Le eredita/2: i postumi della crisi modernista [1914-1958]
Il ristabilimento della pace fra gli uomini fu naturalmente una preoccupazione dominante espressa nell’enciclica programmatica di Benedetto XV. In essa però, con un chiaro scarto rispetto al passato, il papa prese anche le distanze dai ‘cattolici integrali’1, pur riaffermando esplicitamente il valore della condanna pronunciata con la Pascendi contro i «monstruosi errores Modernismi» e definendo quest’ultimo «pestifera lues» che «latenter serpit»; anzi, di suo, papa Della Chiesa intese non solo mettere in guardia contro tali errori, ma contro lo spirito stesso del modernismo, identificato col rifiuto preconcetto dell’antico e la ricerca di qualsiasi novità nel discorso teologico, nella celebrazione liturgica, nell’istituzione ecclesiastica e anche nella preghiera privata2. Il cardinal Rafael Merry del Val era intanto diventato segretario del Sant’Uffizio, dunque secondo solo al papa in un posto che avrebbe occupato sino alla morte repentina, nel 1930, quando ancora per cinque anni, il suo più fido collaboratore, Nicola Canali3, avrebbe rivestito l’importante ruolo di assessore della Congregazione4.
Certamente la linea neutralista ufficiale della Santa Sede fu sposata dalla stampa intransigente, mentre fu tra coloro che avevano indossato più o meno meritatamente la casacca dei modernisti che nel dibattito sulla partecipazione al conflitto5 si crearono ulteriori sfaldature. Brizio Casciola, Giovanni Pioli e il barnabita Alessandro Ghignoni6 assunsero posizioni neutraliste e pacifiste. L’interventismo, invece, soprattutto dopo la dichiarazione di guerra, ebbe ampio seguito tanto tra le personalità più vicine per tradizione familiare alla tradizione ottocentesca del liberalismo nazionale, quanto presso chi aveva partecipato al gruppo modernista radicale romano (come Guglielmo Quadrotta), Romolo Murri e – soprattutto nelle prime settimane di combattimento – tra i giovani democristiani che da lui si erano separati dopo il 1909, federati dall’ideologia della guerra per la democrazia contro gli imperi autocratici7. A tal proposito vanno segnalati nel 1916, sulla rivista dei giovani democratici cristiani «L’Azione», tre interventi di don Primo Mazzolari, in cui commemorò con affetto la fede del barnabita Pietro Gazzola nel sopportare la disciplina antimodernista a cui era stato sottoposto, salutò con favore l’apparizione della traduzione italiana dell’autobiografia di George Tyrrell e giudicò il modernismo un «fatto che vive nonostante i molti necrologi» pronunciati8.
Gli effetti disastrosi della conflagrazione lasciarono però soprattutto margini di credito alla riproposizione del mito del ritorno al Medioevo cristiano come risposta positiva alla malattia del mondo moderno, di cui si fece efficace araldo in Italia Agostino Gemelli, in apertura del primo numero di «Vita e pensiero» (dicembre 1914).
Per Giovanni Semeria il cambio di pontificato e lo scoppio della guerra rappresentarono una congiuntura insperata per poter dare uno strappo alla disciplina imposta e sottrarsi al confino belga, pur restando legato al territorio di guerra, nel ruolo di cappellano dello stato maggiore dell’esercito. L’apparizione di una nuova edizione pirata del suo Scienza e fede (1903) riattivò lo zelo antimodernista del cardinal Gaetano De Lai (i cui poteri furono ridimensionati9 sotto il pontificato di Giacomo Della Chiesa) e dello stesso Merry del Val. L’apparizione di Semeria in un film di propaganda di guerra10 non lo aiutò, indispettendo il papa neutralista. Provato dalla scoperta della tragica realtà della vita al fronte e dallo snervante tentativo di ottenere, invano, una riabilitazione completa da parte diBenedetto XV, alla fine del 1915 l’equilibrio mentale di Semeria vacillò. L’incontro con don Luigi Orione prima e con Giovanni Minozzi poi, avrebbe aiutato il barnabita a orientarsi progressivamente verso l’azione sociale. Le spinte di Billot e van Rossum ottennero in effetti la messa all’Indice, che fu secretata dal pontefice; finché nel 1919, per poter finalmente rientrare in Italia, dopo aver riconosciuto pubblicamente il pericolo costituito dal proprio testo controverso del 1903 e aver adempiuto all’obbligo di rinnovare il giuramento antimodernista, Semeria si sottomise pure a quello di non ricadere in errore negli scritti che avrebbe pubblicato, consacrandosi definitivamente all’opera di assistenza degli orfani di guerra del Mezzogiorno d’Italia11.
Ben maggiore filo da torcere avrebbe dato al Sant’Uffizio colui che nel luglio del 1915 riuscì vincitore del concorso per la cattedra di storia del cristianesimo all’università di Roma: Ernesto Buonaiuti. Già nell’aprile del 1914, avendo Nicola Turchi e Buonaiuti pubblicato il resoconto del loro viaggio in Irlanda, L’isola di smeraldo fu sottoposto all’esame del Sant’Uffizio: i consultori Giovanni Lottini e Francesco Borgoncini Duca e i cardinali Louis Billot e Willem Marinus van Rossum si pronunciarono per la condanna; il 5 settembre Benedetto XV richiese invece che questa fosse sospesa, consentendo una ritrattazione d’errori agli autori, i quali a loro volta si difesero pure dall’accusa d’indisciplina, sostenendo di aver sottomesso il testo alla revisione in Vicariato12.
Qualche mese prima dell’elezione al magistero universitario, il Sant’Uffizio condannò «uti organum propagandae modernisticae» il periodico che il sacerdote romano aveva fondato in gennaio, la «Rivista di scienza delle religioni», a cui Umberto Fracassini – che partecipò anch’egli al concorso vinto da Buonaiuti –, aveva rifiutato la collaborazione, come diede conto lo stesso decreto di condanna13. Il direttore e i suoi tre collaboratori ecclesiastici – Bacchisio Motzo, Primo Vannutelli e Nicola Turchi furono obbligati a rinnovare il giuramento antimodernista14. Anche alcuni lavori di Umberto Fracassini, furono sottoposti ad esame dal Sant’Uffizio, ma benché vi fossero stati constatati classici errori imputati al modernismo storico-critico, come la negazione del sovrannaturale, il caso finì col restare in sospeso15.
Il successo diBuonaiuti al concorso provocò invece la reazione veemente di Louis Billot, che si rivolse per iscritto a Merry del Val denunciando lo scandalo consumato a Roma16. Alla richiesta del Sant’Uffizio affinché si ingiungesse al Buonaiuti la dimissione dall’incarico universitario, il papa rispose di procedere con un avvertimento al sacerdote e sottoponendo a controllo il suo insegnamento, giudicato dal Lottini inficiato da «una buona dose di modernismo e di dottrine ereticali». Quanto all’ingiunzione pendente a rinnovare il giuramento antimodernista, Buonaiuti, la cui posizione universitaria era resa più fragile dagli attacchi della stampa radicale e protestante, riuscì a ottenere per sé e per i suoi giovani collaboratori il privilegio di pronunciare l’atto in privato, nella cappella del Segretario di Stato Pietro Gasparri17.
Mentre si spegneva l’eco di sconcerto con cui l’opinione pubblica laica aveva seguito l’evolversi di tali eventi, nel marzo del 1917, esprimendo l’intenzione di voler portare a compimento un progetto del predecessore (e restando così fedele allo spirito di modernizzazione che aveva ispirato la riforma della curia diPio X secondo criteri efficientisti) Benedetto XV soppresse la Congregazione dell’Indice, al fine – dichiarò – di evitare ogni conflitto di competenza col Sant’Uffizio18, che restò quindi unico competente in materia di censura.
Nel giugno del 1917, il testo delle dispense del corso di Buonaiuti compilato da un suo studente fu sottoposto all’esame dei consultori Lottini e Lucien Méchineau, perito conservatore anche alla Commissione biblica. Oltre alcuni errori di carattere storico, lo scandalo fu individuato nel fatto che un prete sostenesse pubblicamente la derivazione del sacramento dell’eucaristia da misteri pagani e riti ebraici. All’ingiunzione del Sant’Uffizio a sottoscrivere una condanna del testo, Buonaiuti oppose la propria estraneità all’oggetto contestato e, facendo atto di adesione all’ortodossia direttamente al papa, evitò di subire una suspensio a divinis19. Nel 1918, Buonaiuti fu chiamato da Mario Missiroli a collaborare come vaticanista a «Il Resto del carlino»; all’inizio del gennaio del 1919, fu quindi convocato al Vicariato per ritrattare gli errori che il Sant’Uffizio aveva ricavato da due pubblicazioni su sant’Agostino, in cui era stato rilevato l’errore della tesi della formulazione tardiva del dogma del peccato originale e del conseguente influsso del manicheismo sull’ortodossia. Anche questa volta le decisioni del pontefice resero meno pesanti e più discrete le condizioni della sottomissione alla condanna20.
La guerra, intanto, quella combattuta fra le trincee, era finita e il panorama politico nazionale subì una rilevante trasformazione con la fondazione del Partito popolare italiano. Il successo del partito programmaticamente aconfessionale di don Luigi Sturzo sembrò poter realizzare le aspirazioni di molti fra coloro che avevano aderito alla democrazia cristiana di Murri. Al nuovo partito aderirono pure i cattolici liberali Alessandro Casati eStefano Jacini, che avevano animato «Il rinnovamento» di Milano, scomparso definitivamente nel 1909, dopo esser stato attaccato sin dal 1907. Murri, ormai isolato, tenne però a precisare che il partito non realizzava l’auspicata compiuta autonomia rispetto alla gerarchia cattolica e risultava infecondo sul piano culturale21.Buonaiuti, collaborando ai giornali del giolittiano Mario Missiroli, lasciò trasparire più di una perplessità nei confronti del cattolicesimo politico22. Questa volta, però, le nuove direttive del Segretario di Stato Gasparri gettarono scompiglio soprattutto nel campo dei cattolici intransigenti. «La Liguria del popolo» e «L’Unità cattolica», che sotto la direzione di Ernesto Calligari aveva ormai stemperato i propri ardori, si opposero tra loro nel valutare la creazione del partito di Sturzo23. Fedeli alla stessa linea intransigente del giornale ligure, contro il principio dell’aconfessionalismo, si schierarono anche «Fede e Ragione» di Paolo de Töth24 e Umberto Benigni, con l’agenzia Urbs25.
Intanto, la vigilanza dottrinale nei confronti del professore di storia del cristianesimo dell’Università di Roma non defletteva; l’instancabile attività editoriale di Buonaiuti suscitava inquietudini e nel luglio del 1919 i primi due numeri della rivista «Religio», diretta da Nicola Turchi, furono immediatamente individuati come un’ennesima riprova d’insubordinazione; il cambio di direzione non mutò l’atteggiamento degli inquisitori. Il pedagogista Mario La Barbera, de «La Civiltà cattolica», seguì l’attività di conferenziere del Buonaiuti e i suoi rapporti attizzarono gli umori dei responsabili dell’ortodossia al Sant’Uffizio; inoltre, in un articolo firmato da Buonaiuti su «Religio» nel 1920, relativo a Le esperienze fondamentali di Paolo, si colse la negazione della presenza reale nel dogma eucaristico. Egualmente inquietante fu considerata la comunicazione di Buonaiuti al IV congresso della Società filosofica italiana, con cui si era opposto agli idealisti italiani, affermando l’eterogeneità assoluta fra religione e filosofia. I consultori del Sant’Uffizio proposero la suspensio, l’imposizione di «perpetuo silenzio», un’indagine sulla moralità della persona di Buonaiuti e la richiesta al papa affinché i protettori curiali del professore cessassero l’azione di fiancheggiamento. Nel gennaio 1921 i cardinali inquisitori decisero che si sarebbero comminate suspensio e scomunica semplice26. Il decreto del 14 gennaio27 provocò le reazioni della stampa: Giuseppe Prezzolini scorse nei fatti l’esito coerente della secolare vita della Chiesa, un altro laico, Adriano Tilgher, collega di Buonaiuti a «Il Tempo», espresse pubblicamente la propria simpatia per i sentimenti religiosi dell’amico, mentre il cardinalPietro Gasparri non riusciva a ottenere l’adesione del professore al principio della subordinazione dei risultati della ricerca storica al dato teologico-dogmatico28. Quindi, dopo una dichiarazione di fede cattolica pubblicata su «L’Osservatore romano» dell’8 giugno – con una lettera in cui rendeva pubbliche un’ennesima sottomissione all’enciclica Pascendi (già rinnovata nel prestare il giuramento antimodernista) e una ritrattazione degli errori che erano stati rilevati dal Sant’Uffizio – e dopo aver superato una gravissima crisi di salute, impegnatosi pure a spostare i propri interessi scientifici dallo studio delle origini a quello del Medioevo cristiano e a dare testimonianza della propria fede pure in ambito professionale, Buonaiuti fu riammesso alla comunione col benestare del Segretario di Stato29.
La fine del pontificato di papa Della Chiesa, all’inizio degli anni Venti, fu segnata anche da altri importanti casi dottrinali. Se la giustificazione che le proprie aperture interconfessionali erano ispirate dall’intenzione di provocare conversioni al cattolicesimo bastò a don Brizio Casciola per evitare condanne30, più sfortunato fu il cofondatore de «Il Rinnovamento», Tommaso Gallarati Scotti. Infatti, nel 1920, malgrado una timida difesa del papa nei confronti di accuse piuttosto generiche formulate da padre Enrico Rosa contro la sua Vita di Antonio Fogazzaro31, denunciata dal cardinal Andrea Carlo Ferrari e nonostante l’appoggio del cardinal Pietro Maffi, il patrizio milanese non riuscì neppure a ottenere di poter pubblicare una versione corretta dell’opera, che sarebbe venuta solo nel 193432.
Anche rispetto agli studi d’esegesi biblica la situazione non segnò importanti passi in avanti. Marie-Joseph Lagrange e la sua École biblique non davano sufficienti segni d’affidabilità sul piano dottrinale. Il biblista domenicano lo poté apprendere direttamente in un colloquio con il cardinal van Rossum dell’ottobre del 1918: a Roma si preferiva l’insegnamento professato dall’Istituto biblico33. A esso il papa, nel 1916, aveva conferito il diritto di concedere la licenza in Sacre scritture a nome della Pontificia commissione biblica, con un atto sempre dichiaratamente ispirato alla logica della razionalizzazione funzionale degli organismi ecclesiali e alla lotta contro l’esegesi razionalista34. Dall’interno stesso dell’Istituto biblico partirono attacchi all’indirizzo delle tesi di Lagrange e della sua scuola, accusata da Alberto Vaccari di sostenere le teorie moderne. Allo stesso Vaccari e a Leopold Fonck si deve probabilmente la redazione dell’enciclica Spiritus paraclitus (1920), con cui venne riaffermata la veridicità storica dei racconti biblici e rifiutata la teoria delle citazioni implicite e dei generi letterari35. La pubblicazione dell’enciclica che ribadiva la subordinazione dei risultati della ricerca storico-esegetica al dato dogmatico provocò il disappunto di Bacchisio Motzo, che ne scrisse direttamente al papa affinché non si ripetesse nell’ambito degli studi storici l’errore già commesso con Galileo Galilei, avviando così un processo di progressivo allontanamento personale dall’istituzione ecclesiastica36. Nel 1919, intanto, erano pure stati censurati due testi del sulpiziano Jules Touzard, ex allievo di Alfred Loisy all’Institut catholique, in cui l’autore aveva messo in discussione la tesi dell’autenticità mosaica del Pentateuco. Nel respingere gli inutili tentativi di giustificazione avanzati dai biblisti progressisti, Louis Billot e Rafael Merry del Val tennero ad affermare il principio dell’identificazione fra ortodossia e insegnamento ufficiale della Chiesa37.
Da un fratello sulpiziano di Touzard, amico di Blondel, lo storico della Chiesa Fernand Mourret era intanto stato fatto pervenire alla Segreteria di Stato il memoriale che documentava le pratiche di spionaggio e di delazione del gruppo dei cattolici integrali di Umberto Benigni, le cui attività erano state sospese solo durante la guerra. Ne risultarono lo scioglimento del gruppo dopo un’inchiesta conclusa daGasparri nel 1921 e l’ostilità di Benigni versoDe Lai, che in quel frangente ne aveva preso le distanze38.
Un’importante novità politica s’impose pienamente e violentemente all’attenzione dell’opinione pubblica cattolica dopo le elezioni della primavera del 1921: il successo del fascismo. Con tale inedito ingombrante soggetto avrebbero dovuto fare i conti i cattolici, soprattutto all’indomani della marcia su Roma, quando con molta fatica il Ppi decise di entrare a far parte del governo Mussolini, impegnato subito a smentire una consolidata fama d’anticlericale. Su «L’Unità cattolica», condividendo le opinioni di buona parte dei cattolici italiani, padre Giovanni Semeria salutò il nuovo governo come quello di tutti i partiti «nazionali»39. Nell’enciclica programmatica, del dicembre del 1922, il nuovo papa, richiamandosi esplicitamente al programma di Pio X, rivendicò vigorosamente il progetto di estendere a tutta la società il regno sociale di Cristo e di ricondurre al suo cuore l’intera umanità. Nel documento, affermando la necessità di un saldo ancoraggio alla dottrina sociale elaborata a partire da Leone XIII, soprattutto al fine di permettere un’adeguata formazione spirituale dei giovani laici ed ecclesiastici, papa Ratti riprovò vivamente il modernismo morale, giuridico e sociale insieme a quello dogmatico40. Anche nel confermare nel 1923 l’insegnamento di Tommaso come base fondamentale della formazione cattolica, con l’enciclica Studiorum ducem Pio XI esaltò il Dottor angelico come colui che aveva vittoriosamente confutato le dottrine dei modernisti, che, dichiarò, lo temevano sommamente41. Chiaramente, nell’insegnamento di papa Ratti il modernismo costituiva più un referente polemico ideologico che un pericolo storico reale. Secondo le informazioni raccolte nel 1925 presso monsignor Nicola Canali da una spia vaticana del regime, riferendosi con soddisfazione alla presa di distanze della diplomazia vaticana da Sturzo e dal Partito popolare, destinato alla dissoluzione, Merry del Val avrebbe dichiarato Mussolini altrettanto benemerito della «civiltà cristiana» di Pio X, perché come questi aveva affossato il modernismo in religione, così il duce stava procedendo col «modernismo in politica»42.
Le dichiarazioni pontificie poterono comunque continuare a legittimare offensive antimoderniste sul piano dottrinale: quella antifrancese, nell’ambito degli studi biblici, si concluse nel dicembre del 1923 con la messa all’indice della nuova edizione curata dal sulpiziano Augustin Brassac del diffusissimo Manuel biblique di Fulcran Vigouroux e Augustin Brassac venne pure allontanato dall’insegnamento43. Il Sant’Uffizio e l’Istituto biblico persistevano infatti nel loro conservatorismo e a nulla valsero i tentativi del cardinale di Parigi, monsignor Louis-Ernest Dubois e dei progressisti Albert Condamin e Léonce de Grandmaison a smorzare l’intransigenza di Billot e Merry del Val44.
Naturalmente e molto probabilmente facendo pure leva su un appannamento dei rapporti fra Buonaiuti e il cardinal Gasparri, al Sant’Uffizio fu ripresa in considerazione la prolifica attività di Buonaiuti; furono incaricati i consultori Enrico Rosa, nemico pubblico del professore, Ernesto Ruffini e Agostino Gemelli. Nel marzo del 1924 si pervenne a condannare tutte le opere del pertinace, a sospenderlo, a scomunicarlo e a proibirgli di esprimersi sotto forma scritta o orale in materia di religione. Il decreto di condanna registrò pure l’avvenuta completa sottomissione del Brassac45. In quella circostanza fu ammonito anche Angelo Mercati, viceprefetto dell’Archivio segreto vaticano, per l’autorevole avallo concesso all’ennesima iniziativa editoriale del professore46. Buonaiuti, per tutta risposta, continuò con le sue pubblicazioni e all’inizio del 1925 fondò la nuova rivista «Ricerche religiose». Alla fine del mese di gennaio il Sant’Uffizio ingiunse al contumace di deporre l’abito talare e ai fedeli di astenersi dal leggere i suoi scritti e dall’ascoltare i suoi insegnamenti47. Ne seguì una nuova infuocata polemica con «La Civiltà cattolica». Dopo aver richiesto al papa di poter essere riammesso alla comunione, Buonaiuti fu incontrato da padre Gemelli, dal quale apprese dell’imminenza di una scomunica vitando. Il professore chiese un congedo dall’insegnamento, ma Gemelli ribadì che la condizione da rispettare doveva essere l’abbandono della cattedra; il decreto fu promulgato il 26 gennaio 192648. Buonaiuti poteva sperare ancora di conservare l’insegnamento, gli sarebbero rimasti i giornali e l’ampia rete di relazioni con i colleghi e i discepoli; così, nonostante tutto, avrebbe ancora provato a restare un «riformatore endocattolico», come lo definì l’amico valdeseUgo Janni49. Ne diede atto il volumetto pubblicato a Parigi nel 1927: Le modernisme catholique, che Buonaiuti definì
«un mouvement destiné à découvrir dans les documents de la révélation chrétienne et dans le processus de la transmission historique, à isoler de la cristallisation d’une tradition millénaire, qui les étouffe, les valeurs absolues qui ont donné au christianisme sa vertu de discipline universelle […]»
e seppure
«Rome, par un geste intempestif et néfaste, dont l’avenir seul pourra mesurer exactement la portée, a dédaigneusement rejeté [sic!] sa coopération […] le modernisme [concluse Buonaiuti] ne doit abandonner pour cela aucun point de son programme, aucun article de sa profession de foi»50.
Con «perfetta coerenza, nell’assoluta incoerenza» di un forte sentire in una vita spezzata in una delle sue fibre più profonde – la ‘romanità’51 –, Buonaiuti rimase così fedele al suo programma modernista.
Con ben altri mezzi andava intanto imponendo il proprio programma una delle personalità che, come si è detto, aveva giocato un ruolo rilevante nei frangenti che avevano condotto Buonaiuti fuori dalla comunione cattolica: Agostino Gemelli. Nel 1924, infatti, a coronamento degli sforzi intrapresi nell’immediato dopoguerra, e a conclusione di un iter legale avallato dai ministri Croce eGentile, il frate francescano aveva ottenuto – ministro della Pubblica istruzione Alessandro Casati –, il riconoscimento legale della libera Università cattolica del Sacro Cuore di Milano. Laureatosi in medicina, Gemelli si era convertito al cattolicesimo dopo essersi formato alla scuola positivista, prendendo a modello il tomismo aperto al contributo delle scienze sperimentali sviluppato a Lovanio dal cardinal Désiré Mercier. Alla Cattolica, sulla cattredra di Letteratura italiana, Gemelli chiamò Giulio Salvadori, che alla fine del secolo trascorso, con Savi e Semeria, aveva pure animato il primo circolo degli studenti cattolici di Roma, prima di essere incaricato della revisione linguistica del catechismo da Pio X. Testimone di una fede disposta al dialogo con gli uomini di altre confessioni e religioni come l’ebraismo, ormai anziano, Salvadori ebbe anche il tempo d’esercitare un forte ascendente sul giovane studenteGiuseppe Lazzati52. L’amico giurista di Buonaiuti, Arturo Carlo Jemolo, cedette alle insistenti proposte del rettore della Cattolica per assicurarsi una condizione meno esposta ai ricatti del potere fascista, ma tornò presto nella sede di Bologna, probabilmente proprio per il ruolo giocato da Gemelli nel caso Buonaiuti, guadagnandosi così l’ostilità del francescano53.
Il progetto enunciato da Pio XI nell’enciclica programmatica poteva dunque essere perseguito in Italia, nel disegno di Gemelli, attraverso la formazione di una classe dirigente che sarebbe arrivata ad affermare il cattolicesimo come carattere dominante della nazione54. Proprio nel 1924, al congresso internazionale di filosofia di Napoli, il francescano propose «tra il San Tommaso dei ripetitori, che l’hanno mummificato, ed il San Tommaso dei carnefici, che vorrebbero trucidarlo», quello di coloro
«che la storia […] concepiscono [...] come un vero progresso [...] per via anche di affermazioni errate [...], le quali però si armonizzano poi nella Philosophia perennis, dopo essere state corrette e spogliate dalle loro esagerazioni e dalle loro scorie»55.
La proposta del tomismo come coronamento in fieri della storia della filosofia enunciava bene il programma che avrebbe animato l’impegno culturale di Gemelli e della sua università: contrastare il dominio dell’idealismo e più precisamente dell’attualismo gentiliano, che almeno sino al 1929 offrì la più pregiata delle coperture ideologiche al regime fascista.
I filosofi dell’azione francesi, Blondel e Laberthonnière, continuavano tuttavia a rappresentare un discreto punto di riferimento per la cultura filosofica italiana. In particolare, Renato Lazzarini, discepolo di Buonaiuti, propose sul primo numero di «Ricerche religiose» uno studio sulla filosofia blondeliana che però suscitò la reazione veemente del filosofo francese, timoroso di veder rinvigorire i sospetti romani sui suoi presunti soggettivismo e immanentismo56. Dopo che lo stesso Gentile aveva mostrato interesse per Laberthonnière (prima di coinvolgere definitivamente anche lui nella sferzante critica rivolta a tutti i modernisti per la pubblicazione dell’enciclica Pascendi57), pure il pensiero dell’oratoriano francese suscitò simpatie nella cultura italiana58. Sulla scia delle critiche formulate da Gentile contro l’immanentismo non conseguente di Laberthonnière si mosse infatti Cecilia Dentice di Accadia (che nel 1926 avrebbe sposato Bacchisio Motzo); su invito del maestro Gioele Solari, Piero Gobetti aveva intanto già tradotto nel 1922, per Vallecchi, Le réalisme chrétien et l’idéalisme grec del Laberthonnière. Due giovani filosofi, Ernesto Grassi ed Enrico Castelli, sarebbero quindi entrati in contatto diretto con l’oratoriano francese nella seconda metà degli anni Venti, diffondendo in Italia anche gli esiti più recenti delle sue riflessioni; il primo dei due, diede tra l’altro conto, nel 1928, del successo ottenuto dai quaresimali predicati dal 1925 al 1927 a Notre Dame dall’oratoriano Pierre Sanson, che attirarono un vasto pubblico anche fra i non cattolici e di cui si sospettò l’effettiva paternità di Laberthonnière, con la conseguente intimazione del Sant’Uffizio e la destituzione, alla fine della primavera del 1927, del Sanson dal prestigioso incarico59. Padre Semeria presentò il confratello francese al più giovane Vincenzo Cilento, che nel 1930 si sarebbe laureato a Napoli con Antonio Aliotta e Adolfo Omodeo, proprio con una tesi in filosofia su Laberthonnière, riportando la lode60. Insieme, poi, a una traduzione pirata de L’Action di Blondel, nel 1921 Ernesto Codignola propose una versione della Théorie de l’éducation dell’oratoriano che, sfuggita alle condanne toccate ai suoi lavori filosofici, sarebbe stata riedita, sempre per Vallecchi, nel 1924 e, a ripetizione, fino al 1968. Attesta la fortuna dell’opera pedagogica di Laberthonnière nell’ambito della cultura filosofica e pedagogica italiana di matrice idealista pure lo studio della docente di un liceo napoletano, Olga Arcuno, intervenuta anche lei nel 1925 sul valore del pedagogicon dell’oratoriano francese, con qualche osservazione critica di stampo gentiliano, apparso dopo un suo lavoro del 1924 sulla filosofia dell’azione di Blondel, che aveva ancora una volta indotto il maestro francese a una pubblica, garbata presa di distanze da un’interpretazione in cui il suo pensiero risultava pericolosamente accostato al pragmatismo61. La presenza del Laberthonnière (insieme a quella di altri autori, fra cui Gino Capponi, Vincenzo Gioberti e Raffaello Lambruschini) nel programma di studio per l’istituto magistrale, fu del resto uno dei pochi nei per cui i Gesuiti de «La Civiltà cattolica» mossero critiche ai nuovi programmi scolastici del 1925, rivisti in senso favorevole alle richieste dei cattolici dal ministro Pietro Fedele62, presentati poi negativamente anche sotto questo profilo al Sant’Uffizio nel corso dell’offensiva dell’inizio degli anni Trenta, con cui si provò a perseguire la bonifica della scuola italiana dall’influenza esercitata da Gentile63.
Mentre intanto nel 1926 il ministro Fedele dava luogo ad Assisi al primo incontro ufficiale fra i rappresentanti dello Stato e della Chiesa, di cui si fece portaparola il cardinal Merry del Val64, alla fine dell’anno Pio XI rese pubblica la condanna delle opere di François Maurras secretata da Pio X nel 1914. Vietando poi la lettura del quotidiano «L’Action française» sotto pena di scomunica, il papa colpì duramente un movimento che dalla conclusione della guerra aveva goduto in Francia di ampissimo seguito fra i cattolici65 e del sostegno a Roma dell’infaticabile Umberto Benigni, contro il Segratario di Stato Gasparri e il padre Enrico Rosa66. Si realizzò così un’importante crisi liberatrice nel cattolicesimo francese, di cui evento rivelatore furono le dimissioni di Louis Billot dal cardinalato. Don Ernesto Vercesi, che negli anni di Pio X aveva funto da ponte fra la democrazia cristiana italiana e il Sillon di Marc Sangnier, non mancò di commentare positivamente la presa di posizione dell’autorità romana su «La scuola cattolica», riprendendo gli argomenti utilizzati oltre dieci anni prima da Laberthonnière nel condannare l’incoerenza di un progetto politico cattolico anticristiano67.
Ereditando da Luigi Piastrelli il ruolo di assistente nazionale della Fuci, Giovan Battista Montini – dopo aver provato invano nel 1925 a vincere il veto opposto al coinvolgimento di padre Semeria nelle attività del circolo romano68 –, propose pure le opere all’Indice diLaberthonnière tra le varie letture consigliate ai fucini69. Diffondendo fra loro La vie intellectuelle (Paris 1921) del domenicano Antonin-Dalmace Sertillanges – anch’egli, al tempo della crisi modernista, era stato scottato dai rigori antimodernisti per le aperture del suo tomismo –, Montini curava così la formazione di un laicato culturalmente refrattario al fascismo e ispirato a una spiritualità alternativa pure a quella funzionale al progetto di conquista della società diGemelli70. Entrambi poi, Montini e Gemelli, mostrarono interesse per i lavori di Jacques Maritain e al suo auspicio di una «nouvelle chrétienté»; ma Montini avrebbe segnato la propria originalità rispetto al generale filofranchismo ecclesiasiastico71, quando Maritain si espresse contro il sostegno ecclesiale a Franco nella guerra di Spagna72. Quando solo da un anno Montini era stato allontanato dall’incarico alla Fuci, un informatore di polizia vicino agli ambienti cattolici più conservatori, riferì sul convegno nazionale dell’associazione del 1934, segnalando il pericolo neomodernista costituito dalla maturazione di una coscienza religiosa nel laicato e richiamando anche alcuni precisi passaggi della Pascendi73.
Nel frattempo i migliori rappresentanti della cultura italiana, che nelle sue varie componenti avrebbero profondamente segnato la storia accademica nazionale ben oltre il ventennio, erano stati mobilitati daGentile nella grande impresa dell’Enciclopedia italiana. Per la compilazione delle voci relative alla religione, il filosofo siciliano sollecitò non solo studiosi di provata formazione idealista, come Augusto Guzzo e Omodeo, che nel 1924 aveva subito la messa all’Indice di un’antologia di testi neotestamentari74, ma anche Umberto Fracassini e gli amici e i discepoli di Buonaiuti (Gaetano De Sanctis, Arturo Carlo Jemolo, Giorgio Levi Della Vida, Raffaello Morghen, Mario Niccoli, Alberto Pincherle). La cosa procurò non pochi problemi, dato il progressivo controllo esercitato sulla realizzazione dell’opera da parte del gesuita Pietro Tacchi Venturi, che a sua volta – senza contare il contributo offerto da Enrico Rosa e Agostino Gemelli –, coinvolse illustri rappresentanti degli studi e dell’erudizione ecclesiastica (Antonio Casamassa, Carlo Bricarelli, Luigi Gramatica, Giuseppe De Luca, Giuseppe Filograssi, Pio Paschini, Giuseppe Ricciotti, Alberto Vaccari), mobilitandoli in un’efficace azione di vera e propria censura preventiva delle voci redatte; alcune di queste non risultarono così indenni da qualche cascame apologetico e varie fra esse risultarono dall’accostamento di contributi disomogenei, tanto che Omodeo, ritiratosi dall’impresa nel 1930, accusò Gentile di aver «vaticanizzato» l’opera75. Del resto, sempre nel 1930 il Sant’Uffizio non avrebbe mancato d’intraprendere un’azione di censura diretta di alcuni articoli dell’Enciclopedia, come il contributo alla voce Adozionismo curato da Pincherle, in cui venne individuata un’«eresia modernistica», essendovi sostenuta l’elaborazione tardiva del dogma cristologico; la procedura non si concluse però con una condanna, molto probabilmente per le garanzie offerte da padre Tacchi Venturi al papa in persona76.
I colloqui che avevano portato alla stipula dei Patti del 1929 videro la cattedra delBuonaiuti costituire ben presto una ‘merce di scambio’ nelle trattative, che su questo punto trovarono particolarmente impegnati il ministro Fedele e padre Tacchi Venturi77, dopo che dal Vaticano era stata fatta pure ventilare la minaccia di far planare un divieto generalizzato alla frequenza dei corsi universitari a Roma, se Buonaiuti avesse conservato l’insegnamento78; il professore ne fu così allontanato, senza però ancora perdere il diritto al reintegro. La situazione perdurò fino al 1931, quando, a fronte della presa di posizione ufficiale del Vaticano (ispirata da Gemelli), che autorizzava il giuramento di fedeltà dei docenti cattolici al fascismo, Buonaiuti si rifiutò, eccependo il divieto evangelico a giurare e finendo così dispensato da ogni servizio. Ne seguì nel 1933 la pubblicazione del volume buonaiutiano su La Chiesa romana, immediatamente posto all’Indice79. Secondo una prassi già sperimentata, fu allora la volta di Buonaiuti d’ottenere soccorso dagli ambienti evangelici, che gli permisero così di esercitare pure una qualche forma di magistero, attraverso una serie di conferenze, sorvegliate e avversate dalle autorità politico-religiose ormai federate fra loro su questo punto80. Mentre i tentativi ecumenici portati avanti dal cardinal Mercier (a cui aveva dato la propria adesione pureLaberthonnière) risultavano autorevolmente sconfessati dalla Mortalium animos (1928), Buonaiuti avrebbe vissuto nell’attesa dell’avvento di una «nuova Chiesa cristiana ecumenica»81. Durante alcuni soggiorni d’insegnamento tra il 1935 e il 1939 presso l’Università di Losanna82, prima del ritiro del passaporto, egli poté scoprire la prossimità dei colleghi e dei vertici accademici evangelici, che scorsero in lui un maestro di valore, «dont la position est authentiquement évangélique, pour ne pas dire protestante, et qui jamais ne se laissera aller à rien dire contre l’Église dans laquelle il a grandi»83.
Se immediatamente dopo iPatti Lateranensi, prima di maturare una decisa avversione, sperando ancora in una riabilitazione statale,Buonaiuti non ne aveva avversato la stipula, l’ormai isolato Murri guardò invece al fascismo quasi come al «“braccio secolare” del riformismo religioso»84; del resto, anche Brizio Casciola preconizzò, anticipò e giustificò il Concordato, integrando la modernità di un apparato ideologico potenzialmente totalitario come l’attualismo alla tradizione dantesca in termini profetico-propagandistici85. Tra i fuorisciuti del Ppi e fondatori del Centro nazionale, come animatore di un’accorta politica (anche culturale) clerico-fascista, che però perse di portata proprio per la maturazione della situazione intervenuta nel 1929, va ancora segnalato l’impegno di Egilberto Martire86. Giovanni Pioli, invece, pagò con l’allontanamento dall’insegnamento l’adesione a un appello alla Società delle nazioni contro l’invasione dell’Etiopia, benedetta dalla Chiesa al culmine del consenso popolare verso il regime, subendo poi pure l’arresto, dopo aver manifestato contro l’aggressione tedesca alla Polonia nel 193987.
Sul versante invece di coloro che avevano dato fiato ai toni dell’antimodernismo più acceso, restando comunque alternativo al gruppo clerico-fascista per il proprio bagaglio intransigente, insieme aBenigni, si ritrovò Paolo de Töth, che dalle colonne di «Fede e ragione» oppose un «fascismo buono» a uno «cattivo» (massonico e anticlericale); tanto che pure questa rivista, una volta siglata la Conciliazione, venne soppressa; cosa che non impedì al de Töth di avere il tempo di diffondere I protocolli degli anziani di Sion, ancora una volta smarcandosi dal modello dell’antisemitismo razziale cattolico di Giovanni Preziosi – passato per una militanza nella democrazia cristiana murriana – e piuttosto, giustificando il proprio antisemitismo in riferimento a una lettura teologica manichea della storia, marcata dal complotto giudeo-massonico88. Destinata invece a rappresentare una voce importante della cultura cattolica all’indomani dei Patti fu la rivista fiorentina «Il frontespizio», impegnata a rivendicare alla tradizione cattolica idee-forza dello Stato fascista come gerarchia e romanità, prima di prendere le distanze dalla politica razziale filo-hitleriana del regime. Fu animata soprattutto sino al 1936 da don Giuseppe De Luca, che incarnò il rigore dell’erudizione cattolica cresciuta alla scuola di Louis Duchesne e che col modernismo condivise solo l’apertura alla cultura moderna89. «Il frontespizio» realizzò un’importante opera di rinnovamento culturale, divulgando la letteratura francese contemporanea, ma anche Federico García Lorca, Vlačeslav Ivanov e Franz Kafka, senza mettere in discussione le certezze dogmatiche, risultando sensibile (e venendo perciò guardato con sospetto da «L’Osservatore romano» e da «La Civiltà cattolica»90) alle inquiete aspirazioni di Charles Péguy, François Mauriac, Jacques Rivière, Henri Bremond, André Gide e allo stesso Maritain, sconfessato solo al momento della sua presa di posizione antifranchista91.
Con l’articolo 38, il Concordato aveva riconosciuto il controllo esclusivo della Santa Sede sull’integrità morale e religiosa dei professori nominati all’Università cattolica eAgostino Gemelli plaudì alla nuova situazione fatta alla Chiesa in Italia dall’‘uomo della provvidenza’, come al trionfo dell’idea papale e al ritorno dell’Italia a Dio92. Anzi, il francescano ne approfittò per portare audacemente a compimento la resa dei conti con l’attualismo di Gentile, ormai passato in secondo piano anche nei programmi del regime. Il settimo congresso nazionale di filosofia, a maggio del 1929, preparato da Gemelli con una meticolosa mobilitazione di forze – fra cui pure quelle di padre Semeria –, segnò così la piena affermazione del tomismo come filosofia nei confronti dell’attualismo e spianò la strada alla messa all’indice delle opere diCroce e di Gentile, intervenuta nel 193493.
Immediatamente dopo la Conciliazione, però, fu avviata un’offensiva tesa a sgombrare il campo da ogni tentativo di mediazione fra la filosofia cattolica e l’attualismo. A farne subito le spese fu Luigi Stefanini, a cui il Sant’Uffizio nel 1929 rimproverò pure simpatie blondeliane94. La protezione accordata dal patriarca di Venezia, Pietro La Fontaine, il pronto ritiro dal commercio di un manuale di filosofia e pedagogia per gli istituti magistrali dello Stefanini edito dalla Società editrice internazionale di Torino95 e la cessazione della sua collaborazione con la rivista salesiana «Convivium», permisero la composizione di una vertenza senza condanne. Molto interessanti risultano alcuni passaggi della lettera indirizzata dallo Stefanini il 27 luglio 1929 al cardinal Merry del Val, che confermano come la condanna dell’eresia modernista – agnosticismo, immanentismo, pragmatismo – fosse radicata nelle coscienze, non solo degli inquisitori, ma pure degli inquisiti e tendesse a essere assimilata a quella dell’idealismo. Nella lettera, rivendicando piena disponibilità a sacrificare le proprie convinzioni filosofiche pur di conservare il buon nome di cattolico e l’impegno prestato alla formazione dei giovani dell’Azione cattolica, oltre a spiegare che alcune formule utilizzate (come l’identificazione fra ‘creazione’ e ‘con-creazione’) si adattavano pure all’ortodossia tomista e che un incauto giudizio ‘troppo aspro’ formulato contro la presentazione della psicologia sviluppata all’Università cattolica di Lovanio non era rivolto contro padre Gemelli, Stefanini affermò che l’intento generale del suo approccio alla filosofia contemporanea
«non è tanto di avvicinarmi ai sistemi stessi, ripetendo o continuando in qualche modo i nefasti del modernismo; quanto [...] di segnare anzi più profondamente il distacco da essi e di indicare il metodo più efficace per combatterli e debellarli nelle coscienze, anche in quelle di molti cattolici che non sanno sempre resistere all’influenza che il fascino delle speciose dottrine moderne esercita sulle intelligenze. In sostanza [precisò Stefanini] il mio pensiero è questo: per vincere la buona battaglia contro la filosofia moderna non basta ripetere contro di essa gli argomenti – pur validissimi e inoppugnabili – della critica cattolica: che, per esempio, il criticismo kantiano toglie ogni prestigio alla ragione umanana e quindi conduce all’agnosticismo e allo scetticismo; che l’immanentismo moderno impedisce di costituire una metafisica e rinserra la mente umana nella prigione del fenomeno; che il pragmatismo moderno subordina la ragione ai capricci pratici e quindi in ultima analisi toglie a quella ogni valore; che l’idealismo assoluto identifica l’uomo con Dio [...] Ripeto: questi argomenti sono validissimi e inoppugnabili, e io insisto sempre su di essi nei manuali scolastici [...] Tuttavia [ebbe il coraggio di sostenere ancora Stefanini] sono persuaso che la nostra critica non debba limitarsi ad essi, ma debba anche dimostrare che se sistemi tanto fatui ed erronei, fondati su principi contrari al buon senso e alla retta ragione, esercitano tutt’ora un’indiscutibile influenza ed autorità anche su coscienze rette ed in buona fede, ciò è dovuto, non tanto a quegli errori evidenti e ripugnanti, quanto a frammeni di verità che con gli errori sono frammisti, frammenti che sono sottratti appunto alla vivente tradizione del pensiero cattolico».
Richiamando quindi un classico argomento dei Padri, Stefanini arrivò pure a sostenere la giustezza di alcuni assunti della pedagogia attualista («il rispetto dell’individualità del bambino, il senso della responsabilità individuale, l’intensa collaborazione tra lo scolaro e il maestro, l’educazione intesa come apostolato») e persino che «il vero criticismo è cristiano, perché i giusti limiti della ragione, contro l’autarchia del mondo classico, furono appunto segnati dalla filosofia dei Padri e dei Dottori, mentre il criticismo moderno non è che corruzione del sano criticismo cristiano», prima di terminare con l’affermazione che non tutto in Blondel era contro l’ortodossia, come attestato pure dal fatto che la sua opera non era incorsa in alcuna censura formale e che, come aveva egli stesso potuto constatare, essa esercitava effetti salutari in Francia (dopo il colpo decisivo inferto ai cattolici dell’Action française)96.
Un’altra illustre vittima dell’opera di bonifica anti-idealista intracattolica fu il vescovo di Piazza Armerina, Mario Sturzo. Per ironia della sorte, infatti, mentre tra il 1928 e il 1930 metteva in guardia il fratello Luigi contro i nuovi gusti filosofici piuttosto anti-intellettualisti maturati nell’esilio – quando l’amicizia con Blondel97 e la scoperta delle più recenti opere di Henry Bremond98 e di Edouard Le Roy (all’Indice nel 1931) lo spinsero pure a richiamare alla memoria, ormai sbiadita, la lettura giovanile di Laberthonnière99 –, nel 1931, Mario Sturzo dovette giustificarsi dalle accuse di relativismo e di simpatia per la filosofia crociana, mosse dal Sant’Uffizio in merito al suo volume sul Neo-sintetismo (Trani 1928). Il vescovo di Piazza Armerina fu così costretto a lasciar cadere ogni velleità d’impegno intellettuale100. Altro illustre esempio, sempre nel 1931, dell’operazione di omologazione culturale condotta in campo cattolico, fu quindi l’allontanamento dalla Facoltà di filosofia all’Università cattolica di Giuseppe Zamboni101.
Dal principio degli anni Trenta furono poi regolati a Roma alcuni conti rimasti in sospeso dal tempo della crisi modernista con alcune personalità del modernismo francese; nel 1930 venne scomunicato Alfred Turmel, che era riuscito a nascondere la vera paternità dei suoi scritti di storia dei dogmi ricorrendo a quattordici pseudonimi. Nel 1933 venne scomunicato anche Prosper Alfaric, ormai pubblicamente fuori dall’ortodossia, che per le qualità scientifiche aveva in anni lontani goduto della stima di monsignorEudoxe Mignot102.
Anche sugli estremi approdi dei due maggiori protagonisti francesi della crisi modernista, Loisy e Laberthonnière, si appuntarono le attenzioni degli inquisitori. Sul piano della censura di libri, a conferma che dal punto di vista romano la posizione di Blondel rimaneva incerta, era venuta nel 1931 la denuncia da parte del consultore del Sant’Uffizio Agostino Gemelli del suo lavoro Une énigme historique. Le “Vinculum substantiale” d’après Leibniz (Paris 1930), perché l’autore non seguiva la «filosofia nostra»; benché un parere rimesso dal nunzio Luigi Maglione segnalasse in Francia un «regain de modernisme» la pratica rimase in sospeso103. A partire dal 1932, a seguito della pubblicazione delle piccanti memorie di Alfred Loisy, al Sant’Uffizio si rinfocolò l’attenzione su tutta l’opera recente dello storico; così, fino al 1938 svariati titoli di Loisy finirono all’Indice, in una vicenda censoria su cui si attende il contributo di Claus Arnold, dopo l’ampia luce fatta da Guasco sulle relazioni mantenute dal francese in Italia.
Ancora nel novembre del 1932, a un mese dalla morte di Laberthonnière, il tomista della Cattolica, Francesco Olgiati – con Amato Masnovo collaboratore autorizzato al lavoro del consultore del Sant’Uffizio Agostino Gemelli104 –, ebbe il tempo di chiudere le attività della storica Accademia di religione cattolica di Roma con una prolusione su La filosofia religiosa del P. Luciano Laberthonnière e il tomismo105, riprodotta come articolo sulla «Rivista di filosofia neo-scolastica» (1933). In essa Olgiati riprese le critiche già formulate da Gentile, capovolgendone però il senso, col denunciare il «meschino compromesso privo di coerenza logica» fra l’immanentismo e il cristianesimo e l’irrazionalismo vitalista che ne avrebbe costituito l’approdo finale. Nello stesso 1933, padre Tacchi Venturi riuscì a ottenere pressioni del governo affinchéEnrico Castelli interrompesse la pubblicazione di alcuni testi inediti di Laberthonnière di forte intonazione antitomista, apparsi sul periodico «Archivio di filosofia»106. L’anno seguente fu il giovane domenicano Marie-Rosaire Gagnebet a reagire pubblicamente agli articoli pubblicati dalla rivista di Castelli e a fare eco alla nuova offensiva intrapresa contro Loisy con un articolo apparso sulla «Revue thomiste» su Les dernières manifestations du modernisme et l’apologétique contemporaine: Loisy et Laberthonnière. Parallelamente, il suo maestro all’Angelicum,Réginald Garrigou-Lagrange, denunziò al Sant’Uffizio, di cui era consultore, gli articoli apparsi sulla rivista di Castelli; nella perizia redatta dallo stesso denunciante si segnalava l’influenza conservata dal Laberthonnière nei «milieux ecclésiastiques modernisants»107.
Era il 1934, l’anno della messa all’Indice delle opere di Croce eGentile, e Gemelli poté vantare il lavoro svolto dalla scuola milanese, che era riuscita a ribadire la «perennità delle tesi fondamentali della Scolastica [...] traendo profitto sia dall’esperienza, sia [osservò] dalla speculazione dei secoli che ci separano dal suo periodo d’oro»108, nella ferma convinzione che ormai il positivismo fosse morto e l’idealismo avviato al tramonto.
In quello stesso anno, col volume ventitreesimo dell’Enciclopedia italiana, curato da Mario Niccoli, apparve anche la voce Modernismo, che per lucidità d’esposizione, scelta delle problematiche affrontate e dei dati menzionati avrebbe costituito un importante punto di riferimento. Niccoli presentò esplicitamente la ‘crisi modernista’ come risultato del tentativo di adeguare la teologia e il pensiero sociale cattolico alle esigenze della modernità, fallito per la repressione attuata da Pio X, la cui enciclica del 1907 aveva dato artificiale forma al modernismo provocando una serie di iniziative, non tutte da essa giustificate. Senza dimenticare l’influenza esercitata da Murri con le sue riviste sul giovane clero, Niccoli affermò che la democrazia cristiana «era rimasta sempre sostanzialmente estranea al movimento modernista propriamente detto»: era una valutazione logicamente coerente con la presentazione del modernismo come realtà minoritaria (dato difficilmente controvertibile), ma in cui va soprattutto colta una prospettiva sul fenomeno modernista sviluppata da un punto di vista in cui non solo l’opera di Murri sembrava ormai solo una realtà definitivamente archiviata, ma in cui, come si è visto, anche la situazione di Buonaiuti era diventata critica (oltre al fatto che ciò si accordava con la valutazione che del fenomeno aveva a suo tempo propostoGiovanni Gentile). Anche la figura di Fogazzaro venne così presentata da Niccoli come «un sintomo eloquente» di ciò che fu il modernismo, dei fraintendimenti su cui si erano fondati i rapporti tra i maggiori esponenti, delle simpatie superficiali del laicato, «poco consapevole dei reali intenti del clero modernista, attirato da aspetti solo accessori» e da «individualità marginali o interessate e di parte e qui, Niccoli fece di nuovo riferimento pure alle riviste di Murri. Anche nel presentare la reazione antimodernistaNiccoli insisté sulla complessità del fenomeno, distinguendo una «parte più conservatrice del clero» da «quegli elementi del clero stesso genericamente favorevoli a un vago spirito di modernità ma assolutamente decisi a non passare i limiti». Richiamando quindi, insieme all’ostilità della cultura laica (italiana), soprattutto il ruolo della Pascendi e l’opera di «repressione in mille modi esercitata» come determinanti per la «sconfitta» del modernismo, dopo aver evocato la reazione di Loisy dopo la scomunica, il cui approdo all’«apostasia» era stato di esempio per molti, Niccoli indicò come altrettanto decisivi per l’esito finale alcuni limiti interni al modernismo stesso: l’incomprensione della portata reale dell’azione diLeone XIII, il carattere essenzialmente intellettuale del modernismo (destinato perciò a rappresentare solo una realtà minoritaria), la sua «contraddittoria assurdità» programmatica, rinvenuta pure nelle posizioni di chi ad esempio (come Buonaiuti nella sua fase radicale) era giunto ad affermare la compatibiltà del cattolicesimo con «la critica storica e filosofica moderna» e insieme a propugnare «l’ideale di un socialismo cristiano da predicare fuori dai quadri della Chiesa». Giungendo infine a presentare gli sviluppi recenti, Niccoli diede conto dell’inedito approdo a cui era giunto Buonaiuti, tornato a difendere il modernismo, ma in una versione che poteva ormai essere difesa «solo da quanti intendono rivivere il cristianesimo fuori dell’ambito della tradizione canonizzata di ogni chiesa».
Con l’annunzio in Francia della pubblicazione postuma delle opere di Laberthonnière da parte del discepolo Louis Canet, consigliere per gli affari religiosi al Quai d’Orsay, all’inizio del 1935 la macchina inquisitoria venne nuovamente allertata dal solerte nunzioLuigi Maglione109. Il lavoro censorio fu accompagnato ancora una volta dal conseguente intervento di Gagnebet sulla «Revue thomiste» (1935) su Le naufrage doctrinal d’un adversaire de la théolgie: le P. Laberthonnière. Quindi l’assistente di filosofia antica della Cattolica, Luigi Pelloux, riprendeva sulla «Rivista di filosofia neo-scolastica» le critiche diOlgiati in riferimento agli articoli di Laberthonnière apparsi per l’interessamento di Castelli, l’azione censoria del Garrigou-Lagrange si concentrò sul primo volume delle opere di Laberthonnière, edito da Vrin nel 1936, le Études sur Descartes, insistendo sulla distanza fra le posizioni dell’oratoriano e quelle di Blondel110. Il 10 gennaio del 1937 «L’Osservatore romano» pubblicò il decreto di messa all’Indice del volume di Laberthonnière. Intanto, lo stesso Garrigou-Lagrange era passato alla denuncia de La Pensée (Paris 1934) di Blondel, accusato di seguire Laberthonnière nei principi fondamentali pur senza procedere alle sue estreme conseguenze; fu incaricato della perizia lo stesso Garrigou-Lagrange, che era entrato in corrispondenza con Blondel. Sconsigliarono esplicitamente la condanna per i meriti che il filosofo aveva avuto nel condannare l’Action française, il cardinale di Parigi, Jean Verdier e quello di Lilla, Achille Liénart, oltre al rettore dell’Institut catholique di Tolosa, Bruno de Solages e al professore dell’Orientale, Paul Mulla-Zadé, convertitosi al cattolicesimo proprio grazie alla conoscenza di Blondel, di cui tenne a segnalare l’impossibilità di assimilarne le posizioni a quelle del Laberthonnière. Avendo ottenuto un soddisfacente chiarimento da Blondel, pubblicato su la «Revue thomiste»111, Garrigou-Lagrange mollò infine la presa112.
Nel gennaio del 1939, fu impossibile per Salvatore Minocchi ottenere l’auspicata riabilitazione ecclesiale. Infatti, dopo aver inutilmente provato a ingraziarsi le autorità vaticane rinunciando all’incarico dell’insegnamento di storia delle religioni a Pisa, nella vana speranza di poter conseguire una nuova posizione universitaria più sicura e vantaggiosa, Minocchi dovette finalmente capitolare, respingendo un’ingiunzione che metteva in discussione il vincolo coniugale contratto e gli imponeva l’adesione ai responsi della Commissione biblica; così, riferendosi in particolare a quelli relativi all’autenticità e storicità della Genesi, «religiosamente debbo oppormi [scrisse all’amico Giovanni Mercati], e sempre mi opporrò»113.
Ancora una volta un papa appena eletto si trovò a guidare la Chiesa nel mezzo di un conflitto mondiale. Studente in Gregoriana ai corsi del Billot, dopo aver mosso i primi passi nella Segreteria di Stato di Merry del Val, maturato un profondo anticomunismo come nunzio in Germania, Pacelli aveva preso conoscenza diretta della situazione tedesca, riuscendo come Segretario di Stato a siglare con l’establishment hitleriano accordi concordatari, di cui – anche in questo caso – aveva fatto le spese l’influente partito cattolico nazionale.
Nei difficili frangenti bellici, mentre Buonaiuti era ridotto per sopravvivere a dover avallare su «Cronache di guerra», prima la politica attendista del duce, poi l’entrata nella mischia al fianco di Hitler e infine a dover vendere la propria biblioteca privata114, l’alfiere dell’ortodossia tomista, padre Garrigou-Lagrange, non smontava la guardia. Non essendo ancora ufficialmente aperto l’archivio del Sant’Uffizio per il periodo relativo al pontificato di papa Pacelli, difettano fonti per poter fare luce, per esempio, sulla procedura che portò alla messa all’Indice anche del secondo titolo delle opere postume di Laberthonnière nel 1941, un volume piuttosto anodino su Études de philosophie cartésienne et premiers écrits philosophiques (Paris 1937). È comunque ben nota la responsabiltà del padre Garrigou-Lagrange nella condanna che colpì nel 1942 Une école de théologie. Le Saulchoir (Etiolles 1937), del confratello Dominique Chenu, a coronamento di un ampio regolamento di conti interno all’Ordine dei predicatori, tra i sostenitori della versione speculativa della scolastica, bandiera dell’Angelicum – dove ne era stata apertamente denigrata la causa dall’incauto esegeta Jacques Vosté – e i partigiani di una ripresa del tomismo più attenta alle condizioni storiche dello sviluppo della riflessione filosofico-teologica, appunto i domenicani della provincia di Francia (come lo stesso Yves Congar, di cui venne sottoposto ad esame lo studio su Chrétiens désunis)115, accusati esplicitamente dai primi di modernismo, per aver sviluppato un metodo teologico non secondo lo stile delle conclusioni sillogistiche, ma a partire dall’esperienza religiosa. L’allontanamento di Chenu dalla direzione del centro studi Le Saulchoir, sempre nel 1942, pose solo temporaneamente fine al confronto116. Infatti, nell’articolo in cui «L’Osservatore romano» presentò la messa all’Indice, Pietro Parente espose i pericoli che faceva correre all’immutabile verità quella che egli definì espressamente «nouvelle théologie», in un pezzo aperto dalla sinistra evocazione della «crisi modernistica», quando «un attacco violento fu mosso alla tradizionale Teologia scolastica», perché «se ne disprezzava il carattere prevalentemente speculativo [...]; si accusava in essa difetto di senso critico, di documentazione storica [...] Non si è ancora spenta l’eco [proseguì Parente non senza fondati motivi] della invettiva del Laberthonnière, delLoisy, del Le Roy contro la Scolastica e specialmente contro il Tomismo»117.
Alla svolta subita dal corso degli eventi bellici nell’autunno del 1942, seguì subito l’importante presa di posizione pontificia del radiomessaggio di Natale sull’ordine internazionale, in cui venne velatamente accreditata la democrazia come regime giusto, subito ben chiosata dal sostituto agli Affari ordinari Montini, che non sfuggì neppure all’attenzione di Gemelli118. Il rettore della Cattolica avrebbe infatti abilmente seguito la svolta e, seppure dopo qualche esitazione, sarebbe stato archiviato il sostegno che aveva portato al regime fascista, non esente da riflessi antisemiti119. In Vaticano, dove aveva trovato protezione l’ultimo segretario del Partito popolare italiano120, avrebbe prevalso la linea montiniana di sostegno al progetto del partito unico dei cattolici, la Democrazia cristiana, in cuiAlcide De Gasperi – provando a contenere i condizionamenti d’Oltretevere – faceva soprattutto affidamento sui sopravvissuti della vecchia guardia delPartito popolare, fra cuiJacini, che con l’amico Casati (al Partito liberale) avrebbe ricoperto importanti incarichi politico-diplomatici. Contro l’opzione montiniana finalmente avallata daPio XII, Alfredo Ottaviani e monsignor Roberto Ronca provarono a raccogliere uno schieramento ancorato su posizioni più conservatrici e chiaramente ispirate a principi confessionali; l’operazione non ebbe successo, ma il ‘partito romano’ avrebbe mantenuto un certo potere di condizionamento anche oltre le mura leonine, soprattutto dopo lo ‘scoppio’ della ‘guerra fredda’ col conflitto di Corea121. La stessa strategia mirante a limitare il peso rappresentativo della Democrazia cristiana tra i cattolici spiega anche le brevi relazioni intrattenute in chiave strumentale da Ottaviani (anche tramite Giuseppe De Luca) col gruppo della Sinistra cristiana, dissoltosi nel 1945122, a cui rivolsero pubbliche favorevoli attenzioni anche Buonaiuti123 e Jemolo124.
Sul piano dottrinale, quando l’esito del distruttivo conflitto si era già profilato inesorabile per la Germania e l’Italia, avevano fatto capolino alcuni segnali che indicarono un’incrinatura non solo del rigore disciplinare, ma pure di qualche elemento stesso del quadro dottrinale antimodernista. Nel 1943, un anno appena prima della morte, intervenne la riammissione alla comunione ecclesiale diRomolo Murri. Il pontificato di Pio XII fece però segnare alcuni passi in avanti soprattutto nell’ambito degli studi esegetici; non erano stati certamente estranei a tale sviluppo gli incarichi alla presidenza e al segretariato della Commissione biblica, rispettivamente nel 1938 e nel 1939, del cardinal Eugène Tisserant e di Jacques Vosté, già allievi diLagrange a Gerusalemme e la confidenza personale di papa Pacelli nei suoi confessori tedeschi all’Istituto biblico, il cui direttore, Agostino Bea, svolse la delicata mansione a partire dal 1945. Una svolta iniziò così a delinearsi nell’agosto del 1941, con la decisa difesa del valore dell’esegesi storico-critica e di quello solo giuridico della Vulgata da parte della Pontificia commissione biblica125, che condannò l’opuscolo pubblicato anonimo da un prete campano126, Dolindo Ruotolo e diffuso fra l’episcopato italiano; in esso si attaccava – anche come modernismo – il primato conferito nell’esegesi biblica al senso letterale rispetto a quello spirituale e, rivendicando la memoria di Pio X, vi si denunciava la «dittatura intellettuale» del vicerettore dell’Istituto biblico, Alberto Vaccari, insieme ai lavori dei professori Leone Tondelli e Giuseppe Ricciotti127.
Con l’enciclica del cinquantenario dalla Providentissimus, la Divino afflante spiritu – molto probabilmente redatta da Vosté e da Bea –, Pio XII non si limitò a incoraggiare gli studi biblici in funzione apologetica, ma auspicò un’ampia diffusione della lettura della Bibbia tradotta nelle lingue correnti e soprattutto invitò a non respingere in blocco le novità ricavate nel ricorso al metodo storico-critico e, in particolare, a riconoscere i diversi generi letterari adottati dagli autori sacri: diveniva così legittimo il tentativo di valorizzare il lavoro svolto dal fondatore dell’École biblique di Gerusalemme, schiudendo la porta – a dispetto delle persistenti resistenze – al rinnovamento della comprensione teologica dell’Antico Testamento128. Ne diedero successivamente testimonianza la lettera della Commissione biblica al cardinal Célestin Suhard del gennaio 1948 (di cui fu depotenziata in extremis tutta la forza liberatrice) e, nel 1954, la definizione in senso limitativo della portata giuridica dei datati responsi dello stesso organo pontificio, in due testi ufficiosi dei suoi maggiori responsabili. D’altro canto, non sarebbero mancate le spinte per una lettura in senso conservatore dell’enciclica del settembre del 1943, ispirate dai timori di una ripresa del modernismo fra il giovane clero, come si espresse il cardinal Ernesto Ruffini nel 1953129 e culminate con la diffida nel 1958 del primo volume de l’Introduction à la Bible (Tournai 1957), venuta dalla Congregazione dei seminari e degli studi, nelle persone del prefetto Giuseppe Pizzardo e di Antonino Romeo, professore d’esegesi all’Ateneo lateranense, da cui poi partì pure l’attacco all’Istituto biblico, protratto sino alla fase preparatoria del concilio Vaticano II130.
Il persistere dei rigori antimodernisti e il loro radicamento all’interno della Curia pontificia si poté del resto misurare con l’epilogo della vicenda di Buonaiuti. Alla messa all’Indice alla fine del 1942 del primo volume della Storia del cristianesimo (Milano 1942), fece seguito due anni più tardi la condanna di tutte le opere pubblicate dopo il 1924131. Le iniziative interlocutorie ufficiose dei rappresentanti del nuovo potere democratico italiano presso la Segreteria di Stato e i tentativi di Montini – solo di recente venuti alla luce – di recuperare alla comunione ecclesiale lo scomunicato, furono vanificati dal vigoroso intervento dei cardinali Ottaviani, Canali e Pizzardo del Sant’Uffizio, che rivendicarono e ottennero piena competenza in re, determinando la subordinazione del reintegro del Buonaiuti nei ruoli universitari alla condizione che persistesse l’allontanamento dall’insegnamento132. Nel pieno dell’attività, il più indomabile dei modernisti fu stroncato nella notte di Pasqua del 1946, dopo aver rifiutato la sottomissione sul letto di morte: rivendicò il contributo fornito alla trasfusione «dei genuini valori cristiani [...] in quella nuova civiltà ecumenica [scrisse nel testamento spirituale] di cui la mia sofferente generazione ha visto profilarsi all’orizzonte i primi chiarori crepuscolari» e chiese, come Tyrrell, che sulla pietra tombale fossero incisi il calice e l’ostia133. Il 9 settembre successivo Agostino Gemelli avrebbe segnalato al Sant’Uffizio una circolare dell’Associazione Ernesto Buonaiuti per gli studi storico-religiosi, con sede in Roma134.
Anche l’Humani generis dell’agosto 1950 segnò un punto a favore dei curiali conservatori, a conclusione del dibattito sulla nouvelle théologie sollevato nel 1946 dall’attacco pubblico di Garrigou-Lagrange ai Gesuiti blondeliani e ai confratelli del Saulchoir che, paventando esplicitamente il ritorno dell’eresia modernista, travalicò il contesto franco-romano135 e coinvolse pure l’ormai vecchio Blondel. Mentre però Alfredo Ottaviani aveva formulato la richiesta di un concilio in cui venissero fissati e condannati gli errori più recenti136, intervenuta giusto dopo la scomunica dei comunisti, l’enciclica di papa Pacelli si limitò a ribadire il valore delle misure prese da Leone XIII e da Pio X contro le dottrine filosofiche che si rifiutavano di procedere alla conoscenza di Dio sul piano della certezza razionale e preferivano sviluppare l’intelligenza della fede nella persona divina mostrando la convenienza dei precetti cristiani137 alle necessità della vita umana. Gli errori globalmente condannati nell’enciclica furono l’evoluzionismo materialista, il comunismo, l’idealismo, l’esistenzialismo; il modernismo non venne esplicitamente ad essi associato, ma risultarono stigmatizzati pure lo storicismo, il pragmatismo, l’immanentismo e l’irenismo religiosi138. Il richiamo contro l’abuso dell’esegesi spirituale offrì il destro al cardinal Bea per prendere pubblicamente le distanze dall’opera di Loisy, mentre tra i commentatori si apriva la discussione sulla reale intenzione pontificia di fulminare il ‘neo-modernismo’139. Nel 1952, Vraie et fausse reforme dans l’Église (Parigi 1950), che incontrò l’apprezzamento di Montini140, uscì indenne dalle mire dei censori del Sant’Uffizio, ai quali risultava evidentemente assai sospetta l’idea che una trasformazione storica nella Chiesa fosse possibile e inevitabile, nonostante venisse tutelata da Congar l’esigenza di evitare ogni soluzione di continuità nella tradizione e malgrado le sue esplicite prese di distanze in proposito nei confronti del modernismo. Probabilmente, uno degli ultimi esiti censori della disputa sulla nouvelle théologie, risultò la messa all’Indice nel giugno del 1958 di quattro opere del giovane filosofo blondeliano Henry Duméry141.
Le forti resistenze presenti nella Chiesa di Pio XII alle novità imposte dalla necessità di doversi appoggiare nello scontro col comunismo alle democrazie politiche, pluraliste pure sul piano religioso142 e di dover quindi potenziare l’uso degli strumenti indispensabili a orientare l’opinione pubblica, con derivanti indesiderate conseguenze143, provocarono effetti contraddittori sul piano delle prese di posizione in materia dottrinale. Alla condanna del 1949 dell’interpretazione rigorista del tradizionale principio extra ecclesiam nulla salus, formulata da Leonard Feeney, scomunicato nel febbraio del 1953144, fece seguito l’imposizione del Sant’Uffizio a John Courtnay Murray di astenersi dal presentare in pubblico le proprie opinioni circa la preferibilità dal punto di vista cattolico della democrazia pluralista rispetto allo Stato confessionale (1954)145. A tal riguardo, nel 1958, Rosaire Gagnebet avrebbe redatto una lista di errori che non poté essere approvata per la morte del pontefice, ma che sarebbe comunque confluita nel nono capitolo dello schema preparatorio ecclesiologico alVaticano II, respinto dai padri della maggioranza conciliare146.
Mentre, poi, nella fucina del pensiero cattolico costituita nel 1945 dal Centro di studi filosofici di Gallarate, gli esponenti del tomismo universitario padovano e milanese (Carlo Giacon, Antonio Padovani, Gustavo Bontadini, Sofia Vanni Rovighi) – spinti anche dalla necessità di fare blocco comune contro gli omologhi laico-comunisti – mostravano di saper comporre sul piano della discussione pubblica il proprio dissidio teorico con gli esponenti dello spiritualismo agostiniano che avevano subito l’influenza idealista (Felice Battaglia, Enrico Castelli e gli allievi di Antonio Aliotta: Augusto Guzzo, Michele Federico Sciacca, Luigi Stefanini e Armando Carlini)147, i curiali conservatori romani estendevano invece il loro tiro anche alla produzione recente di Jacques Maritain148. Tomista ormai eminente, ambasciatore tra il 1945 e il 1948 di Francia in Vaticano, dove gli furono vicini Montini e De Luca, Maritain era un punto di riferimento per i cattolici italiani in politica e soprattutto per l’ala della Democrazia cristiana disponibile a una politica di prudenti aperture a sinistra, tese a raggiungere equilibri sociali più avanzati e a perseguire la pace fra i blocchi contrapposti nellaGuerra fredda. Così, in un discorso del marzo del 1953, muovendo dai principi di un’ecclesiologia che riproponeva la Chiesa come societas perfecta, disposta solo a tollerare come mali minori l’aconfessionalità dello Stato e la libertà di coscienza religiosa delle minoranze ‘a-cattoliche’ interdette al proselitismo, il cardinal Alfredo Ottaviani difese la politica religiosa confessionale della Spagna franchista, suscitando proteste Oltre Atlantico149. Alcuni mesi più tardi e senza comunque rinnegare la tradizionale dottrina della distinzione fra tesi e ipostesi, Pio XII avrebbe corretto il tiro, sostenendo che il dovere di reprimere le deviazioni morali e religiose, in alcune circostanze, andava subordinato a norme più alte e generali, che autorizzavano l’errore allo scopo di ricavarne un bene maggiore150.
Nel 1954, per i propri orientamenti politici e per le convinzioni relative alle modalità con cui riteneva andasse testimoniata la presenza dei laici cattolici nella società, ispirandosi a Maritain (ma pure a Emmanuel Mounier, Yves Congar, Marie-Dominique Chenu e Henri de Lubac) e confliggendo con le direttive gerarchiche tese a una massiccia, visibile e immediata mobilitazione politica in senso conservatore (impartite nella fedeltà all’intransigentismo cattolico dal presidente dell’Azione cattolica, Luigi Gedda e avallate dallo stesso papa), Mario Rossi fu costretto alle dimissioni dalla direzione dei giovani dell’Azione cattolica, trascinando dietro di sé intere sezioni di aderenti e guadagnandosi sui giornali il titolo di neomodernista151. Intanto, solo qualche mese prima che Montini fosse orientato dalla Segreteria di Stato alla cattedra ambrosiana, alla fine di maggio, si concluse con l’elevazione all’onore degli altari di Pio X (beatificato nel 1951) il contrastato processo in cui proprio le forme della reazione al modernismo di papa Sarto avevano posto il problema. Nell’allocuzione per la canonizzazione, Pio XII esaltò la condanna pronunciata dal suo predecessore, che «non conobbe tentennamenti di fronte ad adescanti ma false dottrine» fondate sulla «scissione deleteria» fra fede e scienza, «spirituale catastrofe del mondo moderno»152.
Nel 1955, la sinistra democristiana, con l’appoggio dell’opposizione socialista e comunista riuscì, contro le indicazioni interne della segreteria, a far eleggere alla Presidenza della Repubblica un proprio leader, passato attraverso ilPartito popolare e formatosi a una precoce militanza murriana: Giovanni Gronchi153. Nel 1956, dalla tribuna de «La Civiltà cattolica» scattò ‘il grande attacco’154 contro Maritain di padre Antonio Messineo, che già nel corso dei dibattiti preparatori ai lavori della Costituente si era mostrato ostile all’identificazione della sovranità popolare all’espressione di una maggioranza parlamentare155. Ritenuto affidabile sul piano strettamente filosofico, su Maritain si appuntavano ancora risentimenti dovuti alla presa di distanze intervenuta rispetto all’Action française e alla libertà di giudizio dimostrata nei confronti della rivoluzione franchista: Garrigou-Lagrange, Ottaviani e Pizzardo espressero ostilità nei confronti delle applicazioni pratiche della sua filosofia, che subì forzature interpretative tendenti a risolvere l’«umanesimo integrale» in «naturalismo integrale» (Messineo, Pizzardo), da cui sarebbe pure derivata la legittimazione di un’assoluta laicità dello Stato156. In particolare, cosiderando la visione della storia proposta nell’Humanisme intégral come difettosa di saldi riferimenti al valore immutabile della verità, Messineo paventò il pericolo di una caduta nello «storicismo modernista»157. Insieme a Mounier e Congar, Maritain fu così posto sul banco degli accusati alla riunione dei vescovi italiani del 1957, in cui fu attaccato da Giuseppe Pizzardo, Ernesto Ruffini e Giovanni Urbani158.Gemelli e l’Università cattolica avrebbero continuato a sostenere Maritain anche in quei difficili frangenti; Pietro Scoppola sottoscrisse una lettera di solidarietà di 27 intellettuali italiani al grande tomista francese, che riconoscevano il rilevante ruolo che L’humanisme intégral aveva avuto per la loro formazione.
Ormai, dopo la morte di Buonaiuti, il modernismo – le cui problematiche, come s’è detto, sollevavano ancora accesi confronti (di carattere esegetico, ma pure circa le relazioni fra naturale e sovrannaturale e quindi sul rapporto tra il cattolicesimo e le altre Chiese e religioni e sull’autonomia dello Stato dalla Chiesa) – era destinato a diventare l’oggetto di un conflitto di memorie e di interpretazioni. Lo stesso Buonaiuti avviò in qualche modo questa fase con la redazione della voce Modernismo, nel primo volume del Dizionario letterario Bompiani (Milano 1947, pp. 155-158). In essa, l’autore sostenne la buona fede dei modernisti (Alfred Loisy, Hermann Schell, George Tyrrell) e l’incomprensione di Pio X, la cui reazione collegò poi ai limiti della cultura cattolica (in particolare italiana) e all’orientamento del clero in politica che, con la nascita delPpi, avrebbe pure favorito il successo del fascismo; mentre al modernismo assegnò il merito d’aver organizzato in Italia la cultura religiosa e insieme di aver cercato «lo schieramento delle forze cattoliche con i movimenti democratici di sinistra».
Un significativo passo fu poi realizzato con la pubblicazione nel 1952 delle voci Modernismo e Modernismo sociale nell’ottavo volume dell’Enciclopedia cattolica (coll. 1188-1197)159. Realizzata sotto l’egida del cardinal Pizzardo, come opera di sicuro stampo cattolico opposta alla Treccani (riedita nel 1949, sotto la presidenza di Gaetano De Sanctis), l’Enciclopedia cattolica fu diretta da Pio Paschini, eminente rappresentante della solida scuola d’erudizione ecclesiastica che, come De Luca, era incorso nei sospetti e come Ricciotti aveva pure patito le attenzioni degli inquisitori160. Tra i responsabili delle sezioni, chiamato a dirigere quella relativa alla storia delle religioni non cristiane, fu Nicola Turchi; tra i collaboratori di spicco proprio Giuseppe Ricciotti (membro pure del comitato direttivo dell’opera) e alcuni universitari che erano venuti dalla cerchia di Buonaiuti (Gabrieli e Pincherle), oltre a Egilberto Martire e a due biblisti del Pontificio istitituto biblico (Stanislas Lyonnet e Max Zerwick) che, come già accennato, nell’immediato preconcilio avrebbero pagato con la sospensione dall’insegnamento l’ostilità dei rappresentanti dell’esegesi conservatrice. I redattori incaricati delle due voci relative al modernismo furono rispettivamente il padre stimmatino Cornelio Fabro, tomista di rango, formato all’Angelicum e al Lateranense, e il canonico vaticano Guido Anichini, promotore del processo di beatificazione di Giuseppe Toniolo.
Un chiaro approccio teologico costituisce la cifra del lavoro svolto da Fabro, in cui l’autore insistette sulla provvidenzialità dell’azione condotta da Pio X contro l’eresia modernista, derivante dal processo di degenerazione della filosofia moderna sviluppatosi dopo la Riforma, ma con addentellati pure nel Medioevo e, all’origine, nell’eresia gnostica, da cui il modernismo sarebbe derivato per l’esaltazione della soggettività individuale. Fabro concluse il suo articolo affermando così che
«il pericolo del m[odernismo] non è mai completamente debellato perché è insita nella ragione umana, corrotta dal peccato, la tendenza a erigersi a criterio assoluto di verità per assoggettare a sé la fede. Un tentativo affine al m. teologico [terminò così l’autore] è la cosiddetta “théologie nouvelle” comparsa in Francia dopo la II guerra mondiale ed energicamente denunziata dall’encicl[ica] Humani generis».
Nel presentare i contenuti dell’enciclica Pascendi, Fabro si limitò solo ad accennare alle conseguenze sul piano politico del modernismo, affermando che esso, come
«strano miscuglio di torbide aspirazioni, le quali con il pretesto di una vernice pseudomistica e col richiamo ad un’interiorità più teoretica che intimamente pratica [sic], pretendeva di patrocinare la politica della nuova democrazia (come in Italia fece ilMurri) da sovrapporre e sostituire all’azione della Chiesa».
Nella voce curata da monsignor Anichini, il modernismo sociale venne presentato «a somiglianza di quello dogmatico» come il «movimento di idee e di attività che, a riguardo della società politica e professionale pretende di regolarsi senza tener conto delle norme e dei principi essenziali proclamati dalla Chiesa, o senza dare alla Chiesa il posto che le compete», condannato dall’enciclica Ubi arcano di Pio XI. Anche lui individuò l’origine di tale deviazione nel moto inaugurato dalla protesta di Lamennais e confluito negli errori condannati dal Sillabo e nelle encicliche di Leone XIII; tenendo a distinguere esplicitamente le posizioni di Léon Harmel e di Giuseppe Toniolo, Anichini ricordò comunque che «un gruppo notevole di conservatori e integristi di Francia e d’Italia, che di fatto ripudiavano della democrazia e il nome e la sostanza, volle accusare di m. s. tutte le iniziative dei più arditi e schietti sociologi cristiani»; per cui, secondo il canonico vaticano, come gli abati democratici francesi, neanche «i sacerdoti don Albertario, don Vercesi, don Torregrossa, padre Ghignoni, padre Semeria, don Sturzo ecc. in Italia, con largo seguito di gioventù, possono chiamarsi modernisti sociali». Anichini non mancò però di segnalare «intemperanze varie nel senso modernistico» da parte dell’abate Adolf Daens in Belgio, del Sillon in Francia, delle riviste della «Lega democratica nazionale di don Romolo Murri, propugnante un autonomismo che non poteva essere consentito». Tali deviazioni non avevano però, secondo lui, «posto radici e fatto scuola»; ne faceva fede la «più assoluta ortodossia» entro cui Anichini affermò di veder evolvere in Italia e all’estero gli organismi d’Azione cattolica e mettendo in guardia dal ricondurre a quelle deviazioni «i tentativi di certi cristiani progressisti o comunisti degli ultimi anni, al servizio di una mano tesa troppo palesemente infida, i quali del resto sono rimasti di numero trascurabile e senza seguito alcuno».
L’anno successivo alla pubblicazione del volume dell’Enciclopedia cattolica contenente le voci esaminate uscì la monografia del professore di teologia della Gregoriana, padre Domenico Grasso, su Il cristianenismo di Ernesto Buonaiuti (Brescia 1953), la cui appendice bibliografica mostra l’attenzione che avevano in lui suscitato le già numerose pubblicazioni postume dei discepoli e degli amici del maestro del modernismo italiano. Apparso per l’editrice Morcelliana – vicina a Montini –, il volume di Grasso presentava il pensiero di Buonaiuti come «quanto di più vago e fluttuante si possa immaginare», frutto di «una preoccupazione psicologica che assume diverse colorazioni a seconda degli influssi cui soggiace» (pp. 13-14), essenzialmente dominato da intenti polemici. A conclusione della demolizione dell’opera storica di Buonaiuti come frutto di eclettismo più che di originalità, Grasso sostenne quindi che «le oscillazioni e contraddizioni» in essa ricorrenti non erano state «altro che il riflesso delle oscillazioni e delle contraddizioni del Buonaiuti come uomo» (p. 347), contro i cui auspici, osservava Grasso, «il modernismo è finito, mentre la ‘teocrazia del Vaticano’ continua la sua missione nel mondo», con il particolare prestigio internazionale raggiunto «durante la guerra e nel periodo immediatamente successivo» (pp. 325-326). Del pari, Grasso poté sintetizzare il contenuto del volume nella voce Buonaiuti Ernesto, pubblicata nel primo volume dell’Enciclopedia filosofica edita dal Centro di studi filosofici di Gallarate nel 1957 (coll. 831-836), in cui concluse con un giudizio positivo sugli ultimi scritti postumi del modernista. Per il terzo volume della stessa opera, edito sempre nel 1957, Grasso curò pure la prima sezione della voce Modernismo (coll. 641-647), definito come una rottura nella tradizione e un adattamento snaturante della dottrina alle concezioni moderne. Nella presentazione storica del fenomeno, Grasso optò per una ricostruzione della sua genesi conforme allo schema logico formulato nella Pascendi per spiegare lo sviluppo dell’eresia condannata (dall’agnosticismo all’immanentismo soggettivista, quindi all’evoluzionismo dottrinale e alla relatività storica dell’istituzione ecclesiale). Grasso insisté infatti sul ruolo svolto da Kant nella preparazione del protestantesimo liberale, rappresentato in Francia da Auguste Sabatier. La correttezza delle filiazioni storiche individuate e anche quella dell’indicazione del decisivo ruolo di mediazione svolto da Sabatier (in verità, per Loisy, soprattutto in senso contrappositivo161) non elimina però il carattere semplificatorio dell’operazione ideologica condotta da Grasso che, secondo lo spirito teologico che aveva presieduto la redazione dell’enciclica del 1907, finiva anch’egli col ridurre il modernismo entro un modello coerente, spiegandone sbrigativamente l’origine secondo un processo storico-ideale monocausale. Anche la presentazione degli sviluppi del modernismo in Francia e in Italia, con i suoi antecedenti postrivoluzionari, risulta sostanzialmente corretta nella ricostruzione di Grasso, conclusa dalla presentazione delle idee dei modernisti alla luce della Pascendi; di essa Grasso ammise il carattere essenzialmente artificiale – dato che le concezioni dei modernisti, scrisse, «non si trovano, integralmente presso nessun modernista; nessuno di essi giunse a creare un sistema. Si trovano sparse un po’ dappertutto nei loro scritti specialmente polemici» (di Loisy, Tyrrell, Buonaiuti e ne Il Santo), senza esitare però ad affermare, appoggiandosi pure lui all’autorità di Gentile, che l’enciclica, «oltre ad essere un documento dottrinale di carattere teologico, fu anche un documento scientifico».
La seconda parte della voce, dedicata al Modernismo politico-sociale (coll. 647-649), fu firmata dal giovane dottore in giurisprudenza Pietro Scoppola. Anch’egli – come già aveva fatto Anichini – tese a ridimensionare la portata della condanna del modernismo politico-sociale sotto il pontificato di Pio X, riportando le tesi espresse nello studio di Jean Rivière, citando però anche quella sostenuta a suo tempo in senso contrario da Luigi Salvatorelli. Scoppola sostenne quindi che «il movimento della Democrazia cristiana resta nel suo complesso distinto ed estraneo al modernismo», segnalando però, sulla base degli studi che stava svolgendo e di cui avrebbe dato conto nel volume in preparazione, che in alcuni scritti giovanili di Buonaiuti, redatti sotto l’influsso di Loisy, «l’incontro fra certe posizioni più avanzate sul piano sociale e le idee elaborate dai modernisti» aveva pure dato luogo a
«una specie di messianismo sociale che, se non sempre esplicitamente, certo però implicitamente nega o pone in ombra il motivo della trascendenza cristiana, in quanto risolve gli ideali del cristianesimo in quello della democrazia o fa del cristianesimo lo strumento di una determinata esigenza storica di progresso democratico e sociale» (col. 648).
Scoppola presentò quindi un’efficace sintesi della vicenda di Romolo Murri durante il pontificato di Pio X, ricordando come la rivendicazione del leader marchigiano di una «piena autonomia politica rispetto alla gerarchia» per il proprio movimento era stata condannata dall’autorità e osservando che la scomunica di Murri fu dovuta «più ad una questione disciplinare che dottrinale». Tracciando pure le linee della vicenda conclusasi con la sottomissione di Marc Sangnier nel 1910, Scoppola non mancò di segnalare la prossimità spirituale del leader del Sillon ai filosofi francesi dell’azione, ribadendo comunque nella conclusione del testo che «come per la Lega democratica nazionale, la determinazione di un modernismo politico e sociale nel Sillon è quanto mai problematica»162.
Il cinquantenario della pubblicazione dell’enciclica Pascendi fu solennemente celebrato il 21 novembre 1957 dalla Pontificia accademia teologica, prestigioso centro della teologia curiale, con una conferenza del domenicano Raimondo Spiazzi, che fece seguito all’orazione delcardinal Pizzardo, presidente dell’Accademia. All’iniziativa – salutata dal papa, con un autografo di benedizione al segretario dell’Accademia, monsignor Antonio Piolanti – presenziarono, tra gli altri, i cardinali Tisserant eOttaviani, sei tra vescovi e arcivescovi, il principe Carlo Pacelli, numerosi prelati della Curia romana, professori degli atenei pontifici, il rettore dell’Angelicum, tre superiori e vari procuratori di ordini religiosi e telegrafarono la loro adesione gli ambasciatori d’Austria, Francia, Germania, Paesi Bassi, Polonia e Panama presso la Santa Sede, oltre a Francesco Olgiati, José Escrivà de Balaguer, Agostino Gemelli e Cornelio Fabro. La cronaca della giornata fu riportata nel primo numero del 1958 della neonata rivista dell’Accademia teologica, «Divinitas», in calce a una serie di contributi, fra cui i testi dei due relatori alla giornata celebrativa, significativi per la lettura proposta della condanna del modernismo, nonché delle varie anime, anche in tensione, della teologia cattolica alla fine del pontificato di Pio XII163.
L’orazione del cardinal Pizzardo, raccolta in apertura del numero di «Divinitas» dava il senso della celebrazione rinnovando il pathos apocalittico, proprio di papa Sarto164, che aveva informato l’introduzione della Pascendi, definita da Pizzardo «immortale Enciclica [...] che smaschera, appieno, quel complesso di errori in tutti i campi della Dottrina Cattolica, che va sotto il nome di Modernismo». Ricorrendo a vivaci (ma stereotipe)165 metafore, il cardinale non rinunciò ad attualizzare la condanna del 1907, amalgamandola esplicitamente a quella della nouvelle théologie:
«L’Enciclica Pascendi [scriveva Pizzardo] tagliò la testa alla piovra del modernismo, questo, tuttavia, stenta ancora a morire del tutto; anzi non manca, anche ai nostri giorni, di dare fremiti e sussulti di nuova vitalità subdolamente rianimata dal crescente dominio del ‘Padre della Menzogna’. Così si rinnova la lotta, più o meno violenta, secondo le circostanze dei tempi e dei luoghi. [...] Dalla Pascendi alla Humani generis, ai recenti discorsi del Papa gloriosamente regnante, è tutto uno splendere meraviglioso di luce, dinanzi alla quale i molteplici errori dei nostri tempi si dissolvono come nebbia al sole».
Anche Agostino Bea contribuì al numero della rivista con un testo su Il modernismo biblico secondo l’enciclica Pascendi, teso ancora una volta a squalificare l’opera di Loisy: l’esegeta francese era infatti giunto a negare l’istituzione divina del cristianesimo a motivo degli inconsapevoli presupposti filosofici positivistici contenuti nella sua produzione, dovuti a una formazione deficiente in studi patristici, dipendente dal razionalismo dell’esegesi protestante tedesca, di Renan e di Sabatier, più che da Blondel. Bea concluse quindi sul benefico influsso eserciato sul «progresso della scienza biblica» dalle «norme e leggi date da S. Pio X», che avrebbero consentito «di affrontare, senza pericolo di smarrimento, anche le nuove difficili questioni di fronte alle quali le scoperte moderne hanno posto i cultori della scienza biblica».
Tra gli altri contributi al volume, confermando posizioni già note, si segnalano quelli di Garrigou-Lagrange, di Fabro, seguito da Roberto Masi, docente all’Ateneo lateranense. Domenico Grasso presentò uno studio che è una piena giustificazione e insieme una misurata presa di distanze dal duro stile della Pascendi. Nel testo di Raimondo Spiazzi, L’enciclica Pascendi e il problema di una “teologia vitale”, in cui vennero ripresi i contenuti della conferenza data all’Accademia di teologia, il teologo domenicano sostenne che la condanna dell’enciclica aveva riguardato il «vitalismo religioso» dei modernisti e, riferendosi anch’egli esplicitamente alla Humani generis, sostenne che «certi stati d’animo determinati da quella problematica trattata in chiave modernista non sono finora del tutto placati»; ma Spiazzi sviluppò pure ampiamente l’idea che la ripresa dello studio della scolastica dovesse essere urgentemente accompagnata da una sua traduzione divulgativa e da un’applicazione al contesto storico contemporaneo. Ancora più esplicito fu il filosofo dell’Institut catholique di Parigi, Stanislas Breton, mostrando come l’esigenza di rinnovamento della teologia alla fine del pontificato di Pio XII potesse dar luogo a sviluppi inediti rispetto a quelli più consueti e rassicuranti auspicati da Spiazzi. Infatti, dopo aver fatto coro sulla potenza sintetico-speculativa dell’enciclica, riconoscendone comunque la componente reattiva e difensiva e individuando nel ‘vitalismo’ «le moyen terme qui nous explique le passage possible de l’agnosticisme à l’athéisme», Breton volle precisare di riferirsi alla «logique interne des doctrines» dei modernisti e non alle loro «intentions personnelles» e di ritenerne «parfaitement sincères» le proteste contro le «enormités» che furono loro rimproverate. Breton sostenne quindi l’idea che la fede fosse possibile solo se non si opponevano trascendenza e immanenza divine, dichiarando che la filosofia dei modernisti aveva sensibilizzato i cattolici alla giusta esigenza di rimediare all’‘oblio dell’essere’ denunciato da Martin Heidegger, che la metafora del ‘seme’ divino del sentimento religioso (condannata dall’enciclica) era stata utilizzata anche da autori ortodossi e che il ricorso al linguaggio della vita aveva favorito sviluppi recenti sul piano teologico, con la definizione della Chiesa come ‘corpo mistico’. Breton concluse quindi che la fenomenologia e l’esistenzialismo, elaborando una nuova concettualità del bios, avrebbero aiutato a superare i limiti del modernismo, identificabili nella confusione fra i dogmi della fede e le formule dogmatiche, delle quali si poteva ammettere uno sviluppo vitale. Monsignor Ferdinando Lambruschini, arcivescovo di Perugia con Paolo VI, partendo dalla nota presa di posizione del cardinal Suhard166 sul modernismo (condannato al pari dell’integrismo come un estremismo deleterio) individuò come problema di scottante attualità la definizione delle giuste modalità di collaborazione con i non cattolici sul piano pratico, nel rispetto dei principi dottrinali. Secondo lui, infatti, il laicismo, l’esistenzialismo, l’umanesimo ateo, il marxismo e la massoneria, provocando la conseguente reazione integrista, rappresentavano qualcosa di più di una pura eco del modernismo. Soffermandosi in particolare a stigmatizzare i cattolici che intendevano rinnovare la Chiesa ispirandosi e alleandosi con i marxisti, Lambruschini volle piuttosto ribadire che il messaggio cristiano era «“in primis” teocentrico, spirituale, inteso alla costituzione del regno di Dio sulla giustizia, apportando all’uomo nella sua parte negativa la liberazione dal peccato». Riproponendo quindi la consueta condanna della filosofia da Cartesio a Hegel, passando per Kant, monsignor Lambruschini condannò l’«antropocentrismo» come «principio comune al progressismo e ad altre ideologie moderne» e dopo aver indicato che «compito grave e urgente» del tomismo era mostrare la propria fecondità, egli concluse sostenendo che «non ci sarà da meravigliarsi se il modernismo continuerà a risorgere dalle ceneri sotto altri nomi, come è riapparso sotto la figura del progressismo sociale».
Alle soglie delVaticano II il ‘modernismo’ era piuttosto un utile spauracchio da evocare per esaltare il ruolo storico del magistero romano e un fantasma da scongiurare, per stigmatizzare o, all’opposto, per provare ad accreditare quelle posizioni teologiche che di lì a poco sarebbero state fatte proprie dalla maggioranza dei padri conciliari. Ma era solo la realtà di un passato remoto, definitivamente chiuso, che richiedeva ormai soltanto un approfondimento storico-critico per poter essere meglio conosciuto nella sua specificità? Non rappresentava forse qualcosa di più di una semplice sindrome personale l’attitudine mantenuta da don Giuseppe De Luca verso il modernismo, fatta di un inestricabile misto d’inconfessabili attrazioni e di disgustata repulsione167, che mostrava sulla scala di un’esperienza individuale quanto esso abbia costituito per il cattolicesimo della prima metà del Novecento una vera e propria divorante ossessione?
Il naturale avvicendarsi delle generazioni, senza contare i lutti provocati dalle guerre e dal fascismo, rese certamente problematico il travaso di esperienze dalla Lega democratica di Murri, attraverso il Partito popolare italiano, alla Democrazia cristiana, che, se fu limitato, comunque, non fu inesistente. Alle prime prese di posizione degli storici in merito (a cui poi hanno fatto da contrappeso i contributi di Lorenzo Bedeschi) non fu probabilmente estraneo l’intento, che a suo tempo aveva ispiratodon Luigi Sturzo, di provare a mettere al riparo scelte e impegni politici dai fulmini di un settore iperconservatore della Curia e della teologia romane. L’autonomia dei cattolici in politica è stato certo infatti soprattutto un programma d’azione a cui si è provato faticosamente a tener fede, ma è anche un principio ideologico, che irrompe nel quadro dei rapporti fra Chiesa e mondo proprio del cattolicesimo intransigente, vigorosamente ribadito nella Pascendi.
Il Sant’Uffizio dei Merry del Val e dei Canali protrasse sino ai primissimi anni del dopoguerra la repressione con cui durante il pontificato di Pio X si era già riusciti a marginalizzare o a escludere dalla vita ecclesiale rilevanti energie e intelligenze (Romolo Murri, Salvatore Minocchi) del cattolicesimo, non solo italiano. Il Sant’Uffizio contribuì infatti prima al crollo personale di Giovanni Semeria, poi, con l’aiuto del ‘braccio secolare’ fascista, a smorzare decisamente gli effetti che sul piano intellettuale continuava a produrre la sofferta testimonianza di coloro che in Italia (Buonaiuti) e all’estero (Laberthonnière) provavano ad adattare in un contesto mutato (sviluppando ad esempio una sensibilità ecumenica) le idee che avevano strenuamente difeso durante gli anni della crisi modernista; ciò, va osservato, grazie pure al soccorso prestato loro da un attualismo ormai anch’esso in ripiegamento in ordine sparso dopo la sconfitta ideologica subita all’inizio degli anni Trenta.
Alle profonde trasformazioni del contesto intervenute dopo la cesura dellaPrima guerra mondiale non si sottrassero certo la Chiesa e i protagonisti ufficiali del rinnovamento del pensiero e della cultura cattolici, in primo luogo Agostino Gemelli, sottoponendo il paradigma intransigente maturato nella prima metà dell’Ottocento168 a significativi adattamenti. Ne è testimonianza esemplare la traiettoria di un esponente di primo piano del tomismo internazionale, che per mezzo secolo, a partire dagli anni Venti, ha esercitato un’influenza notevole su vari settori della cultura cattolica italiana, Jacques Maritain. Proposto come docente di filosofia all’Institut catholique di Parigi da Benedetto Lorenzelli, di cui ribadì inizialmente le posizioni rigidamente ed esplicitamente antimoderniste rifuse in Antimoderne, Maritain prese le mosse dal mito medievalista per approdare presto, con Trois reformateurs, a una visione meno negativamente univoca della modernità, suscitando così vivo interesse tra gli italiani, soprattutto a partire da quando, con Primauté du spirituel, prese le distanze dalla sorta di modernismo antimodernista sposato dai cattolici d’Action française169. Lo sviluppo in senso democratico, ma comunque integralista, del Maritain di Humanisme intégral avrebbe potuto più liberamente essere seguito in Italia con partecipazione pure di influenti settori del cattolicesimo ufficiale, sempre tra perplessità e forti resistenze, solo nel secondo dopoguerra. Intanto, nell’ambito degli studi storici e biblici la lezione di personalità estranee alle posizioni moderniste radicali, come Louis Duchesne e Marie-Joseph Lagrange, aveva prodotto presenze significative pure nella cultura ecclesiastica italiana (Francesco Lanzoni, Giuseppe De Luca, Giuseppe Ricciotti, Pio Paschini), avviando anche un importante processo evolutivo sul piano dottrinale. Ancora sul piano filosofico, la lezione di Blondel – di cui Buonaiuti stesso, nel capitolo conclusivo di uno scritto postumo170, riconobbe l’importanza per essere uscita esente da censure dottrinali – produsse un rinnovamento teologico difficilmente recepito a Roma, dove la guardia del Sant’Uffizio contro l’immanentismo montò dagli anni della crisi modernista sino a quelli della condanna della nouvelle théologie. Da tempo ormai, Oltralpe mal si sopportavano i rigori dottrinali dell’antimodernismo estremo171, fiorente, ma già criticato, alla fine del pontificato di Pio X. Del resto, sin dal tempo della crisi modernista, all’episcopato conservatore e allo stesso papa Sarto, non era mancata la consapevolezza dei riguardi dovuti a un ‘modernismo buono’, individuato negli strumenti utili a uno sviluppo controllato dei saperi sotto l’egida del magistero. A partire dagli anni Trenta, tale atteggiamento avrebbe progressivamente portato pure a sviluppare l’uso di nuovi potenti mezzi di comunicazione e dei sistemi di organizzazione di massa, mutuato dal ‘modernismo reazionario’ fascista, per fargli diretta concorrenza172. Non a caso, all’inizio degli anni Quaranta, nel citato contesto di una crisi dottrinale che in Curia romana apparve come il passaggio di testimone dal modernismo alla nouvelle théologie, proprio nel sostenere le ragioni della censura che colpiva Dominique Chenu e Louis Charlier, Pietro Parente, prendendo le parti di «un sano spirito conservatore, temperato da illuminato senso della modernità», affermò pure che
«ogni Teologo degno di questo nome, non deve irrigidirsi in fatto di metodo, nelle vecchie posizioni, ma può e deve rendersi conto del suo ambiente e del suo tempo, approfittando del buono che si riscontra nelle nuove idee e nei nuovi indirizzi, allo scopo di aggiornare il suo insegnamento e le sue indagini»173.
Così, alla fine del pontificato, Pio XII – che ancora nel 1947 aveva notato con apprensione come «nonnullos novitatis nimio studiosiores esse, atque ex rectae doctrinae ac prudentiae via transversos aberrare»174 –, richiamandosi ancora alla Humani generis, auspicò pure un «aggiornamento» della pastorale «per la rinascita cristiana del mondo»175. Sul piano liturgico, anzi, dal momento che proprioPio X aveva attuato significative riforme in tale ambito, pure la Curia pontificia seguì più facilmente176 che, rispetto alle iniziative attraverso cui da un uniatismo ormai in scacco si provò – con ben poco costrutto – ad avviare il dialogo coi ‘fratelli separati’177.
Come a tale modernizzazione antimodernista, che ha continuato a rappresentare un’opzione praticabile pure dopo il Vaticano II, si sia potuto accompagnare il rischio di uno snaturamento e di un esaurimento del cristianesimo stesso, è un problema aperto su cui un filosofo, che ha a lungo esplorato con attenzione e intelligenza i meandri della crisi modernista178 e uno storico come Pietro Scoppola si sono interrogati con acuta gravità179.
Al Sant’Uffizio, però, riuscì soprattutto di limitare pesantemente gli effetti della lezione di vita che il più irriducibile dei modernisti italiani, Ernesto Buonaiuti, professò dalla cattedra universitaria sinché poté. Finì relegato nel limbo di una precarietà esistenziale, ancor più che professionale; in un «accattonaggio» esodiaco, come egli stesso lo definì con cifra linguistica originalissima nell’autobiografia del 1945, selettiva e parziale, come tutte. Il contributo della lezione di Buonaiuti alla medievistica italiana è un dato ben noto180, ma in quel libro del 1945, prendendo fra l’altro le distanze dal «peccatum juventutis» commesso con le Lettere del 1908181, Buonaiuti formulò pure l’ultima grande professione della sua ‘passione romana’; era un’eredità che, come lui, anche altri modernisti ricavarono dal cattolicesimo intransigente, sottoponendola però a mutazioni da cui potrebbe risultare un autentico salto di specie e che impediscono perciò di riferire a essi quel paradigma come qualcosa di più della matrice ideologica comune alle varie famiglie cattoliche sviluppatesi nel corso del Novecento. Riedita da Mario Niccoli nel 1964 e da Giancarlo Gaeta solo qualche anno fa, l’autobiografia di Buonaiuti è la rilettura complessiva di un’esperienza in cui ritornano alcuni motivi fondamentali che, come messaggio testamentario, hanno potuto dar frutto entro segmenti circoscritti e neppure del tutto omogenei, ma non poco significativi, della società italiana. Il primo di essi è quello lapidariamente formulato nella risposta di Pio VII al Lebtzeltern, nella seconda delle frasi citate in esergo al volume, relativo alla fedeltà al primato della coscienza. Un secondo (condiviso con Aldo Capitini)182 concerne il rifiuto della guerra come «cosa antiumana e antireligiosa per eccellenza»183. Un altro è quello relativo alla necessità di separare nettamente l’ambito religioso e quello politico, di cui si sarebbe soprattutto fatto carico un rappresentante della scuola giuridica liberale come Jemolo184. Un ultimo messaggio, dirompente sul piano religioso, è quello condensato da Buonaiuti in una frase conclusiva dell’opera, a indicare il significato della lotta condotta «per mantener fede alla sua vocazione cristiana e sacerdotale» nel mondo in trasformazione: «Preparare gli elementi acconci alla ricostruzione di una nuova coscienza religiosa ed evangelica, senza cui l’avvento dell’universale democrazia sarebbe stato una conquista mutila, esangue e peritura»185. Molto probabilmente, Buonaiuti pensò all’eremo ecumenico di Campello e alla sorella ‘allodola’ Maria Pastorella,Valeria Pignetti186, che gli era stata vicina nei momenti più difficili, come a una delle luci, a uno «dei segni annunciatori della grande palingenesi» che egli attendeva col rinnovamento carismatico della Chiesa. Già da anni, l’anima di un ‘solitario’ amico comune dell’eremitaggio del Clitumno, don Primo Mazzolari, aveva impressionato l’‘esule’ Buonaiuti per la capacità di saper cogliere, al di là dei recinti confessionali, «fattezze fraterne fin dove si stende l’ombra sconfinata della Croce di Cristo»187. Su questo punto, Roma avrebbe arrancato ancora dietro i cambiamenti a cui diede visivamente forma Rossellini, col penultimo episodio di Paisà (1947).
Altre rilevanti problematiche teologiche dibattute durante la crisi modernista, come la distinzione fra il Cristo della fede e il Gesù della storia, hanno continuato a fare problema dal punto di vista della dottrina cattolica ufficiale (si vedano i casi Küng, Schillebeeckx, Haight e Sobrino); senza contare che permane anche qualche tensione relativa alla questione centrale nel dibattito modernista circa lo statuto epistemologico proprio del sapere storico-critico e le sue applicazioni. Se poi il cambiamento di paradigma intervenuto con l’affermarsi al Vaticano II della teologia biblica ha relegato per lo più nell’ambito dello studio storico il dibattito sulle relazioni fra la natura e il sovrannaturale, le conseguenze che sul piano pratico comporta la soluzione di tale questione hanno continuato a suscitare vive discussioni riguardo alle relazioni interne alla Chiesa tra le varie componenti ecclesiali e, all’esterno, ai rapporti con le altre confessioni cristiane, le religioni e con lo Stato democratico laico. Per questo, l’opera dei modernisti continua a offrire stimolanti riferimenti e la crisi modernista costuisce un capitolo della storia del cristianesimo contemporaneo e di quella italiana in attesa di sempre nuove riscritture.
1 AAS, 6, 1914, p. 577.
2 Ibidem, p. 578. Anche verso la fine del pontificato, Benedetto XV si sarebbe solennemente espresso nell’enciclica per il settimo centenario del Terz’ordine francescano contro la falsificazione dell’immagine storica di Francesco d’Assisi operata dai modernisti, che tratteggiavano il santo come «parum deditum» alla cattedra del vescovo di Roma e ne facevano «vagae et inanis cuiusdam religiositatis quasi specimen», cfr. AAS, 13, 1921, p. 34.
3 Cfr. H. Schwedt, Antimodernisti a Roma, in ‘‘In wilder zügelloser Jagd’’, a cura di H. Wolf, J. Schepers, Paderborn 2009, in partic. pp. 372-373.
4 Per una valutazione generale della questione modernista durante il pontificato di Giacomo Della Chiesa cfr. M. Guasco, Fine dell’antimodernismo?, in Benedetto XV profeta di pace in un mondo in crisi, a cura di L. Mauro, Bologna 2008, pp. 229-238.
5 Per uno sguardo complessivo sul dibattito in Italia cfr. M. Insnenghi, Il mito della grande Guerra, Bologna 2007.
6 Su Pioli e Ghignoni cfr. L. Demofonti, La Riforma nell’Italia del primo Novecento. Gruppi e riviste di ispirazione evangelica, Roma 2003, pp. 132-139; su Casciola cfr. Lettere ai cardinali di don Brizio, a cura di L. Bedeschi, Bologna 1970.
7 Cfr. L. Demofonti, La Riforma nell’Italia, cit., p. 135; M. Tagliaferri, «L’Unità cattolica»: studio di una mentalità, Roma 2003, p. 206; M. Guasco, Politica e religione nel Novecento italiano. Momenti e figure, Torino 1988, pp. 100-102, 143-146, 165-168.
8 Cfr. G. Maroni, La stola e il garofano. Mazzolari, Cacciaguerra e la rivista «L’azione» (1912-1917), Brescia 2008.
9 Cfr. G. Azzolin, Gaetano De Lai. «L’uomo forte di Pio X », Vicenza 2003, pp. 198-199.
10 Cfr. F.M. Lovison, P. Semeria nella «grande guerra». Un caso di coscienza?, «Barnabiti studi», 25, 2008, pp. 126-264.
11 Cfr. G. Rinaldi, Testo e contesto delle 88 proposizioni vaticane attribuite al padre Semeria, «Barnabiti studi», 16, 1999, pp. 207-279; A.M. Gentili, Semeria edito e inedito: la duplice versione delle sue memorie, «Barnabiti studi», 25, 2008, pp. 278-314.
12 Cfr. G. Verucci, L’eresia del Novecento. La Chiesa e la repressione del modernismo in Italia, Torino 2010, pp. 67-68.
13 AAS, 8, 1916, pp. 176-177.
14 Cfr. «Fonti e documenti», 7, 1978.
15 Cfr. G. Verrucci, L’eresia del Novecento, cit., pp. 84-85. L’autore segnala pure che nel 1915 anche un opuscolo di Francesco Mari (di cui il volume su Il quarto vangelo era stato messo all’Indice subito dopo la pubblicazione nel 1910), in cui l’autore aveva spiegato In qual senso la scuola dev’essere laica e difeso l’ideale di una religiosità aconfessionale, fu sottoposto ad esame dal Sant’Uffizio, ma si ritenne opportuno di non procedere con una condanna ufficiale, cfr. ibidem, pp. 85-86.
16 Ibidem, pp. 71-72.
17 Ibidem, pp. 69-71, 72-74.
18 AAS, 9, I, 1919 p. 167.
19 Cfr. G. Verucci, L’eresia del Novecento, cit., pp. 74-75.
20 Ibidem, pp. 76-78.
21 Cfr. R. Murri, Dalla democrazia cristiana al Partito popolare, Firenze 1920.
22 Cfr. G. Verucci, L’eresia del Novecento, cit., p. 114.
23 Cfr. M. Tagliaferri, «L’Unità cattolica», cit., pp. 257-258.
24 Cfr. G. Vannoni, Integralismo cattolico e fascismo: «Fede e Ragione», in La Chiesa del concordato. Anatomia di una diocesi. Firenze 1919-1943, a cura di F. Margiotta Broglio, Bologna 1977, pp. 441-478.
25 Ibidem, p. 450; A. Riccardi, Roma “città sacra”? Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, Milano 1979, p. 62.
26 Cfr. G. Verucci, L’eresia del Novecento, cit., pp. 78-81.
27 AAS, 1921, p. 43.
28 Cfr. R. Cerrato, Ernesto Buonaiuti nella crisi del primo dopoguerra, in Cattolicesimo e totalitarismo, a cura di D. Menozzi, R. Moro, Brescia 2004, p. 280.
29 Cfr. G. Verucci, L’eresia del Novecento, cit., pp. 82-83.
30 Ibidem, pp. 91-92.
31 Ibidem, p. 90.
32 Cfr. C. Marcora, L’accoglienza della biografia fogazzariana di Gallarati Scotti in ambiente ecclesiastico, in Antonio Fogazzaro, a cura di A. Agnoletto, E.N. Girardi, C. Marcora, Milano 1984, pp. 281-326.
33 Cfr. B. Montagnes, Les sequelles de la crise moderniste: L’École biblique au lendemain de la Grande Guerre, «Revue thomiste», 90, 1990, 2, pp. 245-270.
34 AAS, 8, 1916, pp. 305-308.
35 Cfr. F. Beretta, La doctrine romaine de l’inspiration de Léon XIII à Benoît XV, in Autour d’un petit livre: Alfred Loisy cent ans après, sous la dir. de F. Laplanche, I. Biagioli, C. Langlois, Turnhout 2007, pp. 56-58.
36 Cfr. L. Carta, Bacchisio Motzo e il modernismo, Cagliari 1978.
37 Cfr. F. Laplanche, La crise de l’origine. La science catholique des évangiles et l’histoire au XXème siècle, Paris 2006, pp. 137-138.
38 Cfr. É. Poulat, Intégrisme et catholicisme intégral, Paris-Tournai 1969.
39 M. Tagliaferri, p. 265.
40 AAS, 14, 1922, p. 696.
41 AAS, 15, 1923, pp. 322-323.
42 Cfr. P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Bari 1971, p. 155.
43 Cfr. É. Fouilloux, Une Église en quête de liberté. La pensée catholique française entre modernisme et Vatican II (1914-1962), Paris 1998, p. 22.
44 Cfr. F. Laplanche, La crise de l’origine, cit., pp. 140-143. Nella prima metà degli anni Venti si consumò anche la vicenda del patrologo tedesco Joseph Wittig, maestro di Hubert Jedin; sei testi, per lo più di carattere letterario, miranti a denunciare i danni culturali prodotti dalla teologia scolastica del peccato originale e ad affermare il carattere essenzialmente spirituale della Chiesa furono messi all’Indice nel 1925 e l’autore, avendo rifiutato di riformulare il giuramento antimodernista, incorse l’anno successivo in una scomunica semplice, cfr. S. Kleymann, «… und lerne, von dir selbst im Glauben zu reden» Die autobiographische Theologie Joseph Wittigs (1879-1949), Würzburg 2000.
45 AAS, 16, 1924, pp. 159-160.
46 Cfr. G. Verucci, L’eresia del Novecento, cit., pp. 113-119.
47 AAS, 17, 1925, pp. 69-70.
48 AAS, 18, 1926, pp. 40-41.
49 Cfr. L. Bedeschi, Buonaiuti, il concordato e la Chiesa, Milano 1970, pp. 59-62.
50 E. Buonaiuti, Le modernisme catholique, Paris 1927, pp. 202-203.
51 Cfr. L. Salvatorelli, Prefazione a Bibliografia degli scritti di Ernesto Buonaiuti, cura di M. Ravà, Firenze 1951, p. VII.
52 Cfr. M. Malpensa, A. Parola, Lazzati. Una sentinella nella notte (1909-1986), Bologna 2005, pp. 42-45.
53 F. Margiotta Broglio, Introduzione a Lettere di Ernesto Buonaiuti ad Arturo Carlo Jemolo. 1921-1941, a cura di C. Fantappié, Roma 1997, pp. 28-30.
54 Cfr. G. Rumi, Padre Gemelli e l’Università cattolica, in Modernismo, fascismo, comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel ’900, a cura di G. Rossini, Bologna 1972, pp. 193-233.
55 Cfr. P. Prini, La filosofia cattolica italiana del Novecento, Bari 1996, pp. 39-46. Per la citazione cfr. pp. 42-43.
56 Cfr. le minute di due lettere di Maurice Blondel a Buonaiuti del gennaio-febbraio 1935 conservate a Louvain-la-Neuve, Centre d’Archives Maurice Blondel, C/100, 305 e C/101, 306-308.
57 Cfr. M. Visentin, La posizione di Gentile di fronte al modernismo, «La Cultura», 44, 2006, 3, pp. 435-460; M. Ranuzzi de’ Bianchi, Giovanni Gentile di fronte al modernismo cattolico, «Divus Thomas», 47, 2007, 2, pp. 96-118.
58 Sulla storia della ricezione del pensiero di Lucien Laberthonnère in Italia mi permetto di rimandare a G. Losito, Cristianesimo e modernità. Studio sulla formazione del personalismo di Laberthonnère, Napoli 1999, pp. 41-63, 89-112.
59 Cfr. É. Fouilloux, Une Église en quête de liberté, cit., p. 28; Les carnets du cardinal Baudrillart (13 avril 1925-25 décembre 1928), a cura di P. Christophe, Paris 2002, pp. 333-334, 338, 340-341, 347-348, 639, 641, 696-697, 700, 737.
60 G. Pugliese Carratelli, s.v. Vincenzo Cilento, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, XXXIV, Roma 1988, pp. 739-741.
61 Cfr. O. Arcuno, La filosofia dell’azione e il pragmatismo, Firenze 1924.
62 G. Verucci, Idealisti all’Indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant’Uffizio, Roma-Bari 2006, pp. 63-66.
63 Ibidem, pp. 130-139. Un caso eclatante, da inquadrare nella stessa offensiva ‘scolastica’ del principio degli anni Trenta, avrebbero rappresentato le misure adottate dal Sant’Uffizio contro Angiolo Gambaro, professore di pedagogia al Collegio di Propaganda Fide e già preso di mira nel 1912 dal vescovo di Novara per la pubblicazione di un articolo sul modernismo; la vicenda dello specialista del Lambruschini, a cui si rimproverò pure la collaborazione a «Il giornale critico della filosofia italiana» di Gentile, si concluse nel 1932, con l’allontanamento da Propaganda Fide; conservando la libera docenza all’Università di Roma, Gambaro richiese nel 1934 e ottenne il trasferimento all’Università di Torino, cfr. G. Verucci, L’eresia del Novecento, cit., pp. 61, 102-106.
64 Cfr. F.L. Ferrari. Lettere e documenti inediti, a cura di G. Rossini, Roma 1986, p. 409.
65 Cfr. J. Prévotat, Les catholiques et l’Action française. Histoire d’une condamnation (1899-1939), Paris 2001, p. 197. Per una perspicace messa in prospettiva della condanna del 1926-1927 con la situazione italiana coeva cfr. G. Campanini, Fascismo e «Action française». Le ripercussioni della condanna pontificia del 1926 nella stampa dell’Università cattolica, in Chiesa, Azione cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI (1922-1939), a cura di D. Veneruso, Milano 1979, pp. 418-435, in partic. p. 432.
66 Cfr. C. M. Fiorentino, All’ombra di Pietro. La Chiesa cattolica e lo spionaggio fascista in Vaticano, Firenze 1999, pp. 27-28.
67 Cfr. A. Rimoldi, «La scuola cattolica» e il fascismo durante il pontificato di Pio XI, in Chiesa, Azione cattolica e fascismo, a cura di D. Veneruso, cit., p. 585.
68 Cfr. A. Riccardi, Roma “città sacra”?, cit., pp. 74-75.
69 Cfr. M.C. Giuntella, La FUCI tra modernismo, Partito popolare, cit., p. 179; F. Finotti, Non modernisti ma moderni. La nuova apologetica tra Italia e Francia da Fogazzaro a Montini, in Antonio Fogazzaro e il modernismo, a cura di P. Marangon, Vicenza 2003, pp. 187-193.
70 Sui contrasti fra Agostino Gemelli e la Fuci di Montini in merito al senso della Conciliazione e al ruolo culturale dei cattolici in Italia, cfr. ibidem, pp. 151-153, 174-177.
71 Cfr. A. Riccardi, Roma “città sacra”?, cit., p. 202.
72 Cfr. M. Bressolette, Jacques Maritain et la guerre civile en Espagne, «Cahiers Jacques Maritain», 4, 1984, 9, pp. 33-42.
73 Ibidem, pp. 90-91.
74 Si tratta di A. Omodeo, L’esperienza etica dell’evangelio, Bari 1924.
75 Cfr. G. Turi, Il mecenate, il filosofo e il gesuita. L’Enciclopedia italiana specchio della nazione, Bologna 2002, pp. 80-94, 200-227. Sulla presa di distanze di Omodeo v. in partic. p. 224.
76 Cfr. G. Verucci, Idealisti all’Indice, cit., pp. 120-124.
77 Cfr. L. Bedeschi, Buonaiuti, il concordato e la Chiesa, cit., pp. 109-131.
78 Cfr. F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla grande guerra alla conciliazione. Aspetti politici e giuridici, Bari 1966, pp. 173, 499.
79 AAS, 25, 1933, p. 36.
80 Si ricordano ad esempio le pressioni dell’arcivescovo (filofascista) di Torino, Maurilio Fossati, tese a impedire conferenze che Buonaiuti tenne nella sede della Young Men Christian Association di Torino. Cfr. B. Gariglio, Mondo cattolico e fascismo in una grande città industriale: il caso di Torino, in Chiesa, Azione cattolica e fascismo, cit., p. 207.
81 Cfr. L. Bedeschi, Buonaiuti, il concordato e la Chiesa, cit., pp. 281 segg.
82 Cfr. L. Giorgi, Buonaiuti e le comunità evangeliche svizzere, «Revue de théologie et de philosophie», 113, 1981, 31, pp. 376-402; Id., Buonaiuti a Losanna. Documenti inediti, «Studi storico religiosi», 6, 1982, 1-2, pp. 287-321.
83 Losanna, Archives Cantonales Vaudoises, K XIII, 369/47. Copia originale della lettera del 27 dicembre 1938 del rettore dell’Università, Émile Golay al direttore del Département de l’Instruction publique et des Cultes del canton Vaud, Paul Perret.
84 Cfr. A. Giovagnoli, Romolo Murri tra nazionalismo e universalismo, in Romolo Murri e i murrismi in Italia e in Europa cent’anni dopo, a cura di I. Biagioli, A. Botti, R. Cerrato, Urbino 2004, pp. 178-179.
85 Cfr. S. Urso, L’aquila imperiale e il Veltro dantesco. Il fascismo come orizzonte messianico universalista e cattolico, in Cattolicesimo e totalitarismo, a cura di D. Menozzi, R. Moro, pp. 247-273.
86 Cfr. A. Riccardi, Roma “città sacra”?, cit., pp. 40-43.
87 Cfr. A. Capitini, Antifasciscimo fra i giovani, Trapani 1966, pp. 24-26.
88 Cfr. G. Vannoni, Integralismo cattolico e fascismo, cit., pp. 450-458. Buonaiuti fu un dichiarato e «deciso oppositore» della politica razziale sin dal 1936. Cfr. L. Bedeschi, Buonaiuti, il concordato e la Chiesa, cit., pp. 216-217.
89 Su questo cfr. G.M. Viscardi, Tra rinnovamento culturale ed esperienza religiosa: realtà e memoria del modernismo in don Giuseppe De Luca (1898-1962), in ‘In wilder zügelloser Jagd’’, a cura di H. Wolf, J. Schepers, cit., pp. 131-150.
90 Su questo punto cfr. anche Il tempo de «Il Frontespizio». Carteggio Bargellini-Bo (1930-1943), a cura di L. Bedeschi, Milano 1989, pp. 84-85. Va ricordato che Carlo Bo aveva scorto in Semeria il suo primo punto di riferimento intellettuale.
91 Cfr. L. Mangoni, Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista «Il frontespizio», in Modernismo, fascismo, comunismo, a cura di G. Rossini, cit., pp. 363-417.
92 Cfr. G. Verucci, Idealisti all’Indice, cit., p. 84; A. Giovagnoli, La cultura democristiana. Tra Chiesa cattolica e identità italiana. 1914-1948, Roma-Bari 1991, p. 48.
93 Ibidem, pp. 85-94.
94 Roma, Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (ACDF), SO, CL, 786/29.
95 L. Stefanini, Il problema morale nello stoicismo e nel cristianesimo, Torino 1926.
96 Sul nuovo credito assunto fra i cattolici dalla proposta blondeliana dopo la condanna dell’Action française cfr. J.-H. Soret, Philosophies de l’action catholique. Blondel-Maritain, Paris 2007, pp. 246-297.
97 Cfr. Luigi Sturzo e gli intellettuali cattolici francesi (1925-1945), a cura di É. Goichot, Soveria Mannelli 2003, pp. 57-149.
98 Cfr. É. Goichot, Sturzo lettore di Bremond, in Universalità e cultura nel pensiero di Luigi Sturzo, Soveria Mannelli 2001, pp. 103-123.
99 Cfr. L. Sturzo-M. Sturzo. Carteggio, a cura di G. De Rosa, 4 voll., Roma 1985: I, p. 8; L. Sturzo-M. Sturzo. Carteggio (1924-1940). Appendice, a cura di C. Argiolas, Soveria Mannelli 2006, pp. 191-195.
100 Cfr. L. Sturzo-M. Sturzo. Carteggio, cit.: I, pp. XXX, 455.
101 Sul senso della sua opera cfr. P. Prini, La filosofia cattolica italiana, cit., pp. 46-51. Sulla presa di distanza di Gemelli nell’Annuario dell’Università cattolica del Sacro Cuore (Milano 1931, p. 24) dell’anno accademico 1930-1931 dalla «moda» di «certe alleanze di Cattolicesimo e Idealismo», cfr. L. Mangoni, L’Università cattolica del Sacro Cuore. Una risposta della cultura cattolica alla laicizzazione dell’insegnamento, St.It.Annali, IX, p. 997. Cfr. anche R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Bologna 1979, pp. 564-567, dove si segnala fra l’altro che il caso Zamboni avrebbe, nel 1935, originato tensioni fra la Fuci e monsignor Francesco Olgiati, determiando così un caso Augusto Baroni.
102 Cfr. É. Fouilloux, Une Église en quête de liberté, cit., pp. 27-28.
103 Cfr. Roma, ACDF, SO, CL, 178/1931.
104 Cfr. G. Verucci, Idealisti all’Indice, cit., p. 179.
105 Cfr. A. Piolanti, L’Accademia di religione cattolica. Profilo della sua storia e del suo tomismo: ricerca d’archivio, Città del Vaticano 1977, p. 458.
106 Cfr. E. Castelli, L’avventura filosofica italiana. L’Archivio di filosofia», «Filosofia», 21, 1970, pp. 200-206.
107 Cfr. Roma, ACDF, SO, CL, 3121/1934.
108 A. Gemelli, Compiti e missione della Neoscolastica italiana dopo venticique anni di lavoro, in Indirizzi e conquiste della filosofia neo-scolastica italiana, a cura dell’Università cattolica del Sacro Cuore, Milano 1934, p. 1. Sulla consapevolezza in Gemelli, già verso il 1932-1933, dell’affermazione dell’Università cattolica e dell’ideologia di cui si faceva veicolo nella società italiana cfr. L. Mangoni, L’Università cattolica del Sacro Cuore, cit., p. 978.
109 Cfr. Roma, ACDF, SO, CL, 3121/1934.
110 Ibidem.
111 Cfr. M. Blondel, Fidélité conservée par la croissance même de la tradition, «Revue thomiste», 40, 1935, 18, pp. 611-626.
112 Cfr. Roma, ACDF, SO, CL, 909/1935.
113 Cfr. A. Agnoletto, Salvatore Minocchi, vita e opere (1869-1943), Brescia 1964, pp. 221-225.
114 Cfr. G.B. Guerri, Eretico e profeta. Ernesto Buonaiuti, un prete contro la Chiesa, Milano 2001, pp. 218-222.
115 Y. Congar, Chrétiens désunis. Principes d’un œcuménisme catholique, Paris 1937.
116 Cfr. É. Fouilloux, Autour d’une mise à l’Index, in Marie-Dominique Chenu. Moyen-Âge et Modernité. Colloque organisé par le Departement de la recherche de l’Institut catholique de Paris et le Centre d’études du Saulchoir à Paris, les 28 et 29 octobre 1995 sous la présidence de Joseph Doré et Jacques Fantino, «Les Cahiers du centre d’etudes du Saulchoir», 4, 1997, 5, pp. 25-56.
117 Cfr. P. Parente, Nuove tendenze teologiche, «L’Osservatore romano», 9-10 febbraio 1942.
118 Cfr. P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana. 1938-1948, Bologna 1979, pp. 80-81.
119 Assai nota la turpe presa di posizione di Agostino Gemelli su «Vita e pensiero», a seguito del suicidio dell’amico ebreo di Buonaiuti Felice Momigliano. Sulle difficoltà incontrate e superate da Gemelli col cambio di regime in Italia, cfr. M. Malpensa, A. Parola, Lazzati, cit., pp. 485-495.
120 Cfr. A. Melloni, Alcide De Gasperi alla Biblioteca Vaticana (1929-1943), in Alcide De Gasperi: un percorso europeo, a cura di E. Conze, G. Corni, P. Pombeni, Bologna 2004, pp. 141-168.
121 Cfr. A. Riccardi, Il partito romano. Politica italiana, Chiesa cattolica e curia romana da Pio XII a Paolo VI, Brescia 2007.
122 Cfr. C.F. Casula, Lo scioglimento della Sinistra cristiana, in I Cattolici tra fascismo e democrazia, a cura di P. Scoppola, F. Traniello, Bologna 1975, pp. 299-359, in cui, fra l’altro, si cita una circolare del Partito della sinistra cristiana, che nella delicata fase della difficile trattativa con Ottaviani, per ottenerne l’avallo, raccomandava ai militanti di evitare «gesti romantici di ribellione alla Murri o alla Buonaiuti», ibidem, p. 330.
123 Cfr. G. Verucci, L’Eresia del Novecento, cit., p. 129. In E. Buonaiuti, La Chiesa e il comunismo, Milano 1945. Partendo dall’assunto che «il Cristianesimo è nato comunista e il comunismo è nato cristiano», ribadendo la validità delle condanne di principio formulate nel corso degli ultimi pontificati, l’autore non mancò di esprimere l’opinione che i mutamenti storici intervenuti avrebbero potuto portare a una svolta positiva anche nelle relazione tra i cattolici e il comunismo.
124 Cfr. F. Malgeri, «Voce operaia». Dai cattolici comunisti alla sinistra cristiana (1943-1945), Roma 1992, pp. 50-52.
125 Cfr. AAS, XXXIII, 1941, 465-472.
126 Un gravissimo pericolo per la Chiesa e per le anime. Il sistema critico-scientifico nello studio e nell’interpretazione della Sacra scrittura. Le sue deviazioni funeste e le sue aberrazioni, s.l. 1941.
127 Cfr. M. Pesce, Il rinnovamento biblico, in A. Fliche, V. Martin, Storia della Chiesa, 25 voll., Cinisello Balsamo: XXIII, I cattolici nel mondo contemporaneo (1922-1958), a cura di M. Guasco, E. Guerriero, F. Traniello, pp. 593-596.
128 Cfr. F. Laplanche, La crise de l’origine, cit., pp. 320-335.
129 Cfr. A. Riccardi, Chiesa di Pio XII o Chiese italiane?, in Pio XII, cit., p. 34.
130 Ibidem, pp. 337-341, 344-347; R. Burigana, La Bibbia nel concilio. La redazione della costituzione «Dei verbum» del Vaticano II, Bologna 1993, pp. 198-202. Come si riscontra in questo stesso studio, i voti inviati per gli schemi preparatori del concilio relativamente alle questioni esegetiche mostrano di quanto numerosi estimatori l’esegesi conservatrice godesse pure al di là delle Alpi e come, del resto, lo stesso mondo romano risultasse articolato al suo interno, ibidem, pp. 41-56.
131 AAS, XXXIV, 1942, p. 375; ibidem, XXXVI, 1944, p. 176.
132 Cfr. G. Verucci, L’Eresia del Novecento, cit., pp. 130-139.
133 Ibidem, pp. 140-141.
134 Ibidem, pp. 141-142.
135 Cfr. É. Fouilloux, La «nouvelle théologie» française vue d’Espagne (1948-1951), «Revue d’histoire de l’Église de France», 90, 2004, pp. 279-293.
136 Cfr. G. Caprile, Il concilio vaticano II. Cronache del concilio edite da «La civiltà cattolica», 4 voll., Roma 1966-1969: I, p. 15.
137 In tema di morale va segnalato che la condanna del situazionismo da parte del Sant’Uffizio (con l’istruzione del 2 febbraio 1956, preceduta sin dal 1952 da pronunciamenti del pontefice) avrebbe colpito come vestigia «relativismi et modernismi» (cfr. DH 3921) le posizioni etiche di coloro che rifiutavano l’applicazione di una verità morale oggettiva, appellandosi piuttosto alla coscienza morale concreta.
138 AAS, XLII, 1950, pp. 561-578.
139 Cfr. G. Vian, Le conseguenze dell’antimodernismo, cit., pp. 372-373.
140 Cfr. É. Fouilloux, Giovanni Battista Montini face aux débats ecclésiaux de son temps. 1944-1954, in Paul VI et la modernité dans l’Église. Actes du Colloque organisé par l’Ecole Français de Rom (Roma 1983), Roma 1984, p. 95.
141 AAS, LI, 1959, p. 432.
142 Cfr. É. Fouilloux, L’Église catholique en «guerre froide» (1945-1958), «Cristianesimo nella storia», 22, 2001, 3, pp. 687-715.
143 Cfr. G. Zizola, Il microfono di Dio. Pio XII, Padre Lombardi e i cattolici italiani , Milano 1990; Id., La nascita dell’Ufficio Stampa della S. Sede. Appunti e testimonianze per una storia: 1953-2003, «Cristianesimo nella storia», 25, 2004, 3, pp. 997-1080.
144 Cfr. M. Carosio, Extra ecclesiam nulla salus: il caso Feeney, «Cristianesimo nella storia», 25, 2004, 3, pp. 833-945.
145 Cfr. J.A. Komonchak, The Silencing of J. C. Mourray, in Cristianesimo nella storia. Saggi in onore di G. Alberigo, a cura di A. Melloni, D. Menozzi, G. Ruggieri et al., Bologna 1996, pp. 657-702.
146 Cfr. S. Scatena, La fatica della libertà. L’elaborazione della dichiarazione «Dignitatis humanae» sulla libertà religiosa del Vaticano II, Bologna 2003, pp. 12-13, 37, 44-46.
147 Cfr. V. Bortolin, Un movimento di filosofi crisiani. I convegni di Gallarate dal 1945 al 1985, Padova 1990.
148 Cfr. P. Doria, La condanna della «dottrina Maritain», Roma 2008.
149 Sulla lunga e complessa storia dei rapporti fra Maritain e l’Italia cfr. J. D. Durand, Jacques Maritain et l’Italie, in Jacques Maritain en Europe. La réception de sa pensée, a cura di B. Hubert, Paris 1996, pp. 13-85 (rispetto a cui va però precisato che Maritain costituì un punto di riferimento strumentale pure per qualcuno fra i cattolici comunisti, come Augusto Del Noce, che progressivamente si allontanò da loro divenendone strenuo critico).
150 Cfr. G. Martina, L’Église la société moderne et les droits de l’homme. Du Syllabus à Dignitatis humanae, «Revue d’histoire ecclésiastique», 95, 2000, 3, pp. 605-606, 609. Solo nel 1958, Pio XII avrebbe pubblicamente riconosciuto la legittima laicità dello Stato, comunque cautelativamente, aggettivandola come «sana», cfr. S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi. Ebraismo, cristianesimo e islam a confronto, Bologna 2005, p. 257.
151 Cfr. M.C. Giuntella, Cristiani nella storia. Il « caso Rossi » e i suoi riflessi nelle organizzazioni di massa, in Pio XII, a cura di A. Riccardi, Bari 1984, pp. 347-377. Cfr. anche F. Piva, “La gioventù cattolica in cammino...”. Memoria e storia del gruppo dirigente (1946-1954), Milano 2003.
152 Cfr. [Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XVI, pp. 31-37]; A. Riccardi, Pio X santo di Pio XII, in Pio X e il suo tempo, a cura di G. P. Romanato, Cinisello Balsamo 1987, pp. 237-241. Agostino Gemelli prese pubblicamente posizione a favore della canonizzazione di Pio X, firmando nel luglio del 1950 l’introduzione a M. Fontbel, Sagesse de Pie X (Paris 1951), in cui presentò papa Sarto come «défenseur du patrimoine surnaturel de l’Église dans la lutte contre le modernsime» (p. I).
153 Cfr. G. Gronchi, Quello che ha significato Romolo Murri. Profilo del leader con autobiografia inedita, Urbino 1997.
154 Cfr. J.D. Durand, La grande attaque de 1956, «Les Cahiers Jacques Maritain», 30, 1995, pp. 2-31.
155 Cfr. A. Giovagnoli, Le premesse della ricostruzione. Tradizione e modernità nella classe dirigente cattolica del dopoguerra, Milano 1982, p. 141.
156 Ibidem. Sui limiti dell’umanesimo integrale maritainiano a cui si ispirava la ‘seconda generazione’ democristiana rispetto alle posizioni della ‘prima generazione’ di matrice popolare, più sensibile alla concezione liberale dello stato nato dalla rivoluzione francese cfr. M.C. Giuntella, I fatti del ’31 e la formazione della “seconda generazione”, in I cattolici tra fascismo e democrazia, cit., pp. 221-222. Del resto, con il suo parere sulla libertà religiosa, trasmesso a Paolo VI all’inizio del 1965, in cui riprese le tesi già espresse nel sesto capitolo de L’homme et l’État (Paris 1953), Maritain avrebbe ribadito la tradizionale esclusione dello spazio ecclesiale dalla libertà religiosa, i doveri dello Stato verso Dio e la verità religiosa nella misura in cui il popolo la conosca più o meno perfettamente, legittimando così non il diritto all’errore della coscienza, ma solo il dovere della ricerca della verità, cfr. S. Scatena, La fatica della libertà, cit., pp. 363-364.
157 Cfr. A. Messineo, L’umanesimo integrale, «La Civiltà cattolica», 107, 1956, 3, p. 456.
158 Cfr. A. Riccardi, Chiesa di Pio XII o Chiese italiane?, in Pio XII, cit., pp. 38-39.
159 Nello stesso volume dell’opera, Filippo Caraffa pubblicò una breve voce su Murri Romolo (coll. 1534-1535), abbastanza equilibrata, che però imputò all’intervenuto allontanamento «dalla retta interpretazione del dogma» le censure del 1907 e del 1909 e in cui venne comunque ricordata pure la riammissione alla comunione del 1943. Nel 1951, il gesuita Celestino Testore, redattore capo e revisore ecclesiastico dell’opera, e il biblista Angelo Penna, dei Canonici regolari lateranensi, avevano intanto rispettivamente firmato le voci Laberthonnière Lucien e Loisy Alfred contenute nel settimo volume (coll. 775-777 e 1486-1487). Certamente più simpatetica la voce del Testore su Laberthonnière. Infatti, pur insistendo sul rifiuto del francese della filosofia scolastico-tomista, particolarmente virulento negli ultimi scritti postumi, e sulla caduta nell’immanentismo (comunque presentata come inconsapevole), il gesuita si soffermò sulle intenzioni filosofiche fondamentali come un tentativo (fallito) di superamento del kantismo. Testore presentò anche come esemplare la sottomissione disciplinare del Laberthonnière alle misure ecclesiastiche patite, ne riconobbe la «penetrazione speculativa», «lo stile limpido ed agile», il «tocco aristocratico» con cui «volle cooperare al disegno di Maurice Blondel», senza dimenticare neppure di segnalare che con Positivisme et catholicisme (Paris 1909), Laberthonnière aveva reso «con forza e acuta preveggenza, prima ancora della condanna, il carattere agnostico e anticristiano del movimento» dell’Action française. Testore concluse così affermando, tra l’altro, che «non si deve negare al Laberthonnière il merito notevolissimo di essersi posto nel campo della realtà storica e concreta, nel campo della vita vissuta allo scopo di sempre più intimamente permearla di Gesù Cristo. Questo spiega anche [continuò] il bene e la consolazione ricavata da molti nei suoi libri». Fatti salvi cascami immanentistici, il gesuita si espresse positivamente anche su la Théorie de l’éducation, presentandola come un trattato «denso di utili considerazioni e consigli». Testore faceva così eco alle indicazioni offerte nella riedizione del 1948 dello studio critico già menzionato di Francesco Olgiati sull’oratoriano francese, in cui un’importante integrazione consisté appunto in un apprezzamento dell’«acuto e geniale» lavoro sull’educazione del Laberthonnière. L’interesse per l’opera pedagogica dell’oratoriano francese – come si è detto, già ben radicato per il contributo di Codignola –, rimase così vivo in Italia (cfr. G. Losito, Cristianesimo e modernità, cit., pp. 95-97) e fu sviluppato da Vincenzo Bellisario, che a partire dal 1957 propose diverse edizioni di una nuova traduzione del testo del francese, dai rappresentanti dello spiritualismo agostiniano come Giulio Bonafede e pure dal pedagogista della Cattolica, Mario Casotti, che nel 1958 pubblicò una traduzione della Théorie, riedita più volte; dalla scuola del Casotti sarebbe quindi venuto Luciano Pazzaglia, lo studioso che più tardi, maturate altre lezioni, avrebbe offerto il primo solido studio storico-critico sul Laberthonnière; cfr. F. De Giorgi, La storia e i maestri. Storici cattolici italiani e storiografia sociale dell’educazione, Brescia 2005, pp.143-145.
160 Su Pio Paschini cfr. G. Miccoli, Metodo critico, rinnovamento religioso e modernismo. A proposito di Pio Paschini, in Id., Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Casale Monferrato 1985, pp. 93-111. Per una messa a punto del senso della citazione nella Gaudium et spes della due volte rinnegata biografia di Galileo Galileo redatta da Pio Paschini cfr. A. Melloni, Galileo al Vaticano II, «Cristianesimo nella storia», 31, 2010, 1, pp. 131-164.
161 Cfr. F. Laplanche, Le projet catholique de Loisy, in Alfred Loisy cent ans après, sous la dir. de F. Laplanche, I. Biagioli, C. Langlois, cit., pp. 19-34.
162 Sempre nel terzo volume dell’Enciclopedia filosofica pubblicata nel 1957 dal Centro di studi filosofici di Gallarate, apparvero una sintetica nota relativa a Murri Romolo (col. 769), di Ireneo Daniele e un’altra più estesa, di Domenico Grasso su Loisy Alfred (coll. 150-152). Ancora una volta miglior trattamento fu riservato al Laberthonnière, con una citazione nel secondo volume dell’opera, sempre del 1957, di mano di Isidoro Daniele; in questa, dopo aver anch’egli lodato le virtù sacerdotali del Laberthonnière, l’autore offriva al lettore a un’esposizione piana e abbastanza dettagliata (coll. 1760-1762) delle sue concezioni filosofiche, segnalandone soltanto l’ostinazione antiscolastica e soffermandosi pure sui contenuti del suo pensiero pedagogico.
163 Al numero di «Divinitas» non fu riservata particolare attenzione. Esso venne comunque recensito con accenti positivi dal lazzarista Crosignani, cfr. G. Crosignani, «Divus Thomas», 41, 1958, pp. 484-490.
164 Sulla diretta paternità sartiana dell’introduzione della Pascendi cfr. C. Arnold, Antimodernismo e magistero romano, «Rivista di storia del Cristianesimo», 5, 2008, 2.
165 Si veda, ad esempio, la medaglia pontificia di Francesco Bianchi, forgiata nel 1908 in vari metalli, che sotto l’iscrizione in cornice «modernismi errore damnato» raffigura Pio X con una mano benedicente personaggi allegorici dei cinque continenti e che con l’altra afferra un foglio scritto (l’enciclica), mentre alla sua sinistra, a terra, un’idra calpesta con la zampa una pila di tre volumi portanti sul dorso le iscrizioni «Biblia», «Traditio», «Scholastica»; in esergo la data di promulga della Pascendi secondo notazione latina (sul verso, il busto del papa incorniciato dall’iscrizione «Pius - X - Pont - Max - Anno -V»).
166 C. Suhard, Essor ou déclin de l’Église. Lettre pastorale de S. E. le cardinal Suhard, Paris 1947.
167 Cfr. G.M. Viscardi, Don De Luca e il modernismo, in Don Giuseppe De Luca e la cultura italiana, a cura di P. Vian, Roma 2001, pp. 71-85.
168 Cfr. R. Moro, La religione e la “nuova epoca”. Cattolicesimo e modernità tra le due guerre mondiali, in Il modernismo tra cristianità, cit., pp. 513-573.
169 Cfr. É. Poulat, Le Saint-Siège et l’Action Française. Retour sur une condamnation, in Y. Chiron, É. Poulat, Pourquoi Pie XI a-t-il condamné l’Action française?, Niherne 2009, pp. 15-68.
170 Cfr. E. Buonaiuti, Il Bando cristiano ed alcuni suoi interpreti, Roma 1946, p. 336. È noto che all’inizio degli anni Quaranta l’opera di Blondel costituì un punto di riferimento molto importante anche per il giovane novizio scolopio, Ernesto Balducci, già attento alle novità letterarie proposte da «Il frontespizio», poi laureatosi nel 1950 con un lavoro su Fogazzaro, prima di maturare un’adesione al pensiero di Maritain. In proposito cfr. i contributi pubblicati nel relativo numero monografico di «Humanitas», 56, 2006, 2.
171 Lo dimostrano gli articoli di due pionieri francesi del rinnovamento della teologia cattolica L. De Grandmaison, Une nouvelle crise moderniste est-elle possible?, «Études», 176, 1923, 1, pp. 642-647; M.-D. Chenu, Le sens et les leçons d’une crise religieuse, «La vie intellectuelle», 13, 1931.
172 Cfr. R. Moro, Il “modernismo buono”. La “modernizzazione” cattolica tra fascismo e postfascismo come problema storiografico, «Storia contemporanea», 11, 1988, 4, pp. 625-715.
173 Cfr. P. Parente, Nuove tendenze teologiche, cit.
174 AAS, XXXIX, 1947, p. 524.
175 Cfr. Pio XII, Discorso di S.S. Pio XII per la VI settimana italiana di aggiornamento pastorale, in Id., Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XVIII, Roma 1957, pp. 443-455.
176 Cfr. R. Kaczinsky, La liturgia come vissuto religioso, in I cattolici nel mondo contemporaneo (1922-1958), a cura di M. Guasco, E. Guerriero, F. Traniello, cit., pp. 412-414.
177 Cfr. É. Fouilloux, Il cammino dell’ecumenismo, in ibidem, pp. 495-516.
178 Cfr. G. Forni Rosa, Scienza e religione: i modernismi cristiani, in Le religioni e il mondo moderno, I, Il cristianesimo, a cura di G. Filoramo, D. Menozzi, Torino 2008, pp. 353-382.
179 Cfr. P. Scoppola, La «nuova cristianità» perduta, Roma 1986.
180 Cfr. R. Morghen, A. Pincherle, R. Manselli et al., Ernesto Buonaiuti storico del cristianesimo. A trent’anni dalla morte, Roma 1978.
181 Cfr. E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, Milano 1945, p. 108.
182 Sulla collaborazione, la stima e la distanza fra il gandhiano Capitini e il cattolico Buonaiuti cfr. A. Capitini, Antifasciscimo fra i giovani, cit., pp. 54-55, 94. Anche Danilo Dolci ha ricordato l’impressione prodotta su di lui dalla frequenza assidua delle conferenze di Buonaiuti all’Università di Roma nel 1944, cfr. G. Spagnoletti, Conversazioni con Danilo Dolci, Milano 1977, p. 24.
183 Ibidem, p. 508.
184 Cfr. F. Margiotta Broglio, Buonaiuti e Jemolo, prefazione a Lettere di Ernesto Buonaiuti. Lettere di Ernesto Buonaiuti ad Arturo Carlo Jemolo. 1921-1941, a cura di C. Fantappié, cit., pp. 7-43.
185 Cfr. E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma, cit., p. 515.
186 Sulla sua figura cfr. L. Bedeschi, Maria Pastorella e l’Eremo francescano, «Fonti e documenti», 16-17, 1987-1988, pp. 194-221.
187 Cfr. la lettera di Buonaiuti a Mazzolari del 29 ottobre 1934, in E. Buonaiuti, P. Mazzolari. Nunc dimittis!, a cura di R. Colla, Vicenza 2000, p. 15.