitivo dello Stato della Chiesa, dopo che i papi del XIII secolo ebbero realizzato il programma di espansione abbozzato nell’VIII, coinciderà con la configurazione assunta verso la fine del VI secolo dai residui domini bizantini. Ma prima di allora il Patrimonio di San Pietro, ossia il territorio su cui i papi esercitarono ‘i diritti concreti legati alla sovranità’ coincise per oltre tre secoli con il territorio del solo ducato di Roma, che era una ripartizione amministrativo-militare dell’esarcato d’Italia. Tramontate le illusioni spoletine e ravennati, l’ex ducato romano venne a costituire il dominio temporale dei papi nella sua interezza. Come si è visto, un significativo mutamento di indirizzo nella strategia papale che manifesta una concentrazione dell’interesse sul territorio dell’ex ducato, si ebbe a partire dagli ultimi anni Settanta dell’VIII secolo, quando le richieste di ampliamenti territoriali rivolte da Adriano I a Carlo concernono esclusivamente l’area tutt’intorno a Roma: nel 781 il re franco dispone l’annessione al Patrimonio di San Pietro, o primo Stato della Chiesa che dir si voglia, di una parte della Sabina; nel 787 sarà la volta di Soana, Tuscania, Viterbo, Bagnoregio, Orvieto, Ferentum, Orchia, Marta, Rosellae (Grosseto) e Populonia, Sora, Arpino, Arce e Aquino (ma la donazione del 787 restò inattuata per le civitates in partibus Beneventanis, ossia le ultime quattro, che rimasero in mano longobarda). In sostanza vengono ripristinati i confini che l’ex ducato aveva avuto dapprincipio, e in questo sforzo di ristabilirli com’erano si può forse vedere una conferma della tesi secondo cui il ducato stesso al momento della sua nascita non era stato configurato esclusivamente in negativo dall’esaurirsi dello slancio offensivo dei longobardi, ma anche tenendo presenti i limiti del distretto delle cento miglia su cui il praefectus urbi aveva esercitato un potere giudiziario generale, ovvero dell’area sulla quale il praefectus urbi aveva mantenuto la sua giurisdizione anche dopo che, verso la fine del III secolo, l’ordinamento provinciale era stato esteso all’Italia. Ritagliato dalle province della Tuscia, della Valeria e della Campania, il ducato di Roma, che sarà il Patrimonio di San Pietro dei secoli VIII-XII, corrisponde grossomodo al distretto delle cento miglia «ultimo ridotto dei privilegi amministrativi italiani»30. La tradizione tardoantica legata al prefetto di città si rivelò abbastanza forte da garantire un adeguato respiro a nord al Patrimonio di San Pietro dei secoli VIII-XII. Dunque, se i confini entro i quali si realizzò e rimase compreso fino al XIII secolo il Patrimonio di San Pietro non hanno nulla a che fare con la donazione di Costantino, essi hanno un’origine indirettamente tardoantica che riporta press’a poco ai tempi di Costantino medesimo. Infatti la suddetta ipotesi sull’origine dei confini del ducato di Roma non è l’unica che riporta questi aspetti alla situazione geopolitica del Tardo Impero. Si è già fatto riferimento alla ‘promessa di donazione’ fatta da Carlo Magno a papa Adriano I nell’aprile del 774 in occasione del suo primo viaggio a Roma e rimasta in gran parte inattuata nonostante le proteste del papa registrate nelle lettere del Codex Carolinus. I termini di tale promessa di donazione che avrebbero ricalcato, secondo il racconto del Liber Pontificalis, quella fatta da Pipino a papa Stefano II a Quierzy-sur-Oise nel 754, non sono irrealistici come la clausola territoriale della donazione di Costantino, ma vanno molto al di là di quello che sarà il Patrimonio di San Pietro dei secoli VIII-XII (e anche dello Stato della Chiesa dei secoli successivi) e, come detto, tramite il confine settentrionale Luni-Mantova-Monselice delineano un blocco compatto. Non è affatto impossibile che Pipino e Carlo, che nell’aprile del 774 non era ancora re dei longobardi, eccedessero in generosità. Resta però da chiarire il motivo dell’entità della richiesta avanzata dal papa, e anche qui l’ipotesi torna al Tardo Impero. Svolto fino alle sue estreme conseguenze nell’ottica moderna della carta geografica, il discorso sulle implicazioni della linea di demarcazione Luni-Monselice non è proponibile. Benché non sia sicuro che l’Italia provincia, menzionata dal biografo di Adriano I, corrispondesse solo alle province bizantine fino alla metà dell’VIII secolo dell’Italia centro-settentrionale, l’idea stessa di un’Italia dalle Alpi al mare Ionio era andata appannandosi31. Inoltre è difficile che Pipino e Stefano II abbiano concordato a Quierzy una spartizione dell’Italia che prescindesse del tutto dall’esistenza dell’Impero e dei suoi diritti, là dove questi non erano stati mai conculcati dai longobardi e non si poteva quindi ricorrere all’escamotage delle ‘restituzioni’ da dirottare a favore della ‘Santa Chiesa di Dio dell’Impero dei romani’. D’altra parte, ciò che viene dopo il passo sul preteso confine obbedisce a una logica diversa e circoscrive di molto la portata territoriale della promessa, ma non elimina quest’ultima difficoltà. Il biografo continua, infatti, con una diversa e più tradizionale esplicitazione della promessa nel suo complesso, elencando le province cui la promessa medesima andava riferita in modo specifico. Esse sono l’esarcato di Ravenna, le province delle Venetiae e dell’Istria, i ducati di Spoleto e di Benevento. Si ha qui su scala ridotta la stessa commistione di territori bizantini prima delle conquiste di Liutprando e di Astolfo (l’esarcato), longobardi già dalla fine del secolo VI (Spoleto e Benevento), e tuttora bizantini (Venetiae, Istria, Corsica).
Dando sempre per scontato che il regesto del documento con cui fu confermata venti anni dopo sia attendibile, la promissio che Pipino rilasciò a Stefano II nel 754 risulta stratificata al suo interno. Lo strato superficiale (l’ultimo) è leggibile avendo l’occhio all’attualità. Pipino si impegnava a sistemare le partite di interesse più diretto per la Chiesa con la ‘restituzione’ dell’esarcato e con l’assoggettamento dei due ducati longobardi centro-meridionali che erano spine nel fianco dell’ex ducato di Roma. Non a caso, morto Astolfo nel dicembre 756, Stefano, che nell’estate aveva visto soddisfatte solo in parte le sue aspettative, si impegnò con energia in entrambe le direzioni. In cambio dell’appoggio politico-militare fornito a Desiderio contro Rachi, il papa fece in tempo a ottenere prima di morire (26 aprile 757) una rettifica dei confini della parte di esarcato che aveva avuto per il tramite di Pipino, facendosi dare dal re longobardo Bagnacavallo, Faenza, Gavello e l’intero ducato di Ferrara e facendosi promettere Imola, Bologna, Ancona, Numana e Osimo nella pentapoli. Un tentativo effimero a Spoleto e Benevento ne conferma l’importanza per la Chiesa. Più difficile riesce spiegare il perché dell’inclusione delle Venetiae e dell’Istria, province tuttora bizantine32. Per ciò che concerne invece lo strato più profondo, quello che si esprime nella linea Luni-Monselice, esso probabilmente va letto come un tentativo da parte del papato di ripristinare a suo favore l’immagine dell’Italia suburbicaria considerata come un annesso di Roma. Il confine richiesto da Stefano II e poi da Adriano I ha, infatti, qualche tratto in comune con quello fissato nel 297-298 quando la diocesi italiciana (uno dei raggruppamenti di province in unità amministrative più vaste stabiliti da Diocleziano) fu divisa in due parti: la suburbicaria veniva «considerata come una specie di dipendenza di Roma cui essa forniva in parte le prestazioni in natura necessarie al suo approvvigionamento»33. Inizialmente la linea di divisione fra regiones annonariae e regiones suburbicariae univa proprio la Magra al delta del Po; in seguito il limite fra le due Italie si spostò verso sud (da Volterra al Rubicone, e poi all’Esino). Certo, il confinium descritto dal biografo di Adriano I ha un andamento diverso soprattutto per la curva da Reggio a Mantova a Monselice. Ma poiché esso non è spiegabile in base alla situazione dell’VIII secolo e il solo precedente è costituito da quello tardoantico, occorre accettare tale riferimento. Le regiones suburbicariae formavano il distretto su cui il prefetto di città esercitava un potere giudiziario limitatamente alle cause d’appello e le stesse regioni nonché le isole (Corsica compresa) corrispondevano alla provincia ecclesiastica romana. Per il fatto di avere raccolto l’eredità dello scomparso praefectus urbi il vescovo di Roma poteva aspirare a esercitare una giurisdizione non solo ecclesiastica ma anche temporale sull’intera Italia peninsulare e le isole. Resta da spiegare perché il confinium si spingesse a nord fino a Monselice e lì si arrestasse senza arrivare fino all’altro mare – un mistero in qualche modo collegato al terzo punto rimasto oscuro nella lettura dello strato superficiale, quello attinente alle Venetiae.
La persistenza nella memoria dell’antica linea di confine potrebbe trovare una spiegazione nel fatto che la divisione di Diocleziano ebbe conseguenze anche sul piano delle circoscrizioni ecclesiastiche. Al sinodo di Arles del 314 nelle sottoscrizioni dei vescovi dell’Italia settentrionale (annonaria) c’è il riferimento alla diocesi civile, mentre per quelli dell’Italia centro-meridionale (suburbicaria) è menzionata solo la regio come se le loro rispettive province non facessero parte di una diocesi civile. Anche il distretto delle cento miglia (la giurisdizione del prefetto di Roma) si riflette nelle sottoscrizioni: i vescovi delle città non comprese in tale distretto risultano infatti menzionati senza riferimento né alla diocesi civile né alla provincia34. Occorre considerare inoltre la relazione tra le circoscrizioni ecclesiastiche laziali e l’andamento dei confini del Patrimonio di San Pietro (effettivo) nei secoli VIII-XII: se i confini esterni coincidono sempre con i confini di una diocesi ecclesiastica, tuttavia non corrispondono alla provincia ecclesiastica romana in senso stretto (anche perché le diocesi immediate subiectae alla Santa Sede sono state sempre territorialmente disperse)35. La formazione del ‘dominio temporale’ non ha dunque implicato l’esigenza di unificare in una circoscrizione ecclesiastica definita le diocesi comprese nei territori su cui il papa esercitava la sovranità come signore temporale.
Vi è poi il caso a sé delle ‘diocesi suburbicarie’. L’espressione in ambito civile tardoantico designava, come detto, le province (imperiali) dell’Italia centro-meridionale sottratte alla giurisdizione del vicarius Italiae residente a Milano. Invece in riferimento a diocesi ecclesiastiche l’aggettivo si affermò in un momento tuttora imprecisato per designare sette diocesi molto vicine a Roma: Ostia, Porto, Albano, Preneste, Silva Candida più altre due che variavano a seconda dei casi. I titolari di queste diocesi (la prima testimonianza è del 769, ma il fatto è precedente) assistevano a turno il vescovo di Roma nelle celebrazioni liturgiche. Tre di loro intervenivano anche nella cerimonia della consacrazione del nuovo papa: il vescovo di Ostia aveva la parte principale, quelli di Porto e di Albano recitavano le preghiere36. Dalla seconda metà dell’XI secolo questi sette vescovi costituiranno una delle tre ripartizioni del collegio cardinalizio, quella dei cardinali vescovi. Indipendentemente dal problema della nomenclatura, considerando l’esistenza da tempo immemorabile di questa minicircoscrizione ecclesiastica romana, il problema relativo alle sue origini può trovare un’ipotesi di soluzione cercando ispirazione di nuovo nella tarda antichità. Già nel famoso calendario del 354, infatti, i martiri di Roma sono associati a quelli di Albano e di Ostia37. Porto e Ostia formavano, accanto a Roma e a qualche altro centro minore il minidistretto sul quale si estendeva la residua potestà amministrativa del prefetto di città (il distretto delle cento miglia era sottoposto alla potestà giudiziaria del prefetto, ma amministrativamente faceva capo ai governatori delle diverse province). L’analogia fra questo estremo ridotto amministrativo extraurbano del prefetto di città e l’esistenza della minicircoscrizione ecclesiastica formata dalle sette diocesi ‘suburbicarie’, che saranno un giorno dei cardinali-vescovi, trova forse la sua spiegazione in una proiezione altomedievale del substrato tardoantico. In forza dell’espressione imitatio imperii che ricorre espressamente nel Constitutum Constantini, si richiama l’attenzione su questo aspetto del papato altomedievale: il papa che prende a modello l’imperatore. Non va però dimenticato che il rappresentante dell’imperatore a Roma durante i secoli della tarda antichità era il praefectus urbi e che il più grande papa dell’età di transizione fra antichità e Medioevo, Gregorio Magno, era stato prefetto di città anche lui. Viene quindi da chiedersi se non converrebbe fare riferimento anche alla nozione più concreta di ‘imitazione della prefettura di città’38.
Su questo vasto processo attuatosi nel corso dell’VIII secolo (ma in qualche modo determinato nel suo svolgimento da sopravvivenze tardoantiche) che portò al dominio temporale pontificio non influirono concretamente né la fabbricazione quasi contemporanea della donazione di Costantino né le donazioni carolinge, che rimasero in gran parte inapplicate. Nonostante l’allusione di Adriano I, il falso Constitutum non fu usato esplicitamente dai papi nella fase decisiva della formazione del loro ‘dominio temporale’, dato che la rivendicazione della sovranità sull’intero Occidente avrebbe avuto scarso ascolto presso i franchi, anche se l’immagine di Costantino che appare negli Actus Silvestri e nel Constitutum stesso fu proposta, invero con scarsa accoglienza, ai sovrani franchi tra VIII e IX secolo39. L’incoronazione imperiale dell’800 mostra anche il fatto che i papi, al momento opportuno, rinunciarono spontaneamente a farsi essi stessi imperatori del restaurato Impero d’Occidente, secondo il proposito adombrato nella donazione di Costantino. Le aspirazioni territoriali dei papi sono state assai più modeste rispetto a quanto rivendicato nella falsa donazione.
La fabbricazione del falso non è comunque priva di significato e, se non costituisce un elenco dei diritti territoriali del papa, da richiedere via via basandosi su di esso, rispecchia comunque l’autoconsapevolezza del papato nel momento in cui fu fabbricato in un ambiente molto vicino al papato medesimo. È infatti molto probabile che autore del Constitutum sia stato un chierico della basilica di S. Salvatore al Laterano40. Fin dal V secolo il papato aveva maturato la convinzione di continuare in un’altra sfera d’azione l’Impero, e, mentre il potere politico esulava dall’Italia, pretendeva la parità con l’Impero medesimo nell’ambito della Chiesa universale. Ma già nel VI secolo si registrano una minor intensità dei rapporti con le Chiese dell’occidente germanico, il ritorno in forze dell’Impero in Italia con Giustiniano, e l’invasione longobarda, che ridusse ulteriormente lo spazio in cui si trovò a essere costretto il papato nei primi secoli dell’Alto Medioevo. Rimanevano comunque testi scritti, le decretali dei papi, che la Chiesa aveva imparato a conservare imitando le tecniche cancelleresche e archivistiche degli scrinia imperiali. Permanevano insomma le premesse ideali e i documenti giustificativi che le avrebbero permesso di riguadagnare il terreno perduto. Una volta entrato in crisi con la querelle iconoclastica e poi annientato a opera dei longobardi il dominio imperiale nell’Italia centro-settentrionale, i papi si sforzarono di subentrare a esso con l’aiuto dei franchi. Mediante l’espediente politico-diplomatico della ‘restituzione’ delle terre ex bizantine dell’Italia centro-settentrionale alla ‘santa Chiesa di Dio dell’Impero dei Romani’, Stefano II si adoperò con i franchi per ottenere un assetto della penisola confacente alle esigenze del papato, pur con un orizzonte abbastanza limitato41. Tale progetto sarebbe stato realizzato solo nel XIII secolo al momento della crisi dell’impero degli Svevi. Nell’VIII secolo l’orizzonte era quello, semplicemente, di sostituire i duchi bizantini di Roma nell’ambito della loro giurisdizione territoriale, con l’aggiunta dei modesti incrementi ottenuti nel 781 e nel 787, ad esempio, come sopra osservato, in Sabina. Ma è anche vero che, fin dai pontificati di Gregorio III e di Zaccaria, si tentò di trovare nelle Sacre Scritture una serie di punti d’appoggio alla propria politica, legati all’idea di popolo (quello di Roma, nuova Gerusalemme) affidato in modo particolare da Dio alla tutela personale dei vicari di Pietro, nonché all’immagine del buon Pastore. L’azione concreta dei pontefici dell’VIII secolo fu coerente con queste idee ed ebbe parziale successo in ordine alla formazione del Patrimonio di San Pietro. Tale privilegio dei Romani come popolo eletto scelto da Pietro e Paolo fu poi allargata nell’VIII secolo, come si è visto, al ducato di Roma, all’esarcato e alla pentapoli42. Rispetto a un orizzonte universale con cui tale ‘popolo privilegiato’ era inteso dai grandi papi del V secolo, si operò un restringimento che rispecchiava una nuova, rimpicciolita coscienza di sé che la Chiesa romana andava acquisendo mentre si preparava a subentrare all’Impero nel governo temporale dei suoi domini nell’Italia centro-settentrionale. E questo proprio mentre uno slancio missionario compiuto sotto l’egida di Pietro allargava i confini della cristianità: si pensi al carattere cattolico-romano che Wynfrith-Bonifacio impresse alla sua azione di apostolato missionario, svolta con notevole successo, nei territori oltre Reno confinanti con il Regno franco (Frisia, Assia, Turingia), facendo sempre capo al vescovo di Roma, da cui volle, a più riprese, legittimate le sue iniziative43.
Tuttavia, oltre la ristretta contingenza politico-diplomatico-militare, non si rinunciava al principio della grandezza universale della Chiesa di Roma. Al tempo probabilmente di Paolo I, successore di Stefano II, un chierico della basilica lateranense, non è possibile stabilire se su mandato papale o meno, si propose di ripristinare l’immagine ormai sbiadita dei papi dell’epoca pre-longobarda (quando Gelasio dalla sua cattedra nella nuova Roma degli apostoli dialogava da pari a pari con l’imperatore che sedeva nella nuova Roma d’Oriente). Non è certo se si intendesse esaltare il vescovo di Roma in contrapposizione al re dei franchi o al basileus. In ogni caso, per realizzare l’obiettivo si scelse la falsificazione diplomatica. In base a tale scelta il recupero della grandezza dei papi del V secolo fu realizzato mediante l’attribuzione a papa Silvestro, beneficiario della supposta donazione, degli elementi costitutivi del cerimoniale imperiale così come potevano essere conosciuti o immaginati nella Roma dell’VIII secolo. La clausola territoriale, di dimensione ridottissima rispetto al complesso del testo, e che però ne avrebbe costituito per secoli la parte più nota, va posta in correlazione con le suddette premesse. Nessuno a Roma nutriva realmente né manifestava aspirazioni tanto spropositate e irrealistiche. Piuttosto, poiché la rivendicazione di un ‘dominio temporale’ per il papa veniva avanzata nel quadro del progetto globale di imitatio imperii, si tralasciò la misura del possibile e del realizzabile. Si ipotizzò quindi per il successore di Pietro un appannaggio territoriale tale da non sfigurare accanto agli altri attributi imperiali di cui egli veniva nel contempo rivestito. L’appannaggio territoriale viene presentato come un attributo in più, in mancanza del quale il papa non avrebbe potuto essere considerato un eguale dell’imperatore come richiedeva l’assunto che il falsario aveva fatto proprio. Con la massima serietà e proponendosi di fare opera utile alla Chiesa romana, il falsario cercò di ripristinare nell’immagine composita del ‘papa-quasi imperatore’ i valori di un’antica tradizione il cui vero senso era andato smarrito, ma di cui persisteva ancora il sentore. Nel momento in cui l’impatto con il ‘dominio temporale’ restringeva gli orizzonti della Chiesa romana, la sua Selbstverständnis si esprimeva in forma pseudocancelleresca, in un falso diplomatico. Solo quando i papi avranno superato del tutto l’impatto con il ‘dominio temporale’ la donazione di Costantino verrà esibita senza riguardi «per sostenere il primato spirituale e gerarchico della chiesa romana e la sua preccellenza in dignità e onore su tutte le istituzioni umane»44.
Una particolarità di questo tentativo di ‘ripristino’ è la presenza nel Constitutum di un ‘nuovo’ senato romano. La donazione attribuiva ai chierici anche minori al servizio della Chiesa romana il titolo di ‘patrizio’ e/o di ‘console’ (i funzionari del patriarchio lateranense, o iudices de clero, non erano di norma né preti né diaconi). L’attribuzione di tali titoli veniva fatta nel dichiarato intento di elevare quei chierici al rango di senatori, di un Senato che non era quello di Costantinopoli, bensì quello di Roma che si voleva fare così rivivere in una nuova veste clericale. Silvestro e i suoi successori venivano autorizzati anche a conferire la tonsura a membri del Senato di Costantinopoli in deroga alle costituzioni imperiali. Questa clausola, collegata alla prima, fu concepita per dare la possibilità agli esponenti della ufficialità bizantina locale che appartenevano già al senato di Costantinopoli di entrare a far parte del nuovo senato di Roma ottemperando alla condizione richiesta (la tonsura) per l’ammissione. Non è possibile dire se il progetto di questo nuovo senato romano, fatto in apparenza di chierici, ma destinato a comprendere anche gli elementi più in vista della ex guarnigione bizantina, sia stato pensato come un espediente per irreggimentare la nuova aristocrazia militare e fondiaria tonsurandone a forza i capi o se invece il falsario non si sia reso interprete dei desideri di questi ultimi intenzionati a mettere le mani sugli uffici del patriarchio e i beni che da tali uffici venivano amministrati. Se il progetto fosse andato in porto, al posto della triade clero-popolo-exercitus che troviamo documentata per la fine del VII secolo e l’inizio dell’VIII, sarebbe riapparsa la diade senatus populusque Romanus con il senato redivivo subentrato a clero ed esercito. Invece, a partire dal 757 il termine senatus ricompare nelle lettere papali ma usato in riferimento agli iudices de militia, i grandi laici, menzionati come secondo termine della triade destinata a prevalere nell’uso, che ha al primo posto il clero e al terzo il popolo. Ciò indica che la soluzione di fondere iudices de clero e iudices de militia o meglio di assorbire questi ultimi nel clero della Chiesa romana ribattezzato ‘senato’, si rivelò impraticabile. I due gruppi rimasero distinti e antagonistici facendosi forte il primo della tradizione del patriarchio, puntando il secondo sugli echi che poteva ancora destare l’etichetta senatoria.
Il papato tornò ad avere accanto a sé un ‘senato’, non però un senato suo, del tipo di quello prefigurato dalla donazione di Costantino. Il senato di cui si ricomincia a parlare nella seconda metà dell’VIII secolo non corrispondeva a nessuno dei modelli di senato conosciuti: non era un’assemblea né fungeva da consiglio del principe né assomigliava allo stesso antico ordine senatorio. Si avrebbe però torto a interpretare la ricomparsa di quel nome famoso come un ingenuo tentativo di autocelebrazione compiuto dalla nuova aristocrazia locale. La spia dell’importanza di tale riesumazione è costituita dal momento in cui ebbe luogo, che è lo stesso in cui l’autore della donazione di Costantino pensò a disegnare l’altro senato, tutto di chierici, che avrebbe dovuto fare da corona al papa ‘quasi-imperatore’. Questo momento coincise con l’inizio del potere temporale dei papi, accanto a cui il nuovo ceto aristocratico romano cominciò a essere definito in alcuni documenti come senato. Poiché questi documenti sono tutti di origine papale, può darsi che siano stati i papi a lanciare tale definizione per imbrigliare l’aristocrazia nelle maglie di un ordine precostituito simboleggiato dalla triade clero-senato-popolo. Una volta entrata nell’uso, la definizione ebbe però comunque l’effetto di esaltare l’identità del nuovo ceto istituzionalizzandolo, non solo di fronte al papa, ma anche di fronte al mondo esterno. La riapparizione del termine non è dunque da considerarsi come un evento trascurabile. Fermo restando il riconoscimento dell’alta sovranità bizantina fino al 781, il ripristino del termine senato dà, infatti, una coloritura ‘rivoluzionaria’ all’acquisto dell’autonomia da parte del ducato di Roma, consacrando al tempo stesso la funzione di primo piano che in tale processo ebbero, accanto ai papi, i proceres laici, senza cui le iniziative di Stefano II difficilmente avrebbero avuto possibilità di esplicarsi. La prima renovatio senatus e l’origine del dominio temporale dei papi fecero insomma tutt’uno. Anche in conseguenza di ciò i secoli fino alla metà dell’XI saranno dominati dai tentativi dell’aristocrazia di assicurarsi il controllo del patriarchio, poi palatium lateranense, non più solo sede del governo della Chiesa romana ma sede anche del governo del dominio temporale45.
Tornando al testo del Constitutum, esso non chiudeva le porte a soluzioni diversificate, rispetto alla ‘imperializzazione’ del papa, anche per il solo, noto, rifiuto della corona aurea da parte di Silvestro. Adriano I il 26 ottobre 785 scrisse agli imperatori Irene e Costantino VI, in risposta alle due missive con le quali essi gli avevano comunicata l’intenzione di convocare un concilio che avrebbe dovuto ristabilire il culto delle immagini, ponendo termine allo scisma46. Il testo della sinodica di Adriano è stato ripristinato da Anastasio Bibliotecario che, nell’873, mentre traduceva in latino gli atti del concilio di Nicea del 787, poiché disponeva anche del testo della sinodica conservato presso la cancelleria papale, ebbe modo di accorgersi che tutta la parte finale di essa era stata censurata dagli estensori degli atti. In questa sezione censurata della sinodica di Adriano, Irene e Costantino (sempre, beninteso, che non solo ponessero fine all’eresia iconoclastica, ma restituissero anche patrimoni e diocesi sottratti alla Chiesa romana dal basileus Leone III nella fase iniziale del conflitto) sono messi sullo stesso piano di Carlo, re dei franchi. La novità consiste nel fatto che, per Adriano, Carlo è già il sovrano vincitore delle genti barbariche, mentre Irene e Costantino VI devono ancora molto adoperarsi, nelle svariate direzioni indicate. Rispetto alla concezione del Constitutum Constantini, fissata per iscritto, molto probabilmente, all’incirca vent’anni prima, che, accanto al basileus in oriente prevede, in occidente, un papa che, opportunamente truccato a imitazione di quello, funga anche da quasi-imperatore, la lettera del 785 sembrerebbe comportare che i due regni, entrambi ortodossi e vittoriosi, di Irene-Costantino e di Carlo fossero chiamati in futuro a coesistere in pace47.
I limiti della temperie in cui si realizzò il falso sono peraltro evidenti. Nelle sparse fonti scritte dell’VIII secolo attinenti all’ideologia politica, rilette come testimonianze complementari rispetto a quelle costituite dalle immagini dei ‘segni del potere’, non si coglie una direzione precisa. Nel Liber Pontificalis il racconto della Vita Hadriani si interrompe con il 77448. Da quel momento in poi le res gestae cedono il posto a costruzioni e restauri di edifici di culto e a donazioni a chiese e monasteri, come se gli autori non disponessero degli strumenti necessari per rendere conto di ciò che si stava preparando. Ma in particolare il Constitutum, di poco precedente, rappresenta tutt’altro che il punto elevato di un’autocoscienza e di una fase di alta cultura. La stessa concezione curiale dell’imitatio imperii fissata in esso per iscritto non fa che rispecchiare una deficienza di fantasia e di cultura. Invece di risolversi a fare i conti con la tradizione, riprendendo il filo del discorso al punto in cui lo avevano condotto e lasciato interrotto Ambrogio, Leone Magno, Gelasio, Gregorio Magno, la soluzione adottata, consistente nel vivisezionare il cerimoniale imperiale bizantino al fine di ricavarne gli sparsi elementi utili alla costruzione di un contropotere occidentale e papale, tutto esteriore, non depone certo a favore dell’ampiezza di orizzonti mentali di chi l’ha escogitata e promossa, anche a volere prescindere dal particolare, niente affatto trascurabile, che ciò assunse le vesti di un falso diplomatico49.
Le prese di posizione dei papi dell’VIII secolo assumono un’aria di grettezza. È come se l’impatto con la novità costituita dalle responsabilità connesse con l’esercizio del potere e del dominio temporale fosse stato tutto scontato nel momento iniziale. Questi papi non sembrano capaci di parlare di altro che di province promesse e non concesse, di patrimoni fondiari sequestrati e non restituiti. Si è già visto come, a motivazione della donazione, da parte di Costantino, di praedia possessionum alle basiliche di San Pietro e di San Paolo, il Constitutum adduca la necessità di provvedere al rifornimento dell’olio necessario all’alimentazione delle lampade sacre; e come, quando il riferimento a ciò non appare più collegato alla donazione di singoli fondi rustici e viene invece addotto quale fondamento della rivendicazione di interi patrimonia o, addirittura, di intere province, senza la menzione delle basiliche (come beneficiaria essendo ormai indicata la Chiesa romana), e con l’aggiunta di sapore autogiustificatorio che tali terre sarebbero servite anche ad assicurare gli alimonia pauperum, lo stravolgimento di quella pratica antica, risulti evidente e acquisti i connotati del sotterfugio.
L’unico riferimento a Costantino nel Codex Carolinus è quello della sopra citata lettera di Adriano I a Carlo, del maggio 778: ma, nel momento in cui Adriano esorta il suo interlocutore a essere il «nuovo Costantino», il vero obiettivo che si prefigge è modestissimo: non è nemmeno più l’adempimento integrale della promissio donationis del 774, bensì un aiuto immediato e concreto per il recupero di proprietà terriere, mandando in visione i documenti attestanti i possessi50. Risulta illuminante il confronto con alcune lettere poco precedenti la svolta dell’acquisizione temporale. Le due lettere inviate da Gregorio II a Leone III Isaurico, nelle parti in cui non risultano interpolate, riportano a una temperie diversa. Nei confronti del basileus che si dichiarava disposto a passare un colpo di spugna sull’accusa di laesa maiestas, formulata contro il papa, reo di disubbidienza fiscale, solo che questo avesse avallato il decreto contro le immagini, e in caso contrario minacciava di arrestarlo, Gregorio II ritrova, pur nei limiti culturali ed espressivi di un’età ancora di transizione, gli accenti e il gusto delle distinzioni caratteristici delle enunciazioni programmatiche dei grandi papi del V secolo: tutto ciò Gregorio lo attingeva dalla tradizione più alta della sua Chiesa. Egli conferma la propria libertà di parola. Una cosa era Roma-città, esposta alle insidie; un’altra cosa era Roma-patriarcato d’Occidente, intercapedine fra l’Oriente e l’Occidente, che niente per il momento sembrava poter minacciare. Tre spazi concentrici garantivano l’immunità della sua sede: anzitutto, il ducato che da Roma prendeva il nome, ormai una specie di terra di nessuno; l’Occidente barbarico cristianizzato, con i suoi re devoti a San Pietro; infine, l’Occidente profondo, con i suoi capi che, non paghi dei missionari arrivati fin là a predicare il Vangelo in nome di Roma, ora pretendevano che a battezzarli andasse il papa di persona (e Gregorio precisa che aveva accettato prontamente l’invito). In entrambe le lettere, l’accenno di Gregorio II al suo imminente viaggio oltre Reno voleva essere una maniera di vantare polemicamente, nei confronti del basileus, la forza espansiva, sul piano pastorale, del patriarcato d’Occidente. Due decenni più tardi tali spazi, invece, risultano strutturati in un sistema in cui l’ex ducato di Roma, in attesa di passare dalla potestas imperiale alla potestas dei vicari di San Pietro, era coperto dalla promessa di protezione giurata di Pipino, che, re unto dal papa e patricius Romanorum, si distaccava ormai nettamente dalla schiera degli altri sovrani dell’Occidente devoti a San Pietro. In questo senso, le lettere di Gregorio II segnano davvero «la fine di un’epoca»51.
La stessa impressione emerge dalla lettera inviata da Adriano I a Carlo Magno, in risposta al Capitulare adversus synodum, quae pro sacris imaginibus erectione, in Nicea acta est, che mostrava che in quel momento Carlo aveva deciso di prendere posizione contro il settimo concilio ecumenico. Essa è dedicata alla confutazione del capitulare e alla difesa dell’operato dei padri di Nicea52. Adriano conferma anche l’irreprensibilità del comportamento dei legati romani al concilio; essi avevano sottoscritto la definizione finale perché l’avevano giudicata conforme alla dottrina di Gregorio Magno sul culto delle immagini, che Adriano aveva fatto sua. Ma, a questo punto, è come se Adriano volesse prendere le distanze da ciò che ha appena finito di presentare come legittimo. Il fatto di prendere in considerazione l’ipotesi di un non accoglimento da parte di Roma dei canoni di Nicea con la generica motivazione del danno che ne sarebbe derivato per la salute delle anime, rischiava di ingenerare nel destinatario l’impressione di un’incrinatura nei propositi del papa, con il risultato di incoraggiare Carlo a persistere nel suo rifiuto. Un’impressione che il paragrafo seguente non faceva che confermare, chiarendo le ragioni dell’esitazione:
Già da tempo, quando li abbiamo esortati a ristabilire le immagini, abbiamo richiamato alla loro memoria le provincie ecclesiastiche e le diocesi dipendenti dalla santa cattolica ed apostolica Chiesa di Roma che ci portarono via insieme con i nostri patrimoni quando abbatterono le sante immagini [...]. Neanche loro hanno dato da allora una risposta53.
Considerata la necessità per la Chiesa di Roma di venire reintegrata nella giurisdizione sulle sue proprie province ecclesiastiche e diocesi dell’Illirico, della Calabria e della Sicilia e di rientrare in possesso dei propri patrimoni calabresi e siciliani, Adriano si disponeva – sempre che Carlo lo confortasse con il suo assenso – a ringraziare il basileus per l’avvenuto ripristino del culto delle immagini, ma a richiamarlo al suo preciso dovere di restituire giurisdizioni e patrimoni, se non voleva essere condannato come eretico. Dopo i decenni cruciali intercorsi fra il 730 e il 790, ora che il regno franco era subentrato all’indistinta nebulosa della cristianità occidentale, e il Patrimonio di San Pietro era venuto a prendere il posto, grazie alla tutela esercitata su di esso dai sovrani carolingi, della ‘terra di nessuno’ che, al tempo di Gregorio II si estendeva intorno a Roma, il gioco politico-diplomatico si era fatto per i papi così complesso e assorbente da appannare l’immagine tradizionale di Roma-patriarcato d’Occidente, ponte fra l’Oriente e l’Occidente e garante della stabilitas fidei, di fronte a un patriarcato orientale sempre esposto all’arbitrio dei basileis, e da fare apparire il nuovo assetto dell’Occidente così connaturato alle esigenze della Chiesa romana, che il papa non si rendeva conto che l’insidia alla stabilitas rectae fidei veniva non da parte del basileus, che rifiutava di restituire giurisdizioni e patrimoni alla Chiesa romana, ma da parte di Carlo, che, nella convinzione che la Chiesa gli fosse stata affidata, in un concilio presieduto da lui e al quale presero parte i soli vescovi delle province a lui soggette, si apprestava a respingere i risultati di un concilio ecumenico. Verso Carlo mancava quel rapporto dialettico già presente con gli imperatori orientali dalla seconda metà del V secolo. Per ristabilirlo occorreva che fossero recuperati i valori della tradizione tardoantica, senza di che ogni sforzo in tal senso sarebbe riuscito artificioso. Ma occorreva anche che i papi smaltissero lo choc provocato dall’assunzione delle nuove responsabilità connesse con l’esercizio del potere e del dominio temporale, che, non a caso, si era prodotto contestualmente al verificarsi del lamentato inconveniente54.
Nonostante la prudenza di cui Adriano I dovette dare prova nei confronti di Carlo dopo il concilio di Nicea, per non urtare la sua suscettibilità di propagatore della fede e di supremo controllore dell’organizzazione ecclesiastica, e nonostante gli interventi di Carlo in questioni religiose, di fatto la direzione impressa agli eventi dal sovrano portava di per sé a un rafforzamento delle tradizioni romane e, con ciò, della posizione di Roma e del papato (benché l’accresciuto livello spirituale del clero multinazionale del regno franco inducesse questo ad assumere atteggiamenti sempre più autonomi nei confronti del magistero di Roma). Del resto Carlo Magno, seguendo l’esempio del padre Pipino e, soprattutto, di san Bonifacio, si adoperò per rendere ‘romana’, cioè universale, la Chiesa franca, promuovendo la romanizzazione del culto praticato nelle Chiese del suo regno. Non solo i libri liturgici in uso a Roma, bensì anche la principale collezione romana di antichi canoni conciliari e decretali papali, la Dionysio-Hadriana, passarono le Alpi. E negli scriptoria d’Oltralpe maggiormente influenzati dal sovrano, quei testi, dopo essere stati contaminati con testi locali, diffusero dovunque quello che veniva accreditato come il verbo di Roma. Tuttavia i papi hanno uno scarso ruolo in ciò55. L’indubbio scadimento dell’istituzione papale non può, d’altra parte, essere riportato a una somma di casi singoli. Va messa in conto anche una netta carenza di carattere culturale. Roma restò tagliata fuori dell’influsso insulare, senza avere più la contropartita dei benefici scaturenti dalla sua collocazione mediterranea.
Alla lunga però, il continuo richiamarsi a San Pietro non avrebbe potuto non risolversi a vantaggio della posizione di Roma e del papato. È ciò che accadde nel corso del settantacinquennio che va dall’incoronazione dell’800 all’incoronazione di un altro Carlo, nell’875, quando papa Giovanni VIII fu in condizione di scegliere fra più candidati all’impero56. La crescita di Roma, del papato, avviene anche e soprattutto sul piano culturale (nel senso di un ricupero effettivo della tradizione), che è riscontrabile a partire dalla metà del IX secolo. Se si confrontano le lettere papali della seconda metà del IX secolo con l’iscrizione metrica votiva apposta da Adriano I alla corona aurea offerta alla confessione di Pietro, o con il programma iconografico del mosaico del triclinio di Leone III al Laterano, si ha la percezione del salto di qualità compiuto a Roma nell’intervallo, come se dal regno delle rappresentazioni per immagini, di necessità semplificatrici (il gregge dei fedeli affidato da Cristo a Pietro; Pietro che dà l’orifiamma a Carlomagno, etc.)57, si fosse passati all’improvviso a quello, superiore, dei concetti. Ciò che caratterizzò quella breve stagione fu la riconquista da parte della Chiesa romana del proprio retroterra culturale mediterraneo e tardoantico, che, è come dire della propria tradizione. A fronte della prima recezione delle Decretali pseudoisidoriane va messo anche il recupero di Gregorio Magno, le cui basi materiali erano state già poste da Adriano I con la raccolta delle lettere, ma che fu realmente operato con la biografia del grande pontefice redatta da Giovanni Immonide fra l’873 e l’87658; e inoltre l’attività di Anastasio Bibliotecario, eminenza grigia dei pontificati di Nicolò I, Adriano II e, fino a un certo punto, di Giovanni VIII. Anastasio, tra l’altro, è autore della lettera di Ludovico II a Basilio I in cui, da un lato, esplicita la tesi che vuole l’impero dei franchi fosse subentrato a quello dei Greci sulla base di un decreto divino reso operante dal papa e dai romani, la cosiddetta translatio imperii, ma, dall’altro, lascia bene aperta la possibilità della coesistenza di due imperi e a possibili alleanze. Questa medesima Roma tardo-carolingia ritrova anche lo spirito d’iniziativa necessario per promuovere un’attività missionaria fuori della sfera d’influenza dell’impero franco. Anche in questo caso la presa di coscienza di una situazione di inferiorità si sarebbe accompagnata a uno sforzo già in atto per porvi riparo. Sta di fatto che il papato, ottenne, in concorrenza con il patriarcato di Costantinopoli, un rapido successo missionario in Bulgaria (866-867); e, fra la fine dell’867 e l’inizio dell’anno seguente, la venuta a Roma di Costantino e Metodio, che furono autorizzati a predisporre in alcune chiese il primo ciclo di ufficiature in lingua slava, conferma la larghezza di orizzonti intellettuali e mentali che caratterizzava questo ritrovato slancio della Chiesa romana in un campo che aveva così a lungo disertato. Attraverso Gregorio qualcosa della romanità antica (non solo nomi di istituzioni prive ormai di senso) veniva ricuperato dalla cerchia di Giovanni VIII. Un ricupero, la cui portata, per ora modesta, va apprezzata in vista del futuro che attendeva l’impero e Roma59.
In conclusione, le origini del dominio temporale dei papi si collocano in un contesto cronologicamente medievale o ‘altomedievale’, ma una ricostruzione della genesi di tale dominio che non tenesse conto del processo di formazione di Roma christiana nei secoli IV e V e della nascita della nuova capitale dell’impero sul Bosforo sarebbe inadeguata. Certo si tratta di distinguere fra una tarda antichità immaginata, o sognata dai papi dell’Alto Medioevo (come nella Donazione di Costantino); una tarda antichità che persiste per inerzia (le sette ‘regioni ecclesiastiche’ delineate accanto alle quattordici ‘augustee’ verso la metà del III secolo, e usate ancora come punto di riferimento quando alcune di esse saranno ormai disabitate); e infine una tarda antichità coscientemente rivendicata in base al programma della renovatio, che riflette l’atteggiamento di chi ha la consapevolezza di vivere in tempi di decadenza ma pretende di poter risalire la corrente.
Il presente saggio costituisce una sintesi, operata da Alberto Cadili, dei numerosi studi sul tema di Girolamo Arnaldi, che ha letto e approvato il contributo.
1 G. Arnaldi, Il papato e l’ideologia del potere imperiale, in Nascita dell’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da verificare, I, Spoleto 1981, pp. 341-407; Id., Alle origini del potere temporale dei papi: riferimenti dottrinari, contesti ideologici e pratiche politiche, in Storia d’Italia. Annali, IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini, G. Miccoli, Torino 1986, pp. 43-71; G. Arnaldi, Le origini dello Stato della Chiesa, Torino 1987; cfr. anche Id., Chiesa romana e impero carolingio, in Carlo Magno a Roma (catal.), Roma 2001, pp. 21-30. Inoltre O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna 1941; Id., Scritti scelti di storia medioevale, 2 voll., Livorno 1968; Id., Roma e i Longobardi, Roma 1972; Id., Le origini del potere temporale dei papi, in I problemi dell’Occidente nel secolo VIII, Spoleto 1973, pp. 231-255; su Bertolini cfr. P. Toubert, G. Miccoli, G. Arnaldi, L’opera storica di Ottorino Bertolini, in Archivio della Società romana di storia patria, 102 (1979), pp. 5-36. Sulla storia del papato altomedievale L. Duchesne, I primi tempi dello Stato pontificio, Torino 1967 (ed. or. Paris 1898); E. Caspar, Geschichte des Papsttums von den Anfängen bis zur Höhe der Weltherrschaft, II, Das Papsttum unter byzantinischer Herrschaft, Tübingen 1933; L. Bréhier, R. Aigrain, San Gregorio Magno, gli Stati barbarici e la conquista araba (590-757), edizione italiana a cura di P. Delogu, in Storia della Chiesa, diretta da A. Fliche, V. Martin, V, Torino 1971; P. Llewellyn, Roma nei secoli oscuri, Bari 1975; J. Richards, The Popes and the Papacy in the Early Middle Ages (476-752), London-Boston-Henley 1979; M. Becher, Costantino il Grande, l’incoronazione imperiale nell’816 e le relazioni tra papato e Franchi dopo la prima metà del secolo VIII, in Costantino il Grande tra Medioevo ed Età moderna, a cura di G. Bonamente, G. Cracco, K. Rosen, Bologna 2008, pp. 15-50.
2 Liber Pontificalis, ed. L. Duchesne, I, Paris 1886, pp. 173-75, 177-187. Costantino avrebbe donato alla basilica dei Ss. Pietro e Marcellino la Sardegna, ma secondo Duchesne sarebbe un errore del compilatore del Liber (ivi, pp. 183, 199, nota 92). Sull’edizione del Liber cfr. Monseigneur Duchesne et son temps. Actes du colloque organisé par l’École Française de Rome (Rome 23-25 mai 1973), Rome 1975, pp. 99 segg.; in particolare sulle biografie dei papi da Simplicio (468-483) a Adriano I (772-795), cfr. O. Bertolini, Il ‘Liber Pontificalis’, in La storiografia altomedievale, I, Spoleto 1970, pp. 387-455.
3 Constitutum Constantini, hrsg. von H. Fuhrmann, in MGH.F X, Hannover 1968, pp. 93, 264-265. Tra gli studi recenti W. Pohlkamp, Privilegium ecclesiae Romanae pontifici contulit. Zur Vorgeschichte der Konstantinischen Schenkung, in Fälschungen im Mittelalter, II, Hannover 1988, pp. 413-490; sull’uso del Constitutum si veda J. Miethke, Die ‘Konstantinische Schenkung’ in der mittelalterlichen Diskussion. Ausgewählte Kapitel einer verschlungenen Rezeptiongeschichte, in Konstantin der Große. Das Bild des Kaisers im Wandel der Zeiten, hrsg. von A. Goltz, H. Schlange-Schöningen, Köln 2009, pp. 35-108, con bibliografia sugli studi precedenti.
4 Liber Pontificalis, cit., I, p. 173.
5 Cfr. ivi, pp. CXLIV-CXLVI.
6 R. Krautheimer, Rome. Profile of a City, 312-1308, Princeton 1980, p. 30; H. Leclercq, Éclairage des églises, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, IV, Paris 1921, cc. 1726-1730, in partic. 1727.
7 Liber Pontificalis, cit., I, pp. 170; 175; 182-184; 187.
8 Rispettivamente in Gregorii Magni, Registrum epistularum, ed. D. Norberg, in CCh.SL 140-140A, 14,14; Bullarum, diplomatum et privilegiorum sanctorum Romanorum pontificum Taurinensis editio, I, Augustae Taurinorum 1857, p. 227. Cfr. G. Arnaldi, Alle origini del potere temporale dei papi, cit., pp. 50-53.
9 Codex Carolinus, hrsg. von W. Gundlach, in MGH.Ep. III, p. 447.
10 Ivi, p. 477.
11 G. Arnaldi, Il papato e l’ideologia del potere imperiale, cit., pp. 370-372; Id., Alle origini del potere temporale dei papi, cit., pp. 53-55; Id., Le origini dello Stato della Chiesa, cit., pp. 103-104.
12 Cfr., recentemente, E.D. Hehl, 798 – Ein erstes Zitat aus der Konstantinischen Schenkung, in Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters, 47 (1991), pp. 1-18; F. Raspanti, Ipotesi per una cronologia della ‘Donazione di Costantino’ (757-772), in Pensiero politico medievale, 2 (2004), pp. 177-187, in partic. 187.
13 Constitutum Constantini, cit., p. 85.
14 Ivi, pp. 93-94.
15 Codex Carolinus, cit., p. 587, n. 60.
16 Ibidem.
17 In Liber Pontificalis, cit., p. CCXXXIX; cfr. G. Arnaldi, Il papato e l’ideologia del potere imperiale, cit., p. 372; Id., Alle origini del potere temporale dei papi, cit., pp. 47-48, 55-56.
18 P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe à la fin du XIIe siècle, 2 voll., Rome 1973, pp. 942-943.
19 Codex Carolinus, cit., p. 598, n. 68; p. 599, n. 69; p. 600, n. 70; pp. 601-602, n. 71.
20 Ivi, p. 598, n. 68, 2-3.
21 Ibidem.
22 G. Arnaldi, Le origini dello stato della Chiesa, cit., pp. 73-100, 105-109.
23 Ivi, pp. 115-119; in sintesi Id., Chiesa romana e impero carolingio, cit., pp. 22-23.
24 G. Arnaldi, Le origini dello stato della Chiesa, cit., pp. 110-117.
25 Ivi, pp. 117-126; G. Arnaldi, Alle origini del potere temporale dei papi, cit., pp. 61-63.
26 Liber Pontificalis, cit., p. 498.
27 G. Arnaldi, Le origini dello stato della Chiesa, cit., pp. 127-132.
28 E.E. Stengel, Die Entwicklung des Kaiserprivilegs für die römische Kirche 817-962. Ein Beitrag zur ältesten Geschichte des Kirchenstaats, in Id., Abhandlungen und Untersuchungen zur mittelalterlichen Geschichte, Köln-Graz 1960, p. 233.
29 G. Arnaldi, Le origini dello stato della Chiesa, cit., pp. 134-139.
30 A. Chastagnol, La préfecture urbaine à Rome sous le Bas-Empire, Paris 1960, p. VII; O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio, cit., p. 371.
31 P. Delogu, Il regno longobardo, in Longobardi e Bizantini, I, Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, I, Torino 1980, p. 154.
32 G. Arnaldi, Alle origini del potere temporale dei papi, cit., pp. 66-68; Id., Le origini dello Stato della Chiesa, cit., pp. 132-133.
33 A. Chastagnol, La préfecture, cit., p. 27.
34 Ivi, p. 28.
35 P. Toubert, Les structures du Latium médiéval, cit., pp. 798, 802 segg.
36 F. Claeys Bouuaert, s.v. Diocèses suburbicaires, in Dictionnaire de droit canonique, IV, Paris 1949, cc. 1267-1271.
37 Ch. Pietri, Roma christiana. Recherches sur l’Église de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte III (311-440), Rome 1976, p. 127.
38 G. Arnaldi, Alle origini del potere temporale dei papi, cit., pp. 68-70.
39 Sull’uso del Constitutum in rapporto ai franchi, cfr. da ultimo M. Becher, Costantino il Grande, cit., pp. 15-50.
40 H. Fuhrmann, Einfluss und Verbreitung der pseudoisidorischen Fälschungen. Von ihrem Auftauchen bis in die neuere Zeit, I, Stuttgart 1972, pp. 64-136; N. Huyghebaert, La Donation de Constantin ramenée à ses véritables dimensions. A propos de deux publications récentes, in Revue d’histoire ecclésiastique, 71 (1976), pp. 45-69, in partic. 57-62. Su quello che può costituire un embrione della futura Curia romana, ove nacque il falso, si veda E. Pàsztor, La curia romana, in Le istituzioni ecclesiastiche della «Societas Christiana» dei secoli XI-XII, Milano 1974, pp. 490-504; W. Pohlkamp, Privilegium ecclesiae Romanae, cit.; G. Arnaldi, Alle origini del potere temporale dei papi, cit., p. 57; Id., Le origini dello stato della Chiesa, cit., pp. 142-143.
41 O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio, cit., pp. 435 segg.; Id., Roma e i Longobardi, cit., pp. 33 segg.; Id., Il problema delle origini del potere temporale dei papi nei suoi presupposti teoretici iniziali: il concetto di «restitutio» nelle prime cessioni territoriali alla chiesa di Roma (756-757), in Id., Scritti scelti di storia medioevale, cit., I, pp. 487-547; Id., Le origini del potere temporale, cit., pp. 231-255; G. Arnaldi, Alle origini del potere temporale dei papi, cit., pp. 58-59; Id., Le origini dello Stato della Chiesa, cit., pp. 123-126.
42 G. Arnaldi, Alle origini del potere temporale dei papi, cit., pp. 61-63; Id., Le origini dello Stato della Chiesa, cit., pp. 100-103.
43 O. Bertolini, Bonifacio e Carlomagno, in I problemi dell’occidente nel secolo VIII, cit., pp. 17-39.
44 G. Martini, Traslazione dell’impero e donazione di Costantino nel pensiero e nella politica d’Innocenzo III, in Id., Scritti e testimonianze, s.l. 1981, pp. 3-72, la cit. a p. 67; G. Arnaldi, Alle origini del potere temporale dei papi, cit., pp. 64-65; Id., Le origini dello stato della Chiesa, cit., pp. 142-144.
45 G. Arnaldi, Alle origini del potere temporale dei papi, cit., pp. 64-65; Id., Le origini dello Stato della Chiesa, cit., pp. 144-147.
46 Sinodica di Adriano I, Mansi 12, cc. 1056A-1076D. Cfr. G. Arnaldi, La questione dei Libri Carolini, in Culto cristiano e politica imperiale carolingia, Atti del XVIII Convegno del Centro di studi sulla spiritualità medievale (Todi 9-12 ottobre 1977), Todi 1979, pp. 63-80, in partic. 64-65.
47 G. Arnaldi, Il papato e l’ideologia del potere imperiale, cit., pp. 350-355.
48 E. Amann, L’époque carolingienne, in Histoire de l’Eglise, éd. par A. Fliche, V. Martin, VI, s.l. 1936, p. 49.
49 G. Arnaldi, Il papato e l’ideologia del potere imperiale, cit., pp. 367-370.
50 Codex Carolinus, cit., p. 587, n. 60.
51 G. Arnaldi, Il papato e l’ideologia del potere imperiale, cit., pp. 372-385. Cfr. H. Grotz, Beobachtungen zu den zwei Briefen Papst Gregors II. an Kaiser Leo III., in Archivum historiae Pontificiae, 18 (1980), pp. 9-40.
52 Epistolae selectae pontificum Romanorum Carolo Magno et Ludowico Pio regnantibus scriptae, hrsg. von K. Hampe, in MGH.Ep V/1, pp. 5-57, n. 2, p. 7.
53 Ivi, pp. 56-57.
54 G. Arnaldi, Il papato e l’ideologia del potere imperiale, cit., pp. 388-395.
55 Cfr. C. Vogel, Les motifs de la romanisation du culte sous Pépin le Bref (751-768) et Charlemagne (774-814), in Culto cristiano, cit., pp. 16-41: «Dans leurs efforts, il faut le souligner, les réformateurs francs furent seuls. Rome, très libérale en matière de culte quand il ne s’agit pas des églises de l’Italia suburbicaria, n’a guère pas poussé à l’adoption de la consuetudo romaine. Il est même probable que les papes contemporains de Pépin et de Charlemagne n’ont jamais soupçonné la portée véritable de la réforme projetée par les francs» (la citazione a pp. 20-21).
56 G. Arnaldi, Natale 875. Politica, ecclesiologia, cultura del papato altomedievale, Roma 1990.
57 I. Herklotz, Francesco Barberini, Nicolò Alemanni and the Lateran Triclinium of Leo III: An Episode in Restoration and Seicento Medieval Studies, in Memoirs of the American Academy in Rome, 40 (1995), pp. 175-197; M. Luchterhandt, Famulus Petri. Karl der Große in den römischen Mosaikbildern Leos III., in 799 – Kunst und Kultur in Karolingerzeit. Karl der Große und Papst Leo III. in Paderborn, hrsg. von C. Stiegemann, M. Wemhoff, Mainz 1999, pp. 55-70; Id., Päpstlicher Palastbau und höfisches Zeremoniell unter Leo III., ivi, pp. 109-122.
58 G. Arnaldi, Giovanni Immonide e la cultura a Roma al tempo di Giovanni VIII, in Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano, 68 (1956), pp. 33-89; R. Wasselynck, Présence de saint Grégoire le Grand dans les recueils canoniques (XI-XIle siècles), in Mélanges de Science religieuse, 22 (1966), pp. 205-219; C. Leonardi, La ‘Vita Gregorii’ dì Giovanni Immonide, in Roma e l’età carolingia, Roma 1976, pp. 381-393; Id., Pienezza ecclesiale e santità nello ‘Vita Gregorii’ di Giovanni Diacono, in Renovatio, 12 (1977), pp. 51-66.
59 A. Lapôtre, De Anastasio Bibliothecario Sedis Apostolicae, Lutetiae Parisiorum 1885, p. 274, poi in Id., Etudes sur la papauté au IXe siècle, éd. par A. Vauchez, P. Droulers, G. Arnaldi, I, Torino 1978, p. 398 e cfr. G. Arnaldi, Il papato della seconda metà del secolo IX nell’opera di P. Lapôtre, in Cultura, 16 (1978), pp. 185-217, in partic. 213 nota 93; Id., s.v. Anastasio Bibliotecario, in Dizionario biografico degli italiani, III, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1961, pp. 25-37 (per le ragioni per cui è verosimile che il dictator abituale delle lettere papali, nell’871 abbia scritto anche una lettera per conto dell’imperatore, p. 33); P. Devos, Anastase le Bibliothécaire. Sa contribution à la correspondance pontificale. La date de sa mort, in Byzantion. Revue Internationale des études byzantines, 32 (1962), pp. 97-115; H. Fuhrmann, Einfluß und Verbreitung der pseudoisidorischen Fälschungen, cit., pp. 237-288; G. Arnaldi, Il papato e l’ideologia del potere imperiale, cit., pp. 341-346, 401-407; Id., Natale 875, cit.