Le espressioni d'arte: le sculture
Intanto il corpo del santo giaceva qui, composto in pace: e questo suo requiem sulla filattera dorata era già scritto sin da allora in ebraico, in greco e in latino. In ebraico con le parole dei profeti d'Israele. In greco, con ogni sforzo della mano dell'artefice e con ogni visione dei suoi occhi. In latino col ritmico verso, calmo come l'onda del Mincio, di cui Vergilio era stato maestro. Ma se volete leggerlo dovete ora comprendere, una volta per sempre, il metodo di espressione dell'arte greca, qui, e nella Grecia, e nella Jonia, e nelle isole, dai primi tempi sino all'ora presente. Vi proposi il bassorilievo delle dodici pecore e dell'agnellino saltellante come tipo generico di tutta l'arte bizantina, affine d'imprimervi subito nella mente, che il precipuo, il più intenso carattere n'è il simbolismo. La cosa rappresentata significa più che se stessa: è una sigla, una lettera, più che un'immagine.
Queste sono le prime parole che J. Ruskin dedica, nel Riposo di San Marco, a poco più di trent'anni di distanza dal più celebre Stones of Venice (1853), alla basilica veneziana, dove la passione dei devoti volle "scrivere sulle muraglie l'Evangelo di san Marco, per tutti gli occhi, e - secondo le forze loro - per tutti i tempi": Ruskin pone una straordinaria enfasi - e questo non può non trovarci d'accordo - sul contenuto, al di là delle forme, sul significato nascosto dietro la folla ristrettissima di personaggi, chiamata ad animare specialmente gli archivolti dei portali in una trama che tanto più ci colpisce in quanto a tutt'oggi - al di là della tremenda distruzione apportata dal tempo proprio nella superficie sensibile della forma - quasi tutto ancora si "legge", perfino quando scritte pallide (si prenda ad esempio quelle che ostentano le Virtù del mezzo) ci risulterebbero da sole scarsamente parlanti: ed è ciò che conta, perché - continua il bellissimo esordio - "al Greco non importa che l'immagine sia perfetta. Gli basta che sia compresa: se può essere bella per giunta, tanto meglio; ma il suo officio non è d'esser bella, ma di ammaestrare". Così ci si svela il testo di quella che A. Robertson, parodiando un celeberrimo titolo ruskiniano, chiamò la Bible of St. Mark.
L'impressione che spesso ci colpisce quando affrontiamo le grandi chiese cattedrali è di trovarci dinanzi straordinari coaguli, pronti a colpirci con tratti disinvoltamente eterogenei, e capaci di rovesciare una commistione apparentemente incongrua di elementi - dettata da processi di formazione estesi per secoli e talvolta ancora incompiuti - di rovesciare, voglio dire, tale situazione di scomoda necessità, nella folgorante virtù di un organismo in grado di aggredirci per strade molteplici, dotato della possibilità di "significare" che le trasforma come per miracolo da "aperte/incompiute", di cui dicevo sopra, a "illimitate", che spesso è l'oggettivo titolo di vanto di questi edifici.
Quest'impressione si impone violentemente all'osservatore di S. Marco, ed in particolare a chi speculi sulle sue forme esterne, sulle tre ricchissime facciate, che già di per sé portano caratteristiche divergenti l'una dall'altra. Qui non voglio evidentemente tacere alcuni interventi anche maldestri e affatto negativi che - in epoche di restauri recenti o addirittura di risistemazioni tarde - sono in parte un fardello pericoloso per la storia della basilica, ed hanno certamente compromesso (per fortuna solo parzialmente) i suoi intenti, il suo "programma". Nonostante tutto una storia unitaria, sui muri e sui loro ornamenti, la si può leggere ancora e si può constatare di tanto in tanto come la stratificazione cronologica sul corpo del monumento non sia solamente una conclusione banale di noi che lo studiamo, ma fosse coscientemente provocata (e questo è naturalmente molto meno ovvio) dalle maestranze all'opera, quando - in presenza di "spoglie" - si industriavano a completare una simmetria compositiva (= iconografica!) approntando di mano propria copie o prodotti delicatamente "in stile": la vicenda degli Ercoli della facciata principale (est) è a suo modo significativa, perché mentre quello della tavola di sinistra (Ercole col cinghiale erimantico) è tardoantico, l'Ercole col cervo e l'idra di destra è prodotto veneziano del 1230 circa, per cui si ha facile gioco a notare che esso è stato realizzato in consapevole concomitanza con il rilievo precedente.
L'impressione è di un coagulo: che altro non è la combinazione - in quest'opera straordinariamente sintetica, "totale" -, la contiguità di mosaici e sculture, tanto presente agli scultori da far derivare tutto il ciclo-culmine (le Virtù sulla faccia esterna del II arco del portale mediano sulla facciata est) da un modello musivo (la grande teoria di Virtù che anima il fondo della cupola centrale)? Il che avviene secondo un atteggiamento di derivazione stretta e puntuale, spinta talora sino alla riproduzione incompetente di dettagli fraintesi. E proprio ancora sulla porta centrale si combina il programma dei rilievi, con le Virtù, i Mesi, i Mestieri, a quello dei mosaici, coi temi legati al Giudizio Finale, secondo lo stretto rapporto ben noto da altri cicli romanici padani (su cui tornerò fra breve).
Uno stile impuro e frutto di combinazione è anche quello delle tre facciate, se si considerano nel loro assieme (chiamerò, coerentemente alla disposizione geografica, nord quella rivolta verso il corpo della città, est quella principale sulla piazza S. Marco, e sud quella aperta verso il mare).
Ora mi limiterò a notare che, ad esempio, proprio la facciata sud riesce difficilissima da integrare in un'esegesi che voglia abbracciarla tutta, così letteralmente composita com'è di marmi della provenienza più varia e della più diversa natura (si guardi in particolare alla zona che fa da cerniera col vicino palazzo Ducale, ai bellissimi grifi affrontati, eco dei pavoni affrontati che gli sono accosto, e non per questo legati da qualche tramite che non sia puramente una somiglianza decorativa e formale, all'ennesima ripetizione - qui in verità piuttosto emarginata - dei simboli evangelistici sull'ultima lastra). Per giunta, l'arco della cappella Zen è ormai - come se non bastasse - defunzionalizzato: occhi che cercassero disperatamente un programma unitario, verrebbero immancabilmente delusi. Eppure, nessun termine stonerebbe - a definire la facciata - più di "raccogliticcio", e se quegli stessi occhi si abbandonassero ad un piacere meramente visivo per cogliere, sulla superficie nitida della parete, il gusto pittorico di chi collocò tutti quegli eterogenei materiali di spoglio, godrebbero della percezione che probabilmente i costruttori vollero suggerire: allo sguardo di chi arrivava, dal mare, esibire una vera e propria "immagine" in senso moderno, allettante e trionfale (non sarà un caso che abbiano trovato posto qui - se pur avanzate rispetto al muro - e non altrove, le colonne iperdecorate, preda bellica di Lorenzo Tiepolo, "doi colonne che erano intagliate a fogliami, quale furono le balestrade d'una porta di Acre") (1). E l'impatto con questa dichiarata apologia, se doveva essere alquanto brusco, non manca di affascinarci e colpire il segno.
Probabilmente - se vogliamo seguire la pista delle spoglie trionfali - meritano il primo posto i cavalli bronzei sopra gli archi dell'ingresso principale: come è stato opportunamente notato, essi non sono solo un - seppur ricco - bottino di guerra, ma volevano alludere alla quadriga trionfale romana (2) e furono in situ così presto da poter figurare chiaramente nel mosaico della porta S. Alipio (alla facciata nord: la scena del trasporto della reliquia del santo avviene sullo sfondo della facciata della basilica).
Si va abbastanza vicini al vero se - a voler cogliere riassuntivamente il senso di questa facciata nord - la si definisce un ciclo genericamente apotropaico, non chiaro in tutti i dettagli (è ad esempio molto difficile un'analisi soddisfacente della porta S. Alipio, e questo non è senza una qualche ironia della sorte, perché si tratta, per questa facciata, della parte meglio integra, dopo che fu danneggiata la porta che doveva corrisponderle sulla destra: ed è anche il più intatto portale minore, visto che - sul lato est - l'apertura delle finestre ha guastato i due timpani subito a sinistra e a destra del portale maggiore). Non importa: si continua a capire il significato iconografico, perché il potere difensivo del San Cristoforo (nonostante dimensioni stavolta contenute, a differenza delle abitudini d'altrove), o dei vari Michele, Leonardo, Giorgio, è inequivocabile (anche se non per tutti possiamo postulare una collocazione ab origine). Sorge dunque spontanea la riflessione del carattere introverso del lato nord rispetto a quello sud, dell'esser volto verso l'interno della città (anche se si tratta ovviamente di città non drasticamente recintata come le terre murate coeve) e dell'appartenere solidamente al cuore dell'organismo urbano, sicché gli anonimi decoratori (e più di loro i religiosissimi committenti) avranno voluto chiamare ad un'ideale concittadinanza il manipolo di protettori: che è poi lo stesso motivo per cui in molte città medievali, ad esempio toscane, i santi protettori che adornano o difendono un punto delicato come le porte sulla cinta muraria non sono rappresentati all'esterno (sarebbe la soluzione più ovvia per personaggi destinati a far da scudo contro probabili nemici, troppo spesso ad portas) ma verso l'interno, cooptati nella folla cittadina.
Se la meta di queste considerazioni preliminari dev'essere il prospetto della facciata ovest (che la piazza amplissima antistante raccomanda come quella di più indiscusso rilievo), sembra doversi anche ammettere per questa stessa facciata una situazione differente e - se anche si vuole sopravvalutare l'intenzione degli esecutori in fatto di così delicati mutamenti di Stimmung - obiettivamente constatare quasi un contrapposto logico rispetto agli altri due corpi che perfino ci è utile nel tentativo d'un'esegesi unitaria. Sembra come se - data per buona una minore capacità a significare, tutte le volte che un segno si impegna più ad abbellire la sua apparenza esteriore, e che ci sia invece una maggiore produzione di senso quando esso sfugge interamente alle tentazioni del decorare e dell'ornare (e qualunque prodotto artistico è pieno di situazioni dell'uno e dell'altro tipo, obbligandoci ad ammettere una sorta di contrapposizione fra rigore significante ed arbitrio decorativo) - i programmi che andavamo inutilmente ricercando prima, e non trovavamo se non secondo itinerari labili, riconoscibili, sì, ma legati ad un filo che si svolgeva secondo una propria autonoma disinvoltura (tanto che tutto era - più che una trama originale - l'abilissima ridisposizione in senso narrativo di materiali scultorei delle più diverse provenienze e cronologie) ci vengano incontro con assoluta pregnanza. I materiali sono prodotti ab origine per il sito destinato ad accoglierli, si organizzano in cicli ampli (né più né meno di quelli cui tante altre cattedrali ci hanno abituati); i diversi cicli trovano sempre come annodarsi soddisfacentemente, le "spoglie" - quando esistono - vengono integrate perfettamente al contesto che le ospita. Forse proprio di questo si tratta: di un'incomparabilmente maggiore integrazione rispetto alle facciate nord e sud, sentendosi come rimossa quella specie di disarmonia prestabilita che dei prospetti minori era il sigillo. Nel caso della facciata est il dato di fatto (tuttora operante) che la decorazione sia stata fatta aderire ad un corpo architettonico strutturato prima di essa, sembra non avvertirsi più, ed almeno le molteplici decorazioni (si tratta di sei abbondanti 'cataloghi', tre coppie, interno/esterno, per i tre archivolti) del portale maggiore si percepiscono intimamente legate ai muri senza la pur affascinante incertezza che ci coglieva dinanzi allo stile delle prime due facciate (che la chiesa fosse in origine edificio privo di un paramento che l'ornasse, al di là della sua variegata iconografia, è un dato da non dimenticare: del resto si coglie facilmente osservando l'abside ovest rimasta spoglia).
Quando tutto questo avvenne, quando si avviò la formidabile operazione che in un giro di anni probabilmente neppure tanto lungo ricoprì di marmi e di preziose "pietre" la basilica, è difficile dire, ed uno sguardo anche rapido alle diverse ricerche mostra ripetutamente divergenze sconcertanti tutte le volte che le ipotesi riguardano la cronologia (3): costretti quasi sempre a combattere sul campo liquido delle analisi stilistiche gli studiosi giungono a conclusioni diverse, tanto che francamente talvolta sarebbe difficile scegliere. E questo forse non è senza qualche rapporto con la straordinaria vicenda di reimpiego (frammenti disparati ormai dimenticati di luogo e data di nascita che solo dalla loro astuta ricollocazione ricavano e recuperano un'identità perduta), quale ci è apparsa - poche righe sopra - la decorazione di S. Marco. Di solito si guarda - giustamente - con attenzione a quel 1204 che, con l'esito trionfale della IV crociata, portò in Occidente l'abbondante bottino di Costantinopoli: e del bottino erano gran parte i materiali marmorei che troveranno posto sulla e nella chiesa. D'altra parte le porte di bronzo autografe di Bertuccio potrebbero, col "1300" che portano iscritto, fornire una sicura data finale. Se non si fosse però costretti a pensare per altre vie che a quella data moltissimo della chiesa era già compiuto (diciamo: almeno attorno al terzo quarto del '200). Grande rilevanza potrebbe avere il ben noto disegno - allo stadio ultimo - della facciata della chiesa nel mosaico della porta S. Alipio; è vero che lo nomina Martin da Canal (scrivente tra il 1267 ed il '75), ma questo non basta a darcene la data sicura: sta di fatto che la chiesa, lì, appare ultimata.
Dicevo del carattere di senso pieno che si legge sulla facciata principale: essa si trova al primo posto della gerarchia e - in essa - primo di tutti viene il portale centrale con la trama segnata da una forte unitarietà. Se teniamo per fermo il Giudizio dei mosaici come nocciolo della rappresentazione, scopriamo i diversi archivolti a fargli corona ed integrarlo.
Il cuore del programma, cioè il gruppo marmoreo al centro della lunetta, è un immediato esempio di come - sul San Marco - perfino un misconoscimento può adoperarsi, riadattato, a soccorrere l'artista in momenti della massima urgenza significante (cioè, qui, il vero centro geometrico di tutta la composizione): un angelo che si accosta ad un vecchio dormiente, il quale doveva essere nelle intenzioni dell'autore Giuseppe, viene probabilmente reinterpretato come s. Marco cui il messo di Dio appare ad annunziare il viaggio verso Venezia che le sue spoglie attende (4).
Il programma generale del portale, scolpito sulle facce interne ed esterne degli archivolti, non si può comprendere senza far riferimento anche alle decorazioni a mosaico, legate al tema - davvero centrale - del Giudizio, in considerazione, non foss'altro, degli intrecci pressoché indistricabili che pietre e tessere formano. L'esordio di questo affascinante percorso è gravato da una oscurità di significato che si sarebbe tentati di prendere per intenzionale da parte dell'esecutore, se la chiarezza del resto non ci suggerisse umiltà e prudenza, facendoci ammettere un "programma" purtroppo ancora a noi ignoto, ma preciso quanto quelli che governano gli ultimi due archi (non v'è dubbio che il percorso muova dall'interno verso l'esterno, e che il punto d'arrivo sia la fascia esteriore con Cristo ed i profeti, del terzo arco): si tratta di scene di animali ambientate fra i tradizionali ornamenti vegetali, per cui sembra problematico arrischiare un'interpretazione, tanto si è vicini ad immagini standard: dromedari, asini, aquile, lupi e cigni sono gli abitanti di questo immaginario serraglio, in mezzo a cui appena ci orienta la coppia dell'uomo e della donna che ornano le due basi dell'arco. Anche per costoro si pensa malvolentieri a Terra ed Oceano o ad una coppia di generici peccatori (per alcuni la donna sarebbe incarnazione di Lussuria (5)). Resta comunque da segnalare la presenza della coppia, perché tornerà di qui a poco, con qualche accento più chiaro. Tornerà - appunto - proprio sulla faccia esterna: dove pure non scompaiono gli elementi d'oscurità, tanto da far definire il luogo come "der rätselhafteste Skulpturenzyklus an S. Marco" (6), perché di nuovo compaiono scene di animali in lotta o di caccia, cui si aggiungono piccoli avvenimenti a diversi protagonisti dove tanto chiari sono gesti ed azioni per quanto ancora è ignoto il senso. Non sono d'accordo con Demus quando sta per rifiutare un vero e proprio senso cogente al seguito delle storie - lo ripeto: la precisione al dettaglio delle singole azioni esclude perentoriamente l'assenza di un'importante "traccia" - ma condivido calorosamente la sua affascinante esegesi nel senso di un voluto ed ammirevolmente cosciente - da parte del marmorario veneziano - atteggiamento arcaizzante. Come se - a distanza di un centinaio d'anni - si fossero voluti riprendere temi e stili ormai sorpassati, riprodotti nello stile attuale, ma facenti sottile allusione al clima artistico scomparso, in modo che l'osservatore potesse autopticamente constatare il cammino che l'arte aveva percorso e godere il trapasso stilistico fra l'inizio e l'esito del portale maggiore. Considerazione che in parte anche legittima l'evolversi (cui già accennai) dei contenuti man mano che si procede verso l'esterno, per cui effettivamente l'ipotesi di un'intenzionale opposizione fra storie disorganizzate e immagini di cosmo scrupolosamente ordinato (i Mesi, le Virtù) non è priva di una sua suggestione (7). Che poi era in parte una vecchia spiegazione di Saccardo (8), quella del segno tangibile di un progresso dalla 'natura' alla 'cultura', dalla vita d'animali selvaggi al Christus Emmanuel della serratura dell'arco.
Ebbene, delle diverse scene solo può stendersi un pallido elenco di fatti: si comincia con un bambino vestito che ne uccide uno nudo e qualcuno ha voluto scorgervi il fratricidio di Caino (9), non senza fondamento pensiamo, anche se non è dato chiarire il rapporto col resto; seguono alcune scene di caccia, fino ad uomini che lottano prima con un cinghiale, poi con un leone; poi una fustigazione e quattro bambini intenti alla mescita, che stavolta è più difficile azzardarsi ad interpretare nei termini di Saccardo (Allegoria del commercio). L'ultima scena riguarda un vecchio con un rotolo ed un giovane in atto di parlare, una scena di scuola, sembrerebbe. Solo alla fine qualcosa si riallaccia all'inizio: è la figura d'un uomo che cavalca un bue e che ci riporta alla figura femminile su un leone, alla base destra dell'arco. Messi sull'avviso dalla coppia della fascia interna, non possiamo non pensarli in rapporto a stabilire una qualche intenzionale iunctura. Essa è rafforzata stavolta dalla coppia dei due animali che evoca certamente ricordi biblici (pur sembrandomi esagerata l'interpretazione contrapposta - selvaggia/pacifica - delle due metà dell'arco) (10). La traduzione monumentale che conosco similissima a Venezia sta sulla facciata della pieve di Buggiano Castello (Lucca), eretta nel 1038 ma abbondantemente ricostruita in seguito, che porta, poco sopra la porta centrale, e come per fiancheggiarla, due protomi, un vitello ed un leone (non credo alla casualità della coppia, visto che - ad esempio - quando si volle essere omogenei si murarono, come a S. Pietro di Bovara [Perugia>, nell'identica posizione due protomi bovine). Leggiamo la Bibbia, e le brevi serie di animali che propone (che non sia quella del bue e dell'asino, attestata senza particolare frequenza, ma ovviamente fortunatissima per il ruolo protagonistico durante la nascita di Cristo, e vietata addirittura dal Deut. 22.10 non arabis in bove simul et asino): troveremo il gruppo più completo di I Sam. 15.3 (bovem et ovem, camelum et asinum) destinato a descrivere il totale possesso d'un uomo (vedi 27.9 nec relinquebat viventem virum et mulierem, tollensque oves et boves et asinos et camelos et vestes revertebatur) perfino al momento del felicissimo esito della prova di Giobbe, quando la benedizione divina lo ricopre molto più che nel tempo passato et facta sunt ei quattuordecim millia ovium et sex millia camelorum et mille iuga boum et mille asinae (42.12); abbreviato spessissimo nel quasi proverbiale boves et oves. Ma anche - e ci porta più vicino alla coppia veneziana - leggiamo degli splendidi ornamenti per i palazzi del re Salomone, in un capitolo celeberrimo (è quello, per intenderci, dove si descrive il tempio, la casa, il portico e le due colonne Iachin e Booz) che l'esegesi postuma arricchirà delle più audaci relazioni simboliche: et fecit decem bases aeneas quattuor cubitorum longitudinis bases singulas, et quattuor cubitorum latitudinis, et trium cubitorum altitudinis. Et ipsum opus basium interrasile erat, et sculpturas inter iuncturas. Et inter coronulas et plectas, leones et boves, et cherubim: et in iuncturis similiter desuper: et subter leones et boves quasi olora ex aere dependentia (III Reg. 7.29). Finalmente il raffronto più pertinente è costituito da qualche riga di un altro luogo frequentatissimo, quel cap. 11 di Isaia insignito dall'"incipit" Et egredietur virga de radice Iesse destinato a fondare un tema iconografico prediletto: in un agognato regno di giustizia - vi si dice - habitabit lupus cum agno, et pardus cum haedo accubabit, vitulus et leo et ovis simul morabuntur: un'utopistica fattoria degli animali che il profeta restringe (venendo incontro al nostro caso) in 65.25, allorché il libro volge al suo termine: lupus et agnus pascentur simul, et leo et bos comedent paleas, et serpenti pulvis panis eius: non nocebunt neque occident in omni monte sancto meo, dicit Dominus. Certo l'avvento dell'"adìnaton", mentre dev'essere ciò che intese rappresentare l'architetto di Buggiano, non potrei giurare che fosse anche nelle intenzioni dello scultore veneziano: non è semplice, dunque, capire un senso rigoroso alla presenza - sul nostro arco - di leone e vitello: ma non v'è dubbio che almeno la 'lettera' del testo biblico deve avervi agito, e così come si vollero rappresentare i due poli di uomo e donna, non si rinunziò all'altra opportuna antitesi del vitulus et leo: la coppia conta più dei termini singoli, ed è per questo che l'ipotesi di un simbolismo fra selvatico e pacifico (11) mi trova poco persuasa. A noi basti aver portato qualche luce almeno su un punto di questo davvero "rätselhafte" ciclo.
Conclusioni approfondite e definitive sono praticamente impossibili quando ci si trova dinanzi storie tutt'altro che generiche, se non si ha la fortuna di scovare il testo che le ha ispirate.
Discorso affatto diverso riguarda il ciclo contiguo dei Mesi e - sulla faccia esterna dello stesso archivolto - quello delle Virtù: siamo di fronte a programmi altrettanto precisi, ma stavolta facilmente riconoscibili e parlanti non meno d'un manifesto; che rafforzano le loro possibilità espressive proprio combinandosi, come le due facce, laica e cristiana, quotidiana ed assoluta, di una medesima raccomandazione etica; non senza, come vedremo, rassicuranti legami e protezioni cosmiche (gli emblemi dello zodiaco, il nuovo Christus Emmanuel sulla chiave dell'arco) a vantaggio della stessa minuta laboriosità umana raffigurata dal gesto misurato d'un lavoro per lo più agricolo. Vale la pena di premettere - per questa sezione delle sculture - che siamo in grado di datare in modo sufficientemente preciso, perché tutto è riecheggiato come prodotto fresco ed ancor vivo dalle maestranze (in qualche misura addirittura le stesse) che scolpirono la porta maggiore del duomo di Trogir, e che vi segnarono poi una data preziosa: Fundantur valve post partum Virginis alme / per Raduanum cunctis hac arte preclarum / ut patet ex ipsis sculpturis et ex anagliphis / anno milleno duceno bisque viceno / presule Tuscano floris ex urbe Treguano; dunque il lavoro a Venezia si collocherebbe poco avanti il 1240 (12).
A Venezia - uno degli esempi più importanti proprio per il collegamento con i Mestieri e le Virtù - il sito è quello tradizionale, cioè il più eminente, il portale maggiore, che lo accoglie nel 92% dei casi in Italia (13), se ricordiamo appena quelli clamorosi di Arezzo, Cremona, Lucca e Ferrara. E non credo si debba indugiare troppo per convincersi di come l'archivolto reclami particolare diritto ad ospitarlo, vista la connessione immediata che lo spettatore poteva cogliere fra il movimento assolutamente temporale dei mesi uno dopo l'altro ed il moto eterno del sole, aiutato in questo dalla regolare presenza dei simboli zodiacali. Poco importa ci fosse al centro la canonica - ma didatticamente riassuntiva - presenza di Cristo: il cammino rimaneva (per lo più da sinistra a destra) facilmente percepibile. Accanto a Venezia citeremo il caso parallelo di S. Pietro a Sessa Aurunca e quelli di Parma ed Arezzo (pieve di S. Maria): poco importa che la sede costringa lo scultore a qualche accomodamento: a Venezia i dodici personaggi sono abilmente separati (in uno spazio molto addensato) da un tralcio continuo che provvede spesso, con le sue grandi foglie, allo sfondo; i segni dello zodiaco, presenti come per regola, sono talvolta in bilico tra l'una e l'altra scena, forse in rapporto al fatto che la corrispondenza fra mese e segno non è del tutto perfetta.
Il ciclo più antico dei Mesi conservatici è quello del fregio di Atene proveniente dalla Piccola Metropoli del II sec. a.C., nella sostanza un calendario di feste religiose (14); il mese è individuato tramite il corrispondente segno zodiacale, e rappresentato, in più, da figure di divinità che spesso si riferiscono a feste o giochi; lo spazio riservato per immagini agricole riguarda appena tre Mesi, un giovane con l'uva, un seminatore ed un contadino all'aratro: è evidente che già qui si intese (collegando zodiaco e lavoro e riti) saldare il tempo della vita umana a quello, eterno, al di fuori di essa. A Roma i calendari (molto spesso in pietra) avevano funzione per lo più pratica; in uno, conservatoci, il Menologium rusticum Colotianum (15), del I sec. d.C., ogni Mese porta con sé il segno dello zodiaco e l'indicazione del mese, ed il dio cui è dedicato, dei lavori agricoli, di riti, calende idi e none, il numero delle ore del giorno e della notte, il segno in cui il sole si trova. Un elemento è destinato a stabilizzarsi e non mutare più: la rappresentazione dello zodiaco, che fa riferimento ad un contenuto mitologico magicamente pietrificato. L'evoluzione e le trasformazioni riguardano invece il versante dell'attività umana: e si nota già a Roma la preferenza ad enfatizzare l'allegoria del mese in rapporto ad un'attività rurale, respingendo sullo sfondo, verso una graduale eliminazione, i soggetti religiosi. Importantissimo (e non meno noto) è il calendario, conservato, del 354, grazie a copie tarde (XIV e XVII sec.) tratte da una copia del IX sec., il famoso calendario di Filocalo: una figura umana circondata da vari attributi vi personifica il Mese, senza che venga mai meno una vigile attenzione al mutare delle stagioni, della temperatura, e dei lavori umani lungo il corso dell'anno; non più - come nel calendario di Atene - i personaggi indicano cosa accade nel mese, ma la figura, isolata, personifica il Mese, che si trova dunque rappresentato astrattamente. Filocalo servirà da base al tema dei Mesi come lo trattarono per tutto il Medioevo (16), anche se lì la funzione di calare il tempo astratto (ed astrologico) in quello della vita umana è demandata agli attributi, alludenti per lo più alle attività rurali. Mentre nella rappresentazione medievale il personaggio del mese, privato di attributi simbolici divenuti vuoti ed incomprensibili, cessa di essere pura allegoria per diventare persona umana, calata in una realtà concreta, in cui agisce. Nel calendario di Filocalo la falce aleggiava a mezz'aria dietro le spalle di Giugno; già in un manoscritto della Biblioteca Statale di Vienna si coglie, al di là dei fili della tradizione, un profondo mutamento: la falce è ora nelle mani di Agosto, la sua lama non corre più per uno spazio indistinto, ma trancia le spighe d'un campo (17). Per la mentalità medievale vi è un'impossibilità ad esprimersi all'infuori di riferimenti religiosi e la rappresentazione dei Mesi, sempre in un ambito anche fisicamente religioso (codici ed edifici sacri), riflette l'evoluzione del pensiero ecclesiastico sui due punti essenziali che il ciclo è chiamato ad esprimere: il valore del lavoro e del tempo. Sulla considerazione del lavoro pesava, da un punto di vista culturale, la condanna dell'antichità verso il lavoro manuale, opus servile in contrasto all'ideale aristocratico dell'otium, il disprezzo dei barbari guerrieri e vincitori verso i vinti agricoltori, ereditato dalla società feudale dei milites; e la tradizione giudeo-cristiana che giudicava il lavoro conseguenza del peccato di Adamo: maledetto Caino agricoltore, inferiore Marta a Maria e quindi idealmente superiore la vita contemplativa (18). Con il rinnovamento economico dei secoli XI e XII, poi, col risveglio del commercio e il fiorire delle città, nuove classi si impongono che esigono la consacrazione sul piano sociale, da manifestarsi visibilmente sul piano religioso, della forza e del peso acquisiti sul piano materiale. Nascono perciò le confraternite con il santo patrono, viene avviato a soluzione il problema dei mestieri illeciti del mercante e dell'usuraio, come dell'intellettuale, accusati di vendere il tempo e la scienza, che sono solo di Dio. Sotto l'effetto della crescente divisione del lavoro nasce perciò nel XII sec. una presa di coscienza del mestiere e della professione ed una nuova teologia del lavoro, che il portale di S. Marco splendidamente illustra: la fatica del lavoro diviene un merito (tanto da fare santo, per primo, un mercante, Omobono da Cremona, nel XII sec.) ed Onorio 'di Autun' (19) ricorda che esilio dell'uomo è l'Ignoranza, sua patria la Sapienza, da raggiungere attraverso la Scienza; un itinerario spirituale che avviene percorrendo le sette Arti liberali, cui si aggiungono Fisica, Economia e Meccanica, Arti paragonate ad altrettante civitates et villae: una significativa quant'altre mai interazione di città e campagna non solo nella commistione di mestieri visti come altrettanti passi sulla via della conoscenza, ma anche nel paesaggio spirituale (20). E non può qui già notarsi la parentela di luogo che a Venezia accosta Mesi (cioè lavori campagnoli, sulla striscia interna del II archivolto) e Mestieri (urbani, sulla striscia interna del III).
L'evoluzione tecnica ed economica, il fiorire del commercio, garantiti dal progresso agricolo e demografico, con la conseguente specializzazione del lavoro e del mestiere, impongono la riabilitazione - seppur graduale, perfettamente consolidata negli anni che ci riguardano - del lavoro manuale e la nascita del concetto di bene comune. È questo un elemento essenziale come prova dell'utilità e legittimità di ogni professione, nato sotto la spinta della realtà urbana, patria del lavoro diversificato. Si riflette come tale nel quadro che della società fornisce Giovanni di Salisbury, paragonandola al corpo umano, che senza il concorso armonico delle parti 'inferiori'e 'superiori' (qui la lettera include un senso davvero incisivo) verrebbe a distruggersi: il concetto è quello dell'ad publicam utilitatem omnia referantur. Benché siano i piedi - è naturale - gli agricoltori qui terrae semper adhaerent (mi sembra interessante in relazione alla promozione del lavoro agricolo) his etiam aggregantur multae species, lanificii, artesque mechanicae quae in ligno ferro aere metallisque variis consistunt: non è una sorta di efficace didascalia per il portale maggiore e per il suo alto grado di integrazione (21)?
Il contadino, un tempo isolato nella lontananza della campagna e dal disprezzo della sua condizione servile, si fa sempre più vicino, entra nel tessuto urbano, presente comunque nella necessità quotidiana di approvvigionamenti, scambi e commercio. È la stessa Chiesa a promuovere una nuova 'teologia del lavoro' e precisamente dal XII sec. vengono messi in rilievo tutti i passi della Scrittura in grado di nobilitare la fatica: non ci si ferma a ricordare la condanna dell'uomo a guadagnarsi il pane col sudore della fronte, legato alla penitenza del lavoro, ma volentieri si enfatizza la sua necessità sociale (22). Sono propagandate le figure di Iubal e Tubalcain, inventori degli strumenti musicali e dell'arte di forgiare il ferro: il progresso della scienza e della tecnica sono inclusi in un disegno provvidenziale. Perfino la Creazione è vista come un vero lavoro che abbisogna del riposo al settimo giorno, e si ricorda che un lavoro fu affidato ad Adamo anche prima della caduta (un lavoro - allora - felice): posuit hominem in paradiso voluptatis ut operaretur et custodiret eum (Gen. 2.15 s.). Nelle immagini - due secoli prima dell'esempio veneziano da cui prendemmo le mosse - si coglie in due esempi facilmente contrapposti il cambiamento di mentalità: sulla porta del S. Zeno di Verona (1000 circa) Eva fila, Adamo ara e Caino trascina a fatica l'aratro, tutto questo dopo la condanna e con i tratti tangibili della condanna. A Pistoia invece un affresco della chiesa del Tau (inizi sec. XIV) risparmia ad Adamo che zappa l'obbligo del vestito, qualificandolo così come fuori dal peccato, dedito certo non ad una penitenza umiliante ma al più ad una salvifica espiazione. Allora perfettamente giustificata ci appare nel XII sec. la propagazione monumentale del ciclo dei Mesi: la Chiesa riconosce (dal vertice della piramide sociale che occupa) dignità al lavoro manuale, in tempi di attività diversificate e specializzate. E d'altro canto la rurale laboriosità del contadino serve a tutti: il pubblico urbano (che - come ripetutamente è stato sottolineato - è lo spettatore prediletto di quei cicli, realizzati ormai quasi esclusivamente in grandi chiese cittadine) acutamente sensibilizzato ai problemi del lavoro, guarderà con scrupolosa meditazione i cicli che propagandano il lavoro di altri uomini. Proprio perché così vicino alla sensibilità laica il tema potrà essere utilizzato in monumenti di cui non più la Chiesa, ma la città, fu il committente, città legata indissolubilmente ad un entroterra agricolo.
Questa presa di coscienza porta ad una rivalutazione del lavoro dei campi che - lo ricordavo poco sopra - viene sentito pari a quelli delle Arti meccaniche (avevo citato Giovanni di Salisbury ed il suo his / sc. agricolis / aggregantur artes mechanicae). Alberto Magno, alla metà del ' 200 e commentando la Politica di Aristotele, sottolinea la dipendenza della città dalle Arti meccaniche: cui ormai davvero "si aggrega" l'Agricoltura, quia sine artibus mechanicis impossibile est hominem vivere ad votum (23).
Ciò che mi preme sottolineare è ancora una volta come Venezia realizzi, al vertice del suo più importante monumento, quello dove seppellirono il suo massimo garante, la più perfetta sintesi di lavoro agricolo e cittadino, così come i testi che stiamo leggendo si affrettavano - con scrupolo degno delle ideologie moderne - a raccomandare.
Anche se più tardo di un secolo, si propone al raffronto (come prodotto di efficacia ormai collaudata e di esplicita forza politica) quello straordinario programma che sono gli affreschi della sala 'della Pace' nel palazzo pubblico di Siena: all'abilità di Ambrogio Lorenzetti i committenti affidano il compito di chiarire che tutte le Arti si corrispondano l'una all'altra nell'armonico perseguimento del bene comune, ed in questa prospettiva forzata il contado appartiene ormai indissolubilmente al concetto di civitas; la pace assicurata dal comune permette l'esplicarsi delle fervide operosità cittadine e del contado, il loro continuo e reciproco contatto: senza paura ogni uom franco cammini e lavorando semini ciascuno, recita il cartiglio dell'aerea Securitas.
Ma riguardiamo ancora i Mesi: a Venezia - si disse - essi occupano un posto canonico, la facciata e per di più l'arco del portale maggiore (altro posto deputato poteva essere il pavimento, e non senza causa, materializzando il fondo della solita piramide sociale, fondo certamente deputato e coatto per chi lavorava la terra). E devono legare la laboriosità dell'uomo al ciclo immutabile del tempo, sono essi stessi essenzialmente la rappresentazione del tempo, del tempo umano, fermato in una serie continua di spazi e di azioni: la casa, la vigna, il campo di grano, il pascolo, il bosco, il rifocillarsi, vendemmiare, falciare, mietere, provvedersi di legna per l'inverno. Ma per la Chiesa il tempo è tempo di Dio, il tempo dell'eternità, l'anno è l'anno liturgico: un tempo ciclico che sempre si ripete senza mutazioni; è caratteristico della cristianità vivere nella speranza di essere riassorbita nell'atemporalità di Dio. In questa eternità senza fine e senza principio, Dio, o Cristo, sono l'alfa e l'omega: creazione dell'uomo, caduta, resurrezione (di Cristo) hanno posto il problema del collegamento tra il tempo di Dio e il tempo della storia. Il ritorno ciclico delle stagioni è l'esempio più chiaro del raccordo fra il tempo di Dio e quello dell'uomo (24); immutabilità di un ritorno sempre uguale ma nello stesso tempo avvicendarsi della vita umana: "Dio non serve l'ordine dei tempi: egli lo domina come un re, e lo gira e lo dispone a sua volontà [...>" (25). Cristo, con la passione e la resurrezione, riapre all'umanità la porta chiusa dal peccato d'Adamo; la sua venuta avviene in un tempo storico e salda i due tempi, di Dio e dell'uomo, ridando a costui speranze d'eternità. Per Tertulliano sono le stagioni - ed il loro perpetuo ciclo - simbolo della resurrezione di Cristo: omnia pereundo servantur (26).
E come il tempo, nella scansione dei dodici mesi, è conchiuso, ma - nell'immutabilità del suo ciclo sempre tornante - è anche effige d'eternità (secondo la definizione di Onorio) (27), e può essere paragonato a Cristo, che nella sua persona umana e divina riunisce il nunc al semper. Annus est generalis Christus - per Sicardo di Cremona - cuius membra sunt quattuor tempora, scilicet quattuor evangelistae. E poi: duodecim menses hi sunt apostoli (28). Oppure, nella rapidità piena d'immagine d'una citazione biblica annus est Christus vel annus est militia vitae hominis super terram (29).
I Mesi dunque che decorano l'ingresso della chiesa, collocandosi in cerchio per rammentare il fluire ciclico ed immutabile del tempo, esemplificando le varie attività agricole rappresentano anche il tempo del lavoro umano. Se Adamo e Caino furono i primi peccatori, ed agricoltori a causa del loro peccato, il lavoro è ormai mezzo positivo di salvezza: di cui si è tanto coscienti che i tessitori di Samur doneranno alla chiesa di Notre Dame una vetrata con le scene del loro lavoro, avventurandosi a rinunziare a nessi protettivi con santi od altri soggetti religiosi (30). Percorsi elementarmente redentori: sulla fontana di Perugia il tragitto dell'umanità si snoda dal peccato di Adamo e il delitto di Romolo al conseguimento della beatitudine celeste attraverso il riscatto del lavoro e del sapere (la rappresentazione dei Mesi e delle Arti liberali). La meta è Cristo, sul portale di S. Marco; talvolta lo circondano i dodici apostoli, nel momento del Giudizio Universale, come nelle facciate famose di Vézelay o di Autun. Sulla cattedrale di Parma lo sostituisce il sole, che però, sappiamo, è per lui termine di paragone quasi scontato; chi vuole almeno un esempio legga le parole di Giovanni Crisostomo misit Christus apostolos quasi sol radios suos e sicut sol in radiis suis apparet [...> sic in illorum virtutibus Christi potentia cognoscatur (31). Che a noi servono per capire finalmente appieno - nel rigoglio iconico e genericamente visivo della facciata - di quale Bildfeld faccia parte l'immagine di Cristo alla serratura, ed in ispecie gli ideogrammi del sole e della luna che gli fanno degno corteggio: ben lungi dall'essere "ein echt venetianisches Pasticcio" (32) corredano il ciclo di un suffragio praticamente indispensabile, mostrando tanto il Salvatore che il sole, mescolando dunque, con l'altre più comuni, la soluzione adottata a Parma.
Il lavoro dei dodici Mesi, nonostante l'accurata determinazione dei singoli gesti, veniva letto del tutto allegoricamente come militia hominis super terram. Il raggiungimento dell'eterna salvezza è però attraverso Cristo: nemo enim vadit ad patrem nisi per me [sc. Christum> (Giov. 14.7); nell'interpretazione simbolica dell'edificio sacro ostium ecclesiae Christus est, per il noto luogo giovanneo ego sum ostium, per me si quis introierit salvabitur (33). La porta della chiesa che separa i fedeli salvi radunati nel suo interno dal mondo esterno, ancora possibile preda del demonio, è Cristo stesso che contrasta la colpa dei progenitori e spalanca la porta della salvezza. E come Cristo unisce in sé la divinità e le tribolazioni della vita terrena, l'eternità di Dio e il tempo dell'umanità, sulla porta dell'edificio sacro, mediatore fra il tempo umano del mondo esterno e l'eternità di Dio che l'abita all'interno, la rappresentazione del ciclo dei Mesi offre un medesimo duplice raccordo, nell'esemplificazione di un tempo umano ed eterno e del lavoro umano che attraverso la mediazione di Cristo, a cui s'affida, da dura penitenza e condanna del peccato è ritornato mezzo per raggiungere la salvezza eterna.
Questo vuole ancora suggerirci il Christus Emmanuel di Venezia, incurante delle perdite abbondanti e dei guasti che ne hanno inesorabilmente segnato il volto.
Per quel che ne è delle scene singole, vale la pena accennare almeno agli scarti della consacrata norma che stabilì (precocemente, come abbiamo appena visto) un canone saldo al repertorio cui potevano attingere gli scultori.
È sufficiente un confronto anche rapido con gli altri cicli italiani dedicati allo stesso argomento per accorgersi che Venezia contiene peculiarità non secondarie: e già dal lontano 1888 Strzygowski (34) concludeva il suo conciso ma eccellente contributo sul tema dei Mesi, annettendo l'esempio di S. Marco - iconograficamente - ad area assolutamente bizantina e proponendo di giustificare la singolare collaborazione di soluzioni orientali e soluzioni italiane (nel Gennaio, nel Marzo cornator, o nella figurina di Dicembre) con l'opera di un anonimo scultore italiano influenzato da pittori greci che praticavano Venezia. Il collegamento con i cicli bizantini è certamente inoppugnabile, come dimostra lo spostamento a maggio di una scena che nei cicli italiani ci aspetteremmo ad aprile, o il raccolto che caratterizza Giugno. Giusto è pure notare, come l'autore fa, l'inversione delle scene (sempre se si tien mente alla serie vulgata) di Giugno con Luglio e di Ottobre con Novembre.
Il primo personaggio riguarda Gennaio: è un giovane contadino che porta fuori dal bosco l'albero appena reciso, dove lo scultore iperrealista ebbe cura di tracciare tutti i solchi della sega (obiettivamente disposti a spina): sono particolari del genere che anche di recente hanno promosso - con piena legittimità - la rappresentazione dei Mesi a fonte visiva per la storia economico-sociale del XIII sec., diversi come sono e lontani dalla retorica astrattezza che condanna tante immagini, miniate, scolpite e affrescate, al puro e semplice 'repertorio'. Inutile ricordare la funzione essenziale dei boschi per tutto il Medioevo ed ovvio dirsi d'accordo col lapidario Le Goff di "le Moyen Âge est bien le monde du bois" (35). Vale la pena piuttosto di notare come la scena - presente su quasi la metà dei cicli italiani sopravvissuti - slitta rispetto al luogo consueto solo a Venezia e Parma (su Gennaio), e nei mosaici di Bobbio e S. Michele di Pavia (su Febbraio). Per quanto riguarda il boscaiolo veneziano saremmo incerti se interpretare le foglie che corredano ancora il corpo dell'albero come segno di recente taglio o come scelta decorativa da parte dell'artista. Il quale si è compiaciuto di predisporre un piccolo seguito narrativo, e di mostrarci, per Febbraio, un vecchio (si noti la disposizione intenzionale di giovane ed anziano) che si scalda al ceppo acceso che venne dal bosco: non è insolita la scelta di articolati antefatti, se appena si guarda al bottaio di Arezzo (pieve di S. Maria) che ordinatamente precede, raffigurando Agosto, la vendemmia di Settembre (col finissimo accenno - quasi a imprimerci negli occhi il valore della iunctura - della coppia fico/vite sull'uno e sull'altro riquadro, di cui ci garantiscono già le Scritture il valore proverbiale (36)). Ancora più complessa la serie di Cremona: il fregio sulla facciata della cattedrale bada ancora a far precedere la vendemmia (Settembre) dall'indispensabile fabbricazione delle botti (Agosto), ma provvede anche ad ingrassare sotto le querce (Ottobre) il porco miseramente sgozzato a Novembre.
Il vecchio che si scalda al fuoco (Febbraio) mostra tangibilmente rapporti con l'inverno dell'età avanzata, ed è buon contrapposto per il giovane Marzo: ancora una volta Venezia si discosta dallo standard italiano, che prevede questa scena - nei tre quarti dei casi - come emblema di Gennaio. Degna di attenzioni particolari è invece la personificazione di Marzo, come risulta dal personaggio principale (un guerriero scapigliato) e dal socius in basso a sinistra, intento a soffiare nel corno (che non è naturalmente una tromba di guerra, come già notato a suo tempo dallo Strzygowski (37)): si tratta di un tema che non ha attestazioni in Francia ed invece si trova discretamente diffuso in territorio italiano, per cui sono state proposte diverse esegesi, affatto svariate, e talvolta visibilmente improbabili, tranne - sceglieremmo - quella che vi vede una parlante immagine del vento che soffia forte quanto il giovane nel suo strumento, e gli scompiglia i capelli. Né deve escludersi - tanto meno sotto l'influenza della immagine veneziana - una spinta, attraverso la lettera, a collegare Marzo e Marte, finendo coll'annettergli qualche tratto guerresco per ricordo del dio. Ho detto Venezia, ma potrei aggiungere la figura, in questo senso esasperata, di Trogir (che poco sopra denunziammo strettamente dipendente dai lavori della basilica metropolitana): il giovane soldato è armato di spada, lancia e parmula, mentre un copricapo annodato sotto al collo acconcia i ricci (così impetuosi a Venezia) sistemandoli elegantemente: il vento agita il mantello disponendolo in pieghe che ricordano le Virtù del portale marciano, e gonfia la chioma dell'inseparabile cornator (sempre all'angolo inferiore sinistro (38)). L'ariete zodiacale che (qui e nel modello) sovrasta Marzo è il tramite narrativo che accenna al prossimo personaggio, facendosi agnello sulle spalle di Aprile (vale la pena sottolineare come - quanto alle capacità di racconto - Radovan è più fluido, più esplicito del suo modello, e l'ariete prende autonomia divenendo vero e proprio tramite fra i due personaggi); una figura che proviene immediatamente dal repertorio bizantino (come notò giustamente Demus (39)), presente, oltre che qui, nel grande mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto; l'iconografia antica del 'moscoforo' è evidente a Venezia, anche se lo scultore si è sforzato (qui come del resto nelle immagini contigue) di non produrre una figura fiaccamente retorica. Senza che si possa fare a meno di notare, anche qui, una svolta in senso realistico rispetto al modello da parte dell'ammirevole Radovan: non più il mestiere del pastore raffreddato in una specie di allegoria, ma i gesti attivi e realistici di chi tosa la sua pecora dopo averla ben bene immobilizzata. La soluzione sembra la più realistica fra quelle a disposizione di chi volesse rappresentare l'allevamento del gregge, una delle principali risorse delle campagne medioevali: a metà strada fra Venezia e Trogir sta il medaglione di Autun, dove il soggetto è una scena di pascolo.
La foggia che in altre parti d'Italia tocca alla personificazione di Aprile slitta dunque, a Venezia, a Maggio: si tratta d'una figura incoronata etichettata col nome MAJO" (40), che tiene in mano un fiore (figura dunque tutt'altro che insolita: a titolo di esempio scelgo stavolta in un nutrito novero il cavaliere della fontana di Perugia [più tardo di una cinquantina d'anni>, non senza il degno corteggio di due fanciulle qualificandosi con assoluta probabilità - più che come un'allusione al ringiovanimento della natura nel tempo di primavera - come quel "prince de la jeunesse" cui giustamente fa attenzione É. Mâle (41); per cui non ci sentiamo di condividere le conclusioni di G.H. Crichton ["this is an original composition falling outside either the Western or Eastern series"> (42)).
Giugno e Luglio - s'è già detto - riguardano due scene di raccolto, invertite rispetto a quanto sarebbe giusto aspettarsi dagli altri cataloghi dei Mesi; l'ordine sarà invertito, ma bisogna ammettere poi che i singoli lavori cadono, qua e là, non sempre nello stesso periodo, dunque ragioni per giustificare lo spostamento non mancano. Si possono citare come estremi i due casi delle sculture di Mimizan (Landes; Giugno come a Venezia) e Chartres (Agosto, ma non è esempio isolato). Quanto ai dettagli, ci interessa la foggia della falce a Venezia, per il suo termine arrotondato.
Il raccolto del fieno (cioè il nostro Luglio) - e ciò può forse sorprenderci - se in Francia è una costante, in Italia manca più della metà delle volte: quando c'è, di solito simbolizza Giugno (a parte il caso precoce del mietitore di Pavia - S. Michele - attivo a maggio); a Venezia il contadino impugna con la sinistra la grande falce, dotata, in compenso, di un particolare tipo di manico.
Nulla resta da aggiungere a quanto già scritto sul medaglione stellato con Cristo al centro dell'arco: agli esempi forniti potrebbe aggiungersi quello di Aosta o quello di Pavia (S. Michele).
Precisato il nome del mese successivo in A(VG) VST(VS) (43), possiamo accostarlo, col suo ventaglio, a temi iconografici ben diversi dai cicli standard (che richiederebbero a questo punto l'uomo col correggiato che pena a battere il grano ammucchiato) e del tutto bizantini, come ci ricorda Demus (44). Più consueta la rappresentazione di SETEMBRIO (45) che impersona degnamente quell'attività vinicola che era del lavoro agricolo una parte così preponderante: c'è anzi da dire che il lavoro risolto qui in una sola immagine impegna su altri cicli più di un riquadro: oltre alla coppia, che sopra ho enfatizzato, di chi fabbrica le botti e chi le riempie di vino, non mancano scultori che scelgono anche il tema della potatura (quasi a confessarci l'infinita messe di cure che la vigna - più del fieno e forse più del grano - chiedeva), come per esempio a Parma ed a Cremona. Vorrei resistere - in vista di un'interpretazione più concreta e storica - alla tentazione di scorgere nel proliferare di scene dedicate alla vigna, la familiarità che s'era creata (più che mai poi in ambito monumentale) tra artisti, pubblico, committenti ed il Bildfeld simbolico della vigna, quale chiunque poteva coglierlo nel repertorio immaginario della Scrittura. La raccolta - come l'abbiamo a Venezia - sembra la scena più frequente nei cicli che portano una scena sola.
I Mesi che seguono sono anch'essi affetti da un'inversione: Ottobre è un contadino che rivolta le zolle con una lunga vanga su cui si sofferma a lungo P. Mane (46). È innegabile che ad esempio a Lucca (S. Martino) e Perugia i lavori si svolgono a novembre: eppure - a Venezia - il contadino che col suo largo cappello si aggira nei campi a prendere uccelli, proprio a novembre, non ci meraviglia del tutto, volendo forse indicare un tempo del riposo e mostrarci uno svago in qualche modo simile a quello del Maggio signorile (ancora una volta mi limito all'esempio solo di Perugia, dove la dama che s'accompagna al cavaliere coi fiori porta un falcone per la caccia). Il tema iconografico bizantino è già stato opportunamente rilevato (47): per cui Novembre ha sparso sul prato e verso il bosco i rami invischiati dove incappano uccelli di passo.
Più che tradizionale torna invece ad essere il quadro di Dicembre, destinato all'uccisione del porco, praticata sgozzandolo con un coltello - come è uso sui cicli italiani in luogo del colpo di mazza di quelli francesi (48). Una scena che non manca mai in Italia, come è giusto se si tien conto dell'insostituibile funzione che aveva in orizzonti di miseria capitale un animale provvido ed utilizzabile quasi in ogni sua parte, in grado di accompagnare - per merito delle tecniche, seppur rudimentali, di conservazione - la mensa dei problematici mesi invernali. Anzi spesso non si tratta solo di abbatterlo, ma anche di mostrarcelo al pascolo (prima) o (poi) fra le mani del norcino che lo confeziona. Anche Radovan, a Trogir, non perde l'occasione per dispiegare sopra il vecchio Gennaio che si scalda i preziosi insaccati del maiale d'Inverno.
L'archivolto continua sulla faccia esterna con una fitta serie di Virtù, ben diciassette figure femminili, come si disse, variamente e talora liberamente ispirate a quelle che riempiono la cupola centrale della basilica: diversificandosi, tanto per cominciare, nel numero, che ha da essere inevitabilmente dispari (sui mosaici sono sedici) se non si vuole rinunziare ad un personaggio sul colmo dell'arco per dirimere simmetricamente il gruppo. Qualche accomodamento sarà ancora stato reso inevitabile perché non tutte possono godere della posizione stante che hanno sulla cupola, e devono accuratamente accovacciarsi man mano che si sale; il personaggio sulla serratura dell'arco non poteva essere meglio scelto di Constantia, che con i due dischi che porta in mano (il sole e la luna) è davvero in grado di servire due padroni ed appartiene bivocamente alla metà di destra come a quella di sinistra: quando ne parleremo dovremo dunque badare più a questioni di opportunità formale che ad un presunto suo ruolo gerarchico.
Lasciando da parte conclusioni riguardo l'appartenenza stilistica e la cronologia (che sono state ottimamente riassunte da Hempel e Julier) (49), preferisco spendere qualche parola sul contenuto iconografico del ciclo, premettendo che molto dipende dai mosaici, e dunque quanto è strettamente comune e trovasi già nella fonte verrà tralasciato come non precipuo dello scultore, e non come tema autonomo del portale. Proprio il canone (a parte il numero differente di uno) era già costituito sulla cupola e formato grosso modo dalle tre virtù teologali, più le quattro cardinali, più l'insieme delle virtù che prende vita dal discorso celeberrimo di Cristo in Matteo (5.3-10), le cosiddette 'Beatitudini', la serie dei macharismói.
Sui mosaici abbiamo insomma il seguente computo: Karitas, Spes, Fides (primo gruppo di tre), Iusticia, Fortitudo, Temperantia, Prudentia (un secondo gruppo di quattro, in cui quest'ultima è l'unica a non essere accompagnata, oltre che da una citazione significativa, anche dal proprio nome sullo sfondo), Humilitas, Benignitas, Compunctio (letto malamente di solito da chi prese la c del mosaico per una l e di conseguenza non seppe che conto fare dell'evidente segno d'abbreviatura sulla u) (50), Abstinentia, Misericordia, Patientia, Castitas, Modestia, Constantia (come dire la sintesi puntuale con gli otto macharismói del brano evangelico). Neppure l'ordine del discorso di Cristo va perduto, se si eccettua l'unica inversione Patientia/Castitas, e - fatto salvo il rinforzo del nucleo con l'aggiunta di Modestia (su cui non è tanto nostra intenzione indugiare perché scelta risalente al modello di mosaici) - l'immaginario allegorico si produce secondo le equivalenze pauperes spiritu = Umiltà; mites = Benignità; qui lugent = Compunzione; qui esuriunt et sitiunt = Astinenza (identificazione che solo rende possibile la cancellatura da parte del mosaicista della iustitiam [qui esuriunt et sitiunt iustitiam>, autorizzatovi forse da Luca che in 6.21 così riporta il lóghion di Gesù: beati qui nunc esuritis quia saturabimini, nel senso di una maggiore asciuttezza che percorre tutto il brano e che - tanto per fermarci ad un passo cardine - scrive solo beati pauperes omettendo lo spiritu di Matteo), misericordes = Misericordia; beati mundo corde = Castità; pacifici = Pazienza; qui persecutionem patiuntur propter iustitiam = Costanza.
Sul portale invece le Virtù procedono (rimando di poco il commento dettagliato) in quest'ordine: Speranza (1), Carità (2), una terza non identificabile su prove certe, Astinenza (4), Compunzione (5), Pazienza (6), Castità (7), incerta l'ottava, Costanza proprio sulla serratura (9), di nuovo un'incerta, decima, Misericordia (11), Fede (12), Prudenza (13), Temperanza (14), Benignità (15), Giustizia (16) e finalmente Fortezza (17). Modo di far luce sull'identità delle singole figure ve n'è in pratica uno solo: leggere nel rapido lavoro del Saccardo quelle scritte ormai definitivamente rese illeggibili dal tempo e dalle avversità, facendo scrupolosamente tesoro di quei pochi segni rimasti ancora, dipinti e non scolpiti (donde una perdita così radicale!) sulla pietra, particolarmente preziosi almeno in due casi - che vedremo tra breve.
L'altra strada (indagare somiglianze col comptus e gli attributi delle singole figure sulla cupola) non è affatto sicura, perché la posizione stante di alcune di esse verso il colmo del sesto non solo impediva l'imitazione precisa, ma autorizzava anche ad una generica disinvoltura rispetto al modello: un caso valga per tutti: Spes (1) all'inizio della serie non si foggia sul mosaico corrispondente, ma su Patientia, e la sua immediata compagna Caritas (2) la imita rifacendosi del tutto inaspettatamente alla Misericordia.
Già il solo elenco avrà reso conto del fatto che la struttura generale non è pedissequa rispetto ai mosaici (molto legati all'ordine delle "beatitudini"). Eppure lo scultore seppe scegliere un'autonoma disposizione non priva di senso, per cui possiamo azzardare qualche interpretazione. Ad esempio l'inizio: è abitato da Spes e Caritas, dunque due delle virtù teologali (la terza purtroppo è ignota, benché vorremmo in tutti i modi che fosse Fides), ma in ordine inverso rispetto al modello e - abbiamo appena visto - copiando del modello altri momenti. L'identificazione avviene sulla base dei cartigli puntualmente trascritti dal Saccardo, e cioè - per la prima - a partire da Sperate in Domino omnis congregatio, Dominus adiutor noster est (Sal. 61.9 con la lievissima libertà di omettere populi dopo congregatio); per la seconda la scritta è significativa, in quanto, rispetto al mosaico, innova.
Là leggevamo l'avvertimento di Pietro (I.4.8) charitas operit multitudinem peccatorum, preceduto dal vocativo fratres: l'apostolo intendeva citare il proverbio 10.12 universa delicta operit charitas ed esortare i confratelli alla mutua fraternità dal momento che omnium autem finis appropinquavit: fratres, aggiunto dal mosaicista, non si trova in nessun punto della I epistola (dove casomai per l'apostrofe diretta si ricorre due volte a carissimi), mentre è straordinariamente frequente nell'epistola di Giacomo, che, con un suo passo, avrà direttamente ispirato il nostro titulus: fratres mei - scrive l'apostolo per congedarsi dai lettori - si quis ex vobis erraverit a veritate et converterit quis eum, scire debet quoniam qui converti fecerit peccatorem ab errore vice suae, salvabit animam eius a morte et operiet multitudinem peccatorum (5.19 s.). Sulla scultura invece sta scritto Charitas Domini manet in aeternum, che non è un luogo biblico copiato letteralmente, ma un pastiche costruito su una formula caratteristica dei Salmi: 32.11 ha consilium autem Domini in aeternum manet, e se a consilium si sostituiscono altri termini, c'è da farne una bella serie: iustitia (110.3), laudatio eius (110.10), iustitia (111.3 e 9), veritas Domini manet in aeternum (116.2); fuori del Salterio abbiamo l'Ecclesiastico (18.22 merces Dei), Isaia (40.8 verbum autem Domini nostri manet in aeternum, righe interessanti poiché seguono quelle celebri della carne che si secca come l'erba dei campi o cade recisa come un fiore, e riprese anche in quell'epistola di Pietro - a 1.25 - che era la fonte del cartiglio del mosaico!), un luogo di Paolo (II Cor. 9.9 iustitia) e finalmente il suo charitas fraternitatis maneat in vobis (Ebr. 13.1) che deve aver influito non poco sull'aspetto finale della sentenza. Ora se è facile constatare le differenze, non lo è altrettanto capirne il perché e dunque azzardo come ipotesi le seguenti sollecitazioni sull'animo del committente: Charitas Domini ecc. ha un aspetto senz'altro più "trionfale" del cartiglio dei mosaici e per questo è più adatto a fare da inizio, a reggere la base dell'arco, ed al tempo stesso riesce ad evitare il malum omen non del tutto decente della multitudinem peccatorum; si tratta (tenendosi ovviamente alle epigrafi conservate in situ o almeno nella trascrizione Saccardo) dell'unica inventata ex novo rispetto al corredo della cupola.
Altrettanto difficile mi sembra tirar fuori congetture sul perché la Karitas che il modello poneva sontuosamente come mater virtutum (vedi il doppio titulus sullo sfondo) ed insigniva - conseguentemente - di ricchissimo abito regale, e di corona, sia qui degradata al secondo posto: vogliamo scorgervi una stessa intenzione "trionfale" a vantaggio dell'inizio, per cui Speranza è auspicio migliore di Amor fraterno?
Comunque la scritta della nr. 1 è tratta dal Sal. 61.9: Sperate in eo omnis congregatio populi, effundite coram illo corda vestra, Deus adiutor noster in aeternum; non voglio tanto sottolineare l'omissione evidente d'una proposizione (effundite [...> vestra), quanto il fatto che il testo biblico non conclude con est, ma con in aeternum, e forse quest'explicit può aver influenzato il committente nella scelta per il cartiglio della sua Caritas, rivelandoci da parte sua non ossequio ai mosaici e basta, ma voglia di collazionare immediatamente il testo biblico, desiderio di interpretarne coi propri occhi il contesto.
Dei due confronti che Demus propone (Speranza derivato da Pazienza; Carità da Misericordia) mi convince senz'altro di più il primo; quanto al secondo (pure probabilmente da accettare) aggiungerei l'inedita soluzione, sulla pietra, del braccio sinistro che si piega e si nasconde dietro la schiena: ciò perché non deve indicare alcunché laddove accenna - sul mosaico - ad una citazione aggiuntiva, tratta ancora una volta da un'epistola paolina (Rom. 12.8), che raccomanda l'esempio di qui miseretur in hilaritate. Resterebbe da notare anche un trascurabile particolare, come la piega del velo sotto il polso destro sia diventata un goffo disco, uno di quei minuscoli fraintendimenti che provano senza dubbi la cronologia relativa di mosaici e sculture.
La terza figura va, per insufficienza di prove, accantonata: Saccardo già non riusciva a leggere nulla sul cartiglio, Robertson (51) propone un paragone con la Modestia dei mosaici che neppure un particolare conforta (la verità è che questo personaggio non privo di tratti evidenti, siano essi le due braccia aperte o lo svolazzante foulard, non ha alcun raffronto possibile sulla cupola), Gabelentz (52) e Venturi (53) fanno il nome di Speranza, che sarebbe ripetizione inaccettabile così vicino.
Viceversa ancora molto è dato leggere sulla seguente Abstinentia: [...>nt et [...> itiunt quoniam saturi [...>; è la quarta regola del discorso della montagna (Matt. 5.6: Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, quoniam ipsi saturabuntur), con la giusta omissione di iustitiam appresso a sitiunt.
Poco male se sul cartiglio di Compunctio leggiamo ora forse solo appena la at di beati, perché i tratti della disperazione e del dolore non ci lasciano alcun margine di dubbio. Segue Patientia (6), con qualche parola ancora leggibile del beati pacifici ecc. e nessun rapporto formale col modello, perché costretta a reclinarsi seguendo il sesto dell'arco (sarà questo il motivo per cui la Pazienza dei mosaici, inutilizzata qui, fa da modello alla Spes dell'arco!). Altrettanto leggibili resti dell'epigrafe ci convincono che quella che segue è Castitas (7), compiaciuta di muovere le mani come la Pazienza musiva (che evidentemente venne usata in qualcosa come modello standard). Accurata è la transizione al riquadro seguente perché il fico sul suo sfondo fa da pendant alla vite che incombe su Castitas (ho altrove ampiamente commentato la iunctura (54)), anche se esso è di difficilissima interpretazione e viene inteso come Umiltà (Saccardo, con un prudente punto interrogativo; e Robertson che lo suffraga pensando sia la prima beatitudine, quella dei pauperes spiritu). D'altra parte non mancherebbero ragioni per pensare a Modestia, in quanto verrebbe a riprodursi una piccola serie dei mosaici (Pazienza-Castità-Modestia-Costanza), dove gli ultimi due personaggi sono abbastanza omogenei anche quanto a scritte: Beati eritis cum vos oderint homines (che sono le uniche parole provenienti da Luca 6.22) = Beati qui persecutionem patiuntur (Matt. 5.10, analogo del precedente). La prossima scultura è una chiarissima immagine di Constantia, per cui non si esagererà mai abbastanza l'eco voluta del Cristo con i medaglioni del Sole e della Luna al centro dell'archivolto contiguo (55): qui lo scultore ha perfettamente sfruttato l'opportunità che gli suggeriva il mosaico.
Con la nr. 10 ritornano le incertezze: non bastano a persuaderci le somiglianze scorte col modello da Saccardo, che essa sia tout court la Modestia: a me la veste sembra davvero poco somigliante, ed il disco crociato può ben essere un fraintendimento della fibbia alla scollatura di Castitas, o Caritas o (meno) Constantia; d'altra parte la sorte che cancellò a poco a poco tutte le scritte ha fatto sopravvivere sul suo cartiglio un - direi evidente - "operit": perché non restituire l'epigrafe in charitas operit multitudinem peccatorum (che non era stata impiegata - abbiamo visto - per la figura 2)? Anche la corona sembra quella di Carità.
Alcuni resti della scritta permettono ancor oggi di identificare Misericordia (11): ancora una volta la figura completamente accasciata non poté servirsi del modello musivo e questo servì al nostro nr. 2. E non meno bene si leggono alcune parole sulla nr. 12: iustus ex fide vivit; n da integrare in nam fides sine operibus vacua est, che è un luogo paolino notissimo (Rom. 1.17) degno di qualche considerazione. Deriva esso stesso da Abacuc (iustus autem in fide sua vivet, 2.4): venne ripreso da Paolo anche in Gal. 3.11 (quoniam autem in lege nemo iustificatur apud Deum, manifestum est: quia iustus ex fide vivit) ed Ebr. 10.38 (iustus autem meus ex fide vivit). Mosaicista e scultore arricchirono le parole di Paolo con alcune dell'epistola di Giacomo attorno alla necessità di suggellare la fede per mezzo di pratici comportamenti: insistendo su quest'obbligo per il cristiano, Giacomo scrive a 2.20 quoniam fides sine operibus otiosa est, e poco dopo, a 2.26 ita et fides sine operibus mortua est. La lieve correzione in vacua può essere stata dettata ancora una volta dal giusto desiderio di aversio ominis (mortua) o di evitare radicalmente contrasti inopportuni alla straordinaria operosità dei vicini Mesi e Mestieri (otiosa). Non meraviglia - perché risulta di frequente quando si cementano fonti eterogenee - vedere in atto una evidente contraddizione fra la Lettera di Giacomo (sull'indispensabilità degli opera) ed il testo paolino: la Lettera ai Galati, infatti, ed il III cap. in particolare, è tutto inteso a far primeggiare il ruolo della fede. Mi sembra - in conclusione - che non vi sia motivo per evitare al personaggio in questione l'etichetta di Fides, e non saprei perché Saccardo ignorando la scritta pensi ad una possibile Benignitas.
Giustissimo è invece pensare a Prudentia per la figura 13 con i due serpenti; e prendere per Temperantia la prossima, la cui scritta non è "illeggibile" (56), ma assente, come - unico caso - sul mosaico.
Ben più intrigante ci viene incontro il caso della quindicesima figura, segnalata da un nimbo più ricco degli altri ed un giglio nella destra come attributo: la somiglianza formale dunque vorrebbe apparentarla a Fides del mosaico; nonostante che l'attributo - sul mosaico - sia notevolmente più stilizzato tanto da diventare a tutti gli effetti uno scettro; se non fosse che la parola d'ordine iustus ex fide vivit l'avevamo già letta nelle mani del nr. 12. Non solo, ma sul presente cartiglio nessuno ha rilevato la presenza di tracce consistenti di scrittura quali iam [...>si pos[...>ram, facilmente riconducibili - se ancora una volta esploriamo il discorso della montagna - a Beati mites quoniam ipsi possidebunt terram (Matt. 5.4): la Virtù si individua perciò, tramite la corrispondente del mosaico, con Benignitas.
La degna conclusione avviene con le rimanenti virtù cardinali, lustitia e Fortitudo: iustus est Dominus et iustitiam dilexit leggeva Saccardo (57), mentre noi riusciamo ad intravvedere ormai solamente l'incipit ed abbiamo qualche dubbio sul resto, visto che - nel modello del mosaico - la scritta è iustus est Dominus et iusticias dilexit equitatem [...> (completato a sua volta, nell'originale biblico, da vidit vultus eius - Sal. 10.6). La scatola dei pesi che tiene (sulla cupola) nella sinistra viene fraintesa e ridotta ad un incongruo vaso (58). Dopo viene Fortitudo, spezzando le mascelle d'un leone e la scritta, ancora parzialissimamente esistente, recita: molas leonum confringet Dominus (Sal. 57.7) (59).
Risulta molto difficile raccogliere qualche commento definitivo: quel che si può azzardare è una disposizione in cui (ignorando purtroppo la vera natura dei nrr. 3 ed 8, se le mie note sono servite a chiarire - in più delle precedenti esegesi - i nrr. 10, 12 e 15 e suggerire dunque per l'inizio i temi di Spes, Caritas, Humilitas e per il vertice quelli di Modestia, Constantia, Caritas, Misericordia e Fides) i punti d'appoggio reali e simbolici di tutto l'arco sarebbero a destra più o meno le virtù teologali ed a sinistra, più o meno, le virtù cardinali; di modo che il complesso riceverebbe meno banale struttura dei mosaici e avrebbe al centro l'ottimo spartiacque di Constantia. Se si ammettesse (come allo stato dei fatti non posso fare a meno) un raddoppio del personaggio di Caritas siglato le due volte (2 e 10) da due cartigli diversi, circostanza certo sgradevole forse, ma tutt'altro che impossibile per committenti evidentemente più disposti di noi verso asimmetrie di ogni genere, si potrebbe pensare che il numero eccedente (si ricordi che per spezzare la serie dando un centro all'arco ci volevano diciassette Virtù e non sarebbero bastate le sedici dei mosaici) sia stato raggiunto senza inventarne nessuna nuova e semplicemente iterandone una; cosa che ammetto volentieri, anche considerando come il canone sulla cupola maggiore si era già arricchito di un numero: 3 teologali + 4 cardinali + 8 beatitudini + Modestia.
Se si intende passare dall'analisi interna a considerazioni che abbraccino altri cicli ed altri canoni, poco c'è da dire. Il tema - come si sa - fu studiato egregiamente da Adolf Katzenellenbogen, che provvide un certo numero di schemi, dove però personaggi e disposizione non sono quasi mai costanti (60).
Il sistema si può pensare sorto con il gruppo delle quattro Virtù cardinali (61) ed arricchito delle tre teologali (62); né mancarono, nei testi e nelle rappresentazioni, le Beatitudini (una delle più antiche - ultimo quarto del sec. X - sembra quella contenuta nel sacramentario proveniente da S. Massimino di Treviri, ora alla Nazionale di Parigi) (63). Altro raffronto è possibile, se pure labile, con un reliquiario conservato a Bruxelles (circa 1145) dove alcune figure femminili (i doni dello Spirito Santo) tengono fra le mani cartigli col testo di alcune Beatitudini (64). Sono rappresentate le Beatitudini anche su alcuni capitelli del chiostro di Moissac, nel S. Michele di Hildesheim e sul pulpito, parzialmente distrutto, della cattedrale di Magdeburgo (65).
Rimane da completare il programma del portale maggiore, con l'arco più grande ed esterno, ornato dalla rappresentazione di una serie di attività cittadine, coppia indispensabile - come si disse - ai lavori di campagna: un'espressione tutta diversa sembra aver voluto dare lo scultore (che pure dovette essere lo stesso, se seguiamo, come mi par giusto, l'opinione di Demus e Cochetti Pratesi, convinti si tratti d'uno stesso maestro appena colto in due periodi diversi della propria carriera, di cui il secondo, quello corrispondente alla realizzazione del terzo arco, dovrebbe essere il più avanzato) ai gesti ed ai modi delle figure: ora dimentiche della fissità agreste e dello scorrere delle azioni sui campi, lento quanto il cammino impercettibile dell'anno attorno alle sue orbite, per conquistare una commerciale industriosità ed una disposizione quasi caotica al fare, come se tutto fosse avvertito (e qui non intendo solo dallo scultore ma anche dal committente e, va da sé, dal pubblico) più 'moderno' e realistico, più vero, o almeno collegato ad esperienze verificabili (è evidente, ad esempio, che la folla cittadina aveva col carpentiere e col macellaio ben più pratica che col vignaiolo). È facile notare (ed è stato fatto (66)) che in cicli diversi ci troveremmo a questo punto dinanzi ad una bella serie di Arti liberali: che non avvenga è di nuovo segno della spinta verso il realismo, di cui abbiamo appena parlato.
La serie mostra all'opera il costruttore di navi (1), il vinaio (2), il fornaio (3), il macellaio (4), il lattaio (5), il muratore (6), il calzolaio (7), il barbiere (8), il bottaio (9), il carpentiere (10), il falegname (11), il fabbro (12), il pescatore (13); siccome Venezia è città di mare e deve tutto - basilica compresa - al mare, le attività alle due basi dell'arco che fanno da pietra angolare sono lavori connessi con la navigazione (si ritrova la tendenza a "fondare l'arco" opportunamente, che avevamo già rilevato nell'arco delle Virtù). Forse - passati questi due estremi - si vollero creare come due insiemi, accostando a sinistra attività connesse al commercio alimentare (2-5) ed a destra esercizi artigianali omogenei (9-12).
Del più grande significato è ancora una volta il trovarsi sulla serratura dell'arco due mezze figure di angeli che portano un clipeo con l'Agnus Dei, perché questo è un irresistibile richiamo, visivo e dunque simbolico, al Christus Emmanuel cardine attorno a cui ruotavano i Mesi, nonché ci prepara all'altro Emmanuel che vedremo sull'ultimo arco, quello popolato di Profeti; la Costanza al centro delle Virtù non ha nulla a che fare con queste tre figure dal punto di vista simbolico-contenutistico, ma conserva una sua similarità di foggia e di disegno.
Non c'è neppure bisogno di ricordare che mentre i lavori dei campi vedono all'opera contadini isolati, qui sono sempre in due o di più ad esercitare il mestiere.
Si passa perciò davvero da una formicolante umanità a spazi fissi ed astratti, se con la nostra attenzione scivoliamo sulla faccia esterna dell'arco: forse la porzione meno avvincente di tutto il portale, perché destinata ad ospitare nove profeti protetti da un serto quasi continuo di acanto. Sono - come si sa - un soggetto che può trovarsi su qualunque rispettabile cattedrale, e quindi non si anima, qui, della peculiarità che segna tutti gli altri archivolti. È in ogni caso un legittimo punto di arrivo ed una sorta di agognato cielo, pronto ad accogliere gli stessi uomini - e a proteggerli - che più sotto si sono impegnati in tutta la loro laboriosità.
Resta da confrontarsi ora con gli altri aspetti della chiesa, con le due facciate laterali, il cui significativo disordine costituì della nostra indagine quasi un preliminare, per riannodare le trame traverse, eppure presenti, che le percorrono e ne fanno un indiscutibile complemento ai cicli ambiziosi della facciata. Forse la strada migliore sarebbe una rapida scorsa agli elementi accessorii di questa facciata, a quel solido contributo che assicurano le numerose spoglie (ma senza qualche brano originale) nella loro sapiente riorganizzazione, all'effetto tipicamente "Gesamtkunstwerk" da offrire incancellabile all'osservatore.
Un esempio migliore non può soccorrerci - a questo punto - dell'immagine di Cristo come si ripropone al centro delle diverse porte: sulla sinistra si apre ancora il complesso notevole della porta S. Alipio, coacervo singolare di marmi dalla disparata provenienza (penso soprattutto alle scene della biografia di Cristo sull'architrave) ma perfettamente adattate a questa sede (almeno per quel che concerne l'oggettiva messa in opera, se non la coerenza iconografica del risultato finale, di cui gli interpreti con buone ragioni dubitano), che conclude in alto l'ennesima immagine del Christus Emmanuel, per noi notissima ed addirittura non casualmente simile - secondo Cochetti Pratesi (67) - al medaglione centrale dell'arco dei Mesi. Simmetricamente, dalla parte destra della facciata ovest, troviamo stavolta l'immagine di Maria col figlio (affiancata dagli angeli come là Cristo lo era dai profeti), ma poco più sotto, subito sopra l'architrave della porta, c'è di nuovo un medaglione con la figura di Cristo. E di più ancora ci interessa la conclusione degli altri portali minori: all'apice del secondo portale laterale nord c'è di nuovo un Cristo benedicente col libro in mano (lo accompagnano poco sotto due profeti); e sulla cima del secondo portale laterale sud l'Emmanuel in compagnia degli arcangeli apotropaici (sanctus Michael arcangelus, sanctus Gabriel).
Non basta: un punto di forza dell'intera facciata sono le sei icone del registro più alto, cui feci rapidissimo accenno all'inizio. Raffigurano, nella loro compiaciuta specularità, Ercole e il cinghiale erimantico (1), Maria (2), San Demetrio (3), San Giorgio (4), l'angelo dell'Annunciazione Gabriele (5) ed Ercole col cervo e l'idra (6). Ora si comprende ad occhio il rapporto che lega i nrr. 1 e 6, 2 e 5 (pronti ad inscenare un'Annunciazione in tutta regola), e 3 con 4. Si tratta di rapporti assolutamente voluti: che sanctus Dimitrius faccia coppia con sanctus Georgius non sfuggì neanche alla critica passata (68) che li commentò come i due fidati guardiani dell'ingresso centrale; per di più il secondo è prodotto veneziano, bizantino il primo: dunque chi montò assieme la serie di icone si preoccupò di produrre manu propria qualcosa che facesse da opportuno pendant alla lastra del S. Demetrio che la sorte così provvidamente gli aveva offerto. Il caso non è isolato, basta indugiare brevemente sui rilievi col tema erculeo per accorgersi che - somigliantissimi - non sono prodotti gemelli: già Venturi (69) notò che il riquadro di destra era un prodotto locale confezionato esplicitamente per completare - secondo un simmetricissimo piano - l'impresa del cinghiale all'estrema destra, bassorilievo, al contrario, di provenienza bizantina. Se per la figura dell'arcangelo e della Madonna non ci troviamo dinanzi a provenienze divergenti ma dobbiamo supporre (per quanto le cattive condizioni di conservazione, in ispecie del nr. 5, consentano) un'identica provenienza veneziana, non di meno ci stupisce che siano state assemblate opere di diversa cronologia, nate certo tutt'altro che assieme, e disposte a suggerire lo schema familiare dell'Annunciazione anche se il loro gesto non era quello: nel caso della Vergine si tratta infatti di una Maria orans piuttosto che di un'Annunziata.
La facciata nord è quella forse più compromessa da aggiunte e trasformazioni tarde, per cui allo stato attuale riesce difficilissimo disporre i diversi eventi in un seguito soddisfacente. Vi finirono - come giustamente presuppone Kieslinger (70) - molti elementi smontati dall'interno della basilica, l'apertura d'una trifora a destra ne cacciò probabilmente altri, insomma, a parte la cosiddetta porta dei Fiori, ben poco si muove con un ampio ed autonomo respiro.
Un caso su cui a titolo di esempio mi voglio soffermare, perché particolarmente emblematico, è quello delle due lastre in alto a destra che non si riesce a non percepire simultaneamente, almeno per quanto ne è del loro, direi palese, significato: una mostra il sacrificio di Isacco, ed è così singolare da disorientare gli interpreti fra datazioni tardoantiche (Saccardo) e gotiche (Gabelentz), fino alla sottile conclusione di Demus pronto a scorgervi la parafrasi di un modello paleocristiano (71). L'altra è l'attestazione ennesima di un avvenimento prediletto tratto dalla vita di Alessandro Magno: il suo tentativo di ascendere al cielo su un carro trascinato da due grifoni che avrebbe eccitato parandogli avanti profumatissime esche; viene comunemente ritenuta opera bizantina, forse arrivata a Venezia col bottino di Costantinopoli nel 1204. Ha ragione Demus a veder l'una contraltare dell'altra e l'orgoglio superbo di Alessandro opposto allo spirito d'ubbidienza di Abramo (72). Quello che stupisce - a seguire più da vicino la storia di Alessandro - è l'impiego paradossale che a Venezia fecero di un rilievo connotato originalmente (perché nato a Bisanzio) di qualità eminentemente positive. Ma devo accennare allo stato della questione. Va da sé che l'immagine dell'ascensione doveva rimandare, quando si costituì, ad un significato trionfale, prima che questo esplicito contesto potesse, se recepito in una dimensione iperbolica, trapassare ad un significato del tutto negativo, simbolo di un temerario e smisurato orgoglio (73). Nei monumenti bizantini - questo ci interessa particolarmente per la lastra di S. Marco - il re saliva al cielo sempre sul cocchio (che in Occidente sostituirono talvolta con un cesto od un trono); alla fissità della formula iconografica avrà contribuito il significato trionfale che non è mai assente dai monumenti bizantini che illustrano il nostro tema: cosicché l'immagine che si impose è quella che più direttamente rimanda all'antica rappresentazione dell'imperator sul carro di trionfo, cui può unirsi quella - del medesimo significato - dell'imperatore sul carro del sole, continuando la tradizione che traeva origine proprio dall'identificazione di Alessandro con Hèlios. In un angolo dell'esonartece della chiesa di S. Sofia a Costantinopoli si trova un rilievo dove riconosciamo il nostro episodio: Alessandro vi appare fino alla cintola su un carro tirato da due grifoni, con le braccia spalancate e il bastone con l'esca nelle mani; la corona e varie parti del corpo furono preparate per ricevere l'inserzione di pietre preziose, smalti o perle oggi scomparse (lo dimostra, voglio dire, la fitta serie di fori che cosparge la pietra). Lo schema di Venezia è assai simile a quello di S. Sofia, e c'è chi trova perfino affinità di stile fra i due rilievi (74). In Grecia è possibile trovare altri tre rilievi bizantini che testimoniano il favore goduto dal tema. E certamente degna di considerazione ci sembra la nota di Grabar (75) secondo cui gli esempi di Kiev (rilievi con Dioniso, Ercole ed il leone, sulle facciate del convento di Petchersk e di S. Michele) e Venezia (specie le icone ovest) devono rifarsi ad una tradizione bizantina comune che sceglieva, tra i soggetti di decorazione, quelli che potevano essere usati con funzioni apotropaiche; riconducendo ad un medesimo significato anche il rilievo marciano dell'ascensione per griphos, visto che questo e gli altri con Ercole ed i santi guerrieri (in parte di provenienza bizantina) incastrati sui muri esterni della chiesa "répondaient, en dehors des exigences esthétiques, à un autre besoin: ils servaient d'apotropées qui protegeaient contre le mal"; vedremo comunque che per quanto ci riguarda l'affermazione è bene sia limitata. In una coppa d'argento dorato dell'Ermitage, proveniente da una regione limitrofa a Bisanzio o dalla stessa area bizantina (76), si vede, oltre all'ascensione, l'immagine di s. Giorgio e Sansone che confringit molas leonum; se anche la si volesse interpretare come semplice figura di genere (e non ritratto dell'eroe biblico) sarebbe pur sempre allegoria d'una difficile vittoria, quanto l'impresa del macedone accanto, e col s. Giorgio che evoca immediatamente il drago sconfitto, dovevano tutte e tre produrre uno stesso contesto trionfale. Allora si deve concludere che l'immagine aveva preciso valore apotropaico, stava spesso sulla facciata delle chiese - in posizione di grande rilievo - e appariva con la fissità di un'importante formula iconografica: cioè la costante attribuzione al macedone delle vesti e della corona di un imperatore bizantino. Il volo di Alessandro veniva perciò assimilato alle straordinarie imprese che nei palazzi di Costantinopoli glorificavano gli imperatori; non dimentichiamo che anche sullo smalto della Pala d'Oro - col medesimo soggetto - Alessandro è nimbato, e se non dev'essere necessariamente simbolo di santificazione sarà sempre comunque segno onorifico, e come tale ha spesso circondato il capo di imperatori bizantini. Nel mondo bizantino, perciò, l'ascensione assume un rilievo particolarmente significativo, proprio perché, per gli oggetti di uso principesco su cui è rappresentata, per la sua inclusione fra i temi dell'arte profana palatina, per il suo valore profilattico su amuleti o (come nelle chiese russe) accostata ad altri temi di valore apotropaico, e infine per l'identificazione del re con l'imperatore bizantino, viene strettamente connessa alla tematica dell'esaltazione imperiale. Al contrario del mondo bizantino, dove evidente e costante è il significato positivo, sarà nelle rappresentazioni occidentali che la leggenda verrà assumendo una pluralità di significati, trapassando talora a simbolo di colpevole orgoglio o comparendo altre volte, svuotata quanto al contenuto, niente più che una bella favola. È nella cultura ecclesiastica che l'avventura assume connotati particolari, per la frequente connessione di Alessandro con le profezie bibliche che lo riguardano, cosicché le sue gesta vengono recepite su uno sfondo religioso, condizionato per giunta dall'esegesi biblica, convinta, a partire da Orosio, di scorgervi il precursore dell'Anticristo e Satana in carne ed ossa: canonica correva la lettura del leopardo alato ed il capro vittorioso di Daniele (7.6, 8.3-26) come fosse il re macedone che fulmineamente sgomina Dario (77). Lungo sarebbe stendere l'elenco dei detrattori: sono quasi continui, da Fulgenzio ad Ugo di San Vittore che lapidariamente scrive: quis inquam per illum significatur nisi diabolus qui dixit 'in coelo conscendam'? (78); per finire a Pietro Comestore e Ruperto di
Deutz; in tutti avrà poi avuto facile gioco il rapporto quasi letteralmente metaforico fra elevatio ad aerem e superbia. Inutile attardarsi ad elencare le realizzazioni monumentali congrue a questi presupposti concettuali; voglio soffermarmi appena su un capitello del deambulatorio della cattedrale di Basilea (della seconda metà del sec. XII) per il contesto in cui esso compare. Alessandro vi è rappresentato seduto tra due esche e due grifoni pesantemente incatenati alla navicella aerea; gli altri lati del capitello contengono la Caduta di Adamo ed Eva e la Cacciata dall'Eden, significando dunque che anche il re è colpevole di una volontà di conoscenza peccaminosa travolgente i limiti delle possibilità umane; però la favola non si arresta e continua meno pessimisticamente nella serie dei capitelli che seguono e che riportano la lotta di un cavaliere contro le fiere e d'un drago contro un uomo (a), l'epilogo degli amori di Piramo e Tisbe (b), il sacrificio di Isacco con il grembo di Abramo e due draghi (c): un piccolo ciclo completo di peccato e salvazione, che ostenta il medesimo contrapposto veneziano Abramo/Alessandro! (perciò esito ad abbracciare l'ipotesi apotropaica del Grabar). Dunque, nel mondo bizantino l'ascensione viene usata per oggetti assai spesso di uso principesco, ma anche se attratta in un ambito religioso viene assimilata alle straordinarie imprese con cui veniva glorificato il basilèus (di cui Alessandro costantemente porta vesti e corona); legato a valori apotropaici, diventa modello degli imperatori bizantini e lui stesso imperatore. Nel mondo occidentale invece l'elevatio ad aerem compare solo su edifici sacri, e, con accenti negativi, simbolo di peccato, talmente popolare da trovar posto, con altri temi, nei programmi monumentali che la Chiesa espone sui monumenti come veicolo di ammaestramento. Per riprendere le fila della nota iniziale, dove avvertivo di un uso "paradossale" sulla parete nord del rilievo con Alessandro, la stranezza dell'impiego è dovuta - e non escludo una sopravvalutazione espressiva a ciò annessa dal lapicida - al trovarsi vettore di significati negativi un'icona nata senz'altro (perché a Bisanzio) come simbolo positivo, tanto che il tradizionale fasto regale si vede obbligato al paragone umiliante con la pia sottomissione di Abramo: uno dei modi che trovavano a Venezia per abilmente sconvolgere l'iniziale contenuto delle loro spoglie, in direzione di nuove trame ed originali apologie.
Il valore apotropaico - secondo un'interpretazione rigorosa, un'interpretazione, voglio dire, che non si preoccupi tanto del segno isolato quanto piuttosto del contesto che lo accoglie, tanto più se i segni a fianco offrono un prezioso foglio di contrasto - che ho appena negato (anche contro l'esegesi del bellissimo contributo del Grabar) al nostro detronizzato basilèus, va invece senza esitazioni attribuito al s. Giorgio poco discosto. Evidentemente convinto - come tanto pensiero magico - che ripetere la formula vale protezione doppia, l'architetto o il committente che sistemarono i prospetti della basilica non esitarono affatto a riproporci un tema che già era - come si ricorderà - sulla fronte principale. Per il resto si continua con una serie di santi protettori, o esplicitamente soccorrevoli, come il s. Leonardo di cui si capirà facilmente l'importanza per Venezia che il costante impegno bellico esponeva di continuo a vedere fatti prigionieri i propri cittadini a frotte (ed era questo il caso in cui si invocava l'intercessione di Leonardo); o importanti per fama, come i quattro evangelisti sopra la porta dei Fiori, di cui credo si debba notare la realistica attitudine da copista o scrittore, perché Matteo (sanctus Matheus) sta copiando scrupolosamente dal suo exemplar; Luca (sanctus Luca evangelista) scrive sul libro il suo 1.5, che è il vero e proprio inizio del vangelo dopo i versetti puramente introduttivi 1-4, fuit in diebus Herodis regis quidam nomine Za e la punta della penna attaccata al foglio sta finendo la a di Zacharias; Marco (sanctus Marcus) ha la penna pronta sul foglio mentre sta per completare con la m mancante la prima parola (inicium) del suo vangelo.
Non manca neppure un santo frequentissimo in circostanze dove meglio è affidarsi alla forza apotropaica del cielo: quel s. Cristoforo che tanto spesso ci viene incontro - e per lo più in dimensioni eccezionali - sulle porte delle città, sulla facciata delle chiese, nelle aule dei palazzi pubblici: qui lo accompagnano versi (resi a mosaico) che sono una specie di suo costante attributo (mi riferisco ovviamente al tema, non alla formula che di volta in volta può cambiare): Christophori sancti speciem quicumque tuetur / illo namque die nullo languore tenetur.
Così è finito il giro della chiesa: le muraglie chiudono davvero un luogo sacrum et religiosum ma al tempo stesso difendono gli spettatori al di fuori e li ammaestrano: con la loro incredibile collezione di santi e di emblemi che solo una caotica ed avvincente armonia fornisce di senso, portano i segni di una storia che si è costituita in un arco non inferiore a tre secoli.
3. Le diverse ipotesi sono sempre accuratamente registrate da Giulia Hempel-Jürgen Julier, nel Katalog der Skulpturen (pp. 17-57), pubblicato, assieme all'ottimo saggio introduttivo Der skulpturale Fassadenschmuck des 13. Jahrhunderts di Otto Demus, in Skulpturen von San Marco in Venedig. Die figürlichen Skulpturen der Aussenfassaden bis zum 14. Jahrhundert, a cura di Wolfgang Wolters, München 1979.
4. V. per questo G. Hempel-J. Julier, Katalog, p. 39.
5. O. Demus, Der skulpturale, p. 40.
6. Ibid., p. 41.
7. Ibid., p. 7.
8. Nella sezione da Francesco e Giovanni Saccardo dedicata alle Sculture simboliche del volume collettivo La Basilica di San Marco in Venezia illustrata nella storia e nell'arte da scrittori veneziani, sotto la direzione di Camillo Boito, Venezia 1888, pp. 245-265.
9. Ibid., p. 247.
10. Ibid., p. 248.
11. Ibid.
12. O. Demus, The Church, p. 156.
13. Lo afferma Perrine Mane, Calendriers et techniques agricoles. France-Italie, XIIe -XIIIe siècles, Paris 1983, p. 29. Si tratta nel caso della Mane di un libro certamente utile, anche se non privo di errori (talvolta nella stessa identificazione delle attività che le diverse sculture dovrebbero rappresentare) e soprattutto - nient'affatto timoroso di affidarsi a tranquilla disinvoltura quando si tratta di ricostruire fatti o trame a partire da sintomi esigui ed altrettanto esili, sicché non sempre se ne riesce convinti e qualche volta si vorrebbe maggior cura nell'evitare, anche a breve distanza, alcune contraddizioni: ad esempio a p. 29 l'autrice scrive che per introdurre senza scandalo un tema profano come quello dei Mesi in edifici religiosi, gli artisti hanno assegnato loro "le plus souvent [...> une place secondaire", ed immediatamente dopo che si trovano il 92% delle volte in Italia "sur la façade occidentale, c'est à dire la façade principale". A p. 43 si parla dei Mesi di Venezia ed i nomi iscritti sono riportati malamente. A p. 69 la Mane non indica - ed è impossibile farlo, probabilmente - dove stanno tutti quei cicli che, per influenza di Antelami, porterebbero a novembre la raccolta delle rape. Non sarei tanto pessimista sullo "spinarlo" di Marzo ("le symbolisme est devenu obscur", p. 77). A p. 119 mi sembra difficile che il pesciolino nel piatto, pronto ad essere mangiato, conservi "pour l'Eglise une valeur symbolique". A p. 208 ho sacrosanti dubbi che sia giusta l'interpretazione del contadino che batte con un bastone le fronde - fra le sculture di Amiens - come "le ramassage des pommes": contrasta non solo col buon senso (profitta del "ramassage" per passare direttamente alla marmellata!) ma anche con l'Ottobre di Autun, dove un contadino compie lo stesso gesto alla presenza dei maiali indicando questo che non raccoglie frutta ma scrolla ghiande dalle querce per il pascolo del suo branco (simili scene sono frequenti: cf. quella di Rampillon - fig. 66 - e l'altra non meno esplicita del mosaico di Bobbio - fig. 232).
14. Per quanto riguarda la rappresentazione dei Mesi e del calendario nell'antichità, e per la bibliografia che la riguarda, rimando all'esauriente Étienne Coche de la Ferté, Mesi e Calendario, in Enciclopedia dell'arte antica, IV, Roma 1961, pp. 1039-1047.
15. Cosiddetto perché appartenuto alla collezione romana del vescovo Angelo Colocci.
16. Henri Stern, Le Calendrier de 354. Étude sur son texte et ses illustrations, Paris 1953.
17. F. 9ov: cf. Hans Swarzensky, Die salzburger Malerei von den ersten Anfängen bis zur Blutezeit des romanischen Stils, I-II, Stuttgart 1969: I, pp. 14-21; II, tav. VII, fig. 20.
18. Jacques Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino 1977, pp. 73-91.
19. Ibid., p. 144.
20. Cf. Peter Sternagel, Die "Artes mechanicae" im Mittelalter Begriffs und Bedeutungsgeschichte bis zum Ende des 13. Jahrhunderts, Kallmünz-Regensburg 1966, pp. 62 ss.
21. Iohannis Saresberiensis Polycraticus, VI. 20, in P.L., 199, coll. 618 s.: pedes quidem qui humiliora exercent officia appellantur, quorum obsequio reipublicae membra per terram gradiuntur. In his quidem agricolarum ratio vertitur, qui terrae semper adhaerent, sive in sationalibus, sive in consitivis, sive in pascuis, sive in floreis agitentur.
22. J. Le Goff, Tempo della Chiesa, p. 144.
23. Citato da Uta Feldges-Henning, The Pictorial Programme of the Sala della Pace: a New Interpretation, "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", 25, 1972, p. 157 (pp. 145-162).
24. Si veda ad esempio il dittico della seconda metà del V secolo, conservato a Milano nel Tesoro del Duomo (riprodotto in Lexikon der Christlichen Ikonographie, Roma-Freiburg 1970, s.v. Jahreszeiten, fig. 1, p. 367), in cui l'agnello mistico appare racchiuso entro una cornice formata dai frutti delle quattro stagioni; tutt'intorno episodi della vita di Cristo.
25. Augustini De civitate Dei, IV. 33, in P.L., 41, col. 139: cui tamen ordini temporum non subditus servit, sed eum ipse tamquam dominus regit moderatorque disponit.
26. Apologeticum, 48, in P.L., 1, col. 592: omnia pereundo servantur.
27. Honorii Augustodunensis De imagine mundi, II. 3, in P.L., 172, col. 146.
28. Sicardi Cremonensis Mitrale, V. 8, in P.L., 213, col. 232.
29. Ibid., col. 233.
30. Émile Mâle, L'art religieux du XIIIe siècle, Paris 1958, p. 64.
31. Cit. da James Fowler, On Medieval Representations of the Months and Seasons, "Archaeologia", 44, 1873, p. 185 (pp. 137-224).
32. O. Demus, Der skulpturale, p. 44.
33. Sicardi Cremonensis Mitrale, col. 21.
34. Josef Strzygowski, Die Monatscyclen der byzantinischen Kunst, "Repertorium für Kunstwissenschaft", 11, 1888, pp. 44-46 (pp. 23-46).
35. Jacques Le Goff, La civilisation de l'Occident médiéval, Paris 1964 (19775, p. 258).
36. Vedi per questo quanto scrive Marco Grondona, Precisazioni sul San Fortunato: "tritumi e grandi piazze per una 'domus vitrea'", in AA.VV., Il tempio del santo patrono, Todi 1988, pp. 113-115 (pp. 99-120).
37. J. Strzygowski, Die Monatscyclen, p. 45.
38. Cf. Léon Pressouyre, "Marcius cornator". Note sur un groupe de représentations médiévales du mois de mars, "Mélanges de l'Ecole Française de Rome", 77, 1965, pp. 395-473.
39. O. Demus, The Church, p. 154.
40. Qui ed in qualche altro caso non è perfetta la trascrizione delle epigrafi da parte di G. Hempel-J. Julier, Katalog, p. 43.
41. É. Mâle, L'art religieux, p. 97.
42. George H. Crichton, Romanesque Sculpture in Italy, London 1954, p. 89.
43. Mi discosto anche qui dalla lettura di G. Hempel-J. Julier, Katalog, p. 44.
44. O. Demus, The Church, p. 154.
45. Differente la lettura di F. e G. Saccardo, Sculture simboliche, p. 250; ciò non toglie l'indispensabilità della trascrizione Saccardo in molti casi; abbiamo annotato dettagliatamente tutti i punti in cui essa ci sembrò sospetta ed i casi in cui non furono letti frammenti che pure sono ben visibili; oltre ad un caso di errore patente.
46. P. Mane, Calendriers, p. 143.
47. Da parte di J. Strzygowski, Die Monatscyclen, p. 45.
48. P. Mane, Calendriers, p. 228.
49. G. Hempel-J. Julier, Katalog, p. 45.
50. O. Demus, The Church, pp. 151 ss., e Der skulpturale, p. 46.
51. Alexander Robertson, The Bible of St. Mark, London 1898, p. 39.
52. Hans von der Gabelentz, Mittelalterliche Plastik in Venedig, Leipzig 1903, p. 186.
53. Adolfo Venturi, Storia dell'arte italiana, I-III, Milano 1901-1904: III, p. 365.
54. Cf. n. 36.
55. Cf. O. Demus, Der skulpturale, p. 46.
56. F. e G. Saccardo, Sculture simboliche, p. 252.
57. Ibid.
58. Come notò O. Demus, The Church, p. 159.
59. Letto malamente da F. e G. Saccardo, Sculture simboliche.
60. Adolf Katzenellenbogen, Allegories of the Virtues and Vices in Medieval Art, London 1939; parla esplicitamente di Venezia a p. 53, in modo non del tutto perspicuo.
61. Ibid., pp. 30 s.
62. Ibid., p. 34.
63. Ibid., p. 134 n. 3.
64. Ibid., p. 48 e figg. 51, 52.
65. Ibid., p. 54 in nota.
66. O. Demus, The Church, p. 146.
67. Lorenza Cochetti Pratesi, Contributi alla scultura veneziana del Dugento, "Commentari", 11, 1960, nr. 1, La decorazione plastica del portale maggiore della Basilica di S. Marco, p. 14 (pp. 3-21).
68. Jan Grevembrock, citato in Skulpturen, p. 32.
69. A. Venturi, Storia dell'arte, II, p. 521.
70. Franz Kieslinger, Le transenne della basilica di S. Marco del secolo XIII, "Ateneo Veneto", 131, 1944, pp. 57 ss. (pp. 57-61).
71. O. Demus, The Church, p. 174.
72. Ibid., p. III.
73. Per un elenco delle contrastanti interpretazioni che la letteratura moderna ha fornito riguardo alla leggenda dell'ascensione di Alessandro, cf. Geza De Francovich, Benedetto Antelami architetto e scultore e l'arte del suo tempo, Milano-Firenze 1952.
74. L'identificazione avvenne la prima volta da parte di Julien Durand, La légende d'Alexandre le Grand, "Annales Archéologiques ", 25, 1865, pp. 141-158.
75. André Grabar, L'art profane en Russie prémongole et le "Dit d'Igor", in Id., L'art de la fin de l'Antiquité et du Moyen Âge, I, Paris 1968, pp. 317-322 (pp. 301-338).
76. V. per questo il mio Historia Alexandri elevati per gryphos ad aerem, Roma 1973, pp. 179-182.
77. Cf. Hieronymi Commentaria in Danielem, in P.L., 25, coll. 529 ss.
78. Hugi de S. Victore Allegoriae in Vetus Testamentum, XI, in P.L., 175, coll. 749 s.