Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I documenti riferiscono ciò che la festa rivoluzionaria dovrebbe essere: una festa nuova, capace di rendere visibile la rottura con il passato, di celebrare l’unanimità e di coniugare la spontaneità con la ragione. Ma le feste danno anche voce alla protesta, alla crudeltà, all’eccesso, utilizzano una simbologia tradizionale e mettono in scena sia la rivoluzione sia la reazione. Esse rendono palese l’intreccio fra l’utopia ordinatrice e la complessa realtà degli eventi, fra desiderio di innovazione e nostalgia del passato.
La festa nuova
I documenti – in genere direttive o rendiconti – descrivono più ciò che la festa rivoluzionaria dovrebbe essere che lo svolgersi degli eventi o il modo in cui il linguaggio simbolico è percepito dai fruitori. In effetti un insieme di elementi di carattere diverso, dall’architettura alla pittura, alla scultura, alla musica, alla danza, finisce per formare un quadro a un tempo più ricco e meno preciso di quanto potrebbe fare la parola. A delineare tale quadro contribuiscono in modo determinante le aspettative dei destinatari, senza contare che spesso vengono messe in scena allegorie dotte che non tutti comprendono. La percezione varia quindi a seconda del ceto, dell’età, del sesso, della cultura, delle convinzioni politiche degli spettatori e i simboli sono a volte interpretati in modo distorto rispetto alle intenzioni degli organizzatori. Nel 1792, per esempio, si svolgono due feste, quella di Châteauvieux (in onore delle guardie nazionali di un reggimento svizzero morte a Nancy nella rivolta contro i loro capi) e quella di Simmoneau (per celebrare il sindaco di Etampes, ucciso mentre si opponeva a una sollevazione popolare); la prima è una dimostrazione contro la corte, mentre la seconda appoggia le forze di antico regime, ma gli spettatori inneggiano in entrambe le occasioni alla libertà.
Stando a quello che dicono gli organizzatori, la festa rivoluzionaria dovrebbe essere soprattutto rottura con il passato, una festa nuova da contrapporre alle ricorrenze tradizionali – dinastiche, religiose, folkloriche – i cui apparati sono considerati “bizzarri”, “barbari” e teatrali. Così al momento di splendore che riscatta una vita di miseria, all’eccesso episodico che esibisce le differenze sociali e in ultima analisi riconferma l’ordine esistente, giudicato incompatibile con la volontà di cambiare la società, si sostituisce una festa cui viene attribuito il compito di insegnare ai sudditi a diventare cittadini e di marcare una nuova separazione tra vita civile e vita religiosa. La religione è infatti respinta nella vita privata e il rituale laico diventa il momento unificante della comunità.
Diversa dal passato, la festa resta però ugualmente indispensabile, poiché – come si dice in uno dei quattro discorsi sul rinnovamento dell’insegnamento preparati tra il 1790 e il 1791 per Mirabeau da Pierre-George Cabanis – “l’uomo, essere sensibile, è guidato dalle immagini incisive, dai grandi spettacoli, dalle emozioni profonde”. E lungo tutto il decennio rivoluzionario si afferma che l’educazione del popolo è affidata in gran parte alle feste, tanto che anche la Costituzione dell’anno III si preoccupa di ripeterlo. Nel rapporto del 18 Floreale dell’anno II (7 maggio 1794) Robespierre spiega che “un sistema di feste nazionali ben inteso sarebbe allo stesso tempo il più dolce legame di fratellanza e il più potente mezzo di rigenerazione” e auspica “che ci siano feste più solenni e generali per tutta la Repubblica; che ci siano feste particolari per ogni luogo [...] che tutte tendano a risvegliare i sentimenti generali che sono la gioia e l’ornamento della vita umana, l’entusiasmo per la libertà, l’amore per la patria, il rispetto delle leggi; che la memoria dei tiranni vi sia votata all’esecrazione; che quella degli eroi della libertà e dei benefattori dell’umanità vi riceva il giusto tributo della riconoscenza pubblica”.
La capacità di incidere sulle coscienze è attribuita a una simbologia complicata nella quale spiccano le grandi statue, come quelle del Popolo, della Ragione, della Concordia, della Filosofia. La preoccupazione che il loro messaggio sia inteso senza equivoci induce ad aggiungere commenti scritti: un Ercole, progettato da David, che rappresenta il popolo francese porta incise le parole “Lumière, Nature, Vérité, Force, Travail”.
La stessa cura per l’aspetto didattico della festa è espressa da autori come Denis Diderot e Jean-Jacques Rousseau, quando prescrivono che essa si debba svolgere all’aria aperta, intorno a un albero coronato di fiori, senza alcuna differenziazione fra attori e spettatori. L’ansia di trasparenza giunge in qualche caso fino a respingere ogni forma di simulazione provocando una tensione tra festa e spettacolo che risulta evidente nelle parole di Payan, un membro della Commissione di istruzione pubblica: in occasione della manifestazione in onore dell’Essere supremo, il 20 Pratile dell’anno II (8 giugno 1794), egli accusa alcuni teatranti di utilizzare “maschere e trucco, scenografia e macchine, libretti e ruoli, rampe e sipari per travestire in un teatro le feste del popolo”.
Ma la scena resta molto usata come mezzo di istruzione: dappertutto si permette che i ciarlatani ripropongano gli eventi del tempo e nei teatri si recitano gli episodi più drammatici. Quello rivoluzionario è un laboratorio in cui si sperimentano i limiti della festa come rappresentazione e si studia il suo rapporto con la realtà. Oltre all’esigenza di trasparenza, l’altra ossessione evidenziata dai documenti è l’ordine. Quest’ansia compare, fra l’altro, nella distribuzione regolare delle feste nell’arco dell’anno che campeggia nei progetti proposti tra il 1793 e il 1794 e nei limiti posti all’espressione spontanea dei sentimenti. Nelle feste, come in quella data ad Arras il 10 ottobre 1793 per pubblicizzare il calendario rivoluzionario e dove 12 squadre rappresentano le età e i mesi repubblicani, l’esigenza di ordine impone una separazione visiva fra gruppi di individui e nella festa dell’Essere Supremo si giunge fino a dividere gli uomini dalle donne. La preoccupazione per l’ordine riflette infatti il progetto di una società organizzata diversamente dal passato, fondata sull’uguaglianza fra i cittadini e non più su clientele e privilegi.
La festa tradizionale
Se la festa rivoluzionaria è pensata come un “appello civico”, secondo le parole del poeta francese Marie-Joseph Chénier (1762-1794), essa comunque non si oppone a quella tradizionale quanto si vuol fare intendere. Le manifestazioni sono condizionate dalla necessità di ottenere la partecipazione popolare e perciò, già nei progetti, devono accogliere molti elementi del passato. Si è consapevoli del compromesso: il processo verbale della festa della Ragione a Pau, per esempio, si scusa esplicitamente per la necessità di inserirvi alcuni momenti parodici.
In realtà tutte le feste della Rivoluzione francese sono costruite utilizzando rituali ben noti – religiosi e laici – dalla messa e dalla benedizione delle bandiere per le feste della Federazione fino ai cortei e agli ingressi trionfali. Così pure le numerose commemorazioni funebri (per Voltaire, Mirabeau, Lazowski, Lepelletier, Marat, Féraud, Hoche, Joubert, Bonnier, Roberjot) rispolverano un rituale macabro già conosciuto. Esse costituiscono un anello di congiunzione tra passato e futuro: da un lato introducono una sensibilità preromantica, dall’altro fanno tesoro della lunga esperienza degli insegnamenti impartiti dalla morte nelle celebrazioni religiose, riproponendo l’antica potenza del sacrificio come tramite rispetto alla sfera del sacro e come mezzo per attirare le forze benefiche.
Le feste d’altronde si discostano sempre, più o meno, dai modelli progettati, e proprio questa distanza rende percepibile la differenza di intenti fra i gruppi dirigenti e gli utenti. In particolare quelle che si tengono nelle province per celebrare la scristianizzazione, la presa di una città o dopo la fuga del re si svolgono spesso senza un percorso preordinato e sono scandite da canti improvvisati, dallo scoppio di petardi, dal suono dei tamburi; durante queste feste si bruciano banchi di chiese, si lanciano escrementi, si organizzano cortei burleschi al seguito di un capro espiatorio posto a cavallo di un asino con il volto rivolto verso la coda e si riprendono giochi popolari, come la decapitazione di un fantoccio che spesso rappresenta il re. Allora la maschera, l’inversione rituale, la violenza hanno un ruolo di rilievo nell’esprimere l’aspirazione all’eguaglianza sociale, secondo modalità che si rifanno a una lunga tradizione.
Mentre la storiografia giacobina insiste sulla solennità delle feste rivoluzionarie, quella controrivoluzionaria ne mette in rilievo gli eccessi, la violenza, la licenza. E di fatto si tratta a volte di una festa selvaggia, in cui abbondano il vino e il sesso e si mimano la morte e la rinascita, altre volte si tratta invece di una festa didattica, celebrativa di eventi passati, costruita sulla esaltazione della ragione e attentamente programmata. I due elementi spesso si giustappongono e si intrecciano ed è difficile dire fino a che punto la festa rivoluzionaria sia spontanea o diretta dall’alto, quanto sia tradizionale oppure nuova. Bisogna anche chiedersi se e quanto queste due coppie siano sovrapponibili: non solo la festa preordinata utilizza per lo più forme sperimentate, ma anche il popolo partecipa con rituali antichi a eventi rivoluzionari. Così, a Bang in una festa della società popolare, sono messi alla berlina il re, il prete e il papa, rappresentati da tre asini. In questo caso la consuetudine di costruire la festa intorno a un capro espiatorio e di celarlo sotto le sembianze di un asino riveste un contenuto altamente sovversivo, fino a proporre la messa a morte del re e a offendere la religione costituita.
Il ruolo della festa, anche durante la rivoluzione, non è in realtà quello di sovvertire l’ordine o di conservarlo, di fare esplodere le tensioni interne alla società o di preservarne l’integrità, quanto piuttosto quello di dare forma al tempo e riconoscibilità alla cultura di un gruppo, palesare i rapporti tra gli individui, mettere in scena l’immaginario, rendere gli eventi comprensibili e integrarli nel sistema di valori dei partecipanti. Anche gli avvenimenti più sconvolgenti sono dunque ritradotti in termini rituali noti, in uno sforzo che è insieme di reinterpretazione e di proposizione.
La festa, le feste
Benché le feste rivoluzionarie siano molto varie, si può grosso modo stabilire una cronologia (dalla festa cruenta, popolare, alla festa didattica) e una geografia (dalla festa spontanea della periferia a quella più controllata di Parigi). Una celebrazione ufficiale comincia a instaurarsi con le feste federative nei primi mesi del 1790; allora è già evidente il divario fra le province, dove le feste sono ancora in gran parte spontanee, e la capitale, che il 14 luglio 1790 ospita una manifestazione molto più rigidamente organizzata: le guardie nazionali dei Comuni devono scegliere sei uomini su cento che si riuniscono nel capoluogo per eleggere altri due delegati su cento, i quali si recheranno nella capitale. Ma, nonostante questa forte mediazione politica, a Parigi sorgono molti timori relativi all’ingresso dei federati, tanto che essi sono minuziosamente perquisiti prima di entrare nella città e i festeggiamenti sono organizzati in ritardo proprio per ostacolare il loro arrivo. Eppure, in rapporto alle manifestazioni successive la Federazione parigina è sentita come una festa che raccoglie un ampio consenso, celebra l’unità, annulla le differenze sociali. Nella festa della Rigenerazione del 10 agosto 1793 lo schermo tra gli organizzatori e il popolo è già molto più difficile da valicare e la vivacità dei primi tempi viene sostituita da una celebrazione della rinascita, simboleggiata da una grande statua di Iside dai cui seni sgorga acqua rigeneratrice e da un fuoco che brucia i segni dell’ancien régime.
La ricorrenza in onore dell’Essere Supremo, poi, annuncia l’accurata regolamentazione e rigidità che sarà propria del Direttorio. Verrà allora instaurato un sistema regolare di feste, articolato sugli anniversari delle date cruciali della rivoluzione, sulle feste morali (della Gioventù, degli Sposi, dei Vecchi, della Riconoscenza, dell’Agricoltura) e su quelle occasionali per le vittorie o le commemorazioni funebri. La cerimonia per ricordare la nascita della repubblica, il 1° Vendemmiaio dell’anno VII, caratterizzata da concorsi ed esposizioni, offre ormai un modello nuovo. Infine con il Consolato termineranno anche le grandi feste nazionali, sostituite dalle parate militari.
La varietà delle feste concerne anche il coacervo di simboli che vi compaiono: essi provengono dalle aree più diverse, dall’antichità classica (a cominciare dal berretto della libertà, che richiama quello dei liberti, fino alle figure mitologiche) ed egiziana, dalla lontana Cina e dal Perù, dalla primitiva Danimarca, i cui abitanti adorerebbero un dio simile a un Essere Supremo, o dalla Svizzera con le sue feste agricole e militari. Vi si aggiungono simboli della tradizione popolare, per esempio l’albero della libertà derivato dal “maggio”, segni legati alla massoneria (il triangolo, la livella, la squadra, la bilancia e a volte anche la musica) e persino cristiani, come gli angeli. Infine non mancano tratti nuovi, soprattutto a partire dal 1790, in particolare l’importanza crescente delle sfilate militari e dei concorsi ginnici.
Tale diversità, tuttavia, non può nascondere l’esistenza di una cifra comune, che costituisce anche un importante elemento innovativo: la novità sta proprio nel sincretismo, nel non fondarsi più esclusivamente su simboli religiosi, classici o folklorici. Il fatto è che la tradizione, pur restando un punto di riferimento irrinunciabile, non è più sufficiente e si cerca altro. Ma la modernità sta soprattutto nel messaggio trasmesso, basti pensare alla prima delle grandi feste, quella della Federazione di Parigi. Essa celebra l’unità della Francia e vi dà un contributo importante attirando la gente delle province, si pone come alternativa alle feste religiose – una sorta di pellegrinaggio laico – consentendo di sperimentare l’unione del Paese attraverso una partecipazione corale che fa a meno degli aristocratici, in buona parte fuggiti, e del re, che si tiene in disparte. Benché la festa tradizionale, soprattutto religiosa, ricompaia in seguito pressoché inalterata, molte istanze laiche proprie del mondo contemporaneo, che occuperanno una parte crescente della scena pubblica, trovano nel simbolismo rivoluzionario la loro prima espressione.