Le espressioni d'arte: gli edifici
Poco prima della metà del XII secolo, negli anni che segnano l'avvento della comunalità veneziana, il processo che trasformerà il centro realtino nella civitas Veneciarum è ancora poco avvertibile, sebbene sia possibile affermare che i primi segni, di non trascurabile rilievo, datano dalla seconda metà del secolo precedente. Fra essi, come particolarmente significativi, possono essere ricordati la grande impresa costruttiva della basilica di S. Marco (1063-1094), l'apparizione delle circoscrizioni parrocchiali (confinia: la prima citazione documentale è del 1077) (1), la donazione pubblica di una fila di botteghe da parte della famiglia Aurio nel mercato di Rialto nel 1097 (2), ove è tradizione che il doge Domenico Selvo (1071-1084) abbia edificato la nuova chiesa di diritto ducale di S. Giacomo (3), la ripresa di fondazioni e allocazioni monastiche in area rivoaltina o prossima, quali S. Maria della Carità (1109), le due sedi dei templari, S. Maria in brolio (ante 1144) e S. Giovanni de Tempio (ante 1172), l'insediamento dei cistercensi in S. Daniele nel 1138 (4).
Se si tiene conto della geografia urbana disegnata dai disastrosi incendi di cui è tramandata notizia del 1106 (28 gennaio e 5 aprile), 1117, 1120, 1149, 1167 (5), si ottengono inoltre segnalazioni evidenti di una operatività su scala urbana a larga dimensione, preoccupata dei problemi di rapporto territoriale ("guerre di decime", simili) fra chiese plebanali in rapida crescita abitativa, aperta e interessata a nuovi qualificati insediamenti monastici nell'area urbana (i precedenti datavano tutti dal IX secolo), tesa alla disciplina di forti aggregati funzionali quali il mercato e alla costituzione del grande polo cantieristico-militare dell'Arsenale, forzata a uscire dalla dimensione palatina della chiesa patronale (che non è cattedrale) per elevarla, con Dregnante ispirazione formale costantinopolitana, a luogo principe della coesione religiosa e del consenso civile.
In questa città in formazione, peraltro, l'articolazione della struttura edilizia dovette essere per tutto il IX secolo abbastanza primitiva, contesta di legno e Raglia o scandole di copertura (lo documentano gli atti notarili, e le cronache riferiscono che anticamente anche le chiese erano fatte "de parè, zoè de ligname"), disposta essenzialmente su fondi agricoli di proprietà nobiliare ed ecclesiastica anche di rilevante ampiezza, dentro i quali calles privati permettevano di raggiungere - dal Canale (primo idronimo del futuro Canal Grande), dal campo, dal rivo - la casa padronale, la corte destinata al lavoro e alla residenza servile, e singole minori peciae de terra, utilizzate a ortaglia, a vigna, a spazio per gli animali domestici, e alle più diverse specie di lavori manifatturieri, spesso gravemente inquinanti (fucine, fornaci, tintorie, lavorazioni delle pelli, ecc.). Chi legge i più antichi documenti privati veneziani dei secoli XI e XII si imbatte ben raramente in descrizioni di beni immobili, venduti, divisi, scambiati, donati, i quali lascino intravvedere una edilizia apprezzabile, di dimensioni considerevoli, costruita con materiali non deperibili: sui 57 atti antichissimi contenenti notizie edilizie e immobiliari precedenti il 1100, solo quattro (1013, 1038, 1069, 1070) rivelano l'esistenza di un edificio solariato, cioè non limitato al pianoterra, e solo tre (1038, 1048 e 1086) attestano la presenza di strutture murarie (6). Queste costruzioni, e altre consimili, dovettero essere dunque abbastanza eccezionali nel panorama di quel secolo, e spesso in parte tessute con laterizi e pietrame di spoglio, ricavati, secondo la tradizione, da Altino e da altre località: molti dei muri più antichi di Venezia, primi fra tutti la basilica marciana e il campanile crollato nel 1902, sono risultati in effetti ricchi di pedali e sesquipedali romani. Si può anzi ritenere che - fino all'inoltrato secolo XII - la situazione non sia mutata di molto: e anche per il resto del secolo gli atti privati, pur essendo incomparabilmente più numerosi di quelli del secolo precedente, sono abbastanza avari di notizie relative a edifici non lignei, a due piani o comunque di rilevante consistenza.
Il sinecismo che privilegia la civitas Rivoalti nell'ambito del territorio lagunare nel corso dei secoli XI e XII, anche per effetto della trasformazione ambientale conseguente soprattutto ai gravi fenomeni di trasgressione marina con acme nel IX-X e all'inizio del XII secolo (Matamaucum vetus è inghiottita dalle acque nel 1110 ca.), provoca dunque effetti di urbanesimo i quali hanno carattere estensivo piuttosto che intensivo, e implicano ampliamento dei nuclei autonomi originari delle plebes piuttosto che espansione concentrica attorno al nucleo castrense rivoaltino, in una paratassi di minuscoli villaggi che, anche mediante contatto o contrasto 'confinario', si saldano progressivamente fra loro senza alcuna preventiva comandata identificazione dei percorsi di comunicazione - per il cavallo, il pedone e la barca - che a una "città" di siffatta ampiezza erano pur necessari.
Non che la civitas Rivoalti non avesse conosciuto, a suo modo, strutture pianificate, e non che dal suo luogo di comando, l'originario castellum limitaneo bizantino, non fossero in qualche senso partiti ordini di carattere urbanistico. Si possono ricordare le assegnazioni di terre in Poveglia e in Dorsoduro del secolo IX, e la "licentia [...> paludes cultandi [...> et domos edificandi [...> in Rivoalto [...> contra Orientem" (7), pure della fine del secolo IX, che hanno il carattere di concessione a iniziative private di servi, excusati o homines legati al Ducato, certamente mosse dall'interesse di concentrazione fra il castellum-palatium e l'episcopato olivolense. Ed era stata questa fase di industre sviluppo insediativo quella che aveva permesso infine l'ultimo gesto, quello di Pietro Tribuno, il quale ebbe bensì ancora una volta motivazioni strategiche e applicazioni difensive (un "murus a capite rivuli de Castello usque ad ecclesiam sancte Marie que de Jubanico dicitur", e una "maxima catena ferrea" tesa tra l'estremità del muro e la chiesa di S. Gregorio "trans ripam posita" negli anni delle terribili invasioni degli Ungari); ma quel gesto, icasticamente descritto da Giovanni diacono ("dominus Petrus dux una cum suis civitatem aput Rivoaltum edificare cepit anno sui ducatus nono", cioè nell'897) (8), accertava finalmente una fondazione "urbana" presso il castello ducale, così definita dalla cultura di un ecclesiastico cancelliere agli inizi del secolo XI. Fu quell'atto ad autorizzare il nome di civitas Rivoalti, singolarmente rispondente, per il carattere della denominazione come per la struttura insediativa, a quel tipo di dualismo topografico poleogenetico - il castrum/suburbium, il castellum/wik, e simili - (9) che è stato variamente identificato in diverse aree europee alla fine del IX secolo, e che nel caso veneziano sembra assomigliare per qualche forma ai modelli anseatici del mare del Nord. Del resto il modello si può ritrovare in Caorle, ove la cattedrale di S. Stefano costituisce cerniera fra il castellum originario e il burgus, e fors'anche in Chioggia, fra il palatium sulla Vena e il vicus (piazza Vigo).
Tuttavia la fondazione di Pietro Tribuno costituì solo delimitazione, parzialmente murata, di una modesta porzione di terreno sul dorsum sinistro del Rivus altus, contigua al castellum bizantino, che lasciava all'esterno non solo vaste aree di insediamento preesistenti e già note, quali quelle volute da Orso Particiaco, ma anche quelle che sono identificate dalle numerosissime fondazioni ecclesiastiche certe o credibili, realizzate dalle famiglie tribunizie e di maiores provenienti da Eracliana ed Equilo, che configurano colonizzazioni sparse dell'VIII e IX secolo, dai Mendicoli a Luprio, da Gemino a Olivolo. Sembra conferma di tale delimitazione la descrizione delle distruzioni dell'incendio, appiccato al palatium nel 976, a partire dalle domus degli Orseolo "quae contra palatium citra rivolum consistebant": il quale incendio investì trecente mansiones fra le due cappelle ducali e la chiesa di S. Maria Jubanico, cioè esattamente nell'ambito circoscritto dai due capita del muro sul fiume costruito da Pietro Tribuno (10).
Questa civitas Rivoalti, d'altra parte, appare per tutta la durata del secolo X, secondo le notizie disponibili, ancora estranea del tutto a una configurazione urbana organizzata secondo le logiche distributive che saranno proprie dell'età comunale. La vicenda del 976 lascia intendere che, dalla parte del brolium, ove sarà più tardi la piazzetta, il castellum mostrava ancora un muro e torri inaccessibili, e non certo un loggiato aperto su una città, mentre di uso strettamente ducale erano le piccole capellae di S. Marco e di S. Teodoro. Solo alla fine del XII secolo i luoghi marciani, venendo sommerse o eliminate le antiche strutture di fortificazione, assumeranno ruolo e forma di urbanesimo comunale, quale del resto pretendeva la progressiva riforma del ducatus avvenuta fra l'età di Pietro Polani e quella di Vitale II Michiel (1130-1172).
Questo processo, tanto tardivo, non avrebbe peraltro improvvisato una realtà nuova, la civitas Veneciarum, se essa non fosse appunto cresciuta lentamente all'esterno della civitas Rivoalti dell'897, sulle vaste plaghe agricole della colonizzazione di Dorsoduro, di Canaleclo (Cannaregio), di Luprio (S. Croce), di Rivoalto (S. Polo), e di Gemino (Castello). In effetti, confermandosi sulle carte notarili dei secoli XI e XII come processo attivato da dinamiche private nell'ambito del diritto privato, su estensioni di terra coltivata concessa ancora a livello e valutata soprattutto come bene agrario, senza alcuna logica pianificatoria che non fosse quella dell'insediamento e infine dell'investimento da parte delle grandi famiglie attorno alle chiese di loro fondazione, la lenta trasformazione della colonizzazione venetica in urbanesimo veneziano, mediante poche domus maiores a due piani e una moltitudine di case lignee e paliadiciae pedeplanae, mostra che una terza realtà, maturata alla periferia della civitas di Pietro Tribuno (la quale aveva inglobato a sua volta e sollecitato a trasformazione il castellum bizantino) costituì l'ingrediente civile necessario perché, da tanto imprevedibile e faticosa peripezia, "nascesse Venezia".
La forma urbis, mirabilmente tramandata dalla pianta pergamenacea contenuta nella cosiddetta Chronologia magna di Paolino da Venezia, e confermata con interessanti varianti da due assai meno note pergamene della Marciana (11), mentre comprende informazioni grafiche e toponomastiche relative a un arco notevole di tempo (fra il XII secolo e il 1346), indica con chiarezza i tre livelli fisici dell'ambiente urbano e periurbano, determinati da una fase di evidente regressione eustatica del mare, che costituiscono fattori fondamentali della sua delineazione: gli alvei naturali profondi dei corsi d'acqua originariamente fluviali, insieme con "scomenzere" e "drizzagni" esterni scavati dall'uomo, e con rivi secanti il territorio compatto ormai urbanizzato; la palude, o meglio le paludes, da intendersi come sedime umido del territorio sottoposto a ritornanti sommersioni delle "sopracomuni", ma certo non passibile nella prima metà del XIV secolo di identificazione con la laguna che oggi conosciamo; e infine Murano, la Giudecca, le isole/monastero, il cordone non urbanizzato del lido, e la città, con identificazioni strutturali preziose delle sedi marciane e arsenalizie, e dei tituli ecclesiastici monastici e plebani.
In particolare si distinguono in quella pur tarda forma urbana, già testimoni del decollo protogotico, le nette definizioni imposte dal sinuoso tracciato dei corsi d'acqua (il rivus altus, il rivus vicanus, nella fase in cui stanno divenendo il Canal Grande e il Canale della Giudecca), da quelle della fronte occidentale sulla Butinia e del Canaleclo, e di Murano, orlate di abitazioni, e da quelle della fronte settentrionale, fra Canaleclo e l'Arsenale, ove il frammentario digradare della città nelle paludi rivela la fase di progressiva acquisizione urbana mediante bonifica (tipica la donazione del 1234 al monastero dei SS. Giovanni e Paolo) (12) delle lunghe lottizzazioni insediative della Cannaregio di età gotica.
D'altra parte, nell'ambito così delimitato il livello dei terreni non era, allora come oggi, eguale in tutte le località: se la pianta di Paolino documenta come ancora sussistente un residuo del lacus Badovariorum, già esteso fra S. Giacomo dell'Orio e i Frari, decine di atti del XII e XIII secolo informano dell'esistenza di almeno una sessantina di piscinae e piscariae, spesso progressivamente interrate non senza aspre liti fra gli aventi interesse alle loro ripae, allo sbocco delle jaglationes, ecc. Nella gran parte dei casi si trattava di modesti avvallamenti del terreno, profondi poche decine di centimetri, che la colonizzazione arcaica aveva sagomato in forma di penetrazioni acquee allungate e cieche, e che in alcuni casi, mediante brevi scavi di collegamento, riuscirono a diventare dei rivi. Anche questi ultimi, salvo rare eccezioni, erano stati ricavati da originarie disuguaglianze e depressioni del terreno alluvionale in forma di modesti fossati, che inizialmente contennero acque dolci e servirono agli scoli e alle delimitazioni proprietarie, e successivamente allargati poterono rendere appetibili terreni agrari relativamente lontani dal fiume, assicurando la comunicazione con il corso d'acqua che, già durante l'acme eustatica del IX-X secolo, con la risalita del salso e l'unificazione di ampi specchi protolagunari, divenne distributore multidirezionale di comunicazioni acquee anche trasversali. Nella fase successiva, la trasgressione di fine secolo XI - inizio del XII non poté che consolidare l'economicità delle relazioni acquee già sperimentata, anche perché il pur ancor lento sinecismo in atto verso la civitas Rivoalti, e il progressivo incremento dei valori fondiari (dovuto non tanto a valorizzazione di carattere edilizio-abitativo, quanto all'uso portuale del fiume, con la costruzione di case deposito con ripae gradatae per attracco e carico-scarico delle "navi" sotto casa), resero duramente privatistica la fruizione dell'asta fluviale e irraggiungibili quasi sempre le ripae data la proprietà privata dei terreni prospicienti il fiume, e per l'assenza pressoché totale di pubbliche vie di comunicazione e penetrazione. Del resto, come le piscinae, così i rivi furono inizialmente di proprietà privata, come mostra la stessa denominazione, intitolata in alto numero di casi alle famiglie proprietarie del luogo nelle prime citazioni documentali dei secoli XI e XII (oppure: "comprehenso fossado meo" si legge per esempio nella divisione dei beni immobiliari dei Badovarii a S. Stin del 1038, mentre si precisa "rivo p u b l i c o Beati Stephani").
Ancor più dichiarato e preciso appare il carattere privatistico della gestione del terreno. Una raccolta di oltre mille citazioni di calli in documenti datati fra 1'XI e il XIV secolo accerta che le vice publicae furono fino all'inoltrato Duecento assai rare, e che quasi tutte le strade della città nascente erano calles di sedime privato, in parte communes fra due o più proprietari confinanti, comprese comunque nella proprietas, o nelle due proprietates contigue. In ciascuna proprietas terrae et casae, o in ciascuna pecia de terra, il callis era infatti elemento costitutivo necessario all'accesso, unifamiliare nella gran parte dei casi, poi progressivamente communis fra residenti che, avendo diviso la pecia originaria, se ne servivano per il medesimo scopo; poteva essere provvisto di porta chiusa a chiave fino a epoca assai tarda (proprietà Bon a S. Aponal, 1295) (13), oppure, in caso di cessione per permuta, il proprietario poteva mantenervi il diritto "eundi ac redeundi in die et in nocte cum amicis et inimicis" (proprietà Grisuni a S. Giuliano, 1152) (14), o infine poteva essere donato alla chiesa parrocchiale "omnibus hominibus secure semper per eum eundi et redeundi" (a S. Maria Formosa, 1088), in età ancora assai alta (15). Le date e il carattere di questi esempi mostrano come la trama viaria della città, che si presenta oggi per gran parte irrazionale e stravagante, nasca occasionalmente, per spinte o resistenze individuali di diritto privato, in assenza di una qualsiasi disciplina pubblica, che interverrà assai tardivamente, per singoli problemi, o in specifiche località, con magistrature costituite ad hoc volta per volta, fin quasi alla fine del XIII secolo. Lo stesso allacciamento parziale e progressivo, che a vario titolo giuridico interverrà nel Duecento avanzato fra i vari segmenti di sedime libero di differenziato utilizzo, marginali o anche interni alle proprietà, a costituire i primi embrioni di viabilità, non si realizza apparentemente per volontà o per intervento pubblico, se è vero che perfino i ponti - inizialmente pure privati, e costruiti con poche assi sopraelevate su rivi altrettanto privati -, i quali sono necessari per costituire le congiunzioni decisive nella trama delle comunicazioni fra i vari confinia, permangono spesso per qualche secolo nella proprietà privata iniziale, anche quando essa volentieri se ne disfarebbe, in quanto onerosi per la necessaria manutenzione resa più grave dall'uso pubblico (16).
Più indistinta è l'origine giuridica dei campi. La loro conterminazione è certamente antichissima, contemporanea alla fondazione della chiesa di cui assumono l'agionimo. La donazione del terreno necessario da parte delle famiglie tribunizie costituisce probabilmente la prima dotazione di sedime 'pubblico' in un contesto ancora preurbano, si confonde con il sacrum ecclesiastico, assume il ruolo di spazio funzionale centrale - dal mercato alla sepoltura - della plebs arcaica. Anche per il campus, solo nel XII secolo si può dire che esso cominci ad assumere qua e là il carattere di spazio urbano, teso a divenire tappa e snodo interni alla civitas; ma perché ciò avvenga, occorre in realtà attendere che vari segmenti viari costituiti da calli private si uniscano tra loro e con i rari tratti di via publica, che ponti, pure privati, sorgano non solo ove è l'interesse dei proprietari dei fondi, ma anche dove il nascente sistema di percorsi di un confinium può collegarsi con quello del confinium vicino, ecc.
Peraltro, un certo numero di notizie di interventi dei massimi organi dello stato e di nuove magistrature pubbliche, disponibili con riguardo al XIII secolo, mostrano che l'area di azione e l'interesse urbanistico si riferiscono, fino a epoca molto avanzata, solo all'ambito della civitas Rivoalti e ai suoi immediati dintorni di rilevanza pubblica, e inizialmente solo per l'emergere di singoli impellenti problemi di circolazione, di sicurezza, di salubrità che si ponevano nelle località più prossime ai luoghi del potere. Le informazioni contenute in un lodo di Pietro Ziani (1215?) (17), che rivelano nel suo solutivo arbitrato tra la gente di S. Giovanni in Bragora (che chiedeva una via et fundamentum verso S. Marco lungo il Canale) e le monache di S. Zaccaria proprietarie della fronte (che non volevano concederla) la data di nascita della futura riva degli Schiavoni, sono ampiamente espressive delle spinte e dei contrasti privati dai quali sono scaturite le prime realizzazioni urbanistiche fondamentali della città nascente; e del resto ad analoghe "preces domini Ducis et Consilij" aderirà nel 1247 - ricavandone il permesso di fabbricazione sospesa sopra la fondamenta - Giovanni Gabriel, proprietario della domus (oggi albergo Gabrielli) e della ripa sul Canale, per consentire che questa "sit et remaneat pro via comunis", rendendo possibile la continuazione dell'allora ristretta fondamenta di 10 piedi (18): fino al luogo in cui pochi anni dopo (1272) Marcio pelliparius avrebbe donato le sue case per la costituzione dell'ospitale Domus Dei (Ca' di Dio) (19), che a sua volta risulta da prima del 1266 collegato con la ripa sancti Blasii, se in quell'anno si pone il problema del riatto del ponte omonimo (20). Né la fortunata possibilità di ricostruire questa istruttiva sequenza di eventi serve a chiudere del tutto - in luoghi così centrali e strategici della nuova città - una incredibile stagione di logiche privatistiche preurbane, se è vero che sulla "ripam sancti Johannis Bragole" nel 1297 il maggior consiglio ripristinava ancora la facoltà "quod pix possit coqui", evidentemente per l'opera di calafati frontisti (21). Analoghe - sia pur misere - sollecitudini urbanistiche, a parità di date, e in genere almeno per la prima metà del Duecento, non sono infatti documentate per i sestieri de ultra canalem, ove si eccettuino alcuni ovvii interventi sul mercato realtino, di cui si parlerà, e le concessioni alla comunità dei pellizarii dislocati a partire dal 1236 al di là del canale Vigano, a S. Eufemia (22), non solo per l'insopportabilità del loro lavoro nella città; costoro saranno addirittura difesi dal maggior consiglio nel 1285 contro le prescrizioni igienico-urbanistiche loro dettate dai giudici super Publicis (23).
In effetti, le prime notizie su due "apositi pro ripis et pro viis publicis et pro viis de canali" sono del 1224, e forniscono notizia di cinque famiglie a Rialto, S. Marina e S. Polo, colpevoli di infrazione edilizia (24). Nel 1227 altri magistrati sono ordinati a vigilare sui lavori privati "in ripa canalis vel viis publicis" (25); l'ufficio di quelli "qui sunt super canalibus", noto dal 1270, è fuso nel 1275 con quello di coloro "qui erant super rivis cavandis et revolvendis" (26), una magistratura di controllo sulle operazioni dei privati sui rivi e piscine della città, che erano malridotti per la secca conseguente alla regressione marina bassomedioevale; per gli stessi motivi, il nuovo ufficio è ulteriormente gravato nel 1276 di compiti più vasti, se i suoi membri dovranno "se intromittere de paludibus" (27), cioè degli immensi spazi lagunarizzati nei quali l'acqua marina arrivava ora con sempre maggior fatica, riponendo lontanissimi dimenticati problemi di proprietà e di diritti: ciò che appare evidente preludio all'istituzione dei giudici del piovego (super Publicis) avvenuta nel 1282 (28), che erediteranno infatti precedenti contenziosi di magistrati ad hoc con battaglieri monasteri quali S. Andrea (1270) e S. Giorgio (1281) (29). Anche questa schematica, e incompleta, rappresentazione dell'incerto iter formativo di grandi e celebri più tarde magistrature sembra significativa della tardiva, controversa, malvoluta genesi di una politica urbanistica in Venezia (30).
Se tale è il ritardo della regolamentazione urbanistica e di quella dei beni e delle funzioni pubbliche, del tutto analoga appare la genesi degli interventi sull'edilizia privata, nella quale il carattere della normazione è, per quel poco che appare, inizialmente del tutto occasionale, o di carattere accentuatamente privatistico. La più antica regolamentazione nota (1227) stabilisce solo che non possono essere aperti cantieri di costruzione sul Canale e sulle vie pubbliche senza autorizzazione degli apositi già citati (31).
Un intervento generale di regolazione delle fronti edilizie, sul limitato percorso della merçarìa, cioè della principalissima "via que vadit de sancto Marco Rivoaltum", avviene solo tra il 1269 e il 1272 (32), in connessione con la sua pavimentazione (sarà "salisata de petra cocta", e diverrà una strata): i frontisti debbono pagare una specie di imposta di miglioria, né potranno continuare a invadere lo spazio della via per più di mezzo piede appendendo ai muri "banchum, balconum, perticam vel rampegonum", o appoggiandoli per terra (1269), e infine dovranno demolire "reveteni et puçoli, qui sunt super domibus", e sostituirli "cum gornis [...> ad modum domorum sancti Georgii", come avevano già fatto cioè le case in Merceria donate ottant'anni prima a quel monastero da Giacomo Ziani, e ricostruite nel 1265-1266 (33). Ma si tratta, appunto, di iniziative eccezionali: altrimenti, fino al 1300, sono documentati solo alcuni interventi per allineamenti di edifici o in casi assai particolari sul Canale.
Fra la metà del XII e la fine del XIII secolo si può dunque datare l'età del decollo creativo dell'edilizia urbana, con progressiva accelerazione di costruzioni e di relazioni fra l'antico nucleo della civitas Rivoalti e i più vasti estensivi insediamenti che configureranno la civitas Veneciarum, e infine Venecia, pur nell'evidente ritardo e nella complessiva carenza di una "cultura della città", nei suoi aspetti di regolamentazione tecnico-edilizia, di progettazione urbanistica e di gestione amministrativa.
Il momento magico di quell'impegno creativo si può cogliere ormai con definita approssimazione nella prima metà del Duecento, quando il sogno del mercante veneziano compie un salto di qualità, diviene sogno imperiale con la conquista di Costantinopoli, e associa nella nuova impresa dell'investimento immobiliare e della rendita edilizia la "domanda di città" delle classi produttive emergenti, la diffusione di massa della costruzione in laterizio, l'amore per la decorazione delle superfici murarie mediante la serializzazione delle precedenti esperienze di pur modesta plastica architettonica e l'uso di ogni sorta di materiale di spoglio prezioso e colorato, ammassato nelle navi provenienti dall'Oriente.
Come è noto, l'area marciana contiene alcune delle più rilevanti testimonianze monumentali arcaiche della città: sono conservate alcune strutture fondamentali o caratteristiche, e altre sono documentate, del castellum bizantino, distinguibili ma non facilmente restituibili nella loro facies originaria; residua e trasformata (arcone con monumento a Manin) è pure un'ala della basilica di S. Teodoro, forse per brevi anni sede episcopale prima di Rivoalto; e all'inizio del quarto decennio del IX secolo appartiene altresì l'attuale cripta della basilica. Il complesso, dalle pur scarse evidenze archeologiche altomedioevali, appare eccezionale almeno sotto l'aspetto della concatenazione dimensionale, anche se non resta traccia della primitiva chiesa di S. Menna, e permangono solo echi toponomastici della probabile fronte fortificata settentrionale dell'area (Cason, corte Torretta, castel Cimeghin) (34).
Se non è possibile determinare in queste fondazioni arcaiche gli elementi qualificanti di un'architettura veneziana, non è nemmeno agevole identificarli nelle radicali operazioni intervenute con la costruzione della basilica (dal 1063 circa) e nelle trasformazioni subite dal castello, a partire dal 1170 circa. Anzitutto, la basilica iniziata dal doge Domenico Contarini subì profonde modifiche esterne nei secoli seguenti, e i palatia impresi dal doge Sebastiano Ziani furono ricostruiti a partire dal 1340 circa. Inoltre, la stessa lettura in profondo delle strutture e della facies originaria di S. Marco, per quanto possibile, rivela una progettualità assai lontana - nel tempo e nello spazio - dai caratteri della cultura costruttiva propri di Venezia 100-150 anni più tardi, mentre analogo esercizio condotto sul palazzo Ducale consente di identificare non più che un modello architettonico. In concreto, solo la facies esterna dell'abside centrale di S. Marco, e alcuni tratti delle facciate della basilica viste durante non recenti campagne di restauro - particolarmente la fronte settentrionale - suggeriscono, la prima con fattura dell'ultimo quarto del secolo XI, i secondi con modi - ritardati in Venezia - propri in particolare della prima metà del XIII, due fasi significative di penetrazione romanica. Ma se la galleria cieca dell'abside, inverando una applicazione decorativa in una parete di particolarissima concezione, poteva essere scarsamente utile ai caratteri dell'edilizia veneziana del Duecento, le archeggiature laterizie su colonnine con capitello a cubo scantonato, rivelate nel 1879 sulla parete nord del nartece settentrionale (35), mostrano invece (come faranno i primi arconi a ogiva sopra l'islamizzante porta dei Fiori) già avvenuto l'ingresso di modi dell'entroterra, probabilmente veronesi. Insieme con la contemporanea impresa di rivestimento della basilica mediante prezioso e ridondante paramento di lastre marmoree, di colonne, capitelli e rilievi provenienti dall'Oriente, e con la creazione degli arconi scolpiti del portale, le commesse veneziane del XIII secolo manifestavano un eclettismo, in parte ingenuo in parte opportunistico, fra culture artistiche assai diverse.
Alla scuola greca Venezia era apparsa inizialmente disposta ad accreditare modelli architettonici di grande spessore storico e di rilevante peso simbolico, nella misura in cui la elaborazione della mitopoiesi di s. Marco, apparentatile al culto degli Apostoli in Costantinopoli e in Efeso, sembrava richiedere altrettanto singolare e collaudata ambientazione spaziale e culturale: fin dall'inizio tuttavia le scelte veneziane si rivelano empiricamente determinate a sacrificare all'economia e alla praticità delle preesistenze - numerose a S. Marco - e del loro riuso, il valore filosofico e aritmetico dei modelli geometrici e della loro rigorosa coerenza speculare. Di più, esse mostrano di apprezzare i canoni estetici della cultura bizantina giustinianea per la loro venerabile tradizione di ascendenza paleocristiana e romana, e i dettami semantici dell'età posticonoclastica per il carico autoritativo che secoli di uso imperiale della basilica dei SS. Apostoli avevano attribuito a quella forma come struttura significante: ma il modo di fruirne veneziano - ancorché mediante la sensibilità religiosa e la volontà politica di un ducato vestito e atteggiato con i simboli costantinopolitani e non ancora aperto ai venti della comunalità italiana - era stato assai lontano dal rigorismo formalistico e dalla passione teologica della corte e del popolo di Bisanzio. Non emerge dunque in S. Marco, nell'indifferenza veneziana per fungibili impieghi, meticciati formali e giustapposizioni di strutture e tipi di diversa origine e significato, una effettiva comprensione di quei moduli prestigiosi, né una ricerca di coerenza fra differenti linguaggi.
Ma tutto ciò è lungi dal costituire la totalità delle premesse culturali, tecniche e formali dalle quali poterono scaturire nel corso del XII secolo, in singolare consonanza con l'affermarsi dell'ordinamento comunale, caratteri specifici del costruire veneziano, saggiato insieme sulla misura urbanistica e sui singoli episodi edilizi. Una serie cospicua di altri edifici, ancora tutti ecclesiastici, integra con significativo sviluppo diacronico e con varianti di non trascurabile aspetto la facies troppo ufficiale e controllata del luogo centrale del potere ducale. Peraltro, il ridottissimo catalogo delle costruzioni conservatesi sostanzialmente immutate è indicativo del destino del primo linguaggio architettonico fiorito nel Ducato: S. Maria Assunta con S. Fosca di Torcello, S. Stefano di Caorle e SS. Maria e Donato di Murano si sono fortunosamente conservate, ancorché variamente restaurate e orbate dei rispettivi battisteri, proprio perché estranee al grande impulso civile ed economico del centro realtino il quale, del tutto paragonabile allora a quei luoghi, stava per entrare in una spirale di sviluppo urbano tale da provocarne nei secoli seguenti la continua autofagia formale, e da cancellare quindi gran parte del volto della nascente civitas Veneciarum. Così, i segni inconfondibili di quel linguaggio, leggibili in pochi esempi degli estuari, appaiono più difficilmente riconoscibili in Venezia, e comunque frammentari e decontestualizzati, in chiese anche più volte ricostruite: a S. Simeone, S. Giovanni Decollato, S. Giacomo dell'Orio, S. Giovanni in Bragora, S. Eufemia, S. Agnese, come nel chiostro di S. Apollonia, e talvolta in resti archeologici massacrati quali S. Nicolò di Lido, S. Zaccaria, S. Lorenzo, S. Maria Assunta di Jesolo, S. Ilario possiamo solo intuire ormai, volta a volta, qualche carattere di quella straordinaria stagione, altrimenti scomparsa soprattutto sotto il piccone ottocentesco, fosse esso in mani francesi, austriache o italiane.
Fino alla fine del XII secolo vennero alzate o ricostruite da Grado a Cavarzere circa 200 chiese, plebane e monastiche: un'ottantina nella diocesi castellana (70 confinia in Venezia), una trentina nell'episcopato torcellano, comprendente Murano, Burano, e le isole dette "contràe" (Ammiana, Costanziaco, ecc.), da dieci a venti mediamente per ciascuna delle altre diocesi: Malamocco (poi Chioggia), Equilo, Cittanova, Caorle, Grado. Se a Venezia la trasformazione e la demolizione hanno spesso ridotto al minimo le testimonianze utili, altrove sono talvolta scomparse non solo le chiese, ma anche gli abitati. La testimonianza degli autori quattro-cinquecenteschi - si legga per tutti Marco Cornaro (1450 circa) - è emozionante: "[...>tuta questa nostra lacuna era tuta piena de molti devoti et sancti monasterii, come se può veder per le cose passate et maxime per la citade de Cità nova apelada Rechiana [Eracliana>, in la qual era infinite chiesie et etiam come se puol veder per la cità de Giesolo [...> la mazor parte de quelle lavorade el salizado de musaico, come al presente è la chiesa de San Marcho, et così etiam Lio Mazor, nel qual era septe dignissime chiese cum dignissime collone di marmoro et alcune lavorate mirabilmente di musaico [...> de le qual chiesie et luochi nominati sono andati a ruina i quatro quinti, in modo che altre sono sta porta via le piere e collone per fina ali fondamenti et altre ruinade in modo che non ce habita persona alcuna [...>" (36).
Anche scontando che molte di queste costruzioni fossero di modeste dimensioni e tipologicamente semplici, difficilmente il piccolo insieme delle sopravvissute, e il pur limitato gruppo di quelle che hanno conservato alcuni aspetti originali, potrebbero rappresentare esaurientemente quel continente scomparso. Perciò, quanto è rimasto appare campione di forte significatività, anche in rapporto all'unicum marciano, ma non rappresenta un ventaglio completo di tipi e di maniere.
È stata altrove tentata una definizione della caratterizzazione tipologica delle chiese veneziane fra il primo e il secondo millennio (37). Pur ammettendo che il progresso degli studi possa determinare integrazioni e revisioni di quel corpus, è probabile che resti preponderante in esso lo schema, estremamente semplice, della pianta a tre navate di basso rapporto fra lunghezza e larghezza a frequente sezione aurea, con porticale esterno in facciata, e con fondo rettilineo, che in alcuni casi poté assumere ab antiquo la specificazione di due o tre absidi inscritte, e che si sviluppò, particolarmente nel XII secolo, verso il tipo ad abside centrale libera, talvolta conservando inscritte le laterali (S. Stefano di Caorle, sec. XI; S. Maria Assunta di Jesolo, in. sec. XII; SS. Maria e Donato di Murano, 1141; forse S. Zaccaria, post 1106), e anche a tre absidi libere (S. Maria Assunta di Torcello, in. sec. XI, SS. Ilario e Benedetto, sec. XI, S. Nicolò di Lido, 1053, S. Salvador, post 1167). Questo progressivo allineamento con i tipi più generalizzati dell'età romanica, partendo da una concezione elementare di fabbrica rettangolare a copertura lignea (solo S. Marco ebbe volte), pur rappresentato da esempi insigni, non ebbe peraltro ampio seguito nella fase del rinnovamento ecclesiastico dei secoli XIII e XIV, preferendosi un allungamento a rettangolo del presbiterio per far luogo a un coro più spazioso, mentre aveva invece parziale sopravvento, con l'ingresso in Venezia degli ordini mendicanti, una cultura gotica di terraferma (S. Maria Gloriosa dei Frari, SS. Giovanni e Paolo, S. Maria dei Servi, S. Stefano, S. Maria dei Carmini, ecc.), imitata anche - ma solo per superficiali stilemi formali, non certo per rifacimento di strutture portanti - da un certo numero di chiese esistenti. Restavano così isolate le poche chiese, quasi sempre di fondazione antichissima, che erano state concepite "alla greca", secondo tipi a croce inscritta a bracci uguali che si affermano in Oriente a partire dal secolo VII (S. Teodoro, S. Paterniano?), le quali sarebbero apparse più volte illusoriamente apparentate, lungo il corso dei secoli, con le forme tardobizantine (S. Fosca di Torcello, S. Geminiano?), con quelle della Rinascenza (S. Giovanni Crisostomo, S. Giovanni Elemosinario, S. Maria Mater Domini), e con i più tardi rifacimenti ad aula dell'età barocca. Nel complesso questi indirizzi tipologici, presenti nell'architettura ecclesiastica veneziana lungo un millennio, sembrerebbero delineare elementarità di strutture e spoglia semplicità di articolazioni spaziali, interrotta volta a volta in età moderna da interventi progettuali di grande spessore culturale. In questo senso l'indubbia importazione del progetto di S. Marco nell'XI secolo (in una stagione che continua, in singolare flessione locale di ispirazione romanica, con le grandi chiese di Murano e di Jesolo - pressoché perduta -, e con le absidi della S. Fosca torcellana) può essere in qualche modo paragonata all'accettazione della prassi architettonica mendicante nel XIV (che viene imitata superficialmente, in muraglie di fattura postesarcale, con rifacimenti quali quelli di S. Giacomo dell'Orio, S. Giovanni Decollato, S. Gregorio, S. Maria della Carità, S. Nicolò dei Mendicoli), o all'assunzione, a partire dalla Rinascenza, di organismi ispirati alla classicità, per mano di Codussi o Sansovino e da Palladio fino a Longhena, senza che un modo di pensare l'architettura, fatto di disegno povero e, semmai, di ricco rivestimento, ne uscisse - soprattutto durante l'età medioevale che qui interessa - sostanzialmente modificato nella prassi d'ogni giorno.
In questo quadro, le chiese quae exstant dei secoli XI-XIII introducono, accanto all'evento marciano, la documentazione di un fare usuale certamente più rispondente al gusto e alla cultura tecnica della società veneziana nella fase della fuoruscita dagli ordinamenti arcaici del Ducato. Negli esempi citati (Murano, Torcello, Jesolo, Caorle) è lo specchio di comunità locali medioevali di lunghe radici spinte fin nel contesto della tarda antichità, cui si congiunsero modalità esecutive e lemmi culturali simili a quelli della pratica dell'entroterra (battistero di Concordia, S. Sofia di Padova, S. Maria di Pomposa, ecc.), mentre perdurava per circa un secolo anche qualche imitazione della tipologia marciana e di altre della contemporaneità bizantina provinciale, cui era connesso approdo sicuro di significati teologici e, più, di intenzionamenti rituali e politici, entro i quali operare peraltro con libertà decorativa e spazio al gusto locale. Quelle basiliche di luoghi sempre più isolati e spesso compromessi da un ambiente divenuto ostile alla vita sono non a caso cattedrali (Murano cercò di esserlo nel 1061-1064, e di fatto fu più tardi residenza del vescovo di Torcello), espressive appunto della continuità di giurisdizione e tradizione con gli antichi municipia e con qualche vicus; e per quanto è possibile leggere nel palinsesto archeologico delle loro origini, i tipi paleocristiani emergono dallo studio e dallo scavo, a Murano, a Torcello, a Jesolo, in reperti del V, VII, X secolo, rivelando nei rifacimenti dell'XI e del XII i due apporti, di ispirazione e di prassi, che misero in forma su tanta tradizione, e spesso sulle medesime fondazioni, l'ultimo e più impegnativo rivivimento. In particolare, l'identificato muro di fondo della S. Maria Assunta torcellana del IX secolo, che dichiara più tarde le conche absidali (38), e le contemporanee mensole del primo modesto porticale ancora piantate nei muri di facciata, forniscono la forma povera e tutta "interna" di un assetto che fu consimile nella S. Maria muranese attestata nel X (ma certo anteriore), e che si ritrova in edizione ancor più arcaica nel livello superiore della basilichetta equilense sottostante alla grande costruzione romanica, impostato all'inizio del VII secolo in età certamente preepiscopale, con forme assai simili a quelle di un'altra vicina chiesa monastica del IX secolo - cui la tradizione conserva il nome di S. Mauro -, ripetute attorno al Mille nella chiesetta monastica di S. Leonardo in Fossa Mala (39), e più tardi nella cappella torcellana dedicata a S. Marco.
Se si escludono gli esempi triabsidati esterni sicuri di iniziativa benedettina presente per secoli nel Ducato, collegati a una cultura sperimentata nell'entroterra (S. Giovanni Evangelista di Torcello, S. Nicolò di Lido, SS. Benedetto e Ilario), queste testimonianze parziali in qualche modo accertate rivelano la generalizzazione di un tipo icnografico usuale, insieme con un passaggio significativo di ispirazione formale quale è evidente talora nei capitelli, sovrapposti spesso a colonne di spoglio. Anzitutto la chiesa periferica di S. Eufemia, fondata in un 'confino' politico del X secolo quale era l'isola di Spinale (chiamata solo alla fine del XIII secolo Zueca, dal verbo zudecar, per i conciatori che vi trovarono sede) (40), documenta la transizione - o la compresenza - dai capitelli di rustica imitazione corinziesca ai capitelli del rinnovato tipo ad acanto-palmetta che fioriranno dal Mille su un'area ancor maggiore dell'arco altoadriatico (41); successivamente la moda di quelle creazioni, che accusano ascendenza culturale bizantina, conquista S. Nicolò di Lido come S. Giovanni Decollato, S. Giacomo di Rialto come S. Pietro di Castello, forse S. Silvestro e S. Barnaba, affermando il suo massimo esito creativo nelle grandi chiese del Ducato, da Murano a Torcello, da Caorle a S. Marco, ove si associa talvolta con il gusto di grandi pulvini niellati a palmetta; infine, interrompendo una linea evolutiva durata almeno due secoli, sopravviene anche nelle chiese del Ducato il capitello di derivazione veronese con particolari eleganti profili di cubo scantonato, spesso foggiato da blocchi di rosso broccatello (chiostro di S. Apollonia, S. Giacomo dell'Orio, S. Giovanni in Bragora), il quale prevarrà rapidamente nell'interno mercato edilizio, soprattutto residenziale.
A questo indicatore altri possono essere aggiunti: elementi di protiro (leoni in marmo rosso nella cappella Zen di S. Marco, da associare ai grifoni posti all'esterno, già membra - progettate, disjecta? - del portale sud della basilica, databili alla seconda metà del XIII secolo; leoni del campanile di S. Polo; protiro, tardo in questo contesto, di S. Maria dei Carmini); portali mistilinei in marmo greco o veronese, talvolta ingentiliti a niello (S. Cassiano, S. Giacomo dell'Orio, ecc., oltre naturalmente a S. Marco); celle di campanili con bifore, trifore o quadrifore laterizie con arco a sesto rialzato e capitelli a stampella (S. Zaccaria, S. Polo, S. Giacomo dell'Orio, S. Samuele, S. Barnaba, S. Nicolò dei Mendicoli, ecc.); bifore con arco laterizio anche a doppia ghiera e capitellino scantonato su facciate e pareti laterali (S. Nicolò dei Mendicoli, S. Polo, S. Fosca di Torcello); archetti su lesene o sequenze a più ordini di nicchie su giri absidali (oltre a S. Marco, Torcello, Murano, Jesolo, documentati - dal de' Barbari e altrimenti - per S. Salvador e S. Polo); elementi plastici di natura decorativa (cornici, croci a bracci patenti scolpite a racemi con la mano del Benedicente, ecc.); decorazioni laterizie a toro, scozia, spicatum, dente di lupo, ecc.
Questi segnali dispersi non consentono da soli una ricostruzione adeguata delle flessioni della lingua plastico-architettonica, ma definiscono tuttavia un suo carattere composito, fra la tradizione paleocristiana, esarcale e postesarcale altoadriatica e la lingua romanica della marca veronese, il quale modula gli accenti costruttivi del suo laterizio e l'articolazione luministica delle sue variazioni di superficie e dei suoi inserti petrinei entro scale dimensionali e schemi progettuali quasi sempre assai modesti e sobri, mantenendosi estraneo alla tentazione imitativa dell'arte aulica quando non dipendesse dallo spoglio delle chiese d'Oriente: non solo per pochezza di mezzi e di capacità di cantiere e di calcolo, ma anche per estraneità agli scopi politici delle fabbriche del potere ducale ed episcopale.
Un esercizio di contestualizzazione dei monumenti ecclesiastici citati (non dimenticando i molti che, scomparsi o trasformati, non possono essere assunti a dignità di fonti) permette di riconoscere nel panorama tracciato significati e giustificazioni complessivi.
Le pievi che sorsero attorno al meandro del rivus altus nel corso dei secoli VIII-X (una quarantina, sulle 70 poi attestate) ebbero caratteri di autonomia nell'ambito di un territorio non ancora urbano, ma si trovarono astrette ciascuna in aree assai piccole: se si valuta in circa 300 ettari il sedime complessivo investito dai loro insediamenti, si conclude per un'area media - ben lungi dall'essere tutta costruita di circa 75.000 metri quadrati per ogni pieve, comprendendo oltre a case, orti, vigne, cantieri, la chiesa e gli spazi pertinenti (campo, cimitero, coltivati), e inoltre rivi, piscine e qualche segmento viario. Poiché il primo e il secondo sinecismo, fra i secoli VIII-IX e XII-XIII, fecero gravitare le fondazioni ecclesiastiche attorno al centro realtino, riducendo il loro territorio ai rialzi, dossi e argini dell'antico fiume e del vicino rivus vicanus, ne derivò per effetto della crescita di popolazione e della fondazione più tarda di molte altre chiese vicine una restrizione generale in ambiti ancor più limitati, ciò che determinò quelle "guerre dei confinia" che sono attestate per secoli, a partire dall'XI, fra S. Salvador e S. Bartolomeo, fra S. Geminiano e S. Giuliano, ecc. Conclusivamente, i diritti delle famiglie fondatrici, l'incremento demografico, l'aumento dei tituli, la restrizione delle aree utili assediate dalle acque, cooperarono a definire un tipo parrocchiale medio di dimensioni minime, a impedire la fusione dei confinia e l'ingrandimento delle chiese (anzi, la creazione di nuovi confinia, con ritaglio privatistico di aree dei vecchi, avvenne ancor spesso nell'XI secolo, e fino al 1156 con S. Matteo di Rialto), e a configurare una cultura urbanistico-architettonica ecclesiastica ripetitiva e per lo più carente di fantasia creativa, affidata alla forse modesta tecnica di mastri locali, che non erano ancora addestrati alle esigenze di una domanda edilizia privata quantitativamente rilevante e qualitativamente raffinata.
Fino alla metà del XII secolo, in effetti, non si ha notizia di imprese ecclesiastiche o civili di rilievo, se si eccettua ovviamente S. Marco. Il campanile viene completato, a partire dal ventiduesimo ponte, solo negli anni attorno al 1152 (42), e la netta distinzione fra lo strato profondo e quello superiore del masso di fondazione, oltre che la scelta di alternanza di lesene a risega orienta a datare la parte inferiore della canna a non molto tempo prima di allora. Il palatium ad jus reddendum e il palatium comunis appartennero nella loro prima versione agli ultimi decenni dello stesso secolo; egualmente dicasi per le prime Procuratie (43).
Anche chiese monastiche importanti come S. Zaccaria e S. Lorenzo, legate alle famiglie più potenti e alle istituzioni stesse, furono ricostruite verso la metà del secolo, comunque dopo l'incendio del 1106 (44), mentre il palatium del patriarca di Grado a S. Silvestro fu elevato fra il 1156 e il 1164 (45). E per quel che la documentazione ci offre (colonna con capitello murata del palatium comunis; colonne e capitelli del chiostro di S. Apollonia e della chiesa - SS. Filippo e Giacomo - dei benedettini dei SS. Felice e Fortunato di Ammiana, che risulta prima del 1153 (46); forse la colonna con capitello semisepolta e quelle della "casa del papa" a S. Silvestro) dobbiamo ritenere che proprio attorno alla metà di quel secolo - quando gli atti attestano il preponderante uso nelle transazioni della moneta di Verona (47) - sia penetrata in Venezia, con trasporto di materiali per la via dell'Adige, anche l'arte dei lapicidi veronesi (48), con forme e operatori addestrati alla lavorazione petrinea, che pochi "taiapiera" veneziani - conclusa la prima stagione costruttiva della basilica - esercitavano invece nell'ambito imitativo degli arredi marciani, anche per riutilizzazione di materiali di spoglio, mentre incrementavano la produzione delle "patere".
Anche la cultura benedettina, presente con un notevole numero di monasteri nel Ducato e anche in Rivoalto non poté molto, fino al XII secolo, nella modificazione di quella realtà. Anzitutto, essa appare fin dalle origini chiaramente legata al potere ducale, ancorché in affermata autonomia dalle giurisdizioni episcopali. Se si guarda all'indicatore dei pavimenti, il monumento più antico (i frammenti musivi di S. Ilario) si associa bene con i relitti del pavimento sepolto di S. Maria Assunta di Torcello, mentre quelli più recenti, e direttamente rappresentativi del XII secolo veneziano (a S. Zaccaria, nei recentissimi ritrovamenti di S. Lorenzo e nei frammenti di sectile rinvenuti a S. Salvador e a Jesolo) (49) sono in tutto conformi (associazione del tessellatum al sectile, tecnica, soggetti) a quelli noti di Torcello, Murano e S. Marco. Di particolare intonazione iconografica potevano sembrare, fino a pochi anni or sono, le campate in tessellato bianco-nero della residua navatella destra di S. Nicolò di Lido, ma lo scavo del 1982 ha messo in luce frammenti policromi della navata centrale con aquile clipeate che richiamano ora il ritrovamento del 1986 di S. Lorenzo e i pavimenti noti, sì che questo piccolo corpus appare omogeneo e legato anche a reperti dell'entroterra (50).
Perfettamente coerente con i mosaici parietali marciani è inoltre il catino musivo dei SS. Cornelio e Cipriano di Murano, cluniacense (1109), ora a Berlino. Dunque, per quanto riguarda l'arte musiva, i monasteri benedettini possono essere stati tramite di conservazione e di circolazione di forme e modi, ma fanno parte fino alla metà del XII secolo di una "koinè" - attestata con sufficiente continuità sincronica e diacronica - della tradizione ravennate generalizzatasi in cultura altoadriatica, che nell'alto medio evo ha conservato una propria specificità con modestissimi sviluppi locali, sia nel Ducato sia nell'entroterra, e usufruiscono per i lavori più impegnativi degli stessi maestri greci chiamati dal potere (51).
Osservata su altri indicatori, quali sono i capitelli, questa cultura offre peraltro indicazioni di significativa evoluzione. Laddove sono presenti fra i monumenti citati essi mostrano che la campana di reinterpretazione classica ad acanto-palmetta era preferita ovunque possibile, sia dalla committenza plebanale, sia dalle catervae monastiche. Anche nei monasteri dell'entroterra è attestato un gusto analogo, il quale si concede peraltro la variazione delle più semplici tipologie a cubo scantonato non appena si tratti di fabbriche non destinate al culto, come si può constatare nel "palazzo della Ragione" di Pomposa e nella Cancelleria degli abati di Sesto al Règhena. Significativo appare perciò l'impiego di questo capitello, in pietra veronese, nelle fabbriche dei SS. Filippo e Giacomo (chiesa, e chiostro di S. Apollonia). L'associazione del materiale e del taglio veronese, a partire dalla metà del XII secolo, con le imprese costruttive dei benedettini e dei cistercensi, può far ritenere, anche per la grande quantità di monasteri di queste due obbedienze nel Ducato, che essi siano stati un tramite significativo di questa penetrazione in Venezia.
Il secolo XII è non solo l'età in cui gli sparsi insediamenti plebani cominciano a giustapporsi in un embrione di città, ma anche quella in cui si configurano quei due nuclei essenziali dell'economia urbana che furono il mercato di Rivoalto e l'Arsenale di Castello. Le due localizzazioni, e più ancora l'esperienza di due costruttività tanto specifiche, determinarono non solo la creazione di due luoghi deputati a scala urbana, accanto all'unico esistente e in via di trasformazione (S. Marco), ma anche un impulso nuovo nella concezione dell'edilizia e della viabilità, e una spinta verso dimensioni maggiori dell'esistente nella progettazione e nell'organizzazione di cantiere: il mercato si sviluppò, e l'Arsenale fu concepito, finalmente come struttura di una città - l'una privata, ma coperta progressivamente dalla disciplina organizzativa pubblica, l'altra statale - nell'alba delle sue opzioni comunali.
Un Rivoaltum forum, datato fra il 942 e il 959 (52), forse come nucleo di mercato non specializzato esercitato nelle stesse proprietates abitative, fu attivo nel secolo X, e probabilmente prima: ma si trovava de citra, non de ultra canalem, fra le chiese di S. Demetrio (poi S. Bartolomeo) e dei SS. Apostoli, presso il luogo dove più tardi (ante 1112) sarà attestata la moneta, ossia la più antica zecca (53). Di là dal fiume si trovava invece quel forum macelli nel quale, estrema ignominia, vennero gettati nel 976 i cadaveri di Pietro Candiano IV e del figlioletto (54). Solo alla metà del secolo seguente (1051) è accertato de ultra un insediamento specifico su aree della famiglia Gradonico (55), cui apparteneva nel 976 quel Giovanni che aveva chiesto la sepoltura cristiana per i due assassinati. La divisione dei beni Gradonico, avvertendo che essi erano da lungo tempo della famiglia, riporta ben dentro il X secolo, attestando la situazione privatistica dei luoghi e la loro lenta evoluzione funzionale, e nomina alcune stationes de becarìa mantenute indivise, e solarii et stationes con fronte sul Canale e lati su calli e su uno scomparso rio di S. Giovanni: analoga la situazione nel 1097, con le stationes - anzi, l'ordinem de stationibus - comprese fra quelle dei Gradonico, che i figli di Stefano Aurio, Tyso e Pietro, "pro congruo honore nostri mercati et totius nostre patrie" donano alla potestà dominicale e a tutto il popolo totius patriae Venetiae (56). L'area si riconobbe nel corso del secolo XII fra il rio di S. Silvestro, ora interrato (sul quale si fronteggiarono il palazzo patriarcale e, ante 1228, il fonticus novus, delle farine) (57), e il rivus Magadessus, in capite Rivoalti, che si chiamerà poi Bellegno e infine "delle beccarie". In quelle vicinanze venne fondata nel 1156 da privati la chiesa di S. Matteo (58), su una minuscola area libera fra il moltiplicarsi delle stationes, facendo seguito alla costruzione della chiesa di S. Giacomo, di diritto ducale, forse ad opera di Domenico Selvo (1071-1084). Se si considera l'età veneranda di alcune chiese non lungi da quest'area - da S. Polo, nel cui campo è tradizione di antichissimo mercato, a S. Cassiano - si avverte che il mercato nuovo non fu sede di arcaica irradiazione urbana del polo ducale marciano, ma, forse inizialmente luogo marginale di macellazione per gli insediamenti de ultra, divenne tardiva modesta espansione dell'economia di Luprio, per cadere successivamente sotto l'attenzione ducale, che con qualche ritardo provvide amministrativamente fino a realizzarne la congiunzione alla Rivoalto originaria mediante il ponte gettato dalla riva della moneta, che notizie di cronaca datano attorno al 1180. L'ammonimento all'onestà della compravendita inciso su una croce e un lungo fregio petrinei sull'abside di S. Giacomo, databile fra la fine dell'XI e l'inizio del XII secolo, dovette dare forma ufficiale all'affermazione del pubblico interesse (59).
Non vi fu, nel X o nell'XI, una previsione o progettazione urbanistica complessiva: maglie antichissime di tracciati agrari si perdevano nel gomito golenale del fiume, e il quadrangolo originario del nuovo mercato, compreso su due lati dal Canale, sulla fronte interna dalla ruga vetere dominata dalla chiesa, e dallo scomparso omonimo rivus sancti Johannis, consentì a un primo proprietario - forse un Gradonico - alcune elementari suddivisioni di appezzamento di 300 3 240 piedi romani acquisite da famiglie nobili, delle quali nel 1097 sono noti gli Aurio, e nel XIII secolo i Dandolo: al di là del rio, in confinio di S. Silvestro, erano i Michiel e i Vidal. Oltre la ruga vetere, detta anche maistra, le tracce delle lineazioni arcaiche provenienti dal confinio di S. Cassiano appaiono ben conservate nella parrocchia di S. Matteo, particolarmente lungo il Canale, e operarono nella suddivisione più antica dei lotti, mantenutisi più a lungo che all'interno come sede di un'edilizia residenziale nobile (Querini, Sanudo, Barozzi, Ziani, Zorzi), con dimensioni spesso identiche di 100 3 240 piedi. Anche questa lottizzazione conosceva soltanto calli private di penetrazione dal Canale, mentre vie di collegamento trasversali fra S. Cassiano e S. Giovanni furono ricavate faticosamente solo più tardi, quando il mercato era maturo ed esteso. Solo all'interno delle grandi proprietà originarie, in effetti, e nella fase della loro riconversione d'uso nel corso dei secoli XIII-XIV, il mercato espresse nuove calli commerciali e rughe - cioè file di botteghe con case in solaio - dalla ruga vetere verso l'interno del confinio di S. Matteo, mentre il comune riusciva appena a valorizzare un sedime demaniale dietro S. Giovanni creando il campo di Rialto Novo (1288) (60), e decideva anno per anno, con occhiuta valutazione della domanda, l'entità degli affitti e le priorità categoriali di assegnazione delle stationes di cui per donazione o per modesta iniziativa era proprietario (61).
Il tipo di edificazione che fu adottato fin dal secolo XI, a prescindere dai baraccamenti lignei che affollarono il quartiere per secoli, fu una struttura coperta assai semplice, aperta su calli già private, o sulla ruga di S. Giovanni, e quindi su altre che la imitarono; sorte spesso isolate, o a gruppi, dovettero essere poi sistematizzate in ordines, con alcune parti solariate: sette-otto piedi di larghezza, per 10-12 di lunghezza, costituivano la superficie di una statio, che poté successivamente ampliarsi sotto il "volto", mediante modesto solaio ligneo.
Evidente la forzatura che strutture siffatte esercitarono sulla concezione della calle come puro e semplice accesso privato alla proprietà e alla casa. Il movimento delle merci dalle rizae gradatae lungo il Canale, le quali poi furono disciplinate e pubblicizzate dal comune (62), dovette indurre una modificazione radicale nella mentalità dei proprietari. Vedendo la calle affollata di gente che sostava ogni tre-quattro metri per dare o per prendere, si apprendeva piacevolmente che essa poteva valere più del terreno o degli edifici cui aveva usualmente dato accesso. La seconda generazione delle fabbriche di Rialto, sperimentata attorno a S. Matteo, vide una massiccia modificazione di destinazioni d'uso, in una fase in cui non si praticavano ancora edifici multipiano: furono spazzate le case di abitazione lignee o petrinee di grandi famiglie che si alzavano fra ortaglie e terre vacue con bassissimo indice di fabbricazione fino al rivus Magadessus e al rivus sancti Silvestri. Successivamente, la nuova utilizzazione traboccò oltre quei rivi in S. Aponal e in S. Cassiano, provocando da una parte la creazione ex novo di una calle pubblica di 7 piedi laterale alla chiesa (1226) e di un ponte (1228) per unire alla ruga quelle località di nuovo investimento, già marginali al mercato di S. Polo, e dall'altra un consorzio dei proprietari lungo il Canale verso S. Cassiano, per offrire ai mercanti di vino riminesi l'uso delle proprie ripae, con creazione di ponti (1303) (63), esaltando così il valore delle botteghe della zona, che aveva il suo asse nell'attuale calle dei Botteri. La moda edilizia di casae maiores, domus a statio, e simili, che stava imponendosi in tutta la città nascente, si fermò a Rialto, ove nel 1197 si potevano ancora dividere sul Canale (famiglia Sanudo) peciae de terra della rispettabile dimensione di 40 3 210 piedi veneti (pari a oltre 1000 m2) (64), e arretrò con donazioni a religiosi (Ziani, 1205 e 1228) e vendite al comune (Vidal, Corner, "domus maior", ante 1265) di proprietates analoghe (65), convertendo antiche residenze nobili in fiorenti attività commerciali, finché, unica fra i rari esempi ormai rimasti nel luogo, la "Ca' mazor" dei Querini traditori, proprio in capite Rivoalti, veniva confiscata e in gran parte abbattuta dal comune dopo la disfatta del complotto di Bajamonte Tiepolo (1310)(66).
In conclusione, il mercato crebbe e si sviluppò per forza intrinseca dei suoi operatori - cioè della vecchia e nuova nobiltà mercantile nell'età della sua massima fortuna marittima - i quali, in un'area in parte inospitale e già disprezzata da quelli de citra siccome estranea alla prima civitas, praticarono finalmente l'investimento finanziario e lo scambio merceologico, privilegiandoli rispetto alle antiche cure per i possessi nel Ducato e in terraferma, trasferendo per la prima volta su una possibilità e un'idea urbana i loro ingenti capitali. Una dimensione diversa si profilava così mentre gli sparsi insediamenti si giustapponevano e unificavano: una scala operativa che da Castello ai Mendicoli appariva superiore a quanto si poteva vedere contemporaneamente in Europa, senza che per decenni il comune nascente sapesse o volesse elaborare regole, definire piani e imporre magistrature stabili e adeguate, capaci di governare quel magma ribollente di affari e valori, di comportamenti e relazioni. Per quel che qui interessa, i Veneziani compresero con qualche ritardo che le strade, in una città, non servono tanto per entrare in casa, chiudendola a chiave, quanto per uscirne, per entrare in relazione con i vicini. Il mercato rivoaltino insegnò che piccoli locali terreni, non seminascosti in singole proprietates, ma proprio allineati concorrenzialmente in ordines e rugae, non erano fonte di guadagno solo negli empori oltremare, bizantini o islamici che fossero, ma potevano costituire anche in patria formidabile investimento e fonte di rendita perenne, perché il loro insieme era moltiplicatore incessante di opportunità e di attrazione per mercanti e operatori forestieri. Si può fissare negli ultimi decenni del XII secolo il decollo di quella struttura, e l'inizio dell'estensione a tutto il sedime preurbano dell'impulso a una nuova edilizia effettivamente urbana: nel Duecento fra S. Giovanni, S. Cassiano e S. Polo si costituisce una sequenza di rugae, mentre l'itinerario fra S. Bartolomeo e S. Marco diviene una continua merçarìa. Segmenti di calli private si congiungono, si gettano ponti, si comincia a colmare qualche rivo (e molte piscine). Ora si può parlare di città.
Non dimenticando peraltro l'Arsenale di Castello. A parità di date, l'arsena comunis comporta una diretta iniziativa di stato, pur in presenza di scali e cantieri privati senza i quali una marineria veneziana non sarebbe mai nata; un intervento che, conoscendo l'esperienza progettuale e operativa degli squeri (67), non si limita a volgerla a grande scala, con finalità di allestimento puramente navale, ma la integra su una dimensione specificamente militare (armi, macchine ossidionali, strumentazioni), ed entro una tradizione tipologica castrense che era propria di Costantinopoli e dell'antico impero.
La fonte più antica del nome è tanto autorevole da fugare tutte le interpretazioni offerte del toponimo veneziano: negli elenchi di kástra giustinianei del De Aedificiis di Procopio si legge infatti di un kástron Ársena presente in Adriatico mentre un'iscrizione greca dà notizia di un megalótaton Arsenálen costruito da Teofilo (829-842) in Costantinopoli (68). L'imitazione non fu solo veneziana ma, prima ancora, degli Arabi omayyadi e fatimiti, ed è probabile che essi, più che l'Impero bizantino in età macedone, abbiano diffuso il termine, più o meno arabizzato, e il modello in tutto il Mediterraneo. Qui la questione è proposta soprattutto perché essa qualifica in senso nettamente militare un tipo di insediamento che poté essere inizialmente (il Neórion costantinopolitano di cui parla Zosimo) (69) puramente cantieristico. Area dunque industriale di tecnologia navale, con specificazioni militari e tipologia castrense, l'Arsenale veneziano fu collocato sull'incrocio di assi agrari antichissimi, come mostra il suo rapporto con l'agger sancti Danielis, un argine rilevato lungo centinaia di metri, evidenziato in carte del 1289 e 1325 (70), rappresentato nella pianta di Paolino da Venezia, e sopravvissuto fino all'unificazione delle darsene nuova e nuovissima del 1875-1880. Le sue dimensioni originarie (piedi romani 480 3 600) attestano una concezione classica delle proporzioni, quale si ritrova nelle chiese medioevali veneziane, con torri agli angoli e sull'ingresso che sono tipiche dei kástra bizantini; la sua articolazione interna, con il bacino acqueo posto fra due file di scali coperti (necessari per l'impianto, la costruzione, e - se sull'acqua - l'armamento delle navi), e servito da un ingresso acqueo fortificato conducente al Canale mediante un rivo di penetrazione (71), conserva la più chiara praticità della concezione castrense, tanto più giustificata in quanto la sua ubicazione all'estremo orientale della città lo costituiva anche come antemurale difensivo contro eventuali assalti e scorribande provenienti dal mare, che non erano mancati. Anche la catastrofica esperienza degli incendi del secolo XII, a cominciare dai due del gennaio e aprile 1106, poté risultare decisiva per la localizzazione, che risultava sopravvento rispetto all'area urbana, in un sito, infine, dove potevano sussistere resti castrensi, se ha un significato il nome che verrà esteso più tardi all'intero sestiere, e se si bada all'atto di donazione ai cistercensi del 1138, riguardante "ecclesiam sancti Danielis positam in castello ex altera ripa nostri episcopatus", il quale comprende "monumenta que modo ibi sunt vel in antea fuerint" (72).
Un ambiente degradato, dunque (con un lacus, e due molendina), ma probabilmente significato da un passato ancora evidente, e comunque di rilevanti qualità logistiche. Nonostante ciò, il carattere della fabbricazione non poté essere all'inizio che dei più umili, ed ebbe forse per materiale prevalente il legno. I tronchi cominciarono a scendere per via fluviale fin dal Cadore lungo antichi tragitti: i primi "tezoni" furono strutture assai semplici, coperture - da cui appunto il nome, dal latino tego - poggianti su sostegni o pilastri, a imitazione di tipi più solidi e complessi quali poterono esser visti nei porti orientali. Questo carattere, di copertura di scali del cantiere dimensionati sulle navi da costruire o riparare, e della loro circuitazione con la struttura difensiva di un murus (che ci è pervenuto merlato in forme prototrecentesche) fu certo qualificante: ancor prima della fine del XIII secolo due decisioni del maggior consiglio ricordano l'obbligo fatto a Candia e a Corone di "facere fieri unum arsanatum, in quo sub cohoperta possint salvari et teneri galeam et aliud navilium", e di proteggerlo con un murus (73). Il muro veneziano, del 1329 in un tratto del fianco occidentale, sul rio delle gorne (74), e di poco più tardo lungo l'agger sancti Danielis a delimitare da nord il grande ampliamento ottenuto nel 1325 (75), è struttura forte, tessuta con i nuovi grossi mattoni "gotici" fabbricati in loco, presso la chiesa di S. Biagio, da almeno una delle due fornaci costruite ad hoc nel 1327 (76). Di essa, demolita nel 1798, furono conservati da G. Casoni piante e disegni (77), con i quali si restituisce una facies forse assimilabile a quella delle fabbriche arsenalizie contemporanee, che occuparono, con le prime Corderie (primissimi anni del Trecento) (78), i margini del lacus sancti Danielis. Del resto, quella struttura ben si accoppia con i granai di Terranova, che saranno costruiti a partire dal 1341 (79), in forme ben diverse da quelle del contemporaneo palatium comunis, ma richiamanti - per le grandi muraglie merlate (unificanti con altissimi arconi a ogiva i retrostanti "saloni") - i granai di S. Biagio, già salaria (ante 1323), e i granai e salaria della puncta Trinitatis (Dogana "da mar" post 1324), oltre che il "fondaco del Megio", da identificare con un riadattamento delle domos salis communis, anteriori al 1321 (80). Alla luce di questi esiti, appare evidente il contributo che il primo arsena con le sue elementari strutture, e i suoi ampliamenti prototrecenteschi con le nuove fabbriche di ancor nota tipologia "basilicale" ma di scala ingigantita, dovettero offrire prima alla maturazione dell'edilizia duecentesca, poi alla fase di transizione verso l'architettura gotica, in uno con il nuovo che le fabbriche degli ordini mendicanti cominciavano a introdurre nella città.
In S. Marco, già civitas Rivoalti, nel mercato nuovo de ultra, e nell'arsena comunis oltre che in chiese, torri e campanili sparsi per largo raggio, furono dunque impressi i caratteri e i modus operandi che la cultura urbanistico-edilizia della nascente civitas Veneciarum poteva elaborare fra il XII e il XIII secolo: se di essi è rimasto spesso ben poco, sì che la loro lettura può essere talvolta condotta quasi per calco, ciò è dovuto naturalmente alle trasformazioni quasi dovunque intervenute. Fortunatamente, su un universo di oggetti architettonici - e sulle loro articolazioni urbanistiche - assai più vasto e diffuso, quello dell'edilizia abitativa, lo studio può fruire di condizioni abbastanza differenti, e l'analisi potrà essere condotta nelle pagine che seguono assai più in profondità. Peraltro, gli esempi disponibili sono costituiti in gran parte da edifici residenziali della classe mercantile di antica o nuova nobiltà, mentre sono pressoché scomparse o irriconoscibilmente trasformate le abitazioni più modeste, le strutture seriali, le costruzioni lignee, che costituivano in quell'epoca, assai più di oggi, il tessuto connettivo neourbano.
La caratterizzazione preurbana del secolo XI aveva favorito la conservazione di logiche agricole, e di un'autarchia che concentrava negli appezzamenti, ancora abbastanza vasti, ogni funzione residenziale di produzione e di servizio. Se Domenico Justo vende al genero Domenico Gelso e a Giovanni Gelso nel 1130 la metà della sua proprietas terrae et casae petrineae a S. Ternita, in cui risiedeva, si precisa che essa comprende metà della vigna, dell'orto, della piscaria, del pozzo e del forno e delle relative calli (81). Analogamente, la terra con casa petrinea a S. Giuliano donata dal giudice Andrea Michiel al figlio Marino nel 1115 comprende un solario petrineo super ripam, edifici lignei e petrinei, l'orto, la cavanna, il forno (82). E così a S. Tomà, nel 1121, Marino Bonoaldo divide con il cognato Domenico Regini la proprietà di terra e casa, con pozzo, forno, calle, l'affaccio e il passaggio nella "piscina quae est inter me et te" (83). Queste condizioni erano proprie anche delle proprietà più rilevanti, come quella data in garanzia di un prestito di 3.000 lire di denari veneti a S. Giuliano da Marino Roybulo ai suoi fratelli nel 1145 (84). Facile immaginare la caratterizzazione fondiaria di proprietà minori, più periferiche, non fabbricate, o con modestissime costruzioni lignee.
Ma frequentissimi appaiono anche nella seconda metà del secolo XII i casi di peciae de terra contrattate o donate o divise, che sono vacuae, e addirittura lo ridiventano, ovvero ospitano povere baracche; le proprietà sono ancora spesso soggette a contratti enfiteutici (libellum) con la terra partim culta partim disculta, e non a caso qualcuno ricorda di averla meliorata durante il contratto (S. Zaccaria, 1086) (85). Il diritto e la sicurezza di orti e vigne, frequenti anche lungo il Canale (S. Moisè, 1144), prevalgono su quelli delle abitazioni (S. Salvador, 1153) (86); e l'atto di trasmissione del bene lascia spesso intendere che è la terra, come fondo produttivo primario, quella che interessa, ben più di quel che vi è stato o vi sarà costruito, tanto che non mancano gli esempi in cui chi la concede s'impegna a demolire la costruzione esistente, pur abitata, e si garantisce a sua volta con l'impegno assunto dal locatario di toglier di mezzo la fabbrica che fosse stata eretta sul fondo, in caso di rescissione o restituzione (S. Maria Formosa, 1188) (87). Contratti siffatti, pro terratico et ficto, stipulati per esempio fra la chiesa di S. Maria Formosa e la ben nota famiglia Vitturi alla fine del secolo XII nel centro della città, non certo per costruirvi una baracca, sarebbero incredibili se non facessero parte integrante di un contesto economico, di una cultura dell'insediamento, e di una struttura urbana ancor del tutto particolari.
Sulle dimensioni medie dei fondi passati di mano nel corso del secolo non vi sono certezze. È certo che si donano, compravendono, scambiano, danno in garanzia già spesso ritagli di terra di 15, 20, 30 piedi di lato, pari a 25, 36, 80 m2, attestanti disponibilità modeste, crescita notevole di popolazione, e il manifestarsi di una scala costruttiva anche minima (mentre conosciamo ben pochi edifici solariati, cioè con due o più piani, compreso il piano terra), di domucellae spesso senza muro e senza coppi, in condizioni miserrime, al servizio di una residenza isolata, che costituisce per certo anche luogo di produzione artigianale. Nella maggior parte gli atti di questo periodo si riferiscono peraltro ad appezzamenti di una certa consistenza, o decisamente rilevanti. Sono state già ricordate le ampie dimensioni delle proprietà di grandi famiglie nell'area del nuovo mercato. Sull'altra riva, a S. Luca, grandi peciae erano possedute dai Dandolo, e assai estese furono dovunque le proprietà degli Ziani.
La forma dei fondi, sia che aderiscano alla lenta sinuosità del Canale, sia che originino da antichi limites agrari (per esempio alcune proprietà in Luprio, da S. Stae a S. Maria Mater Domini a S. Cassiano), sia che vengano ritagliati da grandi possessioni arcaiche (si pensi alle aree urbanizzate ai margini del lacus Badovariorum, fra S. Croce, S. Stin, S. Tomà, S. Pantalon, S. Simeone, SS. Simone e Giuda, S. Giacomo dell'Orio) (88), è, fin che risulta possibile, il rettangolo, più o meno adattato alle situazioni fisiche (proprietà confinanti, chiese con il loro campus, rivi, piscine). In questa forma primaria, a scala adeguata, una fronte è sempre servita dal Canale, o da un rivus: l'occupazione edilizia dello spazio è all'inizio assai modesta, con le ortaglie alle spalle, insieme con una curtis, uno o due calles sui lati lunghi, una ripa in facciata. Naturalmente, quando si passa da un'utilizzazione estensiva a una intensiva si manifestano variazioni e complessificazioni, indotte dalla necessità di raggiungere il fondo mediante calli comuni, dall'estensione dei servizi, da obblighi e servitù conseguenti (diritto di fabbricazione sulle calli solo su trabes et modiliones dall'altezza di 8-9 piedi in su, concessione di luminaria [finestre> ferrata sul vicino, arretramenti, callicelli de grondalibus larghi uno o due piedi, ecc.). Soprattutto la divisione delle proprietà (che risulta solo planimetrica negli atti per quasi tutto il secolo XIII, in relazione con il limitato sviluppo in altezza comprendente un unico solaio) configurerà forme obbligate diverse, determinate dal differente valore delle fronti, dal congiungimento di spezzoni di calli, dall'utilizzazione di ritagli e prominenze anche minuscoli (requinae). Alla fine del processo, quando lo sfruttamento del suolo urbano raggiungerà gli ultimi frammenti di terra vacua, fra confinium e confinium, fra proprietas e proprietas, le forme dei fondi, e quindi dell'edilizia, risulteranno anche imprevedibilmente varie, in apparenza capricciose: ma sarà questa una fenomenologia pressoché esclusiva del XIV secolo, e oltre.
Come nelle città dell'entroterra, la delimitazione delle proprietates e degli edifici avvenne in questa età a Venezia per mezzo di pilastri collocati, se non su tutti, almeno sugli angoli più contestabili. Quest'uso discendeva dalla tradizione operativa dei mensores antichi, conservata dai "pertegadori" veneziani, i quali lavoravano appunto con una pertica decempeda, talvolta con una corda (restaria) per le operazioni di tracciamento, picchettamento, misurazione, e infine terminatio o designatio dei fondi, mediante infissione di termini angolari di pietra (S. Stin, 1038; S. Moisè, 1191) destinati a divenire pilastri nei casi di costruzioni più impegnative, quando vengono chiamati anche cantones (89). Il terminus è sacralizzato, nella pratica, secondo la tradizione romana, e tale significazione, deterrente contro ogni tentativo di spostamento fraudolento a proprio vantaggio, è concretata nell'incisione di una o tre o più croci: alcuni edifici appaiono ancor oggi delimitati da pilastri angolari siffatti, talvolta in trachite euganea o in pietra di Aurisina, più spesso in pietra d'Istria. La pratica si affievolì e scomparve forse nel corso del XV secolo, quando, non essendoci più terra vacua, la funzione del termine venne meno.
Una specificità basilare del costruire veneziano è relativa alle fondazioni: in nessuna città, come a Venezia, essa fu così decisiva per il buon fine dell'operazione edilizia. Ma in antico non era stato sempre così. Il muro interno del porticato del palazzo Ducale fronteggiante la Piazzetta, per esempio, che deve essere identificato con il murus occidentale del castellum bizantino, è immerso ora per ben m 2,70 circa sotto il livello del terreno, ma non ha fondazione (90); analogamente, la struttura a sassaia di un soprastante grosso muro in "altinelle", scoperta da G. Casoni sotto l'abside di S. Maria delle Vergini nel 1822, e databile al secolo XI, non aveva sostegni lignei (91); e il masso di fondazione del campanile di S. Marco, attribuibile al X secolo, risultava poggiare su gracilissimi pali di ontano, olmo e rovere, non più lunghi di m 1,50 (92). Questi esempi monumentali mostrano che il problema della fondazione su terreni molli, seppur risolto a Venezia - come del resto altrove - con sistemi di palafitte sottostanti a zatterone ligneo, non fu sempre presente, nemmeno per le costruzioni più rilevanti: esso si impose fra i secoli XI e XII, in connessione con l'ultima e più alta trasgressione marina del medio evo, che indebolì strati di terreno precedentemente asciutti. Così, la pratica del rassodamento del terreno e la tecnica di fondazione divennero tutt'uno con la cultura edilizia nella fase di passaggio fra l'età degli insediamenti lignei e quella della città di laterizio e di pietra. I materiali rilevati in un certo numero di fondazioni antiche sono abbastanza diversi: quercia, larice, ontano, olmo, abete vennero egualmente utilizzati, ad esprimere forse sia inesperienza iniziale sia opportunità diverse di approvvigionamento. Più tardi, le palificate preferiranno il larice. I tronchi, dopo lo spoglio delle pinete litoranee e di qualche bosco del Ducato, provenivano per la via fluviale del Piave dalle silvae della terraferma e soprattutto dal Cadore (1223, 1227) (93), e venivano raccolti a seccare, oltre che nell'Arsenale (le essenze utili alla cantieristica), in Barbaria delle Tole (1284) e alle Zattere (1325) (94).
Sopra i pali infissi e gli zatteroni di madrieri incrociati, con varia penetrazione e potenza secondo le previsioni - all'inizio modeste - di elevazione, le fabbriche del XII secolo e seguenti utilizzarono un altro materiale non locale, quello lapideo, i cui rifornimenti non poterono venire che da cave esterne al Ducato, o dal riuso. Dalla "cava" della vicina città romana distrutta - peraltro non priva di una sua residua minimale sussistenza, in due centri detti Altino maiore e Altino pitulo, fino almeno al XII secolo (95) - si trassero soprattutto massi squadrati, e talvolta monumentali e inscritti, di trachite e d'aurisina, e laterizi pedali e sesquipedali (cm 29,5 3 29,5 e 29,5 3 44); assai rare, invece, risultano le cosiddette "altinelle" originali, mattoncini di età romana di cm 15 3 7,5 3 4: le altinelle impiegate in grande abbondanza a Venezia, spesso con particolari disposizioni di corsi di lista e di taglio (96), sono invece produzione imitativa dei secoli XII-XIII di fornaci veneziane e della terraferma vicina - per esempio, quella di Tombello (Altobello) -, con dimensioni diverse, ispirate dall'unità di misura veneta (cm 18 3 9 3 4,5). Se il pezzame lapideo disponibile servì soprattutto per le fondazioni e per alcune fondamentali profilature (soglie, pilastri, ecc.) l'altinella nuova fu senza dubbio il materiale principale dell'edilizia urbana, quando i catastrofici incendi avvenuti fra il 1106 e il 1167, conseguenti al ravvicinamento delle costruzioni lignee coperte di paglia - simili a qualche residuo "casone" di valle - o al massimo di scandole lignee, dettero un impulso decisivo a una fabbricazione più sicura: anche se le buone argille non abbondavano in superficie a Venezia. La prima fornace nota, presso la chiesa di S. Gregorio, operante ab antiquo, utilizzava il caranto del Dorsum durum; nel 1197 essa pagava il terratico al monastero, proprietario dell'area, in 12.000 coppi all'anno (97). Una seconda, pure a S. Gregorio, sul rio della Fornace e canale Vigano, è nota nel 1292 (ivi anche una calle della Crea) (98); una terza fu installata nel 1233 ai SS. Apostoli (99), ed è forse identificabile con altra di G. Loredan nota nel 1331 a S. Canciano; una quarta, voluta dai procuratori pro laboreriis sancti Marci nel 1271, forse per la fronte sud, non si sa dove fosse (100); due verranno deliberate dal maggior consiglio nel 1327 (una dietro la chiesa di S. Biagio, già ricordata) per provvedere alle nuove muraglie dell'Arsenale (101); un'altra è segnalata fra il 1291 e il 1390 a S. Pantaleone, dietro Castelforte (102). Coparii e fornesarii dunque non mancarono, e i loro capitolari datano dal 1222 e1229 (103).
Ma sono numerosi gli atti, seppur relativamente tardi, che documentano importazioni dal Trevigiano e Mestrino, dal Chioggiotto, dal Padovano, dal Ferrarese, dal Cenedese, dall'Istria. I severi interventi del XIII-XIV secolo per disciplinare un mercato di offerta scarsa, difettosa, cara e spesso discriminata concordano con il carattere povero e diseguale osservabile nei tessuti murari, specie quando vi manca l'ottima altinella (104). Del resto durano a lungo associazioni fortunose e incoerenti, quali i tetti di scandole associati a muri (S. Marco, 1161) e fabbriche lignee coperte con coppi (S. Maria Jubanico, 1199) (105); la carenza di coperture in cotto in certi momenti fu tale, che la cupola di S. Salvador, decorata a mosaico a mezzo il XIII secolo, ebbe i coppi solo nel 1365, "cum primo esset cooperta palleis" (106). Le altinelle, note allora come lapides coctae ad mensuram parvam, dominano fino alla fine del XIII, sono prodotte e impiegate anche nel XIV, con controllo sul prezzo (15-18 grossi al migliaio), esercitato anche per le lapides coctae ad mensuram magnam (i grossi mattoni gotici, in genere di cm 26 3 13 3 7/8, che costavano cinque lire di piccoli al migliaio) (107).
Nell'elevarsi della costruzione de muro divennero indispensabili conci petrinei di buona qualità, e la perizia di numerosi operatori. Inizialmente il riuso fu pratica comune: il pezzame posto a base delle muraglie di S. Maria Assunta di Torcello o della torre rotonda di S. Elena di Tessera, i relitti adoperati per le delicate decorazioni absidali di Murano e per parti allora a vista di S. Marco, accertano pratiche comuni a tutto l'Occidente romanico. Ma più tardi, anche per il venir meno di materiali di spoglio quale la "petra, que habemus in Equilo" di Giustiniano Particiaco nell'829 (108), il problema di materiale di nuovo taglio divenne pressante, mentre la pratica del riuso slittò sui marmi di pregio per rivestimenti, e su elementi di scultura architettonica da impiegare come tali, di cui ci si forniva in Oriente. Si può ascrivere alla fine del XII secolo l'emergere di questi bisogni adulti: se in qualche fabbrica ecclesiastica precedente è chiara l'opzione ormai matura dell'associazione laterizio-pietra bianca per la tessitura muraria e la sua plastica architettonica, occorre ricordare che si tratta di tituli di singolare pregio e importanza. Per esempio, l'esame delle vere da pozzo databili al IX-XIII secolo mostra che quasi mai esse erano scolpite in pietra d'Istria, mentre dominante appare l'aurisina, e frequenti i marmi greci di riuso e i calcari veronesi, bianchi, rosati e broccati (109). Solo il primo capitolare dei lapicidi, stabilito nel 1307, cita - ed esclusivamente - le lapides "de Pola, de Parencio vel de Ruigno" (110): non a caso, qualche anno dopo l'acquisizione definitiva dell'Istria. Nelle aggiunte del 1311 e 1313 di quel medesimo capitolare è riferimento pressante, e infine cogente, a escludere l'importazione e la lavorazione della pietra istriana detta "de man blancha", evidentemente finallora usata, e la licenza a usare "piere de Pola de man forte" (111), mentre precedentemente la norma vietava di "miscere lapides unius generis vel naturae cum lapidibus alterius naturae in uno eodemque laborerio" (112): con quest'ultima qualità, meno pregiata e più resistente, si tagliarono così "piane de fenestre e de balconi, e coverchi de arche, e colonelle, scaffe, piane de pozuoli e de sale, grondalli, gorne e condutti" (113). Con questo ventaglio produttivo, la cui ampiezza è qui solo indicativa, Venezia chiudeva, per quanto riguarda i materiali, la sua stagione romanica, e si apriva, nell'imitazione non più trattenuta dei preziosismi cromatici dei rivestimenti marciani, alla nuova avventura formale dell'età gotica.
Si è già detto della forma dei fondi: anche l'icnografia di una domus a statio cum segentibus, cioè di una casa della nobiltà mercantile fra la fine del XII e il XIII secolo, è assai semplice. Le dimensioni usuali, riconoscibili in un certo numero di esempi, equivalgono a m 17,80 3 26,60 (= piedi romani 60 3 90), con le varianti connesse a ricomprensione nella larghezza di due, una o mezza calli laterali; in qualche caso essa poté misurare all'inizio 60 3 60 piedi romani. Quelle misure sono le più ricorrenti nelle chiese veneziane più antiche. Modificandosi l'unità di misura (ciò che avvenne lungo un notevole arco di tempo fra l'XI e il XIII (114), generalmente prima per le misure fondiarie, poi per quelle edilizie, infine per la scultura architettonica), gli appezzamenti assunsero spesso un modulo di 50 3 75 piedi veneti, che corrisponde grosso modo alle dimensioni precedenti (m 17,30 circa 3 26,10 circa), o di 70 3 100, o simili. I muri esterni degli edifici più antichi misurarono due piedi romani di spessore (cm 59), raramente due e mezzo (cm 74), i quali diverranno più tardi un piede veneto e mezzo (cm 52), con rari esempi di due (cm 69,5), affermando comunque una tendenza di progressivo snellimento.
L'edificio petrineo originario imita, con grande evidenza, la fabbrica ecclesiastica, così come era stata tramandata dalla tradizione tardoesarcale: un rettangolo, con i lati brevi rispettivamente su Canale, rivus o piscina, e sulla curtis, o curia, diviso longitudinalmente in tre "navi". Quella centrale, che è leggermente più larga delle laterali, e attraversa l'intero edificio, è detta per lo più al piano terra anditus, o andedo, o androna, e al piano superiore porticus: ai suoi lati, la fabbrica si suddivide in camere, comunicanti fra loro e col portego, denominate hospicia, cui corrispondono al piano terra dei magazzini, i quali negli esempi più tardi e complessi distinguono nella parte superiore degli ammezzati. Si deve notare subito che nel concetto di porticus è insito un possibile equivoco, poiché esso è in origine il piano terra del corpo di fabbrica che viene aggiunto trasversalmente in facciata, e copre tutta la larghezza dell'edificio, sostenendo al primo piano una laubia (loggia), pure continua. Si vedrà infra l'evoluzione relativa.
Le coperture dei solai (solaria) sono realizzate con travi tese fra i muri esterni e quelli interni longitudinali, fatta eccezione per il corpo aggiunto di porticus e laubia, che risulta coperto con travi perpendicolari alla fronte, assai corte perché l'ambiente non è mai più profondo di 16 o 20 piedi, proprio come il porticale di facciata delle chiese veneziane. Nei secoli XI e XII non mancano esempi documentati di volta, in alternativa al solarium per la copertura del piano terra, probabile imitazione anch'essa del sistema di copertura della cripta di una chiesa di età romanica: un sistema di sostegni a volta, che i rari esempi ancora visibili specificano a botte, era concepibile nelle fasi costruttive arcaiche, quando le fondazioni non poggiavano sempre su palificate, e le strutture murarie erano assai grosse. Con la trasgressione marina del XII secolo la pratica scomparve rapidamente e si generalizzò il più elastico modello "a gabbia" con solaria lignei - sui quali si stese il terracium (il terrazzo) - sovrapposti alle trabes incastrate nelle pareti; le quali diminuivano di spessore avvalendosi talvolta di qualche arco di scarico, e più spesso di travi (tressa, rema) inserite nel tessuto laterizio: il tutto ripete per più aspetti la pratica delle "catene" lignee, che ingabbiano fra navate e colonne molte chiese veneziane.
Diversificati erano gli accessi. Davanti alla facciata erano lo junctorium (uno spazio di approdo) "ad naves jungendas" (115) e una ripa gradata, e spesso una cavanna che, per un arco aperto sull'acqua, introduceva un'imbarcazione in casa. Nel Duecento avanzato, nel Trecento e oltre, il forte abbassamento del livello marino, lasciando emergere una splaza sul Canale (o una hora sul rivo), costrinse i proprietari a costruire pontili lignei avanzati ("peneli"), che al tempo di Marco Cornaro (1460 circa) avanzavano per ben 10-12 metri verso il centro del Canale, al fine di consentire l'approdo (116): forse questa circostanza non fu estranea alla scomparsa del porticus, come si vedrà. Gli ingressi (introitus et exitus) oltre che dall'acqua erano permessi da terra, mediante le calli di pertinenza, laterali o posteriori.
Fin dal XII secolo sono documentate soluzioni anche avanzate per le condutture dispersive. In facciata, sul Canale o rivo, era la jaglacio, sbocco di una canalizzazione di scarico della proprietà, forse inizialmente a cielo aperto, talvolta con la transjaglacio, raramente specificata (S. Provolo, 1193) in forma di "arcusvolutos subterraneos pro gestatoria necessitate" (117); più in vista, nei casi migliori riparata da un assito, era la latrina (o sedile, comodum, necessarium), sistemata direttamente sul Canale in capo alla calle laterale di proprietà. Il rifornimento d'acqua avveniva mediante il putheus ("et putheale adque vera sua", S. Stin, 1038) (118), collocato necessariamente nella corte scoperta, ove le spungiae sabbiose sotterranee, predisposte entro pareti di creta, e alimentate mediante pilelae (lastre di pietra perforate) dalla pioggia, conducevano l'acqua filtrata dalla sabbia nella canna del pozzo. Ma forse già prima del Quattrocento, per ovviare alla utilizzazione edilizia di molte corti e terrae vacuae, si utilizzeranno come bacini di raccolta pluviale le gronde, dalle quali, mediante "canoni da aqua" in laterizio immersi nel muro, l'acqua raggiungerà le "sponze" costruite anche sotto gli edifici, permettendo lo sviluppo del sistema dei pozzi interni alla casa (119).
La distribuzione interna era semplice e funzionale: la domus in solario è destinata ad abitazione, l'inferiore (pedeplana) a funzioni commerciali, di deposito, amministrative, che assunsero il nome, di origine araba, di fonticus, funtega (120); la parte posteriore della proprietas, grosso modo quadrangolare, vera e propria riproposizione della pars rustica della villa tardoantica, vien detta curia o curtis, ospita i servizi (furnus, colina - cucina -, putheus, canipa o farinarium - dispensa -) e dà luogo alla scala all'aperto per salire al piano residenziale, ove taluni degli hospicia saranno sempre più spesso delle stanze caminatae, con importanza tale nell'economia della casa, da far sì che camere così attrezzate sian dette caminum. Attorno alla corte, le domus de sezentibus (121), abitate dai servi (schiavi orientali e balcanici saranno frequentissimi, nelle case patrizie, fino al XV-XVI secolo): costruzioni modestissime monopiano, per molto tempo lignee, serializzate nelle proprietà maggiori ai margini dell'orto e della vigna. E ancora stalle per i cavalli, in uso almeno fino al XIV secolo, e per animali da fattoria (mucche, maiali), pollai, ecc.
Saranno quelle domus de sezentibus un fattore di progresso importante dell'edilizia urbana quando, forse prima del Duecento, alcune di esse, ricostruite in laterizio, saranno destinate a contratto di segetura (122) (che a questo punto significa affitto), oppure quando, separatasi la corte dalla proprietà originaria per effetto del mercato fondiario e dello sviluppo economico che favorisce la crescita a nuove classi artigiane di masse già servili, si affaccerà un nuovo tipo di domanda edilizia. Inoltre il modello seriale insito nella precedente struttura, e quello degli ordines e delle rugae stationum trionfante a Rialto, diverranno presto tutt'uno, per rugae domorum de sezentibus in solario (case a schiera con laboratorio o bottega al piano terra), imitate dovunque, proposte dal capitale commerciale voltosi alla rendita immobiliare e, ancor più, per corti omogenee, esemplate sull'antico modello, allungate per opportunità distributiva, cintate e chiuse con cancello notturno, create dalle corporazioni delle Arti, dalle Scuole devozionali, dalle comunità etniche forestiere, dall'attivissima popolazione della grande città. Ma per queste corti occorre attendere il Trecento.
Con tutta evidenza, il tipo edilizio della domus qui descritta nella sua distribuzione (a prescindere dai suoi impulsi evolutivi verso la serializzazione e l'affitto) non era nato in una città, e appare significativo che in esso permangano moduli d'insediamento propri della tarda antichità e dell'alto medio evo in ambienti desertizzati. Questa tipologia, tardo residuo di stagioni lontane, e del tutto incompatibile con i caratteri di una nuova vita urbana, corporativa e fortemente integrata, che sono propri delle città dell'entroterra risorte sugli antichi impianti municipali romani, esprime con il suo ampio manifestarsi a Venezia nei secoli XII e XIII una cultura della conservazione e un ritardo dell'innovazione: da parte della classe al potere, della sua organizzazione e dei suoi modelli di vita, e da parte delle scholae professionali, dei loro ordinamenti, della loro domanda civile.
La facies esterna di questa edilizia, che fu fino alla seconda metà del XIII secolo pressoché l'unica degna del nome esistente in Venezia, dovette conformarsi a una conseguente maturità formale solo con notevole ritardo. Un porticato continuo quale quello delle Procuratie vecchie e delle case dei procuratori, probabilmente ivi ripetuto dal nuovo palatium ad jus reddendum e quindi replicato nelle hostariae sulla Piazzetta (l'attuale Libreria), segnava l'introduzione (e l'usuale impiego con continui adattamenti nelle domus maiores o magnae dell'antica nobiltà e di nuove emergenti famiglie mercantili) di una colonna non rastremata e priva di entasi e di un capitello scantonato di scabra funzionalità, che associandosi all'arco a tutto sesto (o, in seguito, a sesto rialzato) con semplice sottolineatura a toro, tratto da S. Marco e quindi dai SS. Maria e Donato di Murano, e da altre chiese e monasteri, conferirono a quella struttura fondamentale della prassi laica della politica e degli affari una dignità ancor sobria e priva di echi aulici e sacralizzanti. Questa associazione non poteva provenire da Costantinopoli, o da una cultura di ispirazione bizantina quale fu, per secoli, quella islamica nel Mediterraneo: e infatti essa venne introdotta in Venezia dalla prossima terraferma e trova le sue lontane origini nelle strutture elementari, tutte materia, geometria e funzione, dell'architettura ottoniana e salica.
Naturalmente, quando quell'associazione si specifica con l'assunzione sistematica e accentuata dell'arco a sesto rialzato, si dovrà far nuovo riferimento alla cultura bizantina, dalla quale esso è conosciuto e impiegato almeno dal VI secolo (S. Irene di Costantinopoli, Qasr ibn Wardàn in Siria), e ripreso in numerose fabbriche per secoli, anche in forma seriale, seppure risulti parimenti praticato frequentemente in Occidente; ma esso penetra in Venezia con le fabbriche ecclesiastiche, da S. Marco a Murano a S. Fosca di Torcello, e quasi mai nell'ambito delle loro parti più nettamente romaniche. Se si guarda, con cautela, ai pochi esempi rimasti o documentati, si può forse ritenere che l'associazione si sia formata nell'ambito della cultura dell'entroterra con arco a tutto sesto, e solo successivamente sia stata ingentilita dalla contaminazione con l'arco a sesto rialzato. I capisaldi utilizzabili sono i seguenti: S. Maria Antica, chiostro di S. Giovanni in Valle, chiostro capitolare del Duomo, e S. Zeno a Verona, dove i capitelli a cubo scantonato, con arco a semplice o doppia ghiera e colonne anche binate, configurano una facies coerente e matura fin dal terzo-quarto decennio del XII secolo (123): altri esempi, a Padova e a Treviso, sono meno sicuramente databili. Ma la somiglianza fra il modulo dei chiostri veronesi e quello di S. Apollonia a Venezia appare comunque decisiva.
Contemporaneamente, il capitello di rielaborazione classica a foglia d'acanto ha raggiunto il massimo della sua evoluzione a Murano (1141), dove esso si coniuga con elegante abaco niellato a palmetta, e con colonne di proconnesio. Pur se si continuerà negli esempi più rilevanti di architettura residenziale a impiegare colonne antiche di recupero con capitelli di classica lavorazione, antichi o imitati, la svolta appare decisa dalla metà del secolo: il nuovo capitello veneto a cubo scantonato (che successivamente si caratterizzerà come in terraferma con lieve profilatura a mo' di foglie suggerite sugli angoli) dilaga dagli edifici comunali della nuova platea sancti marci come una moda civile, quasi una bandiera della comunalità nell'età che vede insediarsi il primo consiglio di sapientes, dal quale scaturiranno a fine secolo il consilium maius e il consilium minus: come se - è una suggestione interpretativa - il nesso trilitico di rielaborazione classica dovesse valere ormai solo, e non sempre, per le chiese, o fosse altrimenti espressivo di atteggiamento conservatore di qualche antica famiglia incapace di accettare il nuovo, mentre quello proveniente dall'entroterra, di facies comunale, veniva rapidamente assunto perfino nel palatium di S. Silvestro del patriarca gradense. L'impaginazione formale degli edifici ducali e vescovili - i soli titolari del diritto a chiamarsi palatium (124) - risulterà così tradotta in diverse versioni, più o meno impegnative, tutte peraltro tali da consentire che in un paio di secoli si affermasse il topos di una città costituita da innumerevoli "palazzi".
Le differenti versioni nascono essenzialmente dalla diversificazione funzionale, in rapporto con i caratteri icnografici. Questi mantengono una tipologia castrense laddove le funzioni palaziali di giustizia e di governo, anche ecclesiastiche, restano intatte, su grandi estensioni di terreno prive di condizionamenti apprezzabili, esprimendo quindi linearità continue di facciata sancite da torri o corpi angolari aggettanti, e articolandosi attorno a corti: a questi caratteri rispondono in toto i tre palatia del castellum ducale, che solo l'età gotica unificherà, e il palazzo vescovile di Castello, ricostruito dopo l'incendio della "tota domo episcopale et pluribus adiacentibus casis" del 1120 (125) (per quanto se ne può intendere nello scorcio offerto dal de' Barbari), e risponde anche, con l'eccezione della corte, il palazzo di S. Silvestro. Oppure, le piante assumono una formula seriale nel caso delle Procuratie, ove si moltiplica semplicemente un modulo di unità edilizia più o meno ampia, utilizzando esternamente una linea continua di facciata, ovviamente senza interruzioni ad aggetto. Questa soluzione formalistica si rese possibile forse perché già nel reimpiego dello scheletro castrense dell'insediamento ducale divenuto comunale gli operatori dovettero associare il tema della creazione di un portico sostenente una loggia a una muraglia difensiva, adattando la nuova partitura aperta sull'esterno come rivestimento (certo imprevedibile) di un antico edificio chiuso, il quale perciò diveniva sostegno neutro di nuova articolazione. Gli edifici sui lati settentrionale e meridionale della piazza mostrarono del resto (per quel che fanno comprendere le fondazioni viste nel 1888-1890 e recenti proposte fondate su inedite acquisizioni archivistiche) (126) forme di varia miniaturizzazione dello schema a corte, non molto evolute, all'interno di un ordinamento a schiera, le quali sono rimaste sostanzialmente senza seguito nella grande architettura veneziana, finalizzate, come erano, a un assetto urbanistico del tutto particolare e condizionato dalle preesistenze marginali oltre che dal progetto della platea. Quando si passa dalle solitarie fondazioni auliche e da quel particolare adattamento all'edilizia abitativa delle grandi famiglie, il modello inizia una complessa evoluzione, durata poco più di un secolo.
Resta aperto il problema della facies che ebbe tale edilizia in epoca precedente alla proposta dei palatia marciani. E poiché questi, pur con gli adattamenti descritti, non nacquero dal nulla, ma furono concepiti sulla base di una lunghissima tradizione tipologica lontanamente radicata in tutta l'area imperiale, quale è quella identificata da Karl M. Swoboda nel 1918 (127), non è improponibile ipotizzare che qualcosa nell'ambito venetico preesistesse alle fabbriche del XII secolo, a proporre quella tradizione, quale residenza di qualcuna delle grandi famiglie ducali dei secoli precedenti: per esempio la "casa Johanni magistro milite" a Grado (ante 824), la "casa Theophilato" a Torcello già ridotta a cava di materiale nell'829, oppure il "palacium [...> aput Civitatem novam Eraclianam" costruito da Giovanni Particiaco alla fine del IX secolo, o infine la "pulcrae imaginis domus [...> una cum capella" ivi pure edificata alla fine del X da Pietro II Orseolo (128), che dovevano essere ormai solo residenze private, ville ante litteram nella terraferma delle origini. Questi esempi attestano presenze di grande suggestività, poiché definiscono possibili concatenazioni fra casae, palatia e domus di maggiorenti bizantini e duci venetici dell'VIII-X secolo, queste ultime erette peraltro in funzione non ufficiale nei luoghi della prima abbandonata capitale del Ducato. Comechessia, gli edifici residenziali veneziani del XII secolo, quali ad esempio le "patrimoniales domos de sancto Luca" dei Dandolo demolite da Pietro Polani nel 1147, e ricostruite de publico dal successore Domenico Morosini (129), poterono essere ispirate sia al palatium domini ducis fondato da Agnello Particiaco sul rivolus de Castello (810-827) (130), sia a palatia quali quelli citati di Cittanova, anche in parte per l'aspetto formale.
L'accostamento, per non dire la giustapposizione, di una facciata concepita in termini di duplice ordine architettonico - con materiali e pezzi più o meno nobili - a un edificio non castrense, ma elevato sulla base del solo tipo notevole frequente sul territorio (quello delle chiese), non dovette risultare più difficile dell'applicazione già considerata di una fronte palaziale a un anticipo di ruga domorum, quali furono in sostanza le Procuratie. Certo, si poneva il problema dell'esposizione, poiché gli appezzamenti privati, sparsi sulle rive del Canale, su molti rivi, e in tutta la città, non potevano volgere liberamente le loro fronti secondo le preferibilità dettate da orientamenti preesistenti e dal migliore soleggiamento: se si può forse identificare una differenza progettuale fra le Procuratie vecchie affacciate a sud e le case dei procuratori allineate con il campanile ed esposte sulla Piazza verso nord, le quali presentavano solo in parte una loggia continua e, superiormente, più tardi, monofore, e polifore, questa possibile avvertenza nell'edificare case di servizio e d'affitto fu completamente disattesa dai pionieri delle domus maiores private. Nel considerevole corpus di esempi conservatoci, o comunque attestato da documenti sicuri, si notano infatti edifici imponenti con loggia aperta sia a sud (la "Ca' mazor" dei Barozzi a S. Moisè) sia a nord (la Ca' Palmieri-Pesaro, poi "fondaco dei Turchi"), sia a est sia a ovest (Ca' Donà-Dolcetti e Ca' Donà della Madonnetta, Ca' Loredan e Ca' Farsetti, Ca' da Mosto): anche qui se ne può concludere che la concezione della facciata fu, entro certi limiti, variabile autonoma nella progettazione degli edifici, ricadendo sul mestiere del costruttore la responsabilità di fondazioni, muri e coperture, ed essendo in varia misura riservato al proprietario committente, con processo imitativo-innovativo, definire i caratteri e l'estensione di quelle partiture di portici e logge che qualificavano l'edificio, sulle quali si è quasi sempre soffermato esclusivamente lo studio.
I limiti, entro i quali dovette apparire libera la scelta di facciata, che connotava fra gli altri l'intero edificio e specificava la qualificazione generale come status symbol offerta dal disegno complessivo, furono dettati anzitutto dall'esercizio della funzione mercantile, che per una parte notevole degli edifici del XIII secolo, e probabilmente per molti del XII, si esplicò investendo direttamente la fronte sull'acqua. Se infatti già nell'avanzato XII secolo vi furono grandi famiglie che intrapresero la trasformazione della loro attività in senso finanziario, inizialmente le funzioni - non un modello, che come tale non è terminologicamente identificato dalle fonti - della cosiddetta "casa-fondaco" dovettero investire la generalità degli immobili abitati dalla nobiltà antica, e costringerla in certi casi a ricostruire diversamente la residenza arcaica, concepita in funzione della rendita agraria delle proprietà conservate nei luoghi di origine (Cittanova ed Equilo, per esempio). Una valutazione cauta, esercitata sul numero delle grandi famiglie che garantirono il mutuo del 1164 (131), porta a ritenere che all'inizio del Duecento gli edifici di siffatta funzionalità fossero circa 200 (132). Questo significano, in effetti, alcune pur sommarie descrizioni dei beni mobili divisi insieme con gli edifici: nel 1038 i fratelli Badovarii di S. Stin, proprietari fra l'altro del grande lacus su parte del quale sorse poi il monastero dei Frari, dividevano fra loro non solo le diverse attività imprenditoriali e finanziarie "de omnes colleganciis, rogadiis, prestitutum adque negociis", ma anche i depositi di "aurum, argentum, aere, ferro, stagno, plumbo", mentre i fratelli Barbani, la cui residenza stava fra il rio di Palazzo, l'attuale calle degli Albanesi e la riva degli Schiavoni, ove sorgeranno nel Seicento le prigioni di stato, specificavano all'inizio del Duecento, oltre agli stessi metalli, "servos et ancillas, arma, navigia, utensilia et omnia sese moventia [...>" (133). Il "fondaco" fu insieme banca, magazzino, scalo, arsenale, bottega, laboratorio, fattoria... Tutto sotto casa.
In pratica, il piano terra, che ospitava fino alla corte depositi, laboratori e servizi, accolse in fronte e dalla fronte il carico di merce direttamente dalla nave, e poté ivi egualmente smistarlo su imbarcazioni leggere per la sua distribuzione su differenti mercati in città e nell'entroterra mediante navigazione interna per rivi, fiumi e fosse. Le dimensioni in altezza e larghezza dell'anditus, o androna, il numero e l'ampiezza degli accessi a portico dalla ripa gradata e dallo junctorium all'interno, la maggiore o minore funzionalità di congiungimento immediato con la calle laterale, la presenza di "mezadi de subtus" collocati lateralmente fra il piano terra e il piano nobile (i quali evolveranno in una fase di transizione apparendo con finestre anche in facciata, ai lati dell'anditus), sono inizialmente elementi qualificanti non secondari, variamente impiegati caso per caso secondo gli ambiti operativi delle famiglie; essi peraltro diminuiranno notevolmente la loro capacità di condizionamento fra la fine del Duecento e il Trecento, segnando in maniera decisiva lo svolgimento più formalistico della facciata palaziale gotica.
Queste evoluzioni vengono determinate essenzialmente dal mutare delle funzioni al piano terra verso l'acqua. La porticus originaria consiste in un porticato continuo sulla fronte, al servizio delle operazioni del "fondaco", unita all'anditus retrostante con la conseguente formazione di una pianta a T. La casa costruita da Giovanni Aurio nel 1069 su terreno a concessione trentennale del monastero di S. Benetto, confinante con la calle omonima, è "unam mansionem ligneam in qua sunt duo solarii et una porticus per latitudinem ipsius mansionis constructa", un organismo dunque, benché ligneo, già adulto, eccezionalmente con due piani oltre il terreno, con portico su tutta la fronte lungo il Canale. Anche il portico della casa impegnata da Domenico Caput in Collo nel 1086 percorre la fronte lungo il rivo de Curte, in confinio di S. Zulian (134). E similmente Beltrame e Marco Longo, spartendo nel 1167 con il nipote Matteo la proprietà in cui risiedono in confinio di S. Cassiano, dividono a metà anche il portico che ne costituisce la fronte lungo il rivus Saponario (attualmente della Pergola), mentre la composizione che interviene fra Domenico Basilio e Ottone Gradonico sul Canale a S. Giovanni Elemosinario nel 1134 lascia intendere che il muro divisorio toccava da una parte il caput del portico del secondo e dall'altra il caput dell'andedus del primo (il quale quindi dava direttamente sull'acqua, forse senza portico), mentre una loggia si trovava egualmente al primo piano dell'una e dell'altra proprietà (135). Risulta dunque che la struttura a piano terra aperta e coperta, proprio come il porticalis di una chiesa, trasmetterà il proprio nome come portico passante alla sala centrale del piano nobile quando nell'edificio gotico, espulse le attività mercantili, sarà sufficiente una sola porta sull'acqua, mentre lo stesso anditus, ormai inutile nel suo dimensionamento, tenderà ad assumere il nome di portego.
Con queste avvertenze, si possono stabilire i modelli maturi - succeduti a una lunga età di elaborazione - della fronte della casa delle grandi famiglie nel corso del secolo XIII. Le opzioni fondamentali possibili sono riconducibili a questi schemi: 1) la "Portikusvilla mit Eckrisaliten" secondo la definizione dello Swoboda, riconoscibile in una struttura a portico con loggia soprastante, con due corpi di maggiore altezza aggettanti ai lati, all'apparenza vere e proprie torricelle angolari peraltro prive di rampe scalari interne: la quale è forse riferibile con un massimo di fedeltà imitativa ai prototipi castrensi ducali ed ecclesiastici; 2) la "Portikusvilla" priva di aggetti laterali, sviluppata in profondità, nella quale portico e loggia si esprimono in quella che chiameremo una "linea continua", salva la possibilità di brevi elementi ciechi a muro o pilastro angolare alle estremità; 3) la "Portikusvilla", pure priva di risalti laterali, nella quale portico e loggia, o la sola loggia, accusano due interruzioni della sequenza dei fori, configurando una "linea interrotta" che autorizza la presenza di autonome finestre laterali negli spazi già appartenenti alle Eckrisaliten; 4) infine, uno schema nel quale il consolidamento della "linea interrotta" della loggia si esprime in una "linea contratta" (una polifora, talvolta anche con cinque-sei fori), mentre il portico scompare, sostituito da un portale. Mediante queste quattro impaginazioni, il modello direttamente nascente dall'estroflessione del castellum (il cui murus fungeva al suo interno da fondale) si trasforma con modifiche del tutto logiche e funzionali nel tipo frontale del palazzo gotico.
Sul piano strutturale l'evoluzione non è di poco conto: infatti il tipo 1 conservava ancora l'elemento genetico fondamentale, il murus, che veniva a trovarsi, come in una chiesa, nella funzione di parete di fondo degli elementi aperti avanzati, mentre nei tipi 2, 3 e 4 il muro risulta soppresso, essendo divenuta murus la parete avanzata ora più o meno traforata, che precedentemente si configurava a portico e loggia. Sotto il profilo della struttura icnografica, il passaggio da una pianta con facciata sul lato lungo a una con facciata sul lato corto, che si verifica fin dallo schema 2, e dunque interessa la totalità dell'edilizia civile fatta eccezione per i palatia pubblici e le case esemplate su quelli (Procuratie, hostarie), si concreta anzitutto nello standard della forma delle proprietates, il quale è praticamente indotto dalla loro disposizione e suddivisione ottimale a pettine lungo il Canale, fronte privilegiata e dunque ristretta rispetto alla meno costosa penetrazione in profondità. Si tratta, come è evidente, di uno schema tipico, frequentissimo, di tutte le articolazioni urbane lungo un asse funzionale pregiato. Questa configurazione può assumere perciò la descrizione che sarà usuale, due capita (lati brevi) e due latera (lati lunghi). Nella tipologia distributiva che ne consegue, si evidenzia il necessario arretramento della corte, che nello schema 1 è invece ubicata immediatamente alle spalle del corpo di facciata, che è formato verso l'esterno da portico e loggia, e verso l'interno (corte) da ambienti di servizio o residenziali: negli schemi 2, 3 e 4, infatti, la struttura complessiva, assumendo il tipo basilicale al posto di quello castrense, si articola in tre lunghe navi parallele che corrono in profondità, rimanendo quella centrale in continuità con il corpo di facciata (non più tagliato parallelamente dal murus) mediante una forma a T (schema 2), oppure con una forma a T in cui le estremità della loggia sono autonomizzate, nella facies esterna o anche strutturalmente, poiché tendono già a legarsi con le navi laterali suddivise in hospicia invece che con la loggia (schema 3). Nell'ultima fase infine i tre corpi longitudinali ripartiscono equamente la facciata, scomparendo al piano terra il portico, sostituito da una grande porta d'acqua dotata di sola ripa gradata senza junctorium, e al piano superiore la loggia, sostituita da una polifora (schema 4). L'arretramento della corte, peraltro, non è solo conseguenza meccanica dell'evoluzione dei corpi di fabbrica anteriori, ma anche del differente significato funzionale che essa ha nello schema 1 rispetto agli altri tre schemi: mentre nel primo essa ha infatti forma e funzione di origine castrense-palaziale, negli schemi 2, 3 e 4 il riferimento proprio è quello alla villa, della quale, con le costruzioni che la contornano, configura la pars rustica, posteriore e ben diversificata rispetto alla pars dominica.
Questa evoluzione della corte è però tutt'altro che definitiva: in fasi ancor successive, nel XIV e XV secolo, venendo meno in una struttura economica integralmente urbana talune delle funzioni autarchiche originarie - ed essendosi suddivise ulteriormente gran parte delle proprietà per il grande incremento dei valori fondiari sul mercato edilizio, nel quale si investe ormai parte notevole dell'accumulazione -, l'area già destinata a corte, insieme con le domus a segentibus che l'attorniano, appare molto spesso distaccata dalla proprietà madre, e trasformata da nuove logiche edilizie, sicché la corte si ritrova rimpicciolita e spostata all'interno dell'edificio, che nel frattempo è cresciuto in altezza con un secondo piano nobile, e anche con un piano sottotetto nel quale si sono spostati per forza maggiore servizi e servitù. Il ridimensionamento e la riubicazione non eliminano naturalmente una parte delle funzioni originarie, rimanendo ancora per qualche tempo connessi alla corte l'allocazione della scala e la sistemazione del pozzo con il suo apparato di raccolta, fino a che sia l'una che l'altro potranno essere inglobati all'interno dell'edificio. Ma nei rifacimenti trecenteschi e quattrocenteschi la corte si trova spesso situata in vario modo: sul fondo del portego passante, che risulta allora più corto dei due corpi laterali (schema a U), oppure sul fondo di uno dei corpi laterali, al posto di una camera (schema a L), o infine al centro di uno di essi (schema a C). Inutile sottolineare che queste ulteriori trasformazioni, cui accenniamo solo per chiarire il significato evolutivo della facies precedente, concretano formule architettoniche e individui edilizi (i "palazzi") ormai estranei funzionalmente alla casa nobiliare-mercantile del secolo XIII inverata in forme romaniche: sulle sue rive non attraccano più le naves, piuttosto le gondole; nella corte e al pianterreno non lavorano più torme di servi, i quali si riducono in cucina, attorno al pozzo, nelle soffitte e sulle altane; il dominus non percorre più, ispezionando e ordinando, da un estremo all'altro la plancia e le stive di quella sua nave di pietra, perché un nuovo status politico, amministrativo, finanziario ha messo in forma una nuova vita per la classe dominante veneziana.
Queste osservazioni, fondate sulla permanenza attuale o sulla documentazione recuperata di individui architettonici rispondenti alle diverse combinazioni descritte, oltre che su elementi qualificanti la struttura economica e sociale della vita urbana, lasciano intendere che l'evoluzione non fu puramente formale - cioè un mero fenomeno di mutazione del gusto di impaginazione della facciata -, né puramente funzionale, per esclusiva riorganizzazione di pianta determinata da mutamenti delle destinazioni d'uso. Nei secoli seguenti, con le riduzioni e gli adattamenti appena accennati, e salvo episodi particolarissimi, il palazzo veneziano rimarrà nella sua struttura fisica sostanzialmente immutato, conservando assai spesso le antiche muraglie sotto nuovi apparati stilistici, limitandosi i rinnovamenti - anche nei casi in cui si rifecero le murature, e perfino nei molti esempi di clamorosi ingrandimenti di scala rispetto alle preesistenze - a ridisegnare la facies esterna senza incidere sulla distribuzione o sul concetto distributivo, con l'eccezione di qualche inserzione di vani-scale coperti e grandiosi al posto di residue corti precedentemente inglobate. In quest'epoca invece l'evoluzione pur controllata, che si può riassumere nel passaggio da una tipologia ambientata nello schema castrense di matrice tardoantica a una tipologia strumentata sullo schema ecclesiastico di imitazione tardoesarcale, esprime quasi sempre, con incroci e tentativi diversi, puntuali rispondenze di modificazioni fra forma e struttura, dichiarando per ciò stesso originalità e pienezza di conseguimento architettonico, organico alle funzioni proposte. La specificità delle soluzioni impiegate, nell'ambito di un gusto sottile della variazione cromatica e chiaroscurale, che è stato più volte dichiarato linguaggio esclusivo dell'arte veneziana, e che ha permesso la rara aderenza degli esercizi di lettura di Sergio Bettini (136), non può d'altra parte nascondere la proprietà autenticamente architettonica (concepita in analogia con i porticati e le logge - certo spesso più grevi - dell'entroterra romanico) di quelle prime creazioni, che poterono sembrare architettura negativa, se non addirittura negazioni dell'architettura. In effetti, questo giudizio è forse più vero per gli oggetti dell'età gotica e delle successive - quando a Venezia si credette di poter rifare la classicità, pur attraverso gli inserti di grandi architetti - che per gli edifici dei secoli XII e XIII.
Seppure spesso non coordinati fra loro, i colonnati dei portici e quelli delle logge conservati (e probabilmente anche quelli solo documentati) sono spesso vere strutture, costitutivamente rispondenti alla logica del nesso trilitico, e non finti paramenti di spazi non autonomi (137). L'ispirazione monumentale più prossima per tale conseguimento non fu S. Marco, la cui connessione strutturale, a prescindere dal disegno "greco", era troppo arcaica; fu forse nei palatia costruiti da Sebastiano Ziani; fu con sicurezza negli esiti cui pervenne nel giro absidale esterno la nuova fabbrica di Murano: peraltro non isolata se - oltre a S. Fosca di Torcello - le stesse absidi di S. Polo e di S. Salvador sembrano nel disegno del de' Barbari aver moltiplicato le esperienze di quella partitura ad archi sovrapposti in cui leggerezza e forza si sposavano con esito singolare. Quando, nei secoli seguenti, gli edifici vennero sopraelevati, con il carico di un secondo piano nobile e, spesso, di un ulteriore piccolo loggiato destinato a chiudersi come "mezadi de sora", quelle strutture trasparenti, pur duramente messe alla prova, hanno spesso resistito, giungendo fino a noi. Se si presentavano come preziosi trafori, esse erano organizzate con materiali, tagli, misure e rapporti destinati a durare, e a portare se stessi e l'ordine superiore: le logge della Ca' Palmieri-Pesaro e della Ca' Barozzi, per esempio, sostenevano un piano sottotetto illuminato con oculi e un fastigio di merlature di considerevole peso; d'altra parte, esse erano strettamente innervate da travature perpendicolari alla facciata, immorsate nel murus di fondo, che creavano una gabbia compatta, forse la zona più solida dell'intero edificio.
È piuttosto il processo successivo, estesosi soprattutto in età gotica, quello che determina un progressivo impoverimento della struttura porticus-laubia, sia con lo schema della "linea contratta" che alla loggia sostituisce la polifora, sia con la scomparsa del portico: questa riduzione, in effetti, fa venir meno l'autonomia del frammento residuo della loggia, già pericolosamente privata del murus retrostante, di cui costituiva proiezione e corrispondenza, e conseguentemente della travatura perpendicolare, sicché il colonnato, già gabbia portante, diviene reticolo portato, mentre l'ordine architettonico si riduce a ricamo plastico. La polifora rimane così stesura ottica bidimensionale, laddove la loggia (e a maggior ragione il portico sottostante) era invece concepita e praticata come spazio tridimensionale di alta specificazione strutturale e formale: il passaggio, a ben vedere, è fra un ambiente vissuto e una cornice di contemplazione, attiva o passiva che si voglia. Per quanto numerose possano essere nel secolo XV le sue finestre, per quanto virtuosistici gli oculi polilobi sovrastanti, la polifora non sfuggirà a un destino di giustapposta qualificazione formale, incastrata com'è in una muraglia altrimenti inarticolata. Tutto ciò non fu forse rilevabile finché il Quattrocento dipingeva e intarsiava con inesauribile sfarzo le pareti esterne ricomprendendo il sistema delle forature in un trompe-l'oeil dovizioso di ombre e di colori, quali vide per esempio l'occhio abbagliato di Philippe de Commynes nel 1495 (138), ma appare del tutto evidente quando, dopo la stagione del monumentalismo classico cinquecentesco e delle sue continuazioni, la versione negli stilemi sei-settecenteschi rivela l'incapacità di soccorrere in qualche modo la perdita di identità strutturale della facciata (si guardi, per esempio ai palazzi dei Mocenigo a S. Samuele).
Con l'ottica attuale trascorrente sulle pareti continue dei palazzi lungo il Canal Grande ci sfuggono, più che gli accenti linguistici, gli esiti formali complessivi che questa edilizia dovette avere nella prima città petrinea: l'immagine generale, i suoi tempi di fruizione dovettero essere in ogni caso assai diversi da quel che conosciamo. Non le grandi dimensioni di facciata, non le lunghe sequenze di fronti ininterrotte, non la varietà dei linguaggi, delle impaginazioni, dei materiali di oggi; non pure quella sottolineata immersione sotto il pelo dell'acqua che conferisce al paesaggio attuale l'aspetto di un'impensabile anfibia specificità. Edifici, invece, di modesta altezza (di regola, 30 piedi, o 42 - 18 di portico, 12 di loggia, altri 12 eventuali -, pari a 9-10 o 12-14 metri, secondo l'unità di misura), del tutto isolati l'uno dall'altro, emergenti per finezza di disegno e felicità cromatica di materiale in un contesto progressivamente invecchiato di forme consimili intessute di legname, interposti fra terrae vacuae, vigne, ortaglie, spiaggette, tezoni; elevati sull'acqua, con gradinate discendenti e pontili lignei aggiunti su un alveo fluviale ristretto popolato di palificazioni, baracche, imbarcazioni d'ogni genere. Erano essi spesso ancor poveri di decorazioni e di marmi, e, naturalmente, ordinati in superfici grammaticalmente simili, secondo le tipologie descritte: lemmi di un discorso medioevale aspro, asintattico, eredi di una lingua che non era più, pionieri di un linguaggio che non era ancora, in un crogiuolo di fonemi e morfemi romani, greci, islamici, padani, germanici.
In queste condizioni si comprende che l'assenza di facciate di differente spessore storico - ché erano tipologicamente simili, e non più antiche d'un secolo - dovesse vieppiù indurre le grandi famiglie in ascesa e in forte competizione economica e civile a una ricerca di individuazione formale assai acuta, con mezzi preziosi, insoliti, quasi sempre non strutturali. Fin dal Duecento inoltrato dovettero svettare sui tetti alti camini cilindrici, e vicino ad essi liagò, ballatoria, altanae e altanellae di legno, costretti nel Trecento ad abbandonare le facciate prospicienti verso spazi acquei e vie pubbliche (139), sovrapposti anche alle antiche merlature connesse all'originaria concezione palaziale. Sulle facciate la presenza di qualche patera in funzione apotropaica già nel secolo XII conobbe impreveduta fortuna, sì che ne scaturì un'industria nazionale, di "taiapiera" progressivamente più abili, capaci di più o meno fantasiose ripetizioni, i quali caricarono di infissioni petrinee le facciate più vecchie (140), e concepirono poi le nuove come superfici da cospargere in modo sistematico di rilievi colorati.
Il repertorio plastico maturo del XIII secolo comprende croci a bracci patenti di forma bizantina scolpite con la mano benedicente fra decorazioni fitomorfiche, più tardi standardizzate a fioroni; patere, per lo più del diametro di tre palmi o un piede, riproponenti motivi zoomorfici derivanti dall'arredo orientale (coppie affrontate o allacciate, e viluppi fra predatore e vittima) o anche da moralità classiche di tradizione proverbiale, ben presto fuoruscenti da cornici sempre più complesse per riacquisita tridimensionalità e risentito realismo; formelle, sviluppate in altezza e arcuate, prima a tutto sesto, quindi a ogiva, cuspidate, infine trilobate, con più impegnative ma anche travisanti e capricciose composizioni zoofitomorfiche, destinate a campire gli spazi con più rilevante efficacia, e a contrastare la luce con rotondo altorilievo e profondo sottosquadro; cornici marcapiano sviluppate con sempre più accentuato aggetto dalla fioritura dei capitelli ad acanto-palmetta di derivazione bizantina presenti nelle chiese fin dall'XI secolo, e dal tipo a girale abitato con fiori, foglie e animali di pur coltivata tradizione locale fin dal tempo della produzione cosiddetta "contariniana" praticata per il cantiere marciano (141); quest'ultimo tipo, insieme con più complessi soggetti comprendenti la figura umana articolati in rappresentazioni di varia moralità, trova applicazione di autonomo rilevante significato e valore in arconi di portali decorati all'intradosso e all'estradosso sull'esempio di quelli marciani, quali si ritrovano per esempio in corte del Milion, a Ca' Barzizza, a Ca' Lion in corte del remer, o quale appare riutilizzato nel residuo portale laterale di S. Maria dei Servi. E ancora triangoli, dentellature, rotae, composti linearmente in marmo colorato, sull'esempio fornito dall'abside muranese; pilastri d'angolo, in pietra bianca, rosa o rossa di Verona o, in esempi più fortunati, in marmo greco, elementi strutturali di plastica architettonica disegnata ad archeggiature, alludenti talvolta a sottili "torreselle"; portali, pure in marmo greco o veronese, virtuosisticamente accentuanti il carattere mistilineo coordinato di stipiti e architrave con insistite sequenze di tori, scozie, listelli di eccezionale valore ottico, ecc.
Ma questi interventi, e altri qui tralasciati per brevità, costituirono in genere solo la variazione sovrastrutturale di una "parete" abitabile, agibile qual era la facciata. Fu quella struttura composita - in qualche modo l'unica originale dell'edificio, erede di una lunga tradizione linguistica tardoantica, ma partecipe di caratteri propri dell'elaborazione romanica più vicina - quella che permise, pur in una sintassi formale priva di grosse variabili, un certo numero di interpretazioni singolari e di evoluzioni significative di grammatica architettonica, ancorché dirette a risolversi in una riduzione chiaramente bidimensionale, a merletto incastonato, quale fu poi il loro prezioso retaggio, la polifora.
Lo studio delle individualità si può avvalere purtroppo di rari esempi pervenuti interi fino a noi. Fra essi assumono un ruolo di capisaldi significativi globali solo il "fondaco dei Turchi", pur con le cautele imposte dalla ricostruzione integrativa del secolo scorso (142), e i due edifici municipali affiancati di Ca' Loredan e Ca' Farsetti, pur essi in parte discutibilmente ingigantiti da interventi successivi e interpretati dai restauri ottocenteschi. Ma la documentazione non è né trascurabile né insufficiente se si aggiungono ai pochi edifici che hanno conservato intero il paramento di facciata anche i molti che serbano comunque tracce consistenti della facies scomparsa, e se si utilizzano insieme le informazioni descrittive contenute in molte pergamene notarili dei secoli XII-XIV (particolarmente le più tarde, più dettagliate e precise), le quali forniscono spesso notizie sulla distribuzione interna e anche sulle dimensioni di fabbrica, e quelle iconografiche ricavabili da fonti disponibili a partire dalla fine del secolo XV (prime, e ben note, il telero della processione in piazza S. Marco del 1496 di Gentile Bellini, e la pianta di Venezia di Jacopo de' Barbari). Esercizi ulteriori di analisi, condotti su edifici trasformati nel corso dei secoli, e identificabili in base a quelle fonti descrittive e figurative, possono fornire ulteriori accertamenti quando i rifacimenti del passato non hanno comportato modificazioni radicali. In questa sede peraltro, per i limiti connessi alla presente trattazione, rivolgeremo di regola uno sguardo conclusivo su quanto può essere oggetto di diretta generale constatazione.
Le facciate sussistenti di edifici sicuramente costruiti nel corso del XIII secolo, nelle quali sia ancora sufficientemente leggibile o delineata l'articolazione formale originaria nonostante parziali trasformazioni e le sistematiche sopraelevazioni, possono essere così elencate, con riferimento agli schemi tipologici illustrati. Per lo schema 1: Ca' Palmieri-Pesaro ("fondaco dei Turchi"); per lo schema 2: Ca' Farsetti, Ca' Loredan, Ca' Donà-Dolcetti alla Madonnetta, Ca' Barzizza a S. Silvestro, Ca' da Mosto, Ca' Foscolo, sul rio Nuovo; per lo schema 3: Ca' Priuli-Bon a S. Stae, e Ca' Businello a S. Silvestro, sul Canale. Inoltre, sulla base dell'emergere di modesti elementi strutturali, e/o di affidabili fonti iconografiche nei casi di scomparsa o totale ricostruzione dell'edificio, si possono elencare le seguenti. Schema 1: palatium del patriarca di Grado (residui interni nella cosiddetta "Ca' del Papa", esterni sulla Pasina S. Silvestro, disegno del de' Barbari); Ca' Molin della Ca' Granda a S. Giovanni in Bragora (ora caserma Cornoldi: si identifica in calle del Dose una delle petrarchesche "geminas angulares turres"); schema 2: palazzo Grimani sul Canale a S. Polo (disegno del de' Barbari); palazzo a S. Moisè, lato breve sulla calle Lunga (disegnato dal Pividor, demolito nel 1844) (143); "Ca' mazor" dei Barozzi a S. Moisè sul Canale (disegno del de' Barbari); Procuratie vecchie in piazza S. Marco (dipinto di G. Bellini); case dei procuratori in piazza S. Marco (dipinto di G. Bellini, incisioni varie cinquecentesche) (144); case delle cinque hostarie sulla piazzetta (dipinti e incisioni quattro-cinquecenteschi) (145); Ca' Contarini, ora palazzo Flangini-Fini sul Canale, sede del consiglio regionale (disegno del de' Barbari); edificio fra Ca' Businello e Ca' Barzizza; palazzetto Tiepolo a S. Tomà, ora Passi; palazzo Gritti con l'edificio attiguo, a S. Marcuola; palazzo Molin, ora Gaspari, a S. Marcuola, tutti sul Canale (per tutti disegno del de' Barbari). Infine, potrebbero essere appartenuti allo schema 2 o allo schema 3: il palazzetto attiguo a palazzo Giovanelli a S. Zan Degolà, che conserva ancora, murato, il colonnato del portico con archi a tutto sesto e capitelli scantonati; il palazzo Michiel delle Colonne a S. Sofia, il cui portico, rifatto con l'intera costruzione nel 1697, conserva gli elementi originali del colonnato, con capitelli a foglie d'acqua di fine Duecento-inizio del Trecento; il palazzo Corner-Gheltoff a S. Samuele, che pure conserva traccia del portico romanico, con archi a sesto rialzato; il palazzo Bembo a S. Zan Degolà, del quale i resti del portico, con archi a tutto sesto e capitelli probabilmente scantonati, erano sopravvissuti alla distruzione fino alla metà dell'800 (dipinto di Antonio Canal, disegno di D. Moretti) (146); forse il palazzo Dandolo sulla riva del Carbon (dipinto di Francesco Guardi) (147); e qualche altro minore, tutti sul Canale. In tutto, una trentina di edifici, ai quali si può aggiungere un corpus ricco di un centinaio di esempi di elementi sparsi, dalla polifora alla bifora, dal portale alla finestra isolata, in qualche caso erratici, dai quali non è dato avanzare facili ipotesi ricostruttive degli edifici cui appartennero.
Per una valutazione storicamente fondata valgono, oltre ai criteri fin qui esposti, anche le classificazioni degli ordini formulate da John Ruskin (148) (seppure non sempre con la consecutio e il significato proposti), le quali, nella periodizzazione che qui interessa, comprendono l'arco a sesto rialzato (I), il medesimo con cuspide all'estradosso (II), il medesimo con cuspide anche all'intradosso (III), mentre per il capitello distinguono il cubo scantonato con collarino a toro, con o senza profilatura angolare, il medesimo con caulicolo angolare nascente da abbozzo fogliaceo (a "becco di civetta"), il medesimo con foglie d'angolo risalenti e fiori o stelle o croci sulle facce, e infine il capitello a foglie d'acqua solo angolari o anche sulle facce con eventuale caulicolo; consideriamo il penultimo tipo databile agli ultimi decenni del Duecento, e l'ultimo come apparso a Venezia in limine del XIII secolo. Occorre anche ricordare che l'arco di ordine I fu preceduto da un arco a tutto sesto, già con bardellone, quindi bordato a toro se petrineo, spesso a doppia ghiera se laterizio. Molti di questi tipi sono derivati dall'entroterra, alcuni probabilmente hanno diretta o indiretta matrice orientale. Esempi sicuramente non manipolati di portici o di logge possono assicurare che la loro varia associazione non sia stata modificata con sostituzioni di parti più tarde, evidenziando una forte conservatività di elementi precedenti pur all'interno di panorami linguistici successivi; perciò il riconoscimento e la datazione di un portico o di una loggia debbono procedere per quanto possibile da una contestualizzazione nella struttura edilizia complessiva, ed essere ottenuti mediante analisi della particolare associazione che i singoli elementi configurano.
Alla luce di quanto esposto fin qui, lo studio delle principali individualità architettoniche conservate totalmente o parzialmente, e di qualcuna di quelle scomparse di cui esiste sufficiente fonte iconografica, porta alle seguenti conclusioni. Sembra corrispondente alla datazione della tradizione cronachistica (1172-1178) la facies romanico-veronese delle Procuratie vecchie, con archi marmorei a tutto sesto e profilatura a toro, capitelli a cubo scantonato, collarino a toro, abaco profilato, cornice marcapiano forse a foglie d'acanto, merli guelfi su beccatelli ad archetto, colonne grosse nel porticato e sottili in loggia, rapporto di 1 a 2 fra gli archi del primo e quelli della seconda. La presenza di catene lignee fra gli archi, sopra i capitelli del portico, indica immediata fedeltà a modelli ecclesiastici locali e a eredità d'Oriente, come si è visto. L'esistenza di due archi più alti, in corrispondenza delle mercerie e del pons a Dadis (149), è prova di organicità progettuale insieme edilizia e urbanistica, del tutto eccezionale in quest'epoca.
Assai simili gli ordini di facciata (sempre secondo G. Bellini) di una delle case dei procuratori sull'altro lato della piazza, a portico e loggia continua: ma la datazione è qui forse duecentesca avanzata per la presenza caratterizzante, sopra le colonne di rosso veronese, di capitelli evoluti, probabilmente del tipo a "becco di civetta", che con la catena lignea sostengono archi petrinei a toro a sesto rialzato (ordine I), mentre i consimili archi della loggia poggiano su colonnette binate, configurando un modulo simile a quello di Ca' Farsetti.
La facciata del palazzo Corner-Piscopia (Ca' Loredan), delimitata alla loggia del primo piano, è ascrivibile agli ultimi decenni del secolo XII-inizio del XIII, con evidenti interventi plastici soprastanti del XIV; si assumono come indicatori lo schema a T, con travi perpendicolari alla facciata in corrispondenza della loggia, la coerente serie di capitelli ad acanto-palmetta con alto abaco profilato del portico, la loggia su archi di ordine I quasi memore di una parete a risalti laterali (colonne binate dopo il terzo e prima del terzultimo foro, provviste di capitelli, diversi, a paniere traforato bizantino), l'intera fornitura di colonne a entasi di marmo greco, l'impiego dell'unità di misura romana (piedi 70 3 100) (150), il livello di posa delle colonne del portico (sepolte per cm 50), più basso della contigua Ca' Dandolo (Farsetti). La quale, ricostruita dalle fondamenta dopo la demolizione del 1147 con rialzata collocazione (in presenza del massimo livello marino d'inizio del secolo), denuncia, con gli spessori diversi delle muraglie (conservandosi la pianta di piedi romani 79 3 100), un parziale rinnovamento della facciata verso la fine del Duecento, quando fu probabilmente modificata la originaria pianta palaziale a T, pur mantenendosi la loggia continua di ordine I su colonnine binate: peraltro con allargamento delle finestre centrali (la prima loggia ne ebbe forse 16, una in più), sostituzione dei relativi capitelli scantonati con altri a foglie d'acqua in corrispondenza al portico passante; al piano terra, il portico, assai manipolato (2 + 1, + 2 fornici più due grandi fori su ciascun lato), ricorda forse l'arcaico modello a concamerazioni angolari (151). Simile linguisticamente a Ca' Loredan è Ca' Palmieri-Pesaro, di tipologia castrense, per la quale sussiste un suggerimento cronachistico al 1225 circa, e nella quale si notavano accenti arcaici - ancora ordine I degli archi in portico e in loggia, robustezza delle classiche colonne, capitelli ad acanto-palmetta - entro un'abbondante cornice di interventi plastici (merlature, plutei, patere, formelle ecc.) propri piuttosto del Duecento maturo, ma con conservativa figuratività di tradizione bizantina; l'edificio si esprime con classiche misure romane: piedi 25 + 96 + 24 = 145 (sta per 144) in facciata, 24 + 24 di spessore di loggia e retrologgia su corte, 15 + 6 = 21 di altezza del sistema d'archi nel portico, 12 + 3 = 15 in loggia, ecc. (152). Nettamente duecenteschi (prima metà) sono anche i resti plastici del palazzo Foscolo sul rio Nuovo, come indica l'associazione fra capitello scantonato, archi a toro assai rialzati, colonnine binate alte e sottili, estradossi decorati a girale abitato di formalizzata concezione e cornice in acanto stilizzato con dentello esterno di tipo arcaico: una decorazione non fungibile, progettata su singoli previsti elementi architettonici (153). L'edificio a S. Moisè disegnato dal Pividor pur non avendo rapporti con l'acqua presenta la sua facies con archi a tutto sesto decorati all'estradosso fra listelli a toro (forse simili a quelli di corte del Milion) su capitelli classicheggianti, e colonne binate in loggia (5 fori sui 3 del portico); esso ha un piano di "mezadi de sora", forse già nascosto dietro merlature simili a quelle della vicina scomparsa Ca' Barozzi, decorato con patere e formelle ad arco cuspidato, in modo non dissimile dalla facciata della Ca' da Mosto. La datazione non dovrebbe superare troppo la metà del secolo, ipotizzando qualche seriore aggiunta decorativa (154). Anche la Ca' da Mosto, costruita forse verso la metà del Duecento su impianto di 48 piedi veneti di facciata per 30 di profondità (155), quindi prolungata sul retro in area in parte già compromessa, è stata assai rimaneggiata nel primo Trecento, quando furono cambiati due dei capitelli del portico - già a cinque archi, maggiore il centrale come a Ca' Farsetti e Ca' Loredan, lavorati con decorazioni pressoché identiche a quelle degli archi di Ca' Foscolo -, e furono sostituiti con esemplari di transizione i capitelli della loggia, che è a linea interrotta, con 1 + 7 + 1 fori ad arco cuspidato all'estradosso. Simile al portico di Ca' Foscolo, ma solo per l'accentuato rialzo degli archi laterali, è quello di Ca' Priuli-Bon a S. Stae, resto duecentesco (seconda metà) di un edificio rifatto nel XV secolo (si veda la polifora): i capitelli del portico (a 5 archi) sono di riutilizzo, quelli del I piano - scantonati a foglie angolari risalenti - simili a quelli di Ca' Falier.
Dell'inizio del Duecento, le grosse colonne sepolte per oltre 50 cm, coronate da capitelli di spoglio dell'XI secolo integrati con pulvino sostenenti archi a sesto appena rialzato, è il resto del portico di Ca' Businello, la quale conserva due logge contratte in esafore (schema a T) dell'ordine I con capitelli ad acanto-palmetta di varia ispirazione (156). Anche la "Ca' del Papa" conserva frammenti decorativi di un porticato (esterno: un altro, parallelo, all'interno; ambedue contesti di residui di mensole e capitelli veronesi), i quali, essendo di composizione in tutto simile a quelli di Ca' Foscolo e Ca' da Mosto, sono databili verso la metà del Duecento, e configurano quindi probabilmente un ampliamento del palazzo patriarcale che fu costruito inizialmente fra il Canale, il campo e il rio di S. Silvestro (157). Altri due edifici del primo Duecento, rimaneggiati, hanno conservato elementi di notevolissima foggia: è il caso di Ca' Donà-Dolcetti alla Madonnetta, ove si è mantenuta forse metà di una facciata, mai completata, essendo scomparso prima del 1500 anche il portico; la loggia ha archi del I ordine e capitelli quattrocenteschi di imitazione classica (158). Ed è il caso di Ca' Barzizza, il cui impianto, riconoscibile su 45 per 75 piedi veneti, con schema originario a T, ha avuto un portico a 5 archi eguali a sesto appena rialzato, una loggia continua a nove fori a tutto sesto, e una seconda, posteriore, contratta su sei fori di ordine I corrispondenti ai 5 centrali della prima; i capitelli variano fra l'originale bizantino a paniere traforato e il cubo scantonato binato, gli archi fra la fitta plastica decorazione a girale abitato all'intradosso e all'estradosso, le semplici orlature a toro e quelle a dentello, segnando la facies dei diversi interventi svoltisi, fino alla laterale residua finestra gotica, nell'arco di circa un secolo e mezzo (159).
A questo ristretto corpus si può far seguire conclusivamente una rappresentanza di facciate relative allo schema 4, nelle quali alla scomparsa frequente del portico e alla contrazione della loggia in polifora si accompagnano elementi qualificanti di carattere plastico sufficienti a classificare gli edifici in una fase di transizione fra il romanico maturo e i primi segni del gotico veneziano, exeunte XIII o ineunte XIV. Nell'economia della periodizzazione qui osservata vengono ricompresi Ca' Donà della Madonnetta con pentafora del I ordine poi decorata in età gotica e tardi capitelli di imitazione marciana, alternati con altri simili a quelli di Ca' Donà-Dolcetti, già con ampio portico sul Canale (160); il palazzo Civran a S. Giovanni Crisostomo, con quadrifora su colonne di marmo greco, archi di I ordine ma capitelli tardi (probabile restauro trecentesco); la casa in ramo Salviati a S. Aponal con pentafora di I ordine e trifora di II in due piani, il primo in laterizio con capitelli scantonati profilati (161); e il palazzo Soranzo dell'Angelo al ponte del Rimedio, bell'esempio coerente con due quadrifore sovrapposte, bifora, monofore e portico architravato tutti sul cortile, il I e Il ordine con capitelli a cubo scantonato profilato (162).
Il II ordine è largamente attestato, con colonne sottili spesso rialzate su dado sottoposto, capitelli scantonati profilati, archi perfettamente stabilizzati con non eccessivo rialzo e orlo a toro. I migliori esempi di questa associazione matura sono la quadrifora di palazzo Zane in campo S. Maria Mater Domini, con originale complesso plastico soprastante di croci bizantine e patere ad animali per lo più affrontati; una trifora su rio delle Beccarie, le trifore della casa d'angolo su calle del Paradiso, la quadrifora della "casa del Selvadego", la quadrifora di calle dei Proverbi, comprese fra la seconda metà del XIII e i primissimi anni del XIV secolo. Ai quali vanno assegnate la pentafora e la quadrifora sovrapposte di palazzo Falier ai SS. Apostoli, pure di II ordine, con belle colonne di marmo greco, e capitelli scantonati a foglie d'angolo risalenti, con corredo di angeli portascudo, formelle e patere, sopra portico, rifatto, con capitelli a cubo scantonato (163); e la quadrifora simile di rio delle Ostreghe, con capitelli a foglie d'angolo rovesciate.
Questi e altri esempi annunciano - per la novità dei capitelli anche in permanenza di un ordine romanico, e per l'uso ormai generalizzato della polifora - la conclusione di una cultura.
L'esito è ulteriormente confermato dalle polifore di ordine III. Negli esempi più cospicui si rivela con evidenza il carattere conservativo del gusto veneziano pur all'interno di un'evoluzione formale che ha attraversato circa due secoli. Nella trifora della casa nr. 1920 a S. Stae, che conserva un bell'arco laterizio maturo di ordine I sul portale, son presenti capitelli scantonati profilati, così come nella quadrifora di casa Zanetti sul rio della Pergola, essa pure provvista di portale laterizio con timpano acuto sovrapposto, e di resti di portico con colonne e capitelli in rosso veronese; nella trifora residua della "Ca' mazor" dei Querini a Rialto, abbattuta in parte dopo la fallita congiura di Baiamonte Tiepolo (164), e dunque precedente forse la fine del secolo, i capitelli sono invece a foglie d'acqua, così come nella trifora al ponte della Corona, e in quella in campo S. Margherita, inizialmente progettata forse come esafora. Se si guarda poi alla quadrifora superiore di palazzo Vitturi a S. Maria Formosa, orlata di dentello maturo, si notano gli archi d'ordine III sostenuti da capitelli di imitazione bizantina, mentre la sottostante trifora reca archi di ordine II su pilastri. Infine, la trifora di corte dei mercanti a S. Stae, con archi pur sempre orlati a toro, ha capitelli a foglie d'angolo rovesciate, con collarino a diamante, di età indubbiamente protogotica. A completare la facies di tanto varia evoluzione, percorsa da anticipazione di una nuova civiltà formale, e insieme da attardamenti sul gusto delle fasi più arcaiche, si citano due ultimi esempi: l'esafora di palazzo Moro a S. Bartolomeo, la quale presenta, su capitelli protogotici a foglie rovesciate, altra dimensione delle colonne, e, soprattutto, un disegno degli archi che, variando la curva e controcurva, fa quasi scomparire il sesto rialzato, e avvicina la cuspide all'inflessione gotica; più avanzato ancora, questo processo è attestato, con tozze colonne e capitelli a cubo scantonato, negli archi a toro della trifora di casa nr. 1464 a S. Moisè.
Contraddizioni alla conservazione, contraddizioni al cambiamento: così si apre il Trecento, e avanzano le premesse formali di una città, nuova, che comincia già a rinnovarsi.
I1 Duecento, che realizza e chiude una grande stagione economico-politica di Venezia, conclude anche con allusiva contemporaneità un'epoca di sperimentale originalità urbanistica e creatività architettonica. Si è discusso di quest'epoca come di un'età di renovatio, di un protorinascimento, legato peraltro non alla classicità romana, ma alla cultura imperiale tarda, paleocristiana e costantinopolitana (165). Se molti elementi, politici, culturali e artistici costituiscono S. Marco come espressione massima di questa indubitabile tensione, gli edifici di quella prima città di pietra configurano però una cultura più complessa, pregna di concretezze operative nelle quali scorre - pur con ritardi, particolarismi e manie di grandezza - una linfa del tutto simile a quella che animava le città sorelle dell'entroterra, nelle quali molti nobili veneziani passavano come podestà o mantenevano corposi interessi. Certo, quell'edilizia non fu baumassiv - lo mostrò per primo lo Swoboda, che ne illustrò la "smaterializzazione della superficie" -, ma "anticlassica" per colore e per ritmo, come chiarì il Bettini. Ma quella risoluzione ottica, che negava la continuità muraria, venne pur sempre conseguita negli esempi più rappresentativi con mezzi tettonici, con attenzioni numeriche, con libero virtuosismo strutturale. Fra tutte le fisionomie del romanico europeo, e italiano, quella veneziana appare dunque come una delle più ibride, tardive e singolari, tanto da non essere stata per lungo tempo riconosciuta. Nell'inedita miscela di aggressività mercantile, cosmopolitismo culturale e imperialismo politico della Venezia di quel tempo la città e le case dei maiores veneziani confessano come potevano - e per quanto riusciamo ancora a leggere - quella difficile elezione.
1. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, a cura di Luigi Lanfranchi, dattiloscritto, nr. 204, 8 giugno 1077.
2. Ibid., nr. 354, maggio 1097.
3. Giovanni Dolfin, Cronaca veneta fino al 1458, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 794 (= 8503), c. 58.
4. Andrea Dandolo, Chronica per extensum descripta, a. 46-1280 d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, IX, XI, 8; A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 1120, giugno 1144; nr. 2876, agosto 1172; nr. 881, giugno 1138.
5. A. Dandolo, Chronica, IX, XI, 2; Annales Venetici breves, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, p. 70; A. Dandolo, Chronica, IX, XI, 3 e 23; Annales Venetici, p. 71; A. Dandolo, Chronica, IX, XII, 4; ibid., IX, XIV, 2; Giambattista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche, profane ed ecclesiastiche, I-VIII, Venezia 1795: I, p. 301; A. Dandolo, Chronica, IX, XV, 15.
6. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 15, febbraio 1013; nr. 83, 2 (4) aprile 1038; nr. 109, 1° ottobre 1048; nr. 171, agosto 1069; nr. 172, gennaio 1070; nr. 269, gennaio 1086.
7. Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, I, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9), p. 126.
8. Ibid., p. 131.
9. Henri Pirenne, Les villes du Moyen Âge, Bruxelles 1927 (trad. it. Le città del Medioevo, Roma-Bari 1971); Edith Ennen, Die europäische Stadt des Mittelalters, Göttingen 1972 (trad. it. Storia della città medievale, Roma-Bari 1975).
10. Giovanni diacono, Cronaca veneziana, p. 139.
11. Paolino da Venezia, Chronicon a mundi initio ad annum Christi circiter MCCCXLVI (Chronologia magna), perg., Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. Z. 399 (= 1610), c. 7; ibid., ms. it. cl. VI. 188 (= 10039), nrr. 1 e 2.
12. Flaminio Corner, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae ac in decades
distributae, I-XVI, Venetiis 1749: XI, I, p. 278.
13. A.S.V., Cancelleria inferiore, b. 30 (16 giugno 1295).
14. S. Giorgio Maggiore, II, Documenti (982-1159), a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1967, nr. 248, marzo 1152.
15. S. Maria Formosa (1060-1195), a cura di Maurizio Rosada, Venezia 1972, nr. 2, maggio 1088. Il genere di callis risulta spesso maschile, come in età classica, fino al XII-XIII secolo.
16. Il primo intervento pubblico in materia, che prevede necessità di licenza, è dell'8 settembre 1293: Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, I-III, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1931-1950: III, p. 349. Non è chiara la funzione "de illis, qui sunt ad aptandum vias, pontis [...>": ibid., II, p. 388 (21 novembre 1267).
17. Codex Publicorum, Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna, 2562 (= 3824), sentenza LVI; A.S.V., S. Zaccaria, b. 8 pergg., s.d. (in attergato: 1215).
18. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 119 (12 ottobre 1247).
19. Ibid., p. 121 (29 agosto 1272).
20. Ibid., p. 385 (30 aprile 1266).
21. Ibid., III, p. 430 (8 novembre 1297).
22. A.S.V., Cancelleria inferiore, b. 30 (17 agosto 1236).
23. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 135 (26 gennaio 1285).
24. Ibid., I, p. 70 (27 settembre 1224).
25. Ibid., p. 188 (23 settembre 1227).
26. Ibid., II, p. 222 (8 luglio 1270); p. 223 (21 luglio 1275).
27. Ibid., p. 224 (4 giugno 1276).
28. Ibid., p. 314 (7 luglio 1282); Codex Publicorum (Codice del Piovego), I, (1282-1298), a cura di Bianca Lanfranchi Strina, Venezia 1985, pp. 17-19.
29. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 395 (21 aprile 1270); p. 42 (29 gennaio 1281).
30. "[...> quod, completo termino illorum, qui sunt super Publicis, dictum officium dimittatur, et non sit amplius [...>": ibid., III, p. 96 (25 febbraio 1284).
31. Vie pubbliche, e Canale (che è pubblico): per le vie private, che sono la maggior parte, non c'è norma: ibid., I, p. 188 (23 settembre 1227).
32. Ibid., II, p. 213 (5 settembre 1269); p. 214 (27 maggio 1272).
33. Emmanuele A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, I-VI, Venezia 1824-1853: IV, p. 547; S. Giorgio Maggiore, III, Documenti (1160-1199), a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1968, nr. CDLXIV, ottobre 1192; A.S.V., S. Giorgio Maggiore, b. 44 (24 aprile 1265, 26 maggio 1266).
34. Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-II, Milano 1983: II, p. 540.
35. Disegno di Giuseppe Canella: Venezia, Museo Correr, Gabinetto disegni, III, 7460; in Pietro Selvatico, Gli antichi prospetti della basilica Marciana a Venezia [...>, Padova 1879.
36. Marco Cornaro, Scrittura sulla Laguna, in Antichi scrittori d'idraulica veneta, I, a cura di Giuseppe Pavanello, Venezia 1919, pp. 75 e 77.
37. W. Dorigo, Venezia Origini, 11, pp. 591-648.
38. Ibid., pp. 633-642.
39. Un recupero archeologico insolito, di Ernesto Canal, e perduto: si veda la tesi di laurea - ora pubblicata - della mia allieva Lidia Fersuoch, S. Leonardo in Fossa Mala e altri insediamenti monastici, Roma 1994.
40. Cesare Cantù, Grande Illustrazione del Lombardo-Veneto, II, Milano 1858, p. 322. V. n. 22.
41. Hans Buchwald, Eleventh Century Corinthyan-Palmette Capitals in the Region of Aquileia, "The Art Bulletin", 48, 2, 1966, pp. 147-157.
42. Marin Sanudo, Le vite dei Dogi, I, a cura di Giovanni Monticolo, in R.I.S.2, XXII, 4, 1900-1911, pp. 238-241.
43. Le cronache veneziane li riferiscono soprattutto all'età di S. Ziani. Per tutte: A. Dandolo, Chronica, X, I, 40. Per le prime Procuratie e case dei procuratori si veda ora Michela Agazzi, Platea Sancti Marci. I luoghi marciani dall'XI al XIII secolo e la formazione della piazza, Venezia 1991.
44. Si vedano i pavimenti in opus misto sectile-tessellatum delle due chiese; nel caso di S. Lorenzo la scoperta è recentissima (1986), lo scavo ancora in corso: Maurizia De Min, Venezia. Rinvenimenti medioevali nella chiesa di S. Lorenzo. Notizie preliminari, "Venezia Arti", 4, 1990, pp. 159-166.
45. G. Gallicciolli, Delle memorie venete antiche, IV, pp. 41-42; Codice diplomatico padovano dall'anno 1101 alla pace di Costanza, I-II, a cura di Andrea Gloria, Venezia 1879-1881: II, nr. 851, p. 125 (15 luglio 1164).
46. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 2176, novembre 1153.
47. Louise Buenger Robbert, The Venetian Money Market, 1150 to 1229, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 3-94 (pp. 3-121).
48. Edoardo Arslan, Venezia Gotica. L'Architettura Civile Gotica Veneziana, Milano 1970, pp. 13-16.
49. I frammenti di sectile raccolti nell'area della basilica a Jesolo, e nell'area del campanile a S. Salvador suggeriscono, per materiali e per forme, le medesime disposizioni.
50. Licia Fabbiani, La fondazione monastica di S. Nicolò di Lido (1053-1628), Venezia s.d. [ma 1988>.
51. Sono noti due nomi: Marco greco Indriomeni magistro musilei (A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 2176, novembre 1153, forse citato - Marco greco - in altro atto del 1160); "[...> il greco Teofane, che in Venezia, circa il 1200, tenea scuola aperta di pittura [...>" (Francesco Zanotto, in Storia della Pittura [...>, in AA.VV., Venezia e le sue Lagune, Venezia 1847, I, pt. II, pp. 287-290 [pp. 283-384>).
52. Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, p. 137.
53. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 480, settembre 1112.
54. Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, p. 140.
55 A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 114, luglio 1051.
56. V. n. 2.
57. "[...> fonticum comunis novum, et aliud similiter, quod factum est in domo Io. Michaelis [...>", Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, p. 162 (1° gennaio 1228).
58. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 2250, febbraio 1156. Precedentemente l'area appartiene al confinio di S. Giovanni confessore (ibid., nr. 570, febbraio 1120).
59. "Sit crux vera salus huic tua Christe loco / Hoc circa templum sit jus mercantibus aequum / pondere nec vergant, nec sit conventio prava".
60. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 206 (22 giugno 1288).
61. Ibid., p. 246 (27 settembre 1289).
62. I Libri Commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, I-III, a cura di Riccardo Predelli, Venezia 1876-1883: I, p. 479 (s.d. ma 1310): nel Liber Petitionum furono inserite nell'aprile 1278 le delibere prese perché i Gradenigo potessero usare delle loro rive come gli altri Veneziani delle proprie.
63. Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, p. 111 (26 settembre 1226); Venezia, Museo Correr, ms. PD, 302 c, 2 (febbraio 1228); A.S.V., Procuratori di S. Marco, Misti, b. 303 (aprile 1304). Si veda Roberto Cessi-Annibale Alberti, Rialto. L'isola, il ponte, il mercato, Bologna 1934, pp. 30, 37-38.
64. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 4571, agosto 1197.
65. Ivi, S. Maria dell'Umiltà, b. 1 pergg. (aprile 1205); Silvano Borsari, Una famiglia veneziana del Medioevo: gli Ziani, "Archivio Veneto", ser. V, 110, 1978, pp. 27-72, a p. 57 (testamento di Pietro, settembre 1228): Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 57 (21 dicembre 1265): la domus maior de Ca' Quirini, attestata fin dal 7 febbraio 1275 (ibid., p. 310), è probabilmente quella domus maior del 1265, di proprietà comunale; sarà rivenduta a Nicolò Querini nel 1288 per la somma - pari a quella dell'acquisto - di 4.000 lire (ibid., III, p. 223).
66. Consiglio dei Dieci, Deliberazioni Miste, registri I-II (1310-1325), a cura di Ferruccio Zago, Venezia 1962, App., XVI (5 novembre 1310).
67. Gli squeri sono spesso in terra vacua pertinente la domus padronale (A.S.V., S. Zaccaria, b. 25 perg.: luglio 1178); talvolta se ne afferma l'inseparabilità (ivi, Cancelleria inf., b. 65: 31 ottobre 1306; b. 10: 1° giugno 1309, S. Vitale): "[...> proprietas sive domus simul cum schero coniuncta". Egualmente per le arsena private: "[...> illas duas arsena insimul coniunctis et domum lapideam coniunctam cum ipsis arsena [...>" (S. Borsari, Una famiglia, p. 70, 26 giugno 1253).
68. Procopio, De Aedificiis, a cura di Jacob Haury-Gerhard Wirth, Leipzig 1964, IV, 4 (p. 121); Corpus Inscriptionum Graecarum, a cura di Ernst Curtius, Berlin 1856, IV, 8680.
69. Zosimo, Historia Nova, a cura di Ludwig Mendelssohn, Hildesheim 1963 (rist.), II, 30, 3.
70. Codex Publicorum (Codice del Piovego), sentenza 20, p. 131 (13 agosto 1289); F. Corner, Ecclesiae, VI, p. 201 (20 dicembre 1325).
71. Il rivo viene approfondito nel 1224 (Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, p. 15: 9 marzo).
72. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 881, giugno 1138.
73. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 345 e 350 (2 dicembre 1281).
74. Codex Publicorum (Codice del Piovego), sentenza LXXXVII (21 luglio 1329).
75. Il lago, già ceduto dal vescovo di Castello al priore di S. Daniele, "cum agere, terra et fundamenta", confinante con l'arsena (I Libri Commemoriali, II, 1, 11 aprile 1220), viene faticosamente acquisito dal comune con atti e autorizzazioni datati fra il 10 agosto 1325 e il 22 aprile 1326 (ibid., pp. 439-463)
76. A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Spiritus, c. 13v (17 marzo 1327).
77. Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 3629 (= 3342), 10, b; 3660 (= 3373), 5, 2, a.
78. Ennio Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia. Tecniche e istituzioni dal medioevo all'età moderna, Milano 1984, p. 28. Le fonti sono cronachistiche.
79. A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Spiritus, c. 115 (17 aprile 1341).
80. Ibid., Liber Fronesis, c. 112v (14 aprile 1323); ibid., c. 135v (26 aprile 1324); ibid., c. 68 (11 giugno 1321). Si veda al riguardo: Michela Agazzi, I granai della Repubblica, "Venezia Arti", 7, 1993, p. 55 (pp. 51-62).
81. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 708, febbraio 1130.
82. Ibid., nr. 503, luglio 1115.
83. Ibid., nr. 591, marzo 1121.
84. S. Giorgio Maggiore, II, nr. 215, marzo 1145.
85. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 269, gennaio 1086.
86. Ibid., nr. 1120, giugno 1144; nr. 2153, marzo 1153.
87. S. Maria Formosa, nr. 21, luglio 1188.
88. F. Corner, Ecclesiae, III, p. 367 (maggio 1222); X, pp. 330-331 (3 maggio 1230); ecc.
89. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 83, 2 (4) aprile 1038; nr. 4090, luglio 1191.
90. W. Dorigo, Venezia Origini, II, p. 542.
91. Ibid., pp. 400-401.
92. Ibid., p. 394.
93. Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, p. 129 (13 novembre 1223); ibid., p. 205 (5 novembre 1227). Anche il ferro veniva importato de Cadubrio: ibid., III, p. 85 (28 settembre 1284).
94. Ibid., III, pp. 81-82 (2 settembre 1284); A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Fronesis, c. 161 (12 dicembre 1325).
95. Wladimiro Dorigo, Altino medioevale, "Venezia Arti", 1, 1987, pp. 22-31.
96. AA.VV., Le altinelle a Venezia: problemi storici, caratterizzazione chimico-fisica, cause di deterioramento, in AA.VV., Il mattone di Venezia. Contributi presentati al concorso su patologia, diagnosi e terapia del mattone di Venezia, Venezia 1982, pp. 227-291.
97. SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio (819-1199), a cura di Luigi Lanfranchi-Bianca Strina, Venezia 1965, nr. 39, dicembre 1197.
98. Codex Publicorum (Codice del Piovego), sentenze L e LI (7 luglio 1292).
99. Andrzej Wyrobisz, Umowa o zalozenie cegielni u Wenecji. W 1233 - Roku, "Studia z Dziejów Rzemiosla i Przemyslu", 6, 1966, cit. in AA.VV., Le altinelle, p. 231. V. anche n. 104.
100. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 406 (30 novembre 1271).
101. Vedi n. 76.
102. A.S.V., S. Maria Gloriosa dei Frari, b. 109 (30 dicembre 1291); Bartolomeo Cecchetti, La vita dei Veneziani nel 1300, I, La città, la laguna, Venezia 1885, p. 122 n. 2 (26 gennaio 1390); cf. F. Corner, Ecclesiae, X, pp. 327-329 (1516).
103. I Capitolari delle Arti Veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, I, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1896 (Fonti per la storia d'Italia, 26), pp. 79-93.
104. Il capitolare impegnava a produrre "cupos [...> et petras, bonos et bene coctas, ad formam factam in pilona, Rivoalto" (I Capitolari, I, p. 81 [novembre I 229>); ma l'evasione da norme e misure era frequente: per esempio il 28 gennaio 1331 tre ispettori (due gastaldiones procuratorum sancti Marci, e muratorum, e un fornaserius sancti Blasii), dopo un controllo negativo in altra fornace, trovarono presso Giovanni Loredan di S. Canciano che in una partita di lapides "duas partes esse bonos et iustos ad [...> modinum [comunis: una formella legale> et terciam partem esse mancham, in tantum videlicet quod undecim lapides de istis manchis laborarent pro decem de bonis [...>" (ibid., pp. 232-233).
105. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 2445, settembre 1161; nr. 4756, febbraio 1199.
106. "Cubam maiorem ecclesie sancti Salvatoris [...> opere mosayco depingi fecit" (M. Morosini, 1252): A. Dandolo, Chronica, X, VI, 6: Francesco de Gratia, Chronicon Monasterii S. Salvatoris Venetiarum, Venezia 1766, p. 78.
107. Le deliberazioni del Consiglio dei XL della Repubblica di Venezia, II, a cura di Antonino Lombardo, Venezia 1958, pp. 197-198 (21 giugno 1368).
108. Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, a cura di Roberto Cessi, I, Secoli V-IX, Padova 1942, nr. 53, p. 98.
109. Lorenzo Lazzarini, I materiali lapidei delle vere da pozzo veneziane e la loro conservazione, in Vere da pozzo di Venezia - I puteali pubblici di Venezia e della sua Laguna, a cura di Alberto Rizzi, Venezia 1981, pp. 371-385; tesi di laurea della mia allieva Roberta Bravin, Schedatura e studio delle vere da pozzo medioevali note nell'ambiente veneziano fino al secolo XIII, Università di Venezia, a.a. 1981-1982.
110. I Capitolari delle Arti Veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, III, a cura di Enrico Besta, Roma 1914 (Fonti per la storia d'Italia, 28), p. 254.
111. Ibid., pp. 262-263; Mario Dalla Costa-Cesare Feiffer, Le pietre dell'architettura veneta e di Venezia, Venezia 1981, p. 87.
112. V. n. 110.
113. V. n. 111.
114. W. Dorigo, Venezia Origini, I, pp. 335-340.
115. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 83, 2 (4) aprile 1038.
116. M. Cornaro, Scrittura, II, p. 151.
117. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 4253, luglio 1193.
118. V. n. 115.
119. Giorgio Gianighian, Scarichi veneziani in epoca moderna: canoni da aqua - canoni da necessario, "Studi Veneziani", n. ser., 7, 1983, pp. 161-182. Si ricordano i citati "grandalli, gorne e condutti" (1307): v. n. 111. Nel 1338 (A.S.V., Proc. S. Marco Misti, b. 31 pergg.) è poi attestata presso il ponte di S. Lio la sostituzione di "gurnas que [...> mitunt aquam in rivum" per "facere ipsas descendere per conductum recludendum in muro [...> usque in rivum". Di qui non deve essere stato difficile immaginare l'uso dei conducti per rifornire il pozzo domestico in mancanza di corte adeguata.
120. Prime attestazioni: "in suro [Tiro?> supra fontegam", agosto 1178 (Antonio Baracchi, Le carte del mille e del millecento che si conservano nel R. Archivio notarile di Venezia, "Archivio Veneto", 9, 1875, p. 109 [pp. 99-115>); "una nave si lavora sul fondo del fontico", febbraio 1183 (B. Cecchetti, La vita, p. 31: "[...> nave que quondam laborare fecisti supra terra que dicitur Funtega Patriarchatus, in confinio sancti Luce [...l"). A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 4077, aprile 1191.
121. La parola è di oscura origine (altre grafie: serzentes, sedentes, serentes); può forse essere legata con sedentes, nel significato di manentes, o meglio con serventes, nella direzione semantica di servi: si può ritenere di derivazione continentale, antico-francese ("servientes de curte, de manerio, armorum [sive clientes cum armis>": Charles Dufresne Du Cange, Glossarium Mediae et Infimae Latinitatis, I-X, Niort 1883-1887: VII, 443), per l'attestazione nella forma di sergenz, Geoffroy de Villehardouin, La conquête de Constantinople, in Historiens et chroniqueurs du Moyen Âge, a cura di Albert Pauphilet, V, Paris 1972, p. 92 (pp. 92-202) A Venezia il termine si applicava a famigli, servi, clienti, guardie domestiche: successivamente significa affittuali. Si veda la n. 122.
122. "[...> de segetura tocius suprascripte mansionis", A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 2505 (1164); ivi, Cancelleria inferiore, b. 138: "ad fictus sive segetura" (1251).
I23. Wart Arslan, L'architettura romanica veronese, Verona 1939, pp. 27-28, 92-93, 160-161. Per S. Zeno si veda ora Giovanna Valenzano, La basilica di San Zeno in Verona, Vicenza 1993.
124. Ma nel XIII secolo le domus delle famiglie dogali introducono lentamente l'uso di palacium per l'edilizia privata: "De emptione palatii quondam domini Henrici Dandolo ducis" (Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, p. 66: 15 luglio 1224); "nostrum palacium [...> in confinio sancte Iustine" (testamento di Marco Ziani, 26 giugno 1253: S. Borsari, Una famiglia, p. 68).
125. Annales Venetici, p. 71.
126. Federico Berchet, Relazione degli scavi in piazza S. Marco, "Monumenti storici pubblicati dalla R. Deputazione veneta di storia patria", ser. IV, Miscellanea, 1892, pp. 1-43; e la tesi di laurea, sopra citata, della mia allieva M. Agazzi, Platea Sancti Marci.
127. Karl M. Swoboda, Römische und romanische Papiste (Wien 1918) Wien 19693, alle pp. 77-132 e 185-199.
128. Documenti, 45, p. 78; 53, p. 98; Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, pp. 126, 150.
129. A. Dandolo, Chronica, IX, XIV, 3.
130. Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, p. 106.
131. I prestiti della Repubblica di Venezia (sec. XIII-XV). Introduzione storica e documenti, a cura di Gino Luzzatto, Padova 1929, 1 (giugno 1164), pp. 3-7. Firmano 112 persone, con 80 diversi cognomi.
132. Secondo la nostra schedatura, esistono ancora in Venezia tracce di circa 120 edifici rilevanti del XIII secolo, mentre le fonti iconografiche ne identificano almeno altri 20. Moltissimi gli edifici rilevabili dalle fonti manoscritte contemporanee, in parte naturalmente identificabili con i precedenti.
133. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 83, 1038; ivi, Cancelleria inferiore, b. 178 (1212?).
134. Ivi, Codice diplomatico veneziano, nr. 171, agosto 1069; Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, I-II, Torino 1940: I, p. 16 n. 16, gennaio 1086.
135. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 2642, agosto 1167; nr. 792, giugno 1134.
136. Per tutti: Sergio Bettini, Venezia. Nascita di una città, Milano 1978.
137. In qualche caso (Ca' Farsetti, per esempio) non mancano sostegni celati dietro le esili colonnine, che occupano solo un quarto dello spazio interasse; ma tale rapporto pieno/vuoto è altrove quasi sempre sostenuto da grosse colonne, mentre è comunque più diffuso un rapporto più portante X/X il quale permette più spesso l'uso di colonne sottili.
138. Philippe de Commynes, Mémoires, in Historiens et chroniqueurs du Moyen Âge, VII, a cura di Albert Pauphilet, Paris 1972, p. 1346.
139. A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Presbiter, c. 118 v (20 marzo 1314); ibid., Liber Civicus, c. 54 (17 agosto 1316); ecc.
140. Zygmunt Swiechowsky - Alberto Rizzi - Richard Hamann-MacLean, Romanische Reliefs von Venezianischen Fassaden. "Patere e formelle", Wiesbaden 1982.
141. Fulvio Zuliani, I marmi di San Marco, Venezia s.d. [ma 1970>, pp. 138-163.
142. Agostino Sagredo-Federico Berchet, Il Fondaco dei Turchi in Venezia, Milano 1860.
143. Pietro Selvatico, Sulla architettura e sulla scultura in Venezia [...>, Venezia 1847, p. 74.
144. Girolamo Mocetto, Sacrificio (in. XVI sec.); Giacomo Franco, Processione generale fatta in Vinegia alla pubblicazione della Lega l'anno 1571 (1571- 1580 circa); Georg Hoefnagel, Piazza S. Marco (post 1572).
145. Erhard Reuwich (1486); Lazzaro Bastiani (?), La piazzetta (1478 circa); ecc.
146. Antonio Canal, Il canal Grande fra palazzo Bembo e palazzo Vendramin Calergi, Woburn Abbey; Antonio Quadri, Il Canal Grande di Venezia [...> rappresentato in XL tavole rilevate e incise da D. Moretti, Venezia 1828.
147. Francesco Guardi, Il Canal Grande verso Rialto (Brera).
148. John Ruskin, The Stones of Venice, London 18742.
149. Si veda il primo nel telero di Gentile Bellini, il secondo nella pianta del de' Barbari. Il pons a Dadis (A.S.V., Cerimoniali, I, c. 8, ante 1512) conduceva anche allora in calle dei fabbri.
150. La facciata risulta divisa in tre sezioni verticali di 18,33 e 18 piedi romani, con lievi adattamenti fra portico e loggia.
151. Il ritmo di facciata si risolveva originariamente nella sequenza di 22, 35, 22 piedi romani, pari a 4, 8, 4 fori di loggia, e 2, 5, 2 fori di portico. Le basi delle colonne di quest'ultimo consistevano in "capitelli corintii rovesciati, tolti da edifizii romani de' bassi tempi" (F. Zanotto, in Storia della pittura, p. 420); erano probabilmente anch'essi fra i marmi presi da Enrico Dandolo in Costantinopoli nel 1204, secondo un noto passo della cronaca Magno.
152. L'incisione del Lovisa del 1720 farebbe sospettare un piano di "mezadi de sora", ma il riscontro con i disegni di D. Moretti e nell'Architettura del Selvatico, e con due fotografie del 1853-1858, denuncia una deformazione nell'immagine settecentesca, e mostra che i 9 merli stesi sopra la loggia, e non in corrispondenza delle "toreselle", scomparvero dopo il 1828 o dopo il 1847.
153. Qualche notevole somiglianza linguistica con l'arcone centrale residuo presso palazzo da Mula a Murano.
154. Con l'aiuto di un acquarello dell'inizio dell'Ottocento, pubblicato da Giandomenico Romanelli (Venezia Ottocento, Roma 1977, fig. 362) e del de' Barbari è possibile ubicare l'edificio sul mappale 821 del Catasto Napoleonico: uno dei lati corti dell'edificio, verso nord, dava su calle Lunga S. Moisè, e la facciata, oltre la piccola corte, guardava verso la chiesa omonima.
155. Giorgia Scattolin, Contributo allo studio dell'architettura civile veneziana dal IX al XIII secolo. Le case-fondaco sul Canal Grande. Primo Quaderno, Venezia 1961, pp. 17-24, e t. I.
156. Il portico è a tre archi nella pianta del de' Barbari, ma già allora sussisteva un portale d'angolo verso il rio, ove è ora una colonna con capitello scantonato (rialzata rispetto al livello ottocentesco), forse manipolazione sul sito dell'antica cavana.
157. Il palazzo originario, visibile di scorcio nel dipinto del Carpaccio Il miracolo della santa Croce, e di prospetto nella pianta del de' Barbari, giungeva attraverso l'attuale palazzo Errera fino al sottoportico della Pasina: aveva torri angolari, portico, loggia, e sopra di essa 10 grandi merli simili a quelli di Ca' Barozzi e Ca' Palmieri-Pesaro; quasi al centro era ubicato il portico-loggia avanzato, rappresentato aulicamente dal Carpaccio ma presente anche nel de' Barbari. L'edificio, datato supra fra 1156 e 1164 (v. n. 45), fu probabilmente quello che ospitò un incontro fra pontefice, vescovi e imperatore nel 1177, con completamenti verso la fine del secolo. Ma già nel 1182 (A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nrr. 3484 e 3485, 11-14 aprile) il patriarca Dandolo concedeva al pievano di S. Silvestro tutte le "stationes vel cameras [...> permanentes sub palatio et ecclesie nostri patriarchatus": il mercato, cioè, invadeva il palazzo. Forse per questo nel Duecento si aggiunse, contigua, la "Ca' del Papa", con più defilate funzioni residenziali.
158. I due primi archi da sinistra sono più larghi degli altri sei, e poggiano su pilastro.
159. Ma quasi tutte le misure architettoniche sono in piedi e palmi romani.
160. Nella pianta del de' Barbari il portico esiste ancora, con 4 + 1 + 4 fornici. Sulla calle, probabilmente già piscina, facciata con pentafora di ordine II, di edificio contiguo posteriore.
161. Altro esempio di facciata non prospiciente sull'acqua (la quale arrivava peraltro all'angolo dell'edificio, con il rio-terrà Carampane).
162. Trasformate le facciate sull'acqua, la facies appare di matura definizione formale, prossima alla metà del Duecento.
163. La pianta, assai irregolare, presenta una facciata pari a circa 66 piedi romani, e osserva lo schema a U: il dimensionamento degli elementi architettonici, assai confuso, non contribuisce alla datazione.
164. Rinaldo Fulin, La casa grande dei tre fratelli Querini, "Archivio Veneto", 11, 1876, pp. 147-156.
165. Otto Demus, The Church of San Marco in Venice. History, Architetture, Sculpture, Washington D.C. 1960. Fra gli studi consultati, non specificamente citati, sono da ricordare: Egle R. Trincanato, Venezia minore, Milano, 1948; Paolo Maretto, L'edilizia gotica veneziana, Roma 1960; Id., La casa veneziana nella storia della città dalle origini all'Ottocento, Venezia 1986.