Le feste della Repubblica: memoria, fratture e patriottismo costituzionale
Le feste di una nazione costituiscono un osservatorio privilegiato per l’analisi politica dei processi di integrazione e dei conflitti sociopolitici. Ciò vale in modo peculiare per le società democratiche. Attraverso le feste civico-politiche si possono ricostruire l’identità e la memoria pubblica di una nazione e le sue trasformazioni nel corso del tempo. Una nazione racconta se stessa, e plasma i suoi caratteri identitari, anche nella celebrazione di feste ufficiali e ritualizzate. È significativo che queste narrazioni identitarie abbiano uno stretto rapporto con il clima politico-culturale che percorre una società nel succedersi delle sue differenti congiunture storiche e nel cumularsi e susseguirsi delle generazioni. Tutto questo acquista un profilo e una rilevanza particolari già nel caso delle società moderne, ma soprattutto in quelle liberaldemocratiche, caratterizzate da un pluralismo politico, culturale e sociale che le porta a essere riflessive (autoriflessive) sui loro problemi identitari e di memoria collettiva. I valori, le norme di comportamento, i rapporti con il passato e gli assunti identitari, da impliciti diventano espliciti: sono cioè messi a tema e diventano criticabili, perdendo sempre più quella patina di naturalità priva di alternative, attribuibile alle società arcaiche o, per certi aspetti, anche a quelle premoderne.
Allo sguardo del politologo, feste e riti, memoria pubblica e identità collettive di uno Stato-nazione democratico risultano riconducibili alla categoria della ‘cultura politica’. In quanto tali, la loro analisi contribuisce a comprendere e spiegare la realtà politica attraverso una messa a fuoco della sua dimensione socioculturale, il cui fulcro è costituito dai sistemi di credenza e di significato che orientano le idee e le azioni degli uomini, siano queste circolanti a livello di élites o di massa. In questo senso, l’approccio analitico e ricostruttivo del tema trattato in questo contributo rimanda a una sorta di riproposizione sul piano politologico del paradigma weberiano della verstehende Soziologie (G. Nevola, Robert N. Bellah e le «abitudini del cuore», «Quaderni di scienza politica», 2012, 1, pp. 163-205). Alla luce di questa prospettiva, la sfera della politica concerne anche un ambito di fenomeni (o dimensioni) più profondi di quelli immediatamente osservabili, e di più ampio respiro, il cui baricentro essenziale sta nella definizione, e nell’agire in vista, del ‘chi siamo’ (identità politica) e del ‘chi comanda’ (potere politico): costruzione del consenso e del dissenso, giustificazione e legittimazione del potere, senso di appartenenza che identifica, unisce o divide, i membri di una comunità politica.
La politica, quindi, non è intessuta solo da logiche razionali o di utilità economicistiche, bensì anche da logiche emotive ed espressive – ossia, per es., da passioni e sentimenti, simboli arazionali e miti identificanti, ricordi personali e memorie collettive o pubbliche. La lotta per il potere politico, per la legittimazione del potere e per il consenso si nutre anche di questi elementi della vita umana e collettiva, e si esprime per il loro tramite. Questa dimensione basilare della politica si condensa e si manifesta in quelli che chiamiamo, con una nozione-ombrello, sistemi di credenza (politica) – ovvero nella sfera della cultura politica. La politica è anche produzione, circolazione e controllo della cultura politica, e conflitto per il controllo di credenze e linguaggi, idee, simboli e riti, miti e memorie, o per l’‘egemonia’ politico-culturale – per dirla con un concetto fissato da Antonio Gramsci. Attraverso i rituali (e i luoghi) della memoria, i discorsi pubblici o ufficiali (in occasione di feste nazionali, commemorazioni, cerimonie civili), e attivando simboli di identificazione, di potere o di contropotere (monumenti e bandiere, inni e stemmi, colori e motti), la politica recupera la propria matrice ‘religiosa’, nel senso originario e preconfessionale (G. Nevola, Non solo «oppio dei popoli». Riti della nazione e democrazia italiana, tra religione civile e patriottismo costituzionale, in Rituali civili, a cura di M. Ridolfi, 2006, pp. 249-60). Il tema delle feste della Repubblica italiana, di cui qui ci occupiamo, si inserisce in, e ha come sfondo, un quadro teorico e concettuale ampio quale quello sopra richiamato.
Le feste della Repubblica italiana, la loro nascita, persistenza e mutar di accenti nel corso della storia repubblicana, rivelano come la democrazia italiana possieda un proprio canone della memoria. I conflitti e le polemiche, le latenze e le intermittenze che pure rivelano memorie divise non ne hanno impedito il formarsi e persistere, né sono finora mai arrivate al punto di azzerarne davvero la sua valenza simbolico-identitaria: finiscono, piuttosto, per riproporlo. Tuttavia, nel corso della vicenda repubblicana questo canone risulta in vario modo, per così dire, ‘fratturato’: ossia, è attraversato da alcune fratture (cleavages), da tensioni compositive e ricompositive del canone originario, talune costanti, resistenti o latenti, altre inedite e sopraggiunte nel corso dei mutamenti storico-politici. Così, in definitiva, possiamo riconoscere un canone della memoria repubblicana, ma anche le sue ammaccature, le sue crepe, quelle che a tratti ne rendono incerto il profilo, quasi fino a sfigurarlo.
La Repubblica italiana nasce all’indomani della Seconda guerra mondiale, costruita sulle macerie di un Paese distrutto dalle fondamenta: l’unitarietà politico-territoriale è precaria e la sua tenuta è sfidata da istanze separatiste o irredentiste; la struttura istituzionale del potere legittimo è in frantumi, divisa tra Repubblica sociale di Salò, monarchia, Comitato di liberazione nazionale (CLN), partiti, occupazione alleata; la società è stremata, le famiglie avvolte nel lutto. La Repubblica nasce in un Paese sfigurato dalla miseria materiale, ma impoverito anche, e forse più ancora, nel suo tessuto morale. Non a caso, nel corso della storia repubblicana, a ondate, alcuni osservatori si sono riferiti a quegli anni parlando di «morte della patria» oppure di rinascita della patria o nascita di una nuova patria (Galli della Loggia 1996; Rusconi 1997; Nevola 1999).
Questo quadro critico segna pesantemente la dinamica politica e istituzionale della fase genetica, o costituente, della Repubblica e i suoi primi anni di vita. Ma si riflette anche sul piano della cultura politica e, in modo particolare, per quanto qui interessa, su quello del rapporto (costituitivo di un’identità nazionale) tra il nuovo regime repubblicano e il passato italiano: il piano della memoria pubblica e delle pratiche simbolico-rituali a essa associate. Su questo piano, la fase genetica della Repubblica mette in luce tendenze e problematiche che accompagneranno a lungo la storia successiva, pur tra mutamenti del complessivo contesto sociale e internazionale, oltre che nel variare delle congiunture politico-culturali – secondo una periodizzazione che dovremo tenere presente.
Le fasi genetiche di un nuovo regime politico sono tipicamente fasi critiche, spesso caratterizzate da una conflittualità ‘calda’ o da vere e propri guerre (‘civili’) in cerca di ‘raffreddamento’. Questo è anche il caso della Repubblica italiana, che comincia a prendere forma a ridosso della guerra, sulla scia della Resistenza (al fascismo) e in sovrapposizione a una guerra di liberazione (dal nazifascismo), a una guerra civile tra italiani di opposta appartenenza politico-identitaria e a una occupazione militare ma anche politica da parte degli Alleati. Ma le fasi genetiche risultano critiche anche sotto un altro profilo. Esse, infatti, si accompagnano a momenti di intensa polarizzazione politico-culturale, una polarizzazione che investe lo stesso patrimonio identitario e di memoria pubblica di un Paese e le sue pratiche simbolico-rituali. In queste congiunture, la memoria pubblica è tipicamente divisa, ‘frantumata’: una memoria ‘inconciliata’ tra memorie antagoniste. E, tuttavia, si tratta di un ‘nuovo inizio’ politico, che, in quanto tale, preme per una sua memoria, per una memoria (almeno in parte) ‘conciliata’ e comune. La legittimazione politica di un nuovo regime passa anche attraverso questo. Non è un caso che, di norma, nel passaggio da un vecchio ordine politico infranto a uno nuovo, tra i diversi patti costituenti (più o meno egemonizzati da qualche soggetto collettivo coinvolto), prenda forma anche un canone della memoria pubblica, con un suo orientamento, che imprime i suoi vincoli valutativi, normativi e selettivi alla memoria collettiva (Assmann 1992).
Il caso della Repubblica italiana rientra pienamente in questo quadro: alla memoria frantumata e inconciliata si abbina – da subito – l’emergere di quello che possiamo definire un canone della memoria repubblicana (Isnenghi 1989; Rusconi 1995; Focardi 2005; Foot 2009). L’epos della Resistenza offre un’incarnazione dei valori di libertà e giustizia in una trama di eventi, gesti e protagonisti (C. Tullio-Altan, Gli italiani in Europa, 1999) che la nuova comunità democratica italiana, in costruzione, vuole trattenere, in un canone della memoria che dia fondamento valoriale e ancoraggio storico alla sua nuova identità politica nazionale.
Il baricentro del canone della memoria repubblicana è fissato, già nei primi anni, nell’antifascismo. Sigillato nella stessa Costituzione della Repubblica, esso sarà perpetuato nel tempo e da una generazione all’altra, pur tra alterni riorientamenti e gradi di tenuta. Il canone antifascista trova perdurante espressione nei discorsi ufficiali pronunciati dal podio delle alte cariche istituzionali, dai capi politici, dagli uomini di cultura; si avvale del sostegno dei mezzi di comunicazione di massa, della scuola e dei programmi scolastici; si manifesta nei luoghi della memoria celebrati dalla Repubblica, attraverso i nomi di piazze e strade, i musei, i monumenti; si dispiega attraverso pratiche simbolico-rituali (commemorazioni e feste repubblicane) scandite da un calendario ufficiale. Un canone che certo non esaurisce la ricchezza e la disarmonia della memoria dei vissuti e i motivi che ispirano i ricordi soggettivi delle persone o delle famiglie, delle loro comunità (Pavone 1991; G. Gribaudi, Narrazioni pubbliche, memorie private, in Crimini e memorie di guerra, 2004, pp. 209-46), ma delinea politicamente i contorni identitari del legame nazionale e la sua risonanza pubblica. Gli storici della Repubblica (Rusconi 1997; Focardi 2005; De Luna 2011) sottolineano come il patto sulla ‘memoria antifascista’ o l’‘egemonia della narrazione antifascista’ si affermino già con l’8 settembre (1943) – per una serie di ragioni di diverso ordine (politiche contingenti, diplomatico-internazionali, psicologico-politiche), ma tutte tese a dissociare il nuovo ordine politico dal vecchio, fino a definire il nuovo regime non solo come repubblicano e democratico ma anche, e per taluni aspetti soprattutto, come anti-fascista, e cioè in termini di netta rottura con il recente passato.
Si tratterà di seguire questa vicenda nei vari passaggi della storia repubblicana e di individuare le sorti di questo canone della memoria pubblica attraverso le celebrazioni delle date simboliche della Repubblica. I paragrafi che seguono, svolgono questo tema scandendolo secondo una periodizzazione che parte da una fase di ‘stato nascente’ della Repubblica (1943-47) e arriva fino all’oggi, quando la Repubblica nata nel secondo dopoguerra diventa irriconoscibile se non del tutto tramontata. La fase di stato nascente della Repubblica e del lungo secondo dopoguerra italiano (1943-anni Cinquanta) è il periodo in cui prende forma il canone della memoria repubblicana, il quale trova emblematica espressione nel calendario delle feste civico-nazionali varato nel 1949. Questo calendario fissa nel 4 novembre, nel 25 aprile e nel 2 giugno le feste civico-nazionali della Repubblica, conferendo loro il rango di giorni di festa a tutti gli effetti giuridici, e facendo di esse il baricentro della memoria pubblica e delle sue pratiche simbolico-rituali. Esso resterà in vigore fino al 1977, quando gli subentrerà un calendario significativamente modificato. Il punto di osservazione privilegiato sarà quello delle date simboliche incluse in tali calendari e di quelle da essi escluse, ossia la prospettiva delle feste civico-nazionali. Pur variamente rimodulato nei successivi decenni di storia repubblicana ed esposto a tensioni revisionistiche dettate dalla diversa vitalità delle fratture politico-identitarie del momento, un canone della memoria pubblica, per quanto ‘ammaccato’, è arrivato fino a noi.
Un canone della memoria pubblica, soprattutto di quella che un calendario formalizzato da un atto legislativo plasma come memoria ufficiale, è un canone elaborato, almeno in prima istanza, dal ‘centro’ politico-culturale territoriale di uno Stato-nazione: dalle istituzioni (Parlamento, governo) e dalle élites politiche e culturali nazionali. Quando il processo è virtuoso, il centro politico-culturale territoriale porta, per così dire, a sintesi nazionale le ‘memorie localizzate’ e più o meno diversificate che circolano nelle varie aree regionali. In ogni caso, esso tende comunque a dispiegare la memoria pubblica-ufficiale sulle periferie, con l’ausilio simbolico-rituale delle feste civico-nazionali. In questo modo viene a prendere corpo quella ‘comunità immaginata’ che è la nazione, e con essa il profilo di un’identità nazionale.
Naturalmente, quella territoriale non è l’unica dimensione in gioco nel processo di formazione di una memoria pubblica e di un’identità nazionale – basti pensare, per fare due degli esempi più significativi, all’importanza delle appartenenze, per un verso, di classe o di ceto socioeconomico, per l’altro, di fede religiosa o di visione del mondo, che strutturano una società nazionale. Tuttavia, i contesti territoriali di vita sociale, che qui interessa richiamare, hanno un’indubbia rilevanza. Non sono semplici contenitori spaziali, ma produttori e riproduttori di vita sociale, di culture politiche, di memorie collettive, di simboli politici e di riti pubblici (per limitarci agli aspetti che qui interessano in modo diretto). La memoria pubblica e le pratiche simbolico-rituali, infatti, come sappiamo, acquistano concretezza di vissuto soggettivo (individuale e collettivo), nel contesto comunitario dei luoghi della memoria e attraverso una localizzazione del coinvolgimento negli eventi simbolico-rituali. Inoltre, è in ambito locale che, per es., un calendario della memoria civico-nazionale misura la sua effettiva capacità di presa popolare e la sua legittimazione politico-culturale. Le memorie localizzate, così, s’intrecciano con le subculture politiche regionali: concorrono alla definizione del canone della memoria ma anche a esprimere le sue ‘crepe’ e le fratture politico-identitarie sottostanti.
A dispetto della sua rilevanza, però, quello della territorialità e regionalità politico-culturale degli eventi simbolico-rituali è un percorso di analisi che non ha ancora prodotto risultati di ricerca comparativi e sistematici. Esistono studi su diversi casi regionali e soprattutto locali ma, al di là della loro qualità, essi non sono sufficienti a riprodurre una visione della varietà delle aree regionali articolata e rappresentativa della complessiva realtà territoriale italiana: se li dovessimo forzare in chiave comparativo-territoriale, correremmo il rischio di estrapolare da essi immagini ad hoc e idiosincratiche, dato che tali studi di casi non possiedono, per loro natura metodologica, i caratteri di rappresentatività nella selezione dei casi e di omogeneità nei criteri di analisi. In attesa e con l’auspicio che possa trovare avvio un programma di ricerca sistematico-comparativo sulla dimensione territoriale della memoria storico-politica, delle pratiche simbolico-rituali e del discorso pubblico associati a ricorrenze celebrative significative per l’identità nazionale e democratica italiana, qui ci limitiamo a qualche considerazione di ordine molto generale utile al tema specifico della memoria pubblica (politica e/o ufficiale), del suo canone e delle sue pratiche simbolico-rituali.
Sul piano territoriale, le feste e le commemorazioni civico-nazionali vedono attive e protagoniste più che altro le realtà municipali: è qui, del resto, che si trovano i luoghi della memoria vissuta e i contesti comunitari del coinvolgimento simbolico e rituale. La politica culturale delle feste civili è prevalentemente realizzata e partecipata a livello comunale. È a questo livello, infatti, che operano enti e associazioni che si prendono cura (quotidianamente o periodicamente) del senso identitario e di comunità; sono le amministrazioni comunali che per lo più contribuiscono al finanziamento pubblico o all’organizzazione degli eventi celebrativi destinati alla coltivazione della memoria collettiva per la moltitudine dei cittadini che vivono in una moltitudine di paesi e paesini, città e vallate, differenti tra loro e sparsi lungo il territorio nazionale. Questa centralità dello spazio e dell’amministrazione comunale certo non sorprende, se solo pensiamo al cruciale ruolo dei comuni e del localismo nel corso della lunga storia dell’Italia preunitaria e unitaria. Lo ‘spazio regionale’ italiano, per contrasto, se considerato nella sue attuali delimitazioni amministrative e istituzionali, risulta in molti casi di creazione piuttosto recente, e non sempre caratterizzato da un solido radicamento storico-identitario (Altre Italie, 2003). Da qui l’inevitabile limitato peso delle regioni, intese come ritagli amministrativi, nell’ambito dei fenomeni di cui qui trattiamo. Relativamente più significativo appare invece il ruolo delle regioni ‘storiche’, quelle che esibiscono un più riconoscibile profilo storico-identitario e che si caratterizzano per loro peculiari subculture politiche, delle quali alcuni dei più evidenti segni si manifestano in sede di comportamento elettorale (Rokkan 1999; Caciagli 2003).
Da questo punto di vista, nella storia repubblicana la memoria pubblica e le pratiche simbolico-rituali riflettono tendenze e configurazioni che si differenziano: per es., le regioni o le macroaree a prevalente tradizione politico-culturale socialista-comunista risultano maggiormente in sintonia con il canone delle commemorazioni nazionali di quanto non lo siano quelle a prevalente tradizione cattolica. Un’osservazione analoga vale per le aree del Centro-Nord, che hanno vissuto l’esperienza resistenziale, la sua intensità ma anche le sue contrapposizioni e lacerazioni, rispetto a quelle del Centro-Sud: le une e le altre, storicamente, si differenziano nelle forme e nei contenuti della loro memoria repubblicana non meno che nel radicamento e nelle modalità della messa in scena simbolico-rituale in occasione delle ricorrenze civico-nazionali. Va da sé che né le une né le altre presentano al loro interno caratteri uniformi o tendenze fissate nel tempo una volta per tutte.
Resta il dato di una ‘geografia’ della memoria pubblica e delle pratiche simbolico-rituali in occasione delle feste civico-nazionali. Si tratta di una geografia delle fratture politico-identitarie che si riverbera sul canone della memoria repubblicana e che riflette, in ultimo, anche una sorta di ‘mappa dei vissuti antifascisti’ (ma anche antimonarchici) sui quali è stata fondata ‘miticamente’ la Repubblica (Le memorie della Repubblica, 1999; Ridolfi 2003).
Il 2 giugno 1946 le cittadine e i cittadini italiani sono chiamati alle urne a esercitare, con il loro diritto di voto, la sovranità popolare come dettata dalla dottrina democratica. Contestualmente, si sottopone al giudizio della volontà popolare un referendum per la scelta della natura politico-istituzionale dello Stato (monarchica o repubblicana) e un voto per l’Assemblea costituente che scriverà la Costituzione chiamata a fissare principi, valori e struttura dell’ordinamento istituzionale della nuova democrazia.
Ogni ‘nuovo inizio’ rimuove memorie, seleziona e canonizza la sua memoria pubblica e, tipicamente, lascia i suoi segni. E perciò è significativo osservare che il momento del passaggio dalla monarchia alla Repubblica non ha un suo specifico giorno celebrativo: il giorno della proclamazione è dimenticato e non ha figliato ricorrenze simbolico-rituali. Ma la neonata Repubblica ha altre frecce all’arco per celebrare il suo canone della memoria e le sue pratiche simbolico-rituali. Alla campagna referendaria sulla forma istituzionale dello Stato-nazione si sovrappone, infatti, con pari intensità, quella elettorale per la formazione dell’Assemblea. Dopo un anno e mezzo di lavori, la Carta fondamentale viene approvata, a larga maggioranza, ed entra in vigore a partire dal 1° gennaio 1948. La Costituzione italiana nasce memore dell’esperienza fascista, esprime la volontà di una rottura con il ‘ventennio’, s’impernia sull’esperienza della lotta di liberazione e della Resistenza e sui valori a questa associati, esperienza e valori che si vogliono fissare e sacralizzare nella Carta fondamentale affinché, anche per questa via, essi siano trattenuti nella memoria nazionale e nella coscienza politica del nascente regime democratico.
La Costituzione, inoltre, si caratterizza anche per il ruolo di preminenza dei partiti politici e dei loro orientamenti ideologici: essa esprime un tipico patto costituzionale tra i soggetti costituenti e contraenti (i partiti politici). Il patto costituzionale, per i riferimenti identitari e valoriali legati all’esperienza storica cui esso rimanda, è, chiaramente, anche un patto sulla memoria pubblica (la cui natura può essere squisitamente pattizia o egemonica) e, di conseguenza, fissa un canone. Ma vi introduce anche delle linee di divisione, delle ‘crepe’. È indubbio che alle spalle del patto costituzionale, e del canone della memoria che esso contribuiva a plasmare, agivano forme di ‘patriottismo partigiano’ dettate dalle fratture politico-culturali attive negli anni di fondazione della Repubblica, al momento del ‘nuovo inizio’ della patria per gli italiani. Un patriottismo diviso (ora latente ora più attivo) che ha trovato espressione simbolico-rituale.
Se guardiamo agli eventi simbolico-rituali della fondazione costituzionale della Repubblica, osserviamo come essi non riescano a celare del tutto le difficoltà del patriottismo repubblicano. I resoconti giornalistici del 25 giugno 1946 (giorno dell’insediamento dell’Assemblea costituente) ci restituiscono una breve e fredda cerimonia. Ma ancora più eloquente è il fatto che la Costituzione entra in vigore (1° gennaio 1948) spogliata di ogni solennità celebrativa, lasciando di sé un vuoto nella memoria delle pratiche simbolico-rituali.
All’indomani dell’8 settembre e negli anni della costruzione della Repubblica, le tensioni e le contrapposizioni all’interno della società italiana hanno indubbiamente acquisito una ribalta lacerante, lungo alcune essenziali fratture politico-culturali: fascismo/antifascismo (con un grande spazio per l’a-fascismo), monarchia/repubblica, cattolicesimo/laicismo, centro/periferie (oltre a quella antifascismo/anticomunismo, in quegli anni però più latente). Emergono identità collettive e appartenenze politiche separate, alimentate da memorie divise. Queste polarizzazioni sono di un’intensità tale da portare il Paese sull’orlo di una ulteriore guerra civile, persino all’interno dello stesso fronte antifascista. In questa situazione, è stato merito pure dei partiti politici (peraltro interpreti protagonisti delle fratture identitarie) se la nascente Repubblica democratica non sia precipitata subito nel baratro e sia invece riuscita a ricomporre le sue divaricazioni. Ciò, soprattutto, facendo leva sui principi e sulle istituzioni democratico-costituzionali, plasmati e tenuti fermi all’insegna di un antifascismo che ha presto saturato la frattura monarchia/repubblica e, nel frattempo, ha ‘ingessato’ le altre fratture. Grazie anche alle linee adottate dalle loro classi dirigenti, i partiti hanno operato come agenzie sociali e politico-culturali dedite al lavoro di integrazione democratica della comunità politica, attraverso la loro capacità di penetrazione e presenza capillare nella società e nella vita quotidiana. In particolare, attraverso un impegno a livello di cultura politica di massa che ha chiamato in causa anche una riappropriazione collettiva del senso di patria, delle esperienze storiche della nazione e la costruzione di un canone della memoria pubblica nutrita di pratiche simbolico-rituali.
Per poter sprigionare il suo effetto di rivitalizzazione della patria per gli italiani e di integrazione nazionale-democratica, il patto di identità voluto e incarnato dal sistema dei partiti dell’arco costituzionale deve fare i conti con una memoria pubblica che fissi, nel presente e a futura memoria, le vicende storiche e i caratteri etico-politici sui quali il patto trova i suoi contenuti fondanti. Per rispondere a queste esigenza, i soggetti politico-culturali protagonisti di questa fase nascente della Repubblica possono disporre di, ma allo stesso tempo elaborano e selezionano, ‘materiali storici’ che configurano un canone della memoria pubblica fondativa (o rifondativa). Un canone che non è costruito a piacimento dalle élites, ma che certo queste plasmano, mettendovi al centro (secondo un cocktail che varia negli anni) la Resistenza, la guerra di liberazione, l’antifascismo, la riconquistata libertà repubblicana e democratica, la Costituzione.
A farsi interpreti di questa narrazione della memoria costitutiva della Repubblica e delle fratture sotterranee che pure la attraversano sono le feste nazionali in questa fase di stato nascente repubblicano. Nel 1944 il governo promuove una cerimonia solenne per l’anniversario del 4 novembre. La data risultava particolarmente adatta per esprimere simbolicamente il senso di continuità dello Stato-nazione italiano, ricordava un’Italia vittoriosa e che coronava il proprio Risorgimento, mettendo così a punto l’unificazione nazionale. Il 4 novembre si inscriveva in un mito popolare molto sentito e nell’epos della Grande guerra. Nel secondo dopoguerra, in esso si riconoscono tanto i monarchici quanto i moderati e i repubblicani, tanto i partiti notabiliari come i liberali quanto i partiti di massa come la Democrazia cristiana (DC); la data simbolica non fatica a risultare attrattiva anche per le forze politiche di sinistra e per le loro culture politiche, le quali stringono un nesso di continuità simbolica tra la Resistenza (‘rosso-garibaldina’) e il Risorgimento. Roma, la capitale, è scelta come luogo centrale per celebrare la ricorrenza: «lo scenario rituale fu quello di una Piazza Venezia da riconsacrare» (Ridolfi 2003, p. 166) dopo l’espropriazione da parte di Mussolini; quattro rappresentanti delle forze armate omaggiano il Milite ignoto e, significativamente, accanto al Fante, al Marinaio e all’Aviere compare il Partigiano – a chiaro riconoscimento del ruolo militare della lotta partigiana.
Se la ricorrenza del 4 novembre è a pieno titolo e da subito una componente del canone della memoria repubblicana, essa vi insinua però anche le fratture politico-culturali di cui è pure portatrice. Nelle commemorazioni celebrate negli anni dell’immediato secondo dopoguerra, infatti, la ricorrenza subisce differenti torsioni: nei messaggi ufficiali pronunciati dalle alte cariche dello Stato e dagli uomini di governo (soprattutto da parte di esponenti liberali e democristiani) prevale la tendenza ad assimilare le due guerre mondiali del Novecento, quasi a sminuire perciò stesso quella componente volontaria (una componente anche militarizzata, ma certo non militare ufficiale) che con la guerra di liberazione aveva caratterizzato la Seconda guerra mondiale ma non la Prima; non è un caso che per un decennio, a partire dal 1947, il riferimento ai partigiani scomparirà dai messaggi ufficiali delle autorità statali.
Gli eventi celebrativi di riproposizione e di attualizzazione della memoria della Grande guerra presentano un altro risvolto che merita di essere richiamato: essi segnalano anche il rilievo della dimensione territoriale locale nelle pratiche simbolico-rituali. Queste ultime, infatti, sono spesso espressione celebrativa di vita comunitaria, di collettività, cioè, insediate in specifici e concreti contesti territoriali di vita sociale e politico-culturale. Il ‘motore simbolico-rituale’ passa attraverso grandi e minute rappresentazioni e feste declinate a livello locale, e con esso agisce il mythomoteur dell’identità nazionale. Ricerche su singoli casi consentono, da un lato, di osservare come i rituali del 4 novembre (per stare a questo caso) assumano spesso un carattere comunitario, di tipo civile più che militare; diventano occasioni per «‘consacrare’ i luoghi della memoria patriottica e risorgimentale (monumenti, parchi della rimembranza, ossari)» (Ridolfi 2003, p. 173) e per ripulirli dalla simbologia fascista; dall’altro, di cogliere come la disseminazione e la pluralizzazione locale delle feste produca anche un’eterogeneità semantica nei riti della memoria e, non di rado, conflitti simbolico-rituali che suggeriscono punti di lesione nel canone della memoria repubblicana, talvolta persino all’interno dello stesso fronte antifascista (come per es. in Romagna, tra sinistra mazziniana e sinistra comunista).
La cornice locale plasma l’evento rituale del 4 novembre anche in forza del contesto geopolitico e internazionale al quale un dato territorio è legato simbolicamente e attraverso il vissuto dei suoi abitanti, come mostra emblematicamente il caso di Trieste, e del Venezia Giulia in generale (G. Nevola, Perché le regioni a statuto speciale: questioni di identità nazionale, introduzione a Altre Italie, 2003, pp. VII-XLV). Mentre la classe politica democristiana al governo, in nome di una pietas religiosa e umana, tendeva ad accomunare i morti di tutte le guerre, di tutti i fronti, gli ex partigiani e gli ex fascisti coltivavano autonomi culti di elaborazione del lutto, ciascuno in memoria dei propri caduti. Per fare ancora un esempio, in alcune regioni i comunisti tendevano a ritrarsi dall’evento rituale, se quest’ultimo non presentava una messa a tema dei valori della Resistenza.
Del resto, la cultura politica delle sinistre, le loro classi dirigenti e i loro ‘popoli’ avevano già individuato quella che per loro era la vera festa nazionale della Repubblica antifascista: il 25 aprile. La prima celebrazione nazionale di questa ricorrenza ha luogo nel 1946. Ma agli occhi specialmente dei comunisti essa in un primo tempo non rappresentava altro che la grande erede della Giornata del partigiano e del soldato: una festa che era stata celebrata il 18 febbraio del 1945. In effetti, il colore politico rosso pennella dall’inizio la festa della patria resistenziale, in virtù di ragioni in parte genuinamente espressive di una certa idea di patria, in parte dettate dalle dinamiche politiche di legittimazione partitica e di lotta per il potere. Ciò avrà conseguenze perduranti sulle vicissitudini simbolico-rituali del 25 aprile e sul suo posto nel canone della memoria repubblicana.
Già ai suoi esordi, l’appuntamento celebrativo del 25 aprile si contraddistingueva per la commistione dei generi commemorativo-rituali: tradizionale e innovativo, ufficiale-istituzionale e informale-popolare, cerimoniale e festoso; in sequenza o in sovrapposizione, le cerimonie di commemorazione dei caduti e di elaborazione del lutto si concatenavano a cortei festosi e colorati, intrisi di passione popolare, affiancati da musiche, balli, canti e intrattenimenti giocosi. Nelle città la commemorazione civile ufficiale si abbinava alle forme tipiche della socialità popolare (M. Vovelle, Les métamorphoses de la fête en Provence de 1750 à 1820, 1976). Duplice diventa presto anche la sede centrale dell’evento della rappresentazione nazionale: Roma e Milano. Secondo un’efficace e modellante sintesi delle cronache del tempo,
A Roma la festa risultò più austera e ufficiale […] un adattamento di forme proprie della tradizione istituzionale riconducibile agli anniversari del 4 novembre […] il cerimoniale contemplava l’omaggio al Milite Ignoto presso l’Altare della Patria […] entrato stabilmente nei rituali commemorativi resistenziali. Già nel 1947 si aggiunse l’omaggio ai caduti del cimitero monumentale del Verano e soprattutto delle Fosse Ardeatine (Ridolfi 2003, p. 204).
Importante anche il momento della consegna del tricolore da parte delle donne dell’UDI al Comitato regionale dell’ANPI e di medaglie d’oro alla memoria alle famiglie dei caduti da parte delle autorità. Più articolate, invece, erano le pratiche simbolico-rituali in scena a Milano, che seguono i moduli «ora della celebrazione patriottica ora della festa popolare, divenendo il principale luogo di rappresentazione della retorica antifascista nazionale» (p. 204). Così, secondo uno schema che durerà a lungo, di prima mattina
le formazioni dei reduci e dell’ANPI, alla testa di un grande corteo di massa, giungevano da più parti in Piazza Duomo, all’interno della cattedrale si officiava una solenne funzione religiosa alla presenza di tutte le autorità […] Sul sagrato del Duomo seguiva la cerimonia civile, con i discorsi ufficiali […] e la consegna di medaglie d’oro al valore militare ai familiari di alcuni caduti (p. 205).
Il rito prendeva poi una piega più politica, con un corteo che nasceva in piazza e attraversava la città per approdare presso un grande spazio aperto, dove alcuni rappresentati delle formazioni partigiane tenevano i discorsi del caso. Nel frattempo, il ‘popolo cattolico’ si ritrovava nel cortile del palazzo arcivescovile, alla presenza dell’arcivescovo. Altri appuntamenti di natura celebrativa seguivano nel pomeriggio. Sia a Roma sia a Milano, sono promotori locali e l’Associazione nazionale partigiani d’Italia a organizzare gran parte degli eventi della giornata, mentre il ruolo dello Stato è solitamente marginale. A suo modo, quest’ultima circostanza evidenzia una difficoltà nel coniugare insieme la retorica e il mito resistenziali, così come l’effervescenza simbolico-rituale di questi anni, con la presenza vitale dello Stato, inteso come espressione dell’unitarietà della cittadinanza repubblicana prima ancora che come istituzione formale. A riprova della salienza della dimensione locale che emerge da subito in queste occasioni è, invece, il ruolo molto attivo e articolato delle amministrazioni municipali che, secondo una molteplicità di modi, danno concretezza istituzionale alle celebrazioni: offrono spazi e strutture pubblici per i cortei e le manifestazioni di massa, curano la monumentalità e la toponomastica resistenziale e allestiscono i luoghi della memoria antifascista. Le regioni, al momento, non esistono, tanto meno a livello amministrativo-istituzionale: ci penserà la Carta del 1948 a metterle a fuoco. Ma resteranno a lungo solo sulla carta.
I primi due anniversari del 25 aprile sono celebrati nello spirito unitario proprio della politica di solidarietà nazionale postbellica perseguita dai partiti usciti dalla Resistenza, e sono incastonati in solenni e partecipate manifestazioni pubbliche e di piazza, con il coinvolgimento di istituzioni religiose e civili e di associazioni partigiane. Nella messa in scena dei suoi momenti rituali si annidano, però, per un verso, una frattura politico-culturale sul significato simbolico e mitico della lotta di liberazione, per l’altro verso, un tipico conflitto di appropriazione di simboli e di miti politici. Il 25 aprile è già ben radicato all’interno della memoria pubblica della nascente democrazia italiana, anche se con intensità molto variabile nelle diverse aree regionali del Paese. E tuttavia, tale data simbolica non manca di procurare crepe al canone della memoria: crepe in quel momento forse non pienamente visibili a occhio nudo, ma che si sarebbero via via evidenziate in più nitide espressioni simbolico-rituali. Le forze antifasciste, in questa fase nascente della Repubblica, erano riuscite a legittimare la rilevanza storica dell’insurrezione generale che era stata proclamata dal Comitato di liberazione dell’Alta Italia e diretta a liberare le principali città settentrionali: erano cioè riuscite a trasformare l’esperienza in un mito fondativo di una nuova Italia. Antifascismo, Resistenza e Liberazione diventano la chiave valoriale che ridefinisce linguaggio e contenuti politici della memoria pubblica. Al punto tale che, a differenza degli altri Paesi europei, l’Italia non ha canonizzato nella sua memoria pubblica l’anniversario della fine della Seconda guerra mondiale o della resa della Germania nazista (2 maggio, 8 maggio), né istituito riti commemorativi in coincidenza con esso.
Nella fase nascente della Repubblica, la ricorrenza del 2 giugno resta silente sul piano simbolico-rituale. La data, di per sé, rimanda a un giorno importante per l’identità politica dell’Italia in costruzione: il giorno del referendum che nel 1946 sancisce la forma istituzionale repubblicana per lo Stato-nazione italiano e che coincide, inoltre, con quello delle elezioni per l’Assemblea costituente. Il 2 giugno del 1946 non vede alcuna cerimonia preordinata: la confusione e le tensioni politiche sui risultati referendari consigliano a tutti di tenere un profilo basso. L’11 giugno del 1946 viene proclamato giorno festivo a tutti gli effetti: nella capitale, il sindacato unitario organizza una manifestazione che risulta molto partecipata, con la presenza di militanti dei partiti antifascisti; festeggiamenti popolari hanno luogo anche nel resto del Paese.
Il primo anniversario, nel 1947, accoglie il 2 giugno nel clima politico che porta i partiti di sinistra fuori dal governo, mettendo fine all’esperienza dei governi di unità nazionale sorti nello spirito di coesione antifascista voluto dal CLN. A dare testimonianza del nuovo quadro delle relazioni tra i partiti, e delle fratture politico-culturali connesse, è anche la dimensione simbolico-rituale: la scena celebrativa si frastaglia, la presenza dello Stato è defilata, la festa trova espressione soprattutto a livello locale (e si differenzia), dove il caldo carattere popolare-comunitario della festa si contrappone alle scarne e fredde cerimonie ufficiali, l’iniziativa simbolico-rituale è opera per lo più dei partiti di sinistra, mentre la Democrazia cristiana e gli altri partiti al governo restano appartati; l’uso politico della ricorrenza celebrata è del tutto manifesto, così come i conflitti per il controllo dei simboli, dei riti e della memoria repubblicani. Quella che avrebbe dovuto essere la festa civico-nazionale per eccellenza della neonata Repubblica, corrispondente al 4 luglio negli Stati Uniti o al 14 luglio in Francia, denota una fragilità costitutiva: il suo status, in particolare, si trova a essere sfidato dalla più robusta festa del 25 aprile, con la quale, in effetti, è costretta a condividere, nella sostanza, il ruolo di festa nazionale genuinamente repubblicana.
Negli anni costituenti della Repubblica prende forma, in qualche modo, una religione civile, repubblicana e antifascista. Ossia, sul paesaggio diviso da numerose e profonde fratture politico-culturali e dalla lotta per il potere e il governo, si stende una sorta di ‘sacra volta’, fatta di valori, simboli e memorie (per quanto differenti nelle declinazioni specifiche), la quale conferisce identità e legame politico-culturale alla comunità politica e al suo pluralismo, perlomeno su un piano normativo-ideale. Ma non solo di religione civile si tratta. In virtù di un primato patriottico-identitario e di un significato sacralizzato attribuito alla Costituzione, la fase di stato nascente della Repubblica vede anche l’emersione di un abbozzo di patriottismo della Costituzione. Risorsa essenziale di questo patriottismo costituzionale italiano è senz’altro il capitale politico-identitario dell’antifascismo, in modo particolarmente saliente in questa giuntura critica. La trama di questo patriottismo costituzionale allo stato nascente è tessuta a livello delle élites, ma attraverso i partiti (specialmente quelli di massa) è riproposta più diffusamente nella società civile in formazione, tra i militanti di base e tra i neocittadini comuni. In questo passaggio storico della Repubblica trovano così riscontro i caratteri principali che tipicamente qualificano l’idea di patriottismo costituzionale: universalismo (principi universali, diritti/doveri dell’uomo e del cittadino), storicità (radicamento comunitario e traduzione storica dei principi e diritti/doveri universali), politicità (pluralismo politico, riconoscimento reciproco della legittimità delle parti in lotta e convivenza democratica nella diversità delle identità politiche; G. Nevola, Democrazia Costituzione Identità, 2007).
Il programma di costruire una Repubblica per gli italiani dà i suoi frutti. Dallo fase dello stato nascente si passa a quella della piena istituzionalizzazione della Repubblica. A questo punto, però, la vicenda repubblicana prende un’altra piega. La guerra, la lotta di liberazione e la guerra civile sono alle spalle: entra in scena la guerra fredda, la sua logica internazionale si combina con la competizione politica tra i partiti della democrazia italiana (che a tratti assume, in modo più o meno larvato, anche una forma di guerra fredda interna, di guerra civile fredda).
Le ricadute del pesante riorientamento nella politica internazionale si fanno immediatamente sentire sulla politica interna della neonata Repubblica italiana (come del resto su quella di tutti gli Stati europei): gli Stati Uniti promettono aiuti economici in cambio di un governo senza il Partito comunista. La coesione del fronte politico antifascista subisce forti scossoni, ma non da parte dei settori neofascisti, pur presenti nella società. A minare l’unità antifascista è l’anticomunismo, che cresce rapidamente e che si afferma anche negli ambienti dell’antifascismo moderato (quello democristiano in testa). L’esperienza dei governi di unità nazionale giunge al capolinea. L’attenzione, di tutti, e le speranze e i timori, si concentrano sulle elezioni politiche nazionali del 1948. La campagna elettorale che le precede è tesa e senza risparmio di colpi, la mobilitazione politica della società è impressionante. Il verdetto elettorale è netto: la vittoria della DC è schiacciante (oltre il 48%) e dai più imprevista, almeno nelle dimensioni; così come cocente è la sconfitta delle sinistre, Partito comunista italiano (PCI) e Partito socialista italiano (PSI) uniti nel Fronte democratico popolare si attestano sul 31%; tutte le altre formazioni politiche sbattono nella loro irrilevanza elettorale se non politica.
Inizia la lunga stagione dei governi a guida e a egemonia democristiana, anche quando di coalizione. Il governo De Gasperi che nasce dopo le elezioni del 1948 rappresenta la prima e paradigmatica espressione del ‘centrismo’ democristiano. Numerosi osservatori hanno visto nelle elezioni del 1948 una manifestazione plateale della divaricazione del Paese, del tramonto dell’identità politica unitaria antifascista che aveva fondato la Repubblica, l’inizio della storia di una patria repubblicana divisa e del rinnovarsi di ‘patriottismi di parte’, con una Costituzione ‘formale’ antifascista alla quale si sovraimpone una Costituzione ‘materiale’ di fatto anticomunista (De Luna 2011; Ricci 2001). Ma, invero, non siamo di fronte né a una sconfessione dell’antifascismo né a un tradimento della Resistenza o a una liquidazione del valore unificante della Repubblica e della sua Costituzione antifascista. Più sottilmente, ciò che emerge in questa stagione politica è che antifascismo, Resistenza, Repubblica e Costituzione sono abbracciati dai soggetti politici dell’arco costituzionale come valori identitari e fondanti della nuova comunità politica, ma anche che i vari soggetti politici sono portatori e interpreti di significati differenti, e per più aspetti contrastanti e divergenti, di questo patrimonio politico-identitario ed etico-valoriale. La religione civile dell’antifascismo sopravvive, anche se messa a dura prova. A venir meno è invece la risorsa identitaria del patriottismo costituzionale, ossia quella che meglio qualifica e protegge il carattere democratico-pluralistico della res publica attraverso il principio del riconoscimento reciproco dell’identità culturale e della legittimità politica delle parti in competizione democratica, principio in base al quale ciascuna parte interpreta sulla scena la propria legittima versione della patria repubblicana, dalla posizione di maggioranza vincitrice o da quella di minoranza all’opposizione.
Ciò che accade negli anni del centrismo democristiano e della guerra fredda è che la Democrazia cristiana porta al successo la propria interpretazione (cattolica e moderata) della Repubblica antifascista e tende a delegittimare l’interpretazione altrui; i partiti di sinistra coltivano un’altra interpretazione (marxista e più militante) della stessa Repubblica antifascista e delegittimano quella del vincitore politico-elettorale, riducendolo a usurpatore di un’eredità storica, politica e ideale. Questa dialettica della delegittimazione reciproca si innerva sulla contrapposizione tra antifascismo e comunismo che sopravanza quella tra antifascismo e fascismo, finendo per configurare una frattura politico-identitaria che permea quella che risulta essere davvero la patria per gli Italiani, una ‘patria doppia’: quella associata al ‘patriottismo tricolore’ rivendicato dalla cultura politica cattolica e democristiana e quella legata al ‘patriottismo rosso’ sostenuto dalla cultura politica marxista e social-comunista. Un ‘patriottismo duplicato’, quindi, o due patriottismi ‘partigiani’: quasi due Repubbliche. Tenute insieme, seppur a fatica, dalla religione civile antifascista, dal suo canone della memoria pubblica e dalle sue pratiche simbolico-rituali.
In questo nuovo quadro politico, il canone della memoria pubblica è però sottoposto a lacerazioni insidiose. Sebbene Resistenza, Liberazione e Costituzione continuino a fungere da tessuto simbolico-valoriale che definisce il campo della legittimazione storica e politico-culturale della Repubblica, il suo mito fondativo, prende avvio un ‘processo alla Resistenza’ e alla sua narrazione canonica caratterizzato, tra l’altro, da un ripensamento della Resistenza come guerra civile che si diffonde oltre gli stretti cerchi del nostalgismo postfascista o neofascista, e che preme per una pacificazione intrisa di ‘parificazione’ tra fascisti e antifascisti nel nome di una riconciliazione nazionale e della pietas umana per i morti di tutte le parti. Questa divaricazione nelle interpretazioni del significato del canone antifascista si allenterà nel corso della seconda metà degli anni Cinquanta, quando la DC alla guida del governo e la sua cultura politica si fanno più attivi nel porre freno al revisionismo della memoria pubblica proveniente dalle forze politico-culturali di destra. Ma ciò non basterà a ridestare un patriottismo della costituzione ormai tramontato.
Il sovrapporsi della frattura fascismo/antifascismo a quella comunismo/anticomunismo all’interno del campo antifascista è osservabile in occasione delle principali feste civico-nazionali della Repubblica. Ancora una volta, la ricorrenza meno problematica per la memoria pubblica è quella del 4 novembre. Per la classe dirigente moderata al governo, le celebrazioni ufficiali del 4 novembre vogliono essere un simbolo della continuità dello Stato nazionale, un simbolo nel quale tutti gli italiani e tutte le culture politiche possono facilmente ritrovarsi. D’altra parte, però, le forze politiche moderate (e soprattutto quelle chiaramente antifasciste, è bene sottolinearlo) nel commemorare il 4 novembre in vesti istituzionali incorniciate nella rivista delle truppe militari tendono a voler quasi controbilanciare il peso assunto dal 25 aprile come festa civile e popolare, simbolo, questo, di discontinuità non solo politica ma anche morale in ragione del mito dell’insurrezione resistenziale: il 4 novembre come un contrappeso simbolico all’antifascismo militante e divisivo, e alle sue feste egemonizzate dalle forze di sinistra. La data diventa un’occasione dove promuovere simbolicamente la pacificazione nazionale tra vinti e vincitori e riconciliarli in una memoria per la quale il 25 aprile risulta troppo stretto. Da qui, una certa conflittualità simbolico-rituale non si scarica tanto sul 4 novembre in quanto tale, bensì sulla dialettica della memoria tra 4 novembre e 25 aprile.
La stagione del centrismo degasperiano pesa più sensibilmente sulle pratiche simbolico-rituali soprattutto in riferimento al 25 aprile. In questo caso, più netta appare la contrarietà della cultura politica moderata a celebrare la ricorrenza come simbolo dell’insurrezione partigiana e a fare di questo momento mitico il vero fondamento valoriale-identitario della Repubblica, come invece vorrebbe una certa interpretazione ‘militante’ della Resistenza. La rottura celebrativa del 25 aprile si consuma già nella ricorrenza del 1948: per timore di rivincite di piazza da parte delle sinistre, dopo l’esito delle urne, e per considerazioni di ordine pubblico, il governo vieta manifestazioni di massa e ogni esibizione di simboli e uniformi di partito, decisione che finisce per provocare tensioni e scontri (in particolare a Milano). Nella ricorrenza del 1949, gli esponenti delle sinistre addebitano all’antifascismo moderato il tradimento della Resistenza: a Milano, per es., il dirigente socialista Riccardo Lombardi ricorda la Resistenza come una «rivoluzione tradita»; da parte loro, le gerarchie democristiane dipingono una commemorazione centrata sul significato morale dei caduti. Nel corso degli anni Cinquanta il 25 aprile diventa una sorta di ‘festa separata’: non solo a livello di memoria politico-ideologica, ma anche a livello territoriale e nella memoria dei vissuti soggettivi di donne, uomini, bambini che crescono, famiglie toccate dalle diverse esperienze attraversate dall’Italia negli anni che il 25 aprile vorrebbe condensare in una memoria collettiva politica e nazionale.
La ‘separatezza rituale’ del 25 aprile si attenua a partire dal 1953. La ricorrenza del decennale, nel 1955, esprime in modo esemplare la rimodulazione della celebrazione. Il governo, guidato dal democristiano Mario Scelba, si fa promotore dell’organizzazione di solenni celebrazioni e per la prima volta dopo il 1948 tutti gli schieramenti dell’antifascismo prendono parte alle celebrazioni ufficiali. La festa trova il suo ormai tipico svolgimento nella doppia scena rituale nazionale: Roma e Milano. A Roma, già il 22 aprile è il Parlamento, a Camere riunite, ad aprire le commemorazioni ufficiali; il 24, tra Piazza Venezia e Altare della patria, continuano le cerimonie di sapore prevalentemente istituzionale e militare. A Milano, l’epicentro del 25 aprile è Piazza del Duomo e la scena simbolico-rituale della celebrazione comprende una messa officiata dall’arcivescovo Montini (futuro papa Paolo VI), un intervento di Alfredo Pizzoni (già presidente liberale del CLNAI, Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, da anni ormai emarginato); la cerimonia vede la partecipazione del presidente della Repubblica Luigi Einaudi e si conclude con una grande manifestazione a carattere unitario.
Nella ricorrenza del decennale si registra anche un importante ruolo, per un verso, della scuola, con varie iniziative sulla memoria, per l’altro, di radio e televisione, che seguono in diretta i passaggi ufficiali e dedicano programmi storico-culturali divulgativi al significato della Resistenza, innovando per ciò stesso le modalità di partecipazione alle, o di fruizione delle, pratiche simbolico-rituali. Le celebrazioni del decimo anniversario del 25 aprile segnano, così, un rilancio del canone della memoria pubblica nazionale, imperniato su uno sforzo di condivisione politica e ufficiale dell’antifascismo. Non va però taciuto che questo passaggio di ‘attualizzazione’ della Resistenza e dell’antifascismo come mito fondativo avviene soprattutto attraverso l’impronta ideologico-valoriale della DC al governo e della cultura politica cattolica, nel nome cioè della riconciliazione tra vincitori e vinti, della pietas verso tutti i morti, dell’universalismo cristiano. Si tratta di un’interpretazione del patrimonio identitario repubblicano rispetto alla quale, anche nel corso degli eventi simbolico-rituali del 1955, emerge una chiara presa di distanza da parte dei partiti di sinistra e della cultura politica marxista. Alla fine, nemmeno le celebrazioni del decennale del 25 aprile riescono a superare del tutto le fratture politico-culturali tra identità contrapposte.
Il quadro di una memoria in cerca di conciliazione e di pratiche simbolico-rituali permeate di conflittualità emerge anche nelle celebrazioni del 2 giugno di questo periodo. Sul lato democristiano-cattolico, la festa della Repubblica vuole essere, ancora una volta, un momento di riconciliazione nazionale dal profilo istituzionale, capace, per es., di esprimere il legame tra lo Stato e le nuove forze armate; sul lato marxista e delle sinistre in generale, la ricorrenza è piegata alle ragioni politiche di una mobilitazione anti-governativa, volta a promuovere una partecipazione popolare e a ribadire il legame della Repubblica e della Costituzione con la Resistenza militante e di popolo. La prima celebrazione è del 1948. La manifestazione principale è a Roma, sullo sfondo scenico-rituale dell’Altare della patria. Da subito il 2 giugno rivela la sua natura simbolica di festa unitaria della Repubblica, sebbene chiaramente circoscritta dentro il perimetro dell’antifascismo e delle forze dell’arco costituzionale (gli unici ad autoescludersi sono i monarchici). Dato questo suo profilo, non sorprende che il principale interprete del rituale sia sin dall’inizio il presidente della Repubblica, con il suo gesto commemorativo dell’omaggio al Milite ignoto e la rassegna dei corpi militari a Piazza Venezia. Nel 1949, il 2 giugno consolida la sua natura di festa delle istituzioni che la caratterizzerà anche in futuro. In questa occasione, tuttavia, gli eventi celebrativi cominciano ad assumere una maggiore pluralità di forme, soprattutto per iniziativa del PCI che, escluso dalle istituzioni politiche nazionali, avverte l’esigenza di imprimere un proprio volto al ricordo del giorno simbolico della nascita della Repubblica.
Nel corso degli anni successivi, la festa del 2 giugno manterrà i tratti di una celebrazione in genere non contestata o a bassa intensità di contestazione, incarnata dalla figura del presidente della Repubblica, simbolo dell’unità nazionale e custode dei valori costituzionali, e quindi dell’antifascismo. In questo, essa palesa una sua natura pacificata o ‘neutralizzante’ rispetto alle fratture politico-culturali, il che la rende molto diversa dal 25 aprile. Tuttavia, nel corso degli anni il 2 giugno si rivela accolto anche da un crescente disinteresse pubblico e istituzionale al confronto di altri eventi commemorativi. Emblematica, anche in questo caso, è la ricorrenza del decennale, nel 1958. Nonostante l’impegno celebrativo del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, l’anniversario colpisce per la povertà di iniziative di rilievo. Prevale il profilo formale e il proposito di evitare connotazioni che possano accendere passioni e divisioni politiche.
Detto questo, nel corso degli anni Cinquanta il mito e la memoria dell’antifascismo continuano a definire il canone repubblicano, ma la sua ‘salute normativa’ e valoriale non è vigorosa: il canone antifascista non è infranto, o archiviato, ma certo le crepe provocate dalla frattura anticomunista diventano particolarmente visibili. Questa tendenza si spalmerà anche sul decennio successivo, arrivando però ad assumere una configurazione politica peculiare legata al contesto degli anni Sessanta: gli anni del boom industriale, della modernizzazione economica e sociale, dell’impegnativo progetto riformistico dei governi di centro-sinistra. Sul piano politico-identitario che qui interessa, saranno anche gli anni di quello che possiamo chiamare il ‘repubblicanesimo della modernizzazione’. In breve, con questa espressione ci riferiamo al fatto che in questo periodo la Repubblica riesce, in qualche modo, almeno in parte, a ricomporre le sue fratture politico-identitarie attraverso il convergere delle forze e delle culture politiche verso gli obiettivi della modernizzazione delle strutture portanti della società: in campo economico, culturale, dei costumi eccetera. La modernizzazione è condivisa dalle classi dirigenti e dall’insieme della cittadinanza, in un certo senso essa viene intesa come un ‘bene comune’ da realizzare tutti insieme. La modernizzazione viene trasfigurata in un valore di coesione civica, quasi ad assurgere a nuova fonte cui può abbeverarsi la plurisecolare tradizione politica del repubblicanesimo. Le fratture politico-identitarie, che pure persistono, si ristrutturano attorno a una cultura della modernizzazione (per quanto intesa con accenti differenti). È questa cultura che, negli anni Sessanta, sembra diventare la principale linfa identitaria per la Repubblica italiana del boom economico, delle riforme legislative e dello sviluppo socio-culturale (S. Lanaro, L’Italia nuova, 1988).
Pur in questo difficile contesto politico-culturale, nel corso degli anni Sessanta alla memoria repubblicana non mancano i momenti di attualizzazione simbolico-rituale dai quali si coglie persino una riaffermazione del canone antifascista della memoria. Da qui una certa rivitalizzazione delle pratiche simbolico-rituali, prima fra tutte quelle associate al 25 aprile. Ma il Sessantotto è alle porte, e il repubblicanesimo della modernizzazione tramonterà lasciando poche risorse civico-valoriali in eredità alla coesione sociale e alla qualità della democrazia italiana.
Tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta compare e cresce sulla scena pubblica la prima generazione che non ha vissuto direttamente le esperienze alle spalle della Repubblica. L’impatto di questo passaggio demografico e di mentalità è dirompente: investe la società italiana in ogni suo aspetto, mette sotto tensione il sistema politico e la stessa strutturazione delle fratture attorno alla quale si esprimeva e si componeva la lotta per il potere e il conflitto ideologico durante i decenni precedenti. Quasi inevitabilmente, questo passaggio generazionale tocca la questione della memoria pubblica. La data del 1968 è il primario contrassegno simbolico di quest’epoca – al di là delle valutazioni difformi sul suo significato. Essa sintetizza un ‘lungo Sessantotto’ che, in Italia, per molti aspetti si distende fino a tutti gli anni Settanta. Un lungo Sessantotto al cui interno sono distinguibili almeno due principali fasi: una che va dal 1968 al 1971 circa (il ‘primo Sessantotto’); l’altra dal 1972 al 1980 circa (il ‘secondo Sessantotto’).
La fenomenologia del lungo Sessantotto si disloca su un’impressionante molteplicità di piani di differente natura: generazionale e valoriale, della mentalità e dei costumi, culturale ed economico, politico e ideologico. Il Sessantotto italiano dà espressione a domande di partecipazione pubblica e collettiva, dà voce a rivendicazioni originariamente giovanili e studentesche ma che presto si allargano o si riallacciano a proteste di più ampia e variegata natura (S. Tarrow, Democracy and disorder. Protest and politics in Italy, 1965-1975, 1989), per poi tracimare dalla ‘contestazione’ agli ‘anni di piombo’. In un modo o nell’altro, protagoniste sono le piazze, e le passioni che le attraversano.
Quando la generazione del primo Sessantotto entra in scena, il quadro politico è quello degli anni Sessanta. In questi anni le elezioni conservano equilibri tra le forze politiche che appaiono ormai stabilizzati, l’eccezione più significativa e sintomatica è la crescita della destra neofascista: alle elezioni amministrative per le regioni ordinarie (1970), il Movimento sociale italiano (MSI) supera il 10% nel Lazio e alla tornata delle amministrative parziali dell’anno successivo sfiora il 14%. Se il quadro politico-istituzionale di questo periodo sembra mal rispecchiare i travagli del primo Sessantotto, di questi qualche eco in più si coglie nel dibattito politico che li accompagna. Sono alcuni leader democristiani e socialisti a riaprire il dibattito politico e a riflettere sulle emergenze e sulle prospettive. Per la DC è soprattutto Aldo Moro, uno dei suoi capi storici, a esprimersi per un’attenta considerazione del ruolo politico nazionale del PCI. Sono i semi da cui germoglieranno, da qui a breve, il tentativo di incontro storico tra la DC di Moro e il PCI di Enrico Berlinguer e la breve, incerta e controversa stagione della ‘solidarietà nazionale’. Ma prima di arrivare a tanto sarà necessario che il secondo Sessantotto e l’incrudimento della lotta politica armata irrompano drammaticamente sulla scena.
Il secondo Sessantotto, quello degli ‘anni di piombo’, può essere fatto iniziare con il 1972 e si caratterizza per un’ondata terroristica (rossa ma anche nera), di stragi e vicende oscure che calano la vita pubblica nella trama di un racconto giallo, oltre che rosso di sangue, senza eguali in Europa. Il numero di vittime provocato da questo estremismo militante contrapposto tocca livelli senza precedenti dai tempi del dopoguerra e della ‘guerra civile’ postfascista. Nel 1972 parte l’attacco terroristico al ‘cuore dello Stato’, che vede protagoniste le Brigate rosse, una formazione politica militarizzata di estrema sinistra e, poi, altre analoghe formazioni, anche di estrema destra. Di fronte a tutto ciò troviamo un sistema politico-partitico che versa in una condizione di spossamento politico-culturale che coincide con il deludente tramonto della stagione riformista dei governi di centro-sinistra. Ciò che all’epoca risulta evidente è che il PCI è in questa fase una risorsa politica da cui il Paese non può facilmente prescindere, un partito che, peraltro, ha dato prova della sua responsabilità democratica.
Nell’ottobre del 1973, in un saggio sulla rivista politico-culturale del PCI («Rinascita»), Berlinguer, ricavando una lezione politica dal recente colpo di Stato in Cile, osserva che, a causa delle fratture politico-culturali che storicamente la caratterizzano e delle emergenze socioeconomiche e politiche del momento, la democrazia italiana non può essere governata con il 51% dei consensi: è necessario un ‘governo di larghe intese’, formato dalle forze democratiche e popolari antifasciste. È chiaro il tentativo del segretario comunista di infondere una nuova vitalità allo spirito e alla politica dell’arco costituzionale grazie al quale e attorno al quale era nata la Repubblica ed era stata costituita la democrazia italiana. Tra i leader democristiani è soprattutto Moro a mostrare attenzione, se non alla prospettiva strategico-dottrinaria del ‘compromesso storico’, almeno a quella di una corresponsabilizzazione del PCI al governo del Paese, sia pure con non pochi distinguo, ambiguità e incertezze.
Nel frattempo, i risultati delle elezioni politiche del 1976 fugano i timori democristiani sollevati dalle elezioni amministrative di un anno prima, quando il PCI arriva a raccogliere il 34,4% dei consensi su base nazionale e a vincere in numerose e importanti regioni, mentre la DC arretra al 35,3%: la DC, infatti, si riassesta intorno al 39%, e pure se il PCI sfiora il 34%, il ‘sorpasso’ non si verifica. Tuttavia il peso dei comunisti, non solo elettorale ma anche politico, è cresciuto. Poche settimane dopo prende il via la breve stagione dei governi di solidarietà nazionale: governi monocolore DC guidati da Giulio Andreotti, con l’astensione o la fiducia parlamentare di PCI, PSI, PSDI (Partito Socialista Democratico Italiano), PRI (Partito Repubblicano Italiano), PLI (Partito Liberale Italiano), Sinistra indipendente. Per alcuni si tratta del primo passaggio alla politica del compromesso storico, per altri, invece, di governi di pura ‘emergenza nazionale’. In questo contesto, il 16 marzo 1978 le Brigate rosse rapiscono Moro – il regista dei governi di solidarietà nazionale. È la fase più drammatica, convulsa e insanguinata per la democrazia italiana, che culminerà, dopo il fallimento della linea del negoziato tra Stato e terroristi, nell’assassinio del leader democristiano. Ma è anche l’inizio di una lenta fine politica degli anni di piombo.
Con il tragico epilogo della vicenda Moro, inizia anche il logoramento dell’esperienza dei governi di solidarietà nazionale, e il tramonto del progetto politico del compromesso storico. Nondimeno, i principali partiti dell’arco costituzionale continuano a occupare la scena politica e istituzionale della Repubblica: la Repubblica dell’antifascismo storico, pur con le sue ambiguità, conflitti e riserve mentali reciproche tra le forze che la compongono, è sopravvissuta all’assedio multiforme e persino violento del lungo Sessantotto. La politica istituzionale e dei partiti, nella fase più acuta dell’assedio, ha rispolverato i governi di unità nazionale di memoria postbellica e antifascista; alcune componenti delle culture politiche principali, almeno quella cattolico-democristiana e quella marxista-comunista, hanno messo in cantiere l’idea di un pieno riconoscimento reciproco tra avversari politici che potesse associare, dopo decenni, il PCI al governo del Paese: sintomi, propositi e ingredienti, questi, per un recupero di quel patriottismo costituzionale abbozzato nella fase di stato nascente della Repubblica e presto abortito. Ma una matura identità democratica, centrata sul riconoscimento reciproco della piena legittimità di tutte le forze dell’arco costituzionale antifascista (insomma, una democrazia compiuta, basata sui pilastri del patriottismo costituzionale), non trova realizzazione nemmeno di fronte alle sfide provenienti dalla profonda trasformazione della società italiana, dai conflitti, dall’assalto violento degli anni di piombo e dalle trame misteriose. Al termine della lunga stagione del ‘duplice Sessantotto’, quella del patriottismo costituzionale si rivela una missione mancata o realizzata solo in parte e per breve tempo. Quasi che il patriottismo costituzionale sia per l’Italia solo una risorsa di riserva attivabile, al più nei momenti drammatici, e non già fisiologica per quelli normali.
Il lungo Sessantotto italiano, nelle sue diverse componenti e fasi, è una pagina interessante per osservare il farsi e rifarsi dell’identità e delle appartenenze politico-culturali italiane. Il Sessantotto, è stato osservato, ha prodotto in Italia, tra le altre cose, «la sepoltura di una società arcaica e deferente» (Lanaro 1993, p. 343), che si configura anche in una diffusa presa di distanza da schemi o idee ereditate dai padri: quasi una sorta di giovanilistico o rivoluzionario, a seconda dei casi, congedo generazionale dal passato. Diversi osservatori hanno sottolineato, a questo riguardo, che quella del Sessantotto è stata una generazione senza passato. È una visione che ci appare un po’ frettolosa. Quella del lungo Sessantotto, per aspetti importanti, sembra invece una generazione forse carica di troppo passato, almeno a considerare alcune sue frange. Detto in termini un po’ più specifici, su una parte dei giovani dell’epoca ha pesato un passato di ideali alti, ritenuti traditi dalla generazione dei padri. È questa, perlomeno, l’eredità che riflettono i movimenti più politicizzati. Da questi arriva un contributo peculiare a una riattualizzazione della memoria valoriale. Una memoria, in questo caso, acutamente divaricata e sdoppiata: da una parte, la memoria della ‘nuova sinistra’, una memoria mitica e militante di una Resistenza ‘genuina ed autentica’, legata a valori politici poi traditi da coloro che li avevano voluti o che se ne erano impossessati; dall’altra parte, la memoria della ‘nuova destra’, una memoria altrettanto mitica e militante di una ‘guerra civile’ che avrebbe visto soccombere o mal difesi i valori sacri della nazione fascista e della patria italiana. Molti dei protagonisti politicizzati e ideologizzati puntano alla riapertura di un conflitto identitario, con l’intenzione di recuperare l’eredità di patrimoni identitari e valoriali trasfigurati nel corso della politica repubblicana, ai quali si trattava, finalmente, di rendere onore attraverso un loro inveramento storico. Il canone della memoria pubblica, in questi lunghi anni, è così investito da forti scossoni. Ciò si ripercuote sulla già difficile dialettica della memoria all’interno del campo, ormai tradizionale, dell’antifascismo. Il fronte più acceso di conflittualità politico-identitaria, in questo caso, è quello che vede scontrarsi la nuova sinistra e il PCI: si tratta di un’ulteriore frattura nel campo dell’antifascismo.
Se guardiamo allo svolgimento e ai caratteri delle feste civico-nazionali dalla fine degli anni Sessanta a tutti gli anni Settanta, si possono rilevare intanto due tendenze prevalenti. La prima è che sul piano delle commemorazioni ufficiali si registrano celebrazioni con uno spirito che nel complesso risulta unitario tra le forze storiche dell’antifascismo: quasi a rinsaldare sul piano simbolico e della memoria pubblica il perimetro politico-culturale dell’arco costituzionale. La seconda tendenza vede le celebrazioni disegnare una parabola calante nei sentimenti di sostegno, nella partecipazione alle feste della Repubblica. Alle prese con la durezza della crisi economica e con la ribellione generazionale, con una conflittualità sociale diffusa e con attentati terroristici clamorosi per frequenza e intensità, le istituzioni politiche, più ancora che in passato, sembrano rifugiarsi in un ritualismo ufficiale e di maniera, alimentando così il già crescente disincanto della gente comune e della società civile nei confronti del coinvolgimento civico e istituzionale, oltre che festoso e popolare. Tuttavia, a uno sguardo un po’ più ravvicinato, le pratiche simbolico-rituali repubblicane di questo periodo rivelano ulteriori lineamenti della democrazia italiana, e della sua memoria pubblica. In particolare, a fare capolino è la sfida anche simbolico-rituale di un ‘repubblicanesimo rivoluzionario’, quello della nuova sinistra, volto a rilanciare i valori autentici della Resistenza, dell’antifascismo e della Costituzione repubblicana. A essere toccato è lo stesso canone della memoria pubblica – con il proposito di infrangerlo, di falsificarlo o di autenticarlo, a seconda delle differenti prospettive in cui si muovono i vari soggetti della scena.
Il Sessantotto, già nella sua prima fase, quella di marca studentesca, esprime momenti di disagio nei confronti di quel canone. Per es., la sua presenza in occasione di alcune ricorrenze del 25 aprile dà fiato alla contestazione della Resistenza celebrativa (accusata di tradire il significato di quella autentica) e dei suoi riti istituzionali (respinti perché ormai ridotti a puro ritualismo retorico) tanto più se le commemorazioni avvenivano in scenari simbolici unitari e condivisi dalle forze politiche dell’antifascismo storico. Così, per es., il 25 aprile del 1968, i movimenti giovanili di sinistra contestano il carattere ‘imbalsamato’ della memoria resistenziale e, a Milano, arrivano a organizzare cortei alternativi a quelli ufficiali, marciando insieme a questi per un tratto e poi distaccandosene per concludere la manifestazione in modo autonomo. La condotta è ben più di una già significativa infrazione del rito: si tratta di un vero e proprio ‘contro-rito’ opposto al rito ufficiale, che il movimento studentesco ripete negli anni successivi, che si consolida come modalità antagonistica della festa nazionale, e di cui nel volgere di pochi anni si approprierà la sinistra extraparlamentare. Questa morfologia e semantica della festa del 25 aprile porta a una parziale revisione del modello celebrativo tradizionale.
Ma ben presto il lungo Sessantotto manifesta anche la sua dimensione violenta, caricandola di una prioritaria valenza simbolica. È quanto avviene già il 25 aprile del 1969, con le bombe fatte esplodere alla Stazione centrale e al padiglione FIAT della Fiera di Milano. Questa nuova grammatica simbolico-rituale del 25 aprile si insinua pure nelle celebrazioni del trentennale, nel 1975, esibendo, a questo punto, anche un volto militarizzato: a Milano, soldati in divisa e con il viso coperto sfilano mostrando il pugno chiuso. La ricorrenza del 25 aprile del 1978 è un altro caso degno di nota. Essa, infatti, cade in uno dei momenti più critici e drammatici per la democrazia italiana, ossia tra il rapimento e l’uccisione di Moro: le celebrazioni sono incorniciate in una imponente mobilitazione di massa, tanto a Roma quanto a Milano, e registrano la presenza coesa di forze di sinistra, della DC e delle formazioni minori moderate; nelle commemorazioni, Moro viene paragonato ai martiri delle Fosse ardeatine, mentre il segretario generale della CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), Luciano Lama, lo identifica come un martire della Repubblica.
Contrariamente a quanto si verifica per la ricorrenza del 25 aprile, quella del 4 novembre non trova nella stagione del lungo Sessantotto italiano né un significativo potenziamento della sua valenza politico-identitaria né l’espressione di forte conflittualità simbolico-rituale. D’altra parte, il 4 novembre ha visto progressivamente perdersi la sua carica emotiva e il suo significato simbolico per la memoria pubblica italiana già all’indomani della Seconda guerra mondiale. A causa del carattere più ‘freddo’ della memoria che la sua ricorrenza riesce a veicolare, anche il 2 giugno ha subito in tono minore le multiformi contestazioni del lungo Sessantotto. Tuttavia, quando, a seguito di un suo progressivo deperimento simbolico-rituale e di coinvolgimento politico-emotivo, la celebrazione del 2 giugno si trova ridotta a poco più che a una ritualistica occasione per rendere omaggio alle Forze armate, essa diventa bersaglio polemico dei crescenti sentimenti antimilitaristi di varia ispirazione (sinistra extraparlamentare, associazionismo cattolico, radicali). Da qui a breve, la ricorrenza del 2 giugno perderà i suoi tratti qualificanti: dalla parata militare ai Fori imperiali alla festività del giorno della sua ricorrenza.
Alla fine degli anni Settanta, e nel pieno dell’onda d’urto terroristica, le forze e le istituzioni politiche italiane compiono una scelta apparentemente di piccola portata, che non desta particolari discussioni o opposizioni, ma che produce degli effetti sul sistema identitario nazionale e che, soprattutto, è un segnale sintomatico della sensibilità collettiva per le questioni di cultura politica. Il 5 marzo 1977, il Parlamento licenzia un nuovo calendario festivo nazionale che modifica quello varato nel 1949. Viene ridotto il numero di giorni festivi a tutti gli effetti giuridici. Le motivazioni del legislatore sono essenzialmente di ordine economico, legate alla crisi e alla politica dell’austerità del momento. Da un lato, vengono cancellati gli effetti civili di cinque festività religiose; dall’altro, due delle tre principali feste civico-nazionali (che erano, ricordiamo, le uniche tre a godere dello status giuridico di giorno di festa a tutti gli effetti) diventano ‘feste mobili’, ossia da celebrarsi la prima domenica del mese che le ospita. Le due date simboliche declassate sono il 4 novembre e il 2 giugno. Particolarmente significativo è il caso della seconda data, visto che essa nel calendario del 1949 era assurta allo status di unica vera e propria ‘festa della nazione’. Colpisce, inoltre, che un provvedimento del genere venga promosso da un governo politicamente qualificato come di solidarietà nazionale e di fronte alla strategia terroristica di attacco frontale allo Stato: evidentemente, le preoccupazioni per i rischi associati alla acuta crisi economica in corso sono ritenuti ben superiori a quelli associati all’altrettanto acuta crisi politica che stava attraversando la coesione democratica italiana. Ciò a cui di fatto si assiste con la definizione del nuovo calendario è un ribaltamento di rango tra il 2 giugno e il 25 aprile. Ma con esso anche un più sottile e significativo ribaltamento delle vicende specifiche da trattenere e da gerarchizzare nel canone della memoria repubblicana. Certo non mancano buoni argomenti che nel ‘gioco della torre’ tra il 25 aprile e il 2 giugno pesano a favore della prima data: continuare a celebrare la ricorrenza del 25 aprile nel suo giorno festivo significa voler tener ben desti nella memoria la Resistenza, la guerra di liberazione e l’antifascismo che sono alla base dell’atto di nascita della Repubblica democratica; oltretutto, la ricorrenza del 25 aprile si era storicamente rivelata una festa riuscita, capace di abbinare ai momenti di commemorazione istituzionali quelli ben più efficaci del festeggiamento popolare, quasi a sancire la vicinanza tra Stato e cittadini.
Ma cosa era chiamata a celebrare la data del 2 giugno nel momento in cui venne resa festiva? Il 2 giugno ricorda il momento in cui i cittadini, donne e uomini tutti insieme, per la prima volta con suffragio universale e con tasso di partecipazione alle urne elevatissimo, scelgono la Repubblica anziché la Monarchia e determinano la composizione di quell’Assemblea costituente che discuterà e scriverà la Costituzione italiana, disegnando il sistema democratico italiano, tanto sul piano dei principi etico-politici quanto su quello dell’ordinamento istituzionale. Il 2 giugno è altresì il giorno della costituzionalizzazione dell’antifascismo, il giorno che sancisce la riuscita del patto costituzionale e quindi la consacrazione democratica dell’arco costituzionale e delle forze che lo compongono. È il giorno che traduce sul versante democratico e costituzionale la conquista resistenziale della libertà, conferendo valore fondativo a eventi bellici, alla guerra di liberazione e guerra civile, alla lotta dei partigiani, e ciò per mezzo del coinvolgimento referendario ed elettorale dell’insieme della cittadinanza.
Insomma, la ricorrenza del 2 giugno avrebbe potuto reclamare buoni argomenti per sopravvivere, argomenti che richiamano al meglio lo spirito e le caratteristiche del patriottismo costituzionale e repubblicano. È ben vero che la celebrazione della festa del 2 giugno non è per lo più riuscita a mobilitare le passioni identitarie e democratiche della massa dei cittadini, e che essa, almeno fino allora, non aveva mai acquisito i tratti di una vera festa popolare, come è stata da subito il 25 aprile. Ma il 25 aprile è anche stata una data simbolica spesso politicamente divisiva, persino all’interno dello stesso campo antifascista, una festa ‘partigiana’ e molto ‘partiticizzata’. Ed è pure a questa sua natura che essa deve un motivo saliente del suo successo popolare, legato non poco alla mobilitazione, anche organizzativa, delle forze di sinistra, delle loro strutture partitiche e delle amministrazioni locali da esse governate. Forse, in ragione di queste considerazioni, acclarato il valore politico-identitario del 2 giugno, di fronte alla scarsa partecipazione popolare patita dalla ricorrenza, stava alle istituzioni politiche e a tutti i partiti dell’arco costituzionale antifascista investire, con convinzione, risorse simboliche e motivazionali, passionali e culturali, organizzative e finanziarie, a favore del significato e della rappresentazione rituale del giorno della memoria della Repubblica e della sua Costituzione. Ma così non è stato. Di tutto ciò ci sarebbe stato bisogno per consolidare e fare maturare appieno la democrazia. La ricorrenza del 2 giugno, invece, a partire dal 1977 è diventata ancor di più un rito ufficiale e burocratizzato, di fatto ai margini della sfera pubblica e dei momenti di vita rituale dei cittadini italiani.
La stessa sorte tocca al 4 novembre: senza il senso di interruzione della quotidianità, le feste faticano a restare feste, e i riti pubblici, pur se allestiti, perdono il loro genuino significato rituale, e allora non sono granché di aiuto per fare in modo che le vicende storiche e i valori, di cui essi sono portavoce simbolici e meccanismi di attualizzazione, restino vitali nella memoria pubblica di una nazione ed entrino in quella dei più giovani. Poco può rimediare, su questo fronte, il fatto che a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, a seguito dell’attuazione del dettato costituzionale, vengono operativamente istituite le regioni amministrative, talora vere e proprie regioni storico-identitarie, dotate di un proprio tessuto civico e di culture politiche con radicamento comunitario. In taluni casi, le regioni si aggiungono agli enti locali e alle amministrazioni municipali nel promuovere e allestire le giornate della memoria civico-nazionale e le pratiche simbolico-rituali necessarie. Anche in questo caso, però, il calendario festivo varato nel 1977 restringe la visibilità degli spazi simbolico-rituali di intervento politico-culturale alla ricorrenza del 25 aprile. E così non è un caso che a partire dalla seconda metà degli anni Settanta si registri un certo attivismo politico-culturale, organizzativo e finanziario in regioni quali il Piemonte e l’Emilia-Romagna: regioni di tradizione ‘rossa’ e che, infatti, coltivano soprattutto la memoria del 25 aprile.
Così, nel corso degli anni Ottanta, le celebrazioni delle date simboliche repubblicane risultano per lo più avvolte in un ritualismo ufficiale e accolte con una certa distrazione da cittadini e opinione pubblica. Questa sorta di appassimento della sfera pubblica e impoverimento della scena simbolico-rituale rientra in una tendenza più generale di primato del privato sul pubblico come ambito espressivo delle identità e degli interessi dei cittadini – una tendenza che pervade la società italiana, sfibrata dalla recente stagione di intensa partecipazione e violenza di piazza. Si tratta, peraltro, di una tendenza che caratterizza, ciascuna secondo specificità proprie, gran parte delle società democratiche del tempo e i cui effetti saranno duraturi (A. Hirschman, Shifting involvements. Private interest and public action, 1982; R.N. Bellah et al., Habits of the heart. Individualism and commitment in American life, 1985). Le ricorrenze del 2 giugno e del 4 novembre sono una testimonianza particolarmente eloquente di questo riorientamento della cultura politica italiana. Ma in qualche misura a essere toccata è anche la tradizionalmente ben più vivace e sentita ricorrenza del 25 aprile. In sintonia con questo riorientamento della vita collettiva, nel corso degli anni Ottanta la politica e i partiti, segnatamente quelli dell’‘arco pentapartitico’ (con in testa il PSI di Bettino Craxi) si concentrano sulle riforme istituzionali. La prospettiva di una ‘grande riforma’ istituzionale produce l’effetto di riorientare e polarizzare gran parte del dibattito pubblico e anche delle analisi politiche sulla dimensione istituzionale della politica (sistemi elettorali, elezione diretta del capo di governo, presidenzialismo ecc.), con la convinzione che la politica e i rimedi ai suoi difetti e ai problemi del Paese siano riducibili, o perlomeno realisticamente trattabili, in termini tecnici di ‘ingegneria istituzionale’.
Il fatto che la scena pubblica e politica sia occupata dal riformismo istituzionale, per un verso, sembra emarginare le questioni di cultura politica, per l’altro, a suo modo, invece, le ripropone e, surrettiziamente, intende sottoporle a revisione. Tra riformismo istituzionale e revisionismo politico-storiografico, il discorso pubblico e la cultura politica degli italiani accentuano in questi anni la loro distanza, da un lato, dai temi della memoria pubblica politico-identitaria, dall’altro, dal canone della memoria antifascista: la politica valoriale della tradizione repubblicana è messa un po’ in sordina o si prova a cambiarne i connotati. A loro modo, le pratiche simbolico-rituali di questi anni ci restituiscono il quadro di una cultura politica in movimento e quello dell’eredità resistenziale-antifascista in forte affanno.
Le pratiche simbolico-politiche di questo periodo, quanto a forme e contenuti, sembrano esprimere immagini contrastanti. Ma queste, invero, concordano nel delineare un certo svuotamento delle celebrazioni civiche (e quindi della memoria resistenziale-antifascista e del senso patriottico-repubblicano) che si accompagna a un accentuarsi delle manifestazioni di ritualità collettiva e di patriottismo slegate dai codici che esprimono quei sentimenti di appartenenza civico-politica e quella memoria delle esperienze storiche che hanno plasmato i valori e l’identità democratica della comunità nazionale. Così, da un lato, le feste repubblicane canoniche sbiadiscono nelle routine celebrative ufficiali, e perdono, come raramente nei decenni passati, il loro impulso e il loro significato; dall’altro lato, si diffondono segnali di rilancio di un orgoglio nazionale ridisegnato ad hoc a ridosso di episodi piuttosto passeggeri (per es., le tensioni diplomatiche tra il governo Craxi e gli Stati Uniti in occasione della crisi di Sigonella nel 1985), o di marketing commerciale (la retorica e le campagne pubblicitarie del made in Italy o del più tradizionale bel Paese), o ludico-sportivi (vittoria italiana ai mondiali di calcio nel 1982, trionfi nel mondo della Ferrari), o, ancora, nei gesti di una retorica talora silenziosa ma, nella sua sobrietà, dai risvolti più duraturi e carichi di ethos e di pathos per l’identità del cittadino (come il rito del bacio alla bandiera in occasioni pubbliche solenni, reso popolare e simbolicamente incisivo dal presidente della Repubblica Sandro Pertini e poi anche dal suo successore Francesco Cossiga).
Il logoramento dei riti repubblicani, quindi, non stava a indicare tanto il venir meno delle pratiche simbolico-rituali nella società contemporanea e disincantata, dato che esse in taluni contesti continuavano persino a sprigionare festosa effervescenza. Il logoramento interessava in modo specifico le ricorrenze civico-nazionali di quella Repubblica nata dall’antifascismo, definita dai valori identitari di quest’ultimo e custodita – bene o male – attraverso un suo canone di memoria pubblica. In altre parole, «l’interesse ‘pubblico’ per la Resistenza era decisamente in ribasso. Le commemorazioni ufficiali apparivano sempre più stanche» (C. Pavone, La Resistenza oggi: problema storiografico e problema civile, in Id., Alle origini della Repubblica, 1995, pp. 185-86). Così, le ricorrenze del 4 novembre e del 2 giugno cadono quasi nel ripostiglio della memoria pubblica. Ma al clima generale di rimozione e/o di revisione dell’ethos civico-patriottico e del suo bagaglio di memoria repubblicana antifascista non si sottrae nemmeno il 25 aprile. Vero è che il canone viene difeso e continua a essere ribadito nella gran parte dei momenti commemorativi, ma le celebrazioni risentono del nuovo discorso pubblico e del diffondersi di un senso comune storico in mutamento. Capita così, per es., che il 22 ottobre del 1992, 70° anniversario della marcia su Roma, il MSI commemori la ricorrenza a Roma e proprio a piazza Venezia, con la coreografia di saluti romani e la simbologia delle camicie nere. Un rito neofascista tanto visibile, e prepotentemente ostentato nella sua riappropriazione di un luogo della memoria conteso, trova a fatica spazio in altri momenti della storia repubblicana. Cosa sta succedendo mentre il vecchio secolo si sta congedando e quello nuovo bussa alle porte?
Nel 1989 crolla il Muro di Berlino. Con esso implode l’universo del socialismo reale e tramonta la bandiera degli ideali comunisti. Gli effetti a livello internazionale sono enormi e anche tragici. E pure per l’Italia si riveleranno dirompenti, sommandosi a quelli provocati dagli scandali di tangentopoli e dalle inchieste giudiziarie di ‘mani pulite’ (1992-93). Le ricadute politiche manifeste di questi eventi rivoluzionari prendono corpo in modo clamoroso con l’esito delle urne del marzo 1994, in cui si produce un nuovo paesaggio politico: la democrazia vede repentinamente cambiare i suoi interpreti principali (i partiti) e la sua ‘partitura’ (le culture politiche) e si formano governi del tutto estranei al quadro politico-culturale dell’arco costituzionale antifascista. La politica italiana attraversa una giuntura critica di differente natura ma non di minore intensità rispetto a quella del lungo Sessantotto e della sua fase terroristica in particolare, la cui portata è inferiore solo a quella del secondo dopoguerra, che però per alcuni aspetti richiama, tant’è che a partire dal 1994 nel linguaggio politico corrente entra con forza la dizione di seconda repubblica, a voler sintetizzare una nuova identità politica per la democrazia italiana.
Alla delegittimazione del patrimonio ideale e storico del comunismo, trascinata con sé dalla drammatica fine del mondo sovietico, si accompagna una latente prima e manifesta poi riabilitazione del patrimonio identitario neofascista o postfascista, e una relativizzazione della condanna del regime fascista. In questo contesto si riaccende anche il conflitto simbolico, che arriva a toccare le stesse radici etiche e storico-culturali della democrazia italiana, i miti di fondazione della Repubblica e i connotati politico-ideologici dell’identità nazionale. Le pratiche simbolico-rituali delle feste civiche tornano progressivamente a conquistare il centro della scena, offrendo una riprova della loro particolare salienza e della salienza dei fattori emozionali della politica nelle giunture critiche, nei momenti in cui si acuiscono processi di legittimazione e delegittimazione degli attori collettivi, delle culture politiche e delle istituzioni della democrazia.
Sullo sfondo del ‘mondo nuovo’ del ‘dopo 1989’, a partire dagli anni Novanta, la Repubblica italiana è investita da una serie impressionante di fenomeni, esogeni ed endogeni, che modificano in profondità equilibri e linee di divisione politico-culturali, e la fisionomia complessiva del sistema democratico. In questa situazione si intensificano anche gli interrogativi sull’attualità e vitalità di una Costituzione nata in e per un mondo molto diverso. A esserne investita è anche la validità del patto identitario costitutivo della Repubblica e della sua memoria pubblica. Il discorso pubblico celebra la nascita di una seconda repubblica, ma ciò che in realtà si è verificato è la distruzione del sistema dei partiti e lo stravolgimento del patrimonio politico-culturale sintetizzato dalla formula dell’arco costituzionale. Ciò è sufficiente per dire che ci si trova davanti a un terremoto: il sistema partitico è infatti uno dei principali pilastri su cui si regge uno Stato democratico. In generale, esso veicola pluralismo politico e sua rappresentanza parlamentare. In particolare, nel caso italiano, partiti e sistema dei partiti, come abbiamo visto, sono stati il baricentro della Repubblica, del suo ritrovato senso di patria, della sua democrazia, tanto nella fase genetica quanto in quelle successive. Così, negli ultimi anni del 20° sec. diventa inevitabile un ripensamento delle categorie mentali della politica italiana, del suo bagaglio di cultura politica, del significato delle esperienze storiche fondative della Repubblica e della sua memoria pubblica (Rusconi 1993; Una patria per gli italiani?, 2003; De Luna 2013; Foot 2009).
A partire dagli anni Novanta, il tema di una patria comune ma anche nuova nel suo profilo identitario repubblicano si impone nel discorso politico e nell’agenda delle iniziative di importanti soggetti istituzionali. In questo contesto va sottolineata, in particolare, l’azione svolta dalla Presidenza della Repubblica. In un certo senso, a partire dagli anni Novanta, e poi fino a oggi, con il deperimento e lo svuotamento politico del sistema dei partiti (la fine di fatto dell’arco costituzionale), la funzione da esso svolta in passato viene assunta sempre più dal Quirinale, anche, ma non solo, sul piano simbolico-rituale. In questo lavoro politico-identitario, sull’‘amor di patria’ democratico, sulle sue ragioni, sui suoi simboli e sul significato politico di una memoria pubblica, si sono distinti in questi anni tutti i presidenti della Repubblica: dapprima Oscar Luigi Scalfaro, poi e soprattutto Carlo Azeglio Ciampi, infine Giorgio Napolitano. L’azione di rilancio del senso di nazione promossa da Ciampi costituisce senz’altro il punto più maturo, e della massima altezza istituzionale, per esaminare gli esiti cui la pedagogia nazionale è andata pervenendo in Italia.
Eletto a Capo dello Stato, nel 1999, con il voto bipartisan delle forze politiche coalizzate nei due schieramenti principali del centrodestra (Polo delle libertà e del buon governo, poi Casa delle libertà) e del centrosinistra (Ulivo), Ciampi non perderà tempo a proporsi come l’uomo e il ‘presidente della nazione’, ben al di là di quanto formalmente previsto dalla carica istituzionale. Dal Quirinale, la sua azione e il suo linguaggio pubblici sono tesi a rinsaldare l’unità nazionale, ad affermare l’identità, la memoria storica e l’orgoglio degli italiani per la loro patria comune. Da qui un crescendo di iniziative cariche di significato simbolico, di discorsi pubblici e di attivismo rituale. Quella che possiamo chiamare la pedagogia civico-nazionale ciampiana prende corpo a partire dal 2000. Tra le varie iniziative, quella inerente la celebrazione del 2 giugno è senz’altro la più emblematica, quella che in un certo senso riassume simbolicamente tutte le altre (G. Nevola, Quale patria per gli italiani?, in Una patria per gli italiani?, 2003, pp. 139-91; P. Peluffo, La riscoperta della patria, 2009).
Lasciandosi alle spalle oltre mezzo secolo di vicissitudini altalenanti, con Ciampi al Quirinale la celebrazione del 2 giugno riconquista la sua data fissa e le modalità simbolico-rituali che ne fanno, dal 2000, la ‘ritrovata’ festa della Repubblica: una ritualità civica per gli italiani, che si vuole popolare ed espressiva di orgoglio e senso di identificazione nazionale. La festa della Repubblica si è così via via riadornata della parata delle Forze armate ai Fori imperiali; si è arricchita di una programmazione televisiva comprendente non solo la messa in onda della diretta della parata militare dinnanzi alle autorità e incorniciata da massiccia presenza popolare, ma anche spettacoli ad hoc, trasmissione di documentari e film di contenuto storico-nazionale, nel segno di un’attivazione e diffusione di una memoria storica ormai piuttosto rattrappita; fino ad accompagnarsi con cerimonie, manifestazioni culturali, lezioni pubbliche, incontri di convivialità nelle piazze delle città e dei piccoli borghi, con una rinverdita apertura al pubblico dei giardini del Quirinale e la riproposizione del Vittoriano come simbolo architettonico della storia nazionale, ora restaurato e fatto sede di mostre tematiche. Tutto questo con un inatteso riscontro di partecipazione popolare, con grande eco nei telegiornali e sulla carta stampata. Sotto l’orchestrazione ciampiana, la ricorrenza del 2 giugno, festa della Repubblica, incontra declinazioni linguistiche tra loro differenti, e in qualche caso improprie: Festa degli italiani, Compleanno della nazione, Celebrazione dell’Italia unita, Festa della patria, oltre che ovviamente Festa della Repubblica. Su questo punto, apparentemente banale, torneremo più avanti.
Il rilancio istituzionale e popolare della festa della Repubblica non è rimasta un’azione isolata da parte del Quirinale. La pedagogia civico-nazionale promossa da Ciampi ha fatto costante ricorso anche ad altri gesti e iniziative. Un caso di particolare rilievo rituale e di forte impatto pubblico, per es., è quello che è stato chiamato viaggio nella memoria storica: una sorta di pellegrinaggio civico attraverso luoghi ed episodi ‘che hanno fatto l’Italia’, prima come Stato unito e poi come Repubblica democratica. Nel segno della valorizzazione di una memoria pubblica che stava assottigliandosi nel tempo e tra le generazioni più giovani, troviamo il presidente rendere l’onore e la memoria della nazione, per es., alla Risiera di San Sabba o alle foibe di Basovizza, al sacrario di Redipuglia o a Caprera, a Porta San Paolo o a San Martino, fino ad El Alamein e a Cefalonia – quest’ultima assunta ora a simbolo della continuità dello Stato e della sopravvivenza della patria di fronte al trauma dell’8 settembre 1943, nel segno di un recupero di un’‘altra faccia’ della guerra di liberazione, una faccia fino allora sostanzialmente rimossa dalla memoria pubblica e dal suo canone. A questo viaggio nella memoria storica della nazione si sovrappongono discorsi, visite, cerimonie, in una fitta serie di occasioni, comprese le ricorrenze dell’Unità d’Italia e, naturalmente, le celebrazioni del 4 novembre e del 25 aprile.
Ma in quali termini specifici viene a configurarsi questo ridestato senso di patria, questa rivitalizzazione della memoria pubblica?
Si è già accennato alla varietà dei modi in cui giornali, televisione e intellettuali hanno denominato, e di fatto declinano, la festa della Repubblica del 2 giugno. Questa varietà di formulazioni esprime incertezze e un certo imbarazzo nelle forme e nei contenuti politico-culturali in cui il senso di una comune patria pare comporsi nella stessa pedagogia ciampiana. Un punto critico di rilievo, a questo riguardo, risiede nella tesi ciampiana della ‘continuità storica’ della nazione italiana. Sia nei discorsi sia attraverso il ricorso a simboli, il richiamo intrecciato al Risorgimento, all’Unità d’Italia, alla continuità dello Stato dopo l’8 settembre 1943, alla Resistenza e alla Costituzione repubblicana, danno l’idea di una patria identificata con la storia dello Stato-nazione italiano, nel corso di tutte le sue fasi: da quella dell’unificazione nazionale a quella della democratizzazione repubblicana e della Costituzione. Una pedagogia civico-nazionale così sostanziata corre però il rischio di offuscare la portata politicamente innovatrice della Costituzione democratico-repubblicana per la stessa idea di patria. Essa infatti fatica a dare conto del fatto che nel contesto della continuità storica dell’unità dello Stato-nazione italiano ci sono state, come sappiamo, alcune importanti discontinuità, delle cesure sotto il profilo dei principi e degli ordinamenti politici, le quali chiamano in causa anche i diversi modi in cui libertà, diritti e doveri dei cittadini e democrazia sono stati codificati e si sono espressi nel corso della storia unitaria italiana. Questi principi e ordinamenti sono venuti meno nel 1922, con il progressivo affermarsi del regime fascista, e sono ritornati (invero profondamente mutati e arricchiti) con la Costituzione repubblicana, dopo la Resistenza, dopo l’8 settembre, dopo l’intervento politico-militare angloamericano. Le giunture critiche del 1922 e del 1943-48 non possono, quindi, non costituire una ‘rottura’ nel significato della patria per gli italiani, pur all’interno della ‘continuità’ della storia e dell’unità dello Stato-nazione italiano. Si tratta di giunture critiche che innervano la memoria collettiva e che richiedono di essere sistemate nella memoria pubblica, e quindi nella cultura politica, in cui esse si sono depositate sotto forma di fratture politico-identitarie della nostra liberal-democrazia di massa.
Da qui una certa ambiguità che si insinua nell’enfasi storico-continuista della pedagogia patriottica ciampiana. Essa trova un riflesso, per es., nel dibattito seguito alla proposta, emersa alla fine del 2001, di istituire un museo della patria e della storia italiana. La proposta viene subito fatta propria dal presidente Ciampi, con l’indicazione del Vittoriano come sede del museo, e raccolta anche dal governo Berlusconi. Si pensa a un progetto di museo sul Risorgimento, unanimemente considerato passaggio decisivo per la storia dell’Unità d’Italia, sebbene in questi anni anch’esso sottoposto a revisioni storiografiche e politiche. A questo punto, però, prende subito corpo una discussione pubblica su quale debba essere il museo più appropriato per simboleggiare la patria italiana e la sua storia: davvero solo un museo del Risorgimento? O un museo, insieme, del Risorgimento e della Resistenza (intesa come secondo Risorgimento e come momento simbolico della patria repubblicana e democratica)? O un museo per il Risorgimento e, distintamente, uno per la Resistenza? Ma l’aspetto che più risalta nel dibattito sulle diverse ipotesi di museo e di raccordo tra Risorgimento e Resistenza, è l’assordante silenzio sulla solita questione: quale destino si vuole assegnare al fascismo, che pure è parte della storia dell’Italia unita? Forse quello di una rimozione simbolica? E se così fosse, con quale effetto politico-culturale e per la memoria pubblica degli italiani?
A ulteriore esemplificazione della questione, è interessante notare come nella mostra permanente sulla storia dell’Italia unita presso il Museo nazionale del Risorgimento italiano di Torino, accanto a una serie di sale dedicate al Risorgimento ne seguano alcune dedicate alla Prima e alla Seconda guerra mondiale, all’antifascismo e alla Resistenza (all’insegna, appunto, della continuità della storia unitaria italiana). Quello che però colpisce il visitatore attento è, quanto meno, la totale assenza di un passaggio della storia novecentesca italiana, certo non secondario né poco noto: l’8 settembre. Le bacheche fitte delle prime pagine dei vari fogli dell’epoca saltano a piè pari i giorni dell’armistizio e dei suoi risvolti sul fronte interno e su quello internazionale. Con queste osservazioni non intendiamo sostenere, come invece hanno fatto taluni osservatori, la necessità di «riconsiderare al di fuori di miti ormai non più legittimanti la fondazione dell’Italia repubblicana» (E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando, 1998, p. 201), magari per equiparare nella nostra memoria di oggi (o nell’oblio?) Resistenza e Repubblica di Salò, l’8 settembre, il 25 aprile, il 2 giugno. Se è vero, come è stato affermato, che «è forse giunto il momento per uno sforzo di ripensamento che ci consenta di riconquistare un’idea unitaria del nostro passato» (p. 201), resta però altrettanto vero che questo ripensamento non può cancellare i miti fondativi della nostra Repubblica democratica, ma dovrebbe piuttosto rifocalizzarli attraverso un’aggiornata memoria critica. Rimediare a una rimozione con un’altra e diversa rimozione non è certamente segno di maturità per la cultura politica di una democrazia che vuole cercare di riconquistare il suo significato di patria per gli italiani.
A cavallo tra gli anni Novanta e il decennio successivo, la questione acquista tutta la sua emblematica salienza di fronte alla data simbolica del 25 aprile. Nelle celebrazioni del 25 aprile si sono costantemente manifestati, in ogni fase della Repubblica, conflitti simbolico-politici, con tentativi di contrapposte e variabili egemonizzazioni della memoria canonizzata. È altresì indubbio che sulla ricorrenza si sia imposto il marchio simbolico-rituale e un’immagine pubblica prevalentemente partigiana, secondo la declinazione che ne hanno dato le culture politiche della sinistra e dell’antifascismo militante (comunista, socialista, azionista, postcomunista). Ma il 25 aprile ha anche rappresentato un qualificante momento di identificazione patriottico-repubblicana, cui a suo modo ha concorso, in particolare, anche la cultura politica dell’antifascismo moderato (compreso quello democristiano o di ispirazione cattolica). Nel frattempo, però, alla lotta di liberazione è stato dato con crescente forza anche il volto di guerra civile, l’antifascismo (almeno quello più militante) è andato stemperandosi nell’opinione pubblica diffusa e nel susseguirsi delle generazioni, e il sistema partitico dell’arco costituzionale, con le sue culture politiche, si è dissolto (Pavone 1991; G. Pansa, Il sangue dei vinti, 2003; S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, 2004; Una patria per gli italiani?, 2003].
Nel dibattito pubblico trovano eco proposte di abolizione della festa del 25 aprile o della sua unificazione con quella del 2 giugno. Per la prima volta da quando la memoria pubblica antifascista ha preso forma già nell’immediato dopoguerra, serio e pressante diventa il proposito di ricodificare il significato identitario-nazionale del 25 aprile, tra storia e politica, come momento simbolico di pacificazione nazionale tra memoria antifascista e memoria fascista, tra postfascismo e postcomunismo, al fine di ritrovarsi tutti con pari dignità in una Repubblica davvero patria di tutti gli italiani. Il progetto di ridefinizione del profilo politico-identitario del patriottismo repubblicano non decolla e nel volgere di alcuni anni talune aperture provenienti dalla stessa cultura politica (post-)comunista si richiudono. Il progetto patriottico-identitario di riconciliazione nazionale perseguito dal presidente della Repubblica Ciampi finisce per arenarsi sugli scogli di una reazione della cultura politica dell’antifascismo di sinistra e su quelli dell’ambiguità di quella postfascista o a-fascista.
Resta il punto di fondo. A partire dal 1994 (e in una qualche misura fino ai nostri giorni), non è per niente scontato che il sistema politico italiano e le sue culture politiche possano essere ancora ed esclusivamente definite alla luce di quel patto di identità politica del dopoguerra di cui la Costituzione tutt’ora in vigore è effettivamente incarnazione. Non fosse altro che per il fatto che di tale patto è andata scomparendo l’essenza politico-culturale, per sopravvenuta obsolescenza, in ultimo, dei suoi soggetti politico-culturali. È per questi motivi che la generosa pedagogia civico-nazionale ciampiana non soddisfa i requisiti di un patriottismo costituzionale bene inteso e le aspettative di una democrazia basata sul pieno e reciproco riconoscimento della legittimità dei partecipanti alla contesa democratica e delle loro rispettive culture politiche, bensì quelli più laschi di una religione civile. La questione sarà ereditata dal suo successore, Napolitano.
Assunta la Presidenza della Repubblica nel 2006, Napolitano continua e rideclina a suo modo il lavoro di Ciampi di riattivazione e riconciliazione della memoria repubblicana attraverso il rispolvero di pratiche simbolico-rituali mosse da un patriottismo imperniato sui valori della Costituzione, che mantengano il canone antifascista accordandolo però a una patria democratica ormai postfascista e postcomunista. Le celebrazioni del 2 giugno 2008, nel 60° anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione, e del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, nel 2011 offrono al presidente un contesto simbolico-rituale per dare voce alla soddisfazione per la ricchezza delle iniziative, ma anche per mettere in guardia dai rischi di disancoraggio della vita sociale e politica dai valori fondanti espressi dalla Costituzione (L’Unità d’Italia nei tre cinquantenari. Commemorazioni e interpretazioni, a cura di G. Gangemi, 2010; J. Foot, S. Owen, Il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, in Politica in Italia: i fatti dell’anno e le interpretazioni, a cura di A. Bosco, D. McDonnell, 2012, pp. 275-91). Per il presidente, la Costituzione democratica, in quanto frutto della volontà del popolo italiano, è la casa comune nella quale possono riconoscersi tutti i cittadini italiani, anche coloro che vissero da posizioni differenti gli anni fondativi e che ne hanno memoria diversa. È la Costituzione a incarnare il «patto che ci lega», il «nostro patto di unità nazionale nella libertà e nella democrazia». A questa «nuova, moderna forma di patriottismo» può e deve guardare l’Italia: al «patriottismo costituzionale» (G. Napolitano, Il patto che ci lega, 2009, pp. 40 e 147).
Al di là della retorica più o meno genuina, quello patriottico-costituzionale è un quadro politico-identitario democratico particolarmente esigente. Esso, per essere operativo sul piano della cultura politica, richiede che vengano soddisfatte precise condizioni. Come abbiamo visto, la pedagogia civico-nazionale di Ciampi non è riuscita a soddisfarle del tutto. I suoi nodi irrisolti sono ereditati da Napolitano (G. Nevola, A constitutional patriotism for Italian democracy: the contribution of president Napolitano, «Bulletin of Italian politics», 2011, 1, pp. 159-84). Affinché il proposito del presidente Napolitano di fare tesoro del «patto che ci lega» porti frutti politico-culturali alla democrazia italiana è necessario un laborioso e lucido impegno da parte delle istituzioni, dei soggetti politici e della società civile, anche sul piano della memoria pubblica e delle sue espressioni simbolico-rituali. Diversamente, il patriottismo costituzionale mancherà ancora una volta la sua missione. Agli studiosi di politica e agli intellettuali resta il compito di mostrare quanto il lavoro sul terreno della cultura politica per la maturazione di un patriottismo costituzionale sia importante per la vita collettiva e per la qualità di una democrazia, e quanto possano contribuirvi la memoria pubblica, i simboli e i riti della politica, se presi sul serio.
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