Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La crisi religiosa che attraversa l’Europa coinvolge profondamente la vita delle donne. La lenta trasformazione delle relazioni politiche e sociali e le prescrizioni che provengono dalle istituzioni religiose fanno sì che la sua immagine e i suoi spazi d’azione siano sempre più condizionati dalla situazione personale di nubile, sposa o vedova. Un appiattimento, questo, che non avviene senza contraddizioni, ambiguità, resistenze.
Le donne e i movimenti di riforma religiosa
L’ansia di rinnovamento religioso che trova espressione nei diversi movimenti di riforma che serpeggiano in Europa vede le donne coinvolte in modo diverso da quanto avvenga per gli uomini. Questi infatti, inseriti sempre in un gruppo sociale – fondato sul ceto d’appartenenza o sull’attività lavorativa – sono chiamati ad agire (e agiscono) collettivamente, come membri di un gruppo. Le donne, invece, se si escludono le monache, non costituiscono un gruppo sociale distinto e la loro partecipazione ai movimenti di rinnovamento è sempre vissuta individualmente.
È in questo modo che esse partecipano alle rivolte, che si fanno promotrici di iniziative anche attraverso la predicazione, che subiscono processi e condanne. In alcune aree europee si assiste a un vero e proprio protagonismo femminile che assume caratteri diversi a seconda dell’area geografica e del ceto d’appartenenza.
In Inghilterra la partecipazione femminile alla vasta gamma di movimenti religiosi, che vanno dalla dissidenza cattolica al settarismo protestante, appare particolarmente ampia e coinvolge tutte le classi sociali. Si va da esponenti dell’élite sociale e culturale che scrivono o traducono testi religiosi e svolgono un’intensa attività di patronage, a donne meno famose e meno visibili che attraverso il loro ruolo di mogli e di madri mantengono viva la fede dei lollardi, o alle donne appartenenti ai ceti più bassi che animano i moti di Londra degli anni Sessanta.
Anche nei Paesi Bassi la partecipazione socio-politica femminile è rilevante, ma qui l’affiliazione religiosa, legandosi alle rivendicazioni d’indipendenza politica, legittima l’azione di donne come Kenau Hasselaar, l’eroina dell’assedio di Haarlem nei Paesi Bassi, o Trjin van Leemputte, che guida l’assalto alla fortezza di Utrecht; donne che assumono l’immagine e il ruolo tradizionalmente maschile di combattenti. Lo spirito patriottico qui è tanto forte che supera talvolta l’affiliazione religiosa, guidando l’azione di donne come la cattolica Magdalena Moons, che rifiuta di sposare il comandante spagnolo Valdez se questo non toglie l’assedio di Leida. Nelle prime fasi dell’anabattismo le donne dei ceti più umili sono, insieme ai giovani, importanti protagoniste di episodi di lotta contro il culto delle immagini sacre, come l’incendio di Amsterdam del 1535; partecipano pubblicamente al pellegrinaggio a Münster e infine, come gli uomini, sono sottoposte a processi ed esecuzioni. Le inquietudini politiche e sociali, i mutamenti religiosi creano nei Paesi Bassi un ambiente in cui le donne, anche se per un breve periodo, possono emergere in posizioni forti e indipendenti, diventando veri e propri leader.
Anche in Spagna, nei primi decenni del Cinquecento, le donne assumono talvolta il ruolo di guida di gruppi ispirati dalla diffusa ansia di salvazione. Si tratta talvolta di donne appartenenti al ceto nobiliare, come Maria de Pacheco e Luisa de Carvajal, o di estrazione borghese, come Isabel de la Cruz, maestra della setta ereticale degli alumbrados, o Maria de Cazalla, moglie di un piccolo proprietario terriero e sorella del vescovo Cazalla, vicina agli alumbrados, che predica e scrive lettere che circolano rilegate fra i suoi seguaci; o Isabel Ortiz, che si guadagna da vivere cucendo e ricamando e contemporaneamente scrive libri di devozione di cui è chiamata a rispondere davanti all’Inquisizione. Le particolari condizioni politico-religiose della Spagna lasciano un ristretto campo d’azione a queste donne che, isolate, sono presto costrette alla fuga o sottoposte ai rigori dell’Inquisizione.
Nei Paesi di area tedesca, dove l’affermazione e l’istituzionalizzazione della Riforma protestante è più rapida, dove la brusca chiusura dei conventi priva improvvisamente molte donne di uno spazio definito all’interno della struttura ecclesiastica (queste, a differenza degli uomini, non possono diventare pastori nelle nuove chiese, né possono riunirsi in confraternite femminili laiche), il protagonismo femminile emerge anche come protesta contro la Riforma e viene soprattutto dai conventi, dove le donne erano abituate a esprimersi su questioni religiose e a gestire con una certa autonomia le proprie vite e i propri beni. Sul fronte riformato invece numerose sono le donne appartenenti al più ampio mondo laico, spesso illetterate, che, abbracciando l’idea di Lutero del sacerdozio universale, cominciano a predicare e a sfidare le autorità religiose, suscitando ben presto l’allarme delle autorità cittadine. Queste comunque trovano nei padri riformatori un attivo sostegno nell’arginare simili atteggiamenti, sicché già dal 1530 la predicazione femminile è sradicata o assimilata al profetismo visionario, un’attività che ha precedenti biblici e non implica un ruolo pubblico, ufficiale e permanente.
I protestanti, infatti, come i cattolici, propongono un modello femminile basato sulle parole di san Paolo secondo cui le donne devono essere “caste, silenziose ed obbedienti”, condannando qualsiasi manifestazione pubblica della loro fede. Esse sono invece chiamate alla preghiera, alla meditazione, all’educazione dei figli, a cantare o scrivere inni, attività tutte personali, familiari, domestiche. L’esortazione al matrimonio assume un particolare rilievo per le donne protestanti che solo attraverso questo realizzano pienamente la volontà di Dio. Le donne non sposate sono guardate con sospetto e neppure quando occupano posizioni di rilievo e godono di ampio prestigio riescono a evitare aspre critiche.
Nell’epoca della Riforma il ministero della parola è riservato solo agli uomini; infatti le università ancora per molto tempo saranno chiuse alla donne. Tuttavia la figura della moglie del pastore evangelico ricopre spesso un ruolo molto importante: Caterina di Bora, che prima di sposare Lutero era in convento, è stata un personaggio molto rilevante e ha esercitato una forte influenza anche sul lavoro del marito.
Il matrimonio, fin dai primi anni Venti, diventa oggetto di numerosi trattati e manuali, è al centro dei sermoni domenicali, è soggetto di opere teatrali in volgare. Incisioni popolari rappresentano donne sposate (ben identificabili come tali dal copricapo) che leggono la Bibbia. Sia Lutero sia Calvino sostengono l’uguaglianza spirituale di uomini e donne, ma contemporaneamente, in perfetta sintonia con la tradizione patristica e con i loro predecessori scolastici e umanisti, sostengono la subordinazione della donna all’uomo in ogni aspetto della vita quotidiana, in particolare all’interno del matrimonio, dove l’obbedienza al marito è un dovere da rispettare persino quando ciò implica un conflitto religioso. Secondo Calvino, infatti, “una donna non deve abbandonare il compagno che è ostile” alla fede. L’idealizzazione del matrimonio e la contemporanea subordinazione della donna al marito sono elementi determinanti nella vita di tutte le mogli protestanti, ma soprattutto in quelle dei primi riformatori, per lo più donne che sono state monache e che agli occhi della gente comune sono ancora associate al concubinato dei preti. Esse devono costruirsi una rispettabilità proponendosi come modelli di obbedienza muliebre e di carità cristiana. Spetta a loro fornire agli studenti e ai rifugiati cibo, protezione, cure mediche. Su di loro grava l’organizzazione della casa, dal reperimento delle risorse necessarie all’economia familiare alla guida della servitù, tanto più che i loro mariti, ex preti e monaci, sono spesso totalmente privi di senso pratico.
Nel protestantesimo continentale prevale l’insistenza sull’obbedienza maritale e ciò che si sottolinea è semmai “l’unione del comportamento e del modo di pensare” (Lutero) o una complementarità basata sul dovere della moglie “di accontentare il marito” e di “essere fedele in qualsiasi circostanza” (Calvino); nel mondo protestante inglese, invece, si riconosce più chiaramente alla donna una funzione quasi di missionaria entro le mura domestiche, la si sollecita a fare della propria casa “un seminario della chiesa” leggendo i testi sacri e pregando insieme ai figli e ai servi.
Diversa è la situazione nel mondo cattolico, dove – sia per gli uomini sia per le donne – la castità e il celibato rimangono le forme più alte di perfezione, il fatto fondamentale che pone i religiosi al di sopra dei laici. La Chiesa cattolica, a differenza delle nuove Chiese riformate, lascia aperta al mondo femminile la scelta monacale, riorganizza i conventi tradizionali, crea uno spazio istituzionalizzato per l’espressione di forme di spiritualità nuove e fra loro differenti; si va dal “modello spagnolo”, legato principalmente a Teresa di Avila, caratterizzato dalla ricerca di un colloquio diretto e individuale con Dio attraverso una pratica religiosa fondata sulla solitudine e sulla mortificazione del corpo, al “modello sociale”, in cui possono trovare ordine e regola forme di spiritualità missionaria e militante come quella delle suore Orsoline che si dedicano all’insegnamento e all’educazione delle fanciulle, o di una religiosità che trova espressione in una vita dedicata alla cura dei malati e dei poveri.
Tuttavia, se la Chiesa del dopo concilio di Trento offre alle donne uno spazio all’interno del quale esprimere la propria religiosità, questo è inteso come strumento di disciplinamento e di controllo, tanto che ben presto le Orsoline, che costituiscono una vistosa eccezione rispetto alle regole monacali, saranno costrette (1612) a rimanere in convento, richiamando a vivere con loro, al di là del muro di cinta, anche le allieve.
La proposta monacale, comunque, si rivolge necessariamente a una minoranza, nettamente separata dal resto della società. Consapevole di ciò, la chiesa tridentina focalizza la propria attenzione sulla famiglia, intesa come struttura fondante della società, da sottoporre al controllo diretto del clero, a partire dalla sacralizzazione del matrimonio. Questo però, diversamente che nel mondo protestante, rimane un male minore, il luogo in cui le passioni possono essere controllate e razionalmente orientate alla procreazione. Questa tensione tra l’ideale dell’astinenza sessuale e la necessità di sottrarre ai laici il controllo dell’istituto familiare, mentre fa sì che, nel mondo cattolico, si affermi con maggior lentezza un’etica della famiglia, determina l’affermazione di una serie di principi (riaffermazione del sacramento del matrimonio e sua ritualizzazione), la definizione minuziosa di regole da rispettare nelle pratiche quotidiane (digiuno settimanale, preghiere quotidiane, frequentazione delle funzioni religiose) e l’elaborazione di un modello, fondato sulla Sacra Famiglia, proposto all’intera società.
Al di fuori della famiglia la donna diventa fonte di disordine della società, un disordine che la Chiesa tridentina cerca di arginare attraverso la costituzione di un’ampia gamma di nuovi istituti rivolti a ex prostitute (convertite) o a donne “pericolanti”, ragazze povere, orfane, vedove, “malmaritate”, alle quali viene offerto un rifugio dai pericoli a cui sono esposte a causa della fragilità del loro sesso. Viene così introdotto un nuovo tipo di relazioni che implicano il controllo delle proprietà e dell’autonomia delle donne. Due sono sostanzialmente i modelli di gestione di questi istituti: uno, vicino a una concezione monastica, che prevede la sottomissione ai principi della povertà, castità e clausura; l’altro, in sintonia con le esigenze di una società in cui le attività artigiane e mercantili acquistano sempre maggior rilievo, secondo cui le donne rientrate nella società sono spinte ad apprendere un mestiere per guadagnarsi da vivere. Con la creazione di queste prime forme di assistenza pubblica mondo laico e gerarchia ecclesiastica trovano un terreno d’azione comune a partire dal riconoscimento di un principio, l’utile pubblico, legittimato dalla stessa Chiesa.
Luoghi, ruoli e spazi d’azione
La lenta trasformazione delle relazioni politiche e sociali che accompagna l’affermazione dello Stato moderno e il contemporaneo radicarsi dei modelli di comportamento proposti dalle istituzioni religiose, siano esse cattoliche o riformate, determina un progressivo rimodellamento dei ruoli e degli spazi assegnati alle donne. Se nei primi decenni del XVI secolo la condizione femminile è determinata dal ceto d’appartenenza, a partire dalla metà del secolo diventerà sempre più significativa la sua condizione personale di nubile, sposata o vedova.
La società di corte del primo Cinquecento propone alle aristocratiche un’immagine di donna disinvolta e brillante, non priva di una qualche autonomia e autorevolezza, se orientata ad affascinare e compiacere il mondo maschile. È l’epoca in cui donne come Isabella di Castiglia, Caterina de’ Medici, Elisabetta I d’Inghilterra sembrano sottrarsi al comune destino femminile di subalternità a una potestas maschile. E in effetti nelle società in cui si accede al potere per successione dinastica, alla donna, anello fondamentale nella costruzione del lignaggio, viene attribuito uno spazio d’azione pubblico, formalmente definito. Parallelamente, però, attraverso la diffusione del ricorso al fedecommesso – pratica testamentaria con la quale si impone all’erede di trasmettere integralmente il patrimonio ai discendenti – e a una trasformazione delle pratiche dotali, si assiste a una sua progressiva esclusione dal sistema successorio. Negli Stati organizzati in repubbliche, invece, non vi sono per le donne spazi pubblici definiti e la loro capacità di incidere sulla realtà passa attraverso i rapporti di parentela e avviene in modo informale.
Nel ceto artigiano e mercantile, dove il rapporto fra impresa e struttura familiare è più stretto, la situazione appare più articolata. Nel primo Cinquecento le donne, quando agiscono in sintonia con i loro mariti o quando, vedove, ne continuano l’attività, godono di una certa autonomia sia nella gestione di alcuni aspetti del patrimonio familiare sia nell’amministrazione dei propri beni. Come vedove inoltre possono essere iscritte alle corporazioni. Così, ad esempio, Isabella Guicciardini scrive al marito Francesco per informarlo sulle rendite e sui lavori eseguiti a Poppiano, una proprietà di campagna che amministra personalmente: chiede conferma al marito per il pagamento di alcuni creditori, ma decide in piena autonomia di spendere alcuni ducati per le riparazioni del tetto.
Anche in area tedesca non mancano casi di singole donne, come Barbara Uttmann, moglie del proprietario delle miniere di Annenberg, che organizza autonomamente un’importante impresa di produzione di merletti che in breve tempo costituisce la principale attività produttiva della zona (Erzgebirge). Fino ai primi decenni del Cinquecento, inoltre, la presenza femminile è rilevante nelle imprese commerciali delle città anseatiche, ed è attestata nel mondo del lavoro a tutti i livelli. A partire dalla seconda metà del secolo però, in concomitanza con l’affermarsi della nuova congiuntura economica caratterizzata da una generale mercantilizzazione del sistema produttivo e dallo sviluppo dell’organizzazione del lavoro a domicilio, le donne subiscono una progressiva perdita di visibilità e di autonomia; la loro presenza nel mondo del lavoro non diminuisce, anzi, alcuni settori – ad esempio il tessile – diventano quasi esclusivamente femminili; ma il mondo del lavoro è più nettamente caratterizzato dalla divisione sessuale. Ne sono una testimonianza le corporazioni delle arti, istituzioni non solo economiche, ma anche sociali, importanti soggetti della vita politica urbana: le donne vi sono in genere escluse, o se, come avviene a Bologna e a Firenze, possono diventare maestre, avere una bottega e lavorare in proprio, devono pagare una tassa di obbedienza e non sono ammesse a far parte del Corporale, l’organo decisionale dell’Arte.
In genere, sia nelle aree riformate sia in quelle cattoliche, l’unica identità riconosciuta alle donne è quella di moglie; diversamente esse vengono rese invisibili, perché private di qualsiasi soggettività giuridica e di qualsiasi ruolo pubblico; emblematico il caso della città svedese di Malmö, dove, nel 1549, viene emanata un’ordinanza che impone alle donne nubili che vivono sole di entrare a servizio come domestiche, pena la messa al bando dalla città.
Questo processo di omologazione e normalizzazione, comune in tutta Europa, si incrina però notevolmente se si prendono in esame ricerche, sempre più numerose, che hanno per oggetto aree territoriali specifiche, spesso ristrette, prassi giudiziarie o singoli casi di studio. Si può cogliere allora quanto ambigua e contraddittoria sia stata l’introduzione di tali trasformazioni, quante resistenze abbia suscitato.
Il concubinato, ad esempio, viene assimilato dal concilio di Trento al meretricio, ma nella realtà quotidiana risulta in molti casi straordinariamente simile a un matrimonio non formalizzato. Così quando si dà una forma concreta e vincolante al legame matrimoniale, vietando qualunque forma di concubinato, si corre il rischio di rompere legami consolidati, riconosciuti come tali dalla pubblica opinione. Un rischio concreto, di cui rimane traccia nella prassi giudiziaria: il coniuge che vuole rompere l’unione si difende davanti ai giudici sostenendo che tale matrimonio, privo della regolare celebrazione religiosa, non è valido. Una legge promulgata a Venezia nel 1577 per punire quegli “scelerati, che sotto pretesto di matrimonio, pigliano donne con la sola parola de presenti, et con l’intervento di qualcheduno et godute per qualche tempo, le lassano, ricercando la dissoluzione del matrimonio dalli giudici ecclesiastici” testimonia quanto siano diffusi casi del genere che finiscono per contrapporre due giurisdizioni, quella ecclesiastica e quella laica. Su un altro versante – se è vero che nel corso del XVI secolo si assiste in genere a una riduzione del patrimonio immobiliare delle donne che tendono ad essere liquidate in denaro – studi sulla piccola proprietà contadina dell’Italia meridionale hanno rivelato l’esistenza di una pratica consolidata che si basa sul passaggio dei beni fondiari alle donne attraverso la costituzione della dote; qui la circolazione dei beni appare strettamente legata a una parentela in cui le donne hanno un ruolo centrale. Ma se ciò corrisponde a una strategia familiare che passa attraverso le donne ma di cui queste possono non essere protagoniste, abbiamo invece esempi di protagonismo femminile nell’uso frequente che le donne fanno delle suppliche. La supplica, meno costosa di un processo, iterabile all’infinito, permette di cancellare per volontà del principe qualsiasi sentenza emessa sul suo territorio; le donne, che non possono sostenere le proprie battaglie attraverso i normali mezzi giudiziari, se ne avvalgono sistematicamente, spesso con successo, per recuperare la gestione autonoma delle proprie doti, per ottenere la tutela dei figli, per mantenere l’eredità ricevuta. Esse dimostrano così di sapersi muovere all’interno del quadro politico-istituzionale che caratterizza la loro realtà utilizzando quegli spazi interstiziali che si vengono a creare nel passaggio dal sistema di potere medievale allo Stato moderno.