Le filosofie cristiane
I contributi offerti, nel secondo dopoguerra, dalle correnti filosofiche ispirate al cristianesimo non solo risentono di una serie di questioni discusse nei decenni precedenti (rapporto con il positivismo, prima, e con il neoidealismo, poi), ma riproducono, in un contesto e su un registro differenti, un problema aspramente dibattuto nel corso degli anni Trenta in Francia e in Italia: se sia, cioè, lecito qualificare un’impresa che dovrebbe essere eminentemente razionale, quale la filosofia, con l’attributo di cristiana, implicante una connessione essenziale con un atto di fede, che per sua natura dovrebbe eccedere le capacità della ragione.
Alcuni neoscolastici della scuola di Lovanio, come Fernand van Steenberghen (1904-1995), sostengono che tale qualificazione sia impossibile, poiché priverebbe la filosofia della sua autonoma fondazione, mentre il rapporto con il cristianesimo sarebbe solo indiretto e accidentale, veicolato attraverso l’esperienza esistenziale e psicologica del singolo pensatore cristiano.
Altri, come Étienne Gilson (1884-1978) e Jacques Maritain (1882-1973), pur difendendo la specificità razionale della filosofia, ritengono che, per la sua essenza specifica, essa sia formalmente e interamente razionale, ma lo stato concreto del soggetto filosofante verrebbe mutato dalla grazia ed elevato al piano soprannaturale, in virtù del quale diverrebbero accessibili verità altrimenti ignote; in tal modo, si ammette che l’esercizio di una ragione, soccorsa dalla rivelazione, sarebbe ancora un esercizio razionale a pieno titolo.
Altri ancora, come Maurice Blondel (1861-1949), affermano che alla natura umana sarebbe intrinseca la profonda esigenza del soprannaturale, che potrebbe essere finalmente soddisfatta solo dalla religione cristiana. Infine, altri, direttamente rifacendosi alla classica posizione agostiniana, pensano che il cristiano debba filosofare nella fede, secondo la formula fides quaerens intellectum, giacché il rapporto dell’uomo con Dio costituisce quanto nell’uomo è più profondamente personale e, quindi, la fede non può essere irrilevante nella posizione del problema filosofico.
Le distinzioni che caratterizzeranno variamente le filosofie di ispirazione cristiana avranno presenti, in filigrana, gli echi e gli esiti di quelle polemiche.
Vanno, innanzi tutto, richiamati alcuni momenti particolarmente significativi che, in campo politico, culturale o sociale, hanno influito sulla riflessione filosofica di ispirazione cristiana. Con la fine della guerra, le distruzioni, non solo materiali, perpetrate, le aberrazioni compiute dal nazismo e da tutti i fascismi e le offese arrecate alla dignità dell’uomo portano l’attenzione sulle conseguenze tremende di concezioni negatrici dei diritti naturali e del valore assoluto della persona. Ci si pone, allora, il problema di quale debba essere il fondamento di ogni ricostruzione e si ritiene che esso vada posto, prima ancora che in una particolare teoria politica o sociale, in una premessa di natura metafisica: i filosofi di ispirazione cristiana si trovano, perciò, impegnati a discutere sui motivi per cui l’esperienza debba essere trascesa, ammettendo un assoluto, che dia senso a tutto il reale e consistenza e dignità alla persona umana.
Il collasso del totalitarismo nazifascista e l’affermazione dell’antifascismo spingono a cercare una concezione dello Stato in cui i diritti inalienabili della persona siano riconosciuti, senza però negare la solidarietà che deve pur sempre animare la compagine sociale. D’altro lato, la consistente presenza, politica e culturale, del movimento comunista e socialista, sul piano interno, e l’inizio della guerra fredda, sul piano internazionale, pongono la questione, che evolverà per alcuni decenni, del rapporto teorico e pratico con il marxismo, anche tenendo conto della scomunica comminata dal Sant’Uffizio.
Un evento ecclesiale che ha avuto un decisivo impatto a livello mondiale e ha inciso anche in maniera profonda nel corpo della Chiesa italiana, è stato il Concilio Vaticano II: preparato da intense e sofferte riflessioni teologiche, esso ha influito sia nel modo con cui la Chiesa concepisce se stessa, soprattutto come mistero piuttosto che come società perfetta, sia nella determinazione dei rapporti con il mondo contemporaneo e nel riconoscimento di una giusta autonomia delle realtà terrene. In particolare, si afferma che il dialogo tra la Chiesa e il mondo può giovare a entrambi, consentendo quell’aggiornamento necessario alla teologia dogmatica e alla pastorale, affinché possano interpretare i «segni dei tempi», offrendo risposte adeguate ai problemi posti dai popoli, soprattutto dalle nuove masse dei Paesi sottosviluppati. Inoltre, la chiara distinzione tra l’errore, che va sempre condannato, e l’errante, del quale vanno comprese e rispettate le ispirazioni profonde, consente che, lentamente, alla contrapposizione frontale dei decenni precedenti si sostituisca, nel rapporto con i non credenti, soprattutto con quelli di ispirazione marxista, un atteggiamento più disponibile al dialogo, nella convinzione che ogni uomo sia sempre strutturalmente aperto e disponibile alla ricerca del vero.
Il movimento del 1968 e la contestazione, diffusi in tutta Europa ma vissuti in maniera particolarmente virulenta e protratta in Italia, pongono una serie di questioni di natura civile e culturale che sono il sintomo di una trasformazione radicale e profonda cui va incontro una società, in cui il benessere assai diffuso, ancorché in maniera ineguale, rivela nuove esigenze e fa emergere la richiesta di nuovi diritti (o l’attuazione dei vecchi, quando fossero più proclamati che realizzati). Le conseguenti fibrillazioni hanno percorso, con esiti anche assai dolorosi e drammatici, per molti anni la società italiana e hanno costretto la riflessione filosofica cristianamente ispirata a un impegnativo esame di coscienza.
Il crollo del muro di Berlino e la fine del regime sovietico hanno messo in luce la crisi delle ideologie e delle grandi ‘narrazioni’ che avevano animato il secolo, sicché fanno emergere anche i limiti insiti nelle pretese di fondazioni ultime e totalizzanti, così come chiedono ai filosofi cristiani di fare i conti con le nuove impostazioni politiche lontane dal vecchio modello marxista che, in parte, riprendono richiami al liberalismo classico, variamente modulato, in parte, si rifanno a modelli di ispirazione comunitaria anche se lontana da un certo organicismo di matrice idealistica.
Nella prima metà del Novecento, come è noto, i pensatori cristiani dispiegano gran parte del loro impegno nella polemica contro il positivismo, prima, e contro il neoidealismo, poi, allo scopo di rivendicare, da un lato, la possibilità di una ricerca razionale rigorosa, ulteriore rispetto all’indagine scientifica e, quindi, la legittimità di un sapere ricco di contenuto ed eccedente l’ambito meramente empirico; dall’altro, l’ammissione di un assoluto spirituale e trascendente, non coinvolto nello sviluppo della storia, ma capace di costituire per la realtà finita l’origine e il fondamento di senso.
Nel secondo dopoguerra si avvertono ancora gli echi di quelle discussioni, anche perché nel frattempo alcuni pensatori formatisi alla scuola neoidealista, soprattutto gentiliana, approfondendo la loro riflessione, approdano a una visione cristiana e si avvicinano prevalentemente alle correnti di ispirazione agostiniana e spiritualista. In questi anni, infatti, l’orientamento dei filosofi cattolici ha una duplice direzione: da un lato, si insiste in una ripresa della tradizione scolastica e tomista, con riferimento anche alla filosofia greca e ad Aristotele, proposti attraverso un confronto critico con filosofi moderni e contemporanei; dall’altro, il richiamo alla prospettiva agostiniana dà spazio a una filosofia dell’interiorità che privilegia come punto di partenza la persona e di qui procede per affermare un Dio ben diverso dal motore immobile aristotelico e coincidente con il Dio cristiano, provvidente e personale, soggetto puro e autocoscienza assoluta.
Il primo gruppo si concentra soprattutto presso l’Università cattolica di Milano, dove, fin dai tempi della fondazione per opera di Agostino Gemelli (1878-1959), non si propone tanto un ritorno manualistico al pensiero di Tommaso d’Aquino e all’epoca medioevale, quanto piuttosto si articola la metafisica classica e la sua antropologia in polemica sia con l’immanentismo idealista, sia con il suo tentativo di dissolvere nell’organismo della società e dello Stato la persona umana che viene, invece, colta nella sua irriducibile individualità e nella sua intrinseca unità di anima e corpo. All’impegno teoretico si associa poi una forte sensibilità storiografica che si esplica nel confronto con la tradizione moderna e con autori contemporanei, come Giovanni Gentile e Benedetto Croce, ma anche Nicolai Hartmann, Edmund Husserl, Martin Heidegger, Jean-Paul Sartre: l’approccio sviluppato dalla scuola filosofica della Cattolica si caratterizza, rispetto ad altre analisi di matrice cristiana (come quelle di Cornelio Fabro o Augusto Del Noce), per il fatto che non interpreta il pensiero moderno come inevitabilmente destinato all’esito immanentista dell’idealismo hegeliano e dei suoi successivi sviluppi, ma cerca di valorizzare i diversi contributi dei pensatori studiati o perché ampliano l’originario orizzonte tematico della scolastica oppure perché giungono a conclusioni affini a quelle classiche e possono trovare in esse uno sviluppo e un completamento. Naturalmente tale dialogo storiografico è sempre animato da interesse teoretico e non rifugge quindi dalle sottolineature critiche o dal tentativo di capire e spiegare i motivi di concezioni ritenute non plausibili.
In un’analoga direzione si muove anche la scuola filosofica di Padova in cui operano Carlo Giacon, attento e vigoroso seguace di Tommaso, e Marino Gentile, che più direttamente si rifarà alla tradizione greca e aristotelica. Anche in questo caso, numerose sono le ricerche storiografiche, sempre condotte con acribia e con l’intento di comprendere l’interlocutore, prima ancora che di confutarlo. Sono frutto di questo impegno alcuni manuali che costituiranno punti di riferimento per la proposta neotomista: gli Elementi di filosofia di Sofia Vanni Rovighi, usciti negli anni 1941-1950 e successivamente rielaborati e ampliati; le Grandi tesi del tomismo di Giacon, editi nel 1945, e i Fondamenti della filosofia classica di Francesco Olgiati, pubblicati nel 1950.
Il secondo gruppo è presente in diversi atenei italiani, come Torino, Genova, Padova, Bologna e Roma e, considerando intrinseco il nesso tra filosofia e cristianesimo, privilegia la via dell’interiorità, perché più adeguata a esprimere il senso di un’autentica filosofia cristiana e perché attraverso essa si può giungere a parlare di un Dio creatore e salvatore. La polemica nei confronti dei neoscolastici si articola su alcuni punti che ritornano nel corso degli anni e nei vari dibattiti: la metafisica dell’essere sarebbe una metafisica cosmologica, in cui Dio sarebbe affermato come causa della realtà naturale e rimarrebbe del tutto estraneo alla prospettiva cristiana, giacché si limiterebbe a essere il grande architetto di una realtà tutta meccanica e non potrebbe mai essere inteso come spirituale e personale, cioè autocosciente e libero. Al Dio cristiano si giunge solo muovendo dalla persona e non da un qualunque ente, giacché non si perviene a una realtà diversa dalle cose se non si parte da un ente diverso dalle cose: e la persona concreta è ben diversa da ogni forma di io trascendentale o di ragione impersonale, in cui tutte le singole coscienze empiriche confluirebbero nell’atto del filosofare. Ricercando la verità in noi e muovendo da essa si arriverà a Dio come verità assoluta, capace di conoscere le sue creature e di amarle, sino al punto da incarnarsi per salvare l’umanità corrotta dal peccato originale. Inoltre, lo sguardo all’interiorità mette in luce l’originaria aspirazione dell’animo umano alla divinizzazione, la sua strutturale apertura all’infinito, la quale genera un’inquietudine che nessun bene finito sarà mai in grado di colmare.
E se alcuni difensori della metafisica classica, come Umberto Antonio Padovani, criticano questa prospettiva perché, al posto di una costruzione razionale e dimostrativa del teismo, pretenderebbe di fondare una metafisica su una base meramente postulatoria, gli spiritualisti difendono il loro approccio, perché eviterebbe il rischio di separare artificialmente la natura dalla soprannatura, la ragione dalla fede, e non confinerebbe la filosofia, intesa come mera teologia naturale, in uno stadio di natura pura, estraneo alla grazia divina, appagato della dimostrazione di un essere immutabile e di una conoscenza solo concettuale e astratta di Dio e incapace di fare presa sulla concreta e sofferta esistenza personale di ogni singolo uomo.
Si avverte in questi autori l’influsso dell’esistenzialismo cristiano, soprattutto di quello di origine francese, come pure di tutta la tradizione della filosofia dell’interiorità; ma è anche presente l’eco della riflessione di Blondel sugli elementi extra razionali ed extra intellettuali che caratterizzano l’esistenza umana e sulla dinamica dell’azione, spinta a trovare una pienezza inaccessibile alle sue sole forze, sicché l’intervento soprannaturale è il compimento di quel desiderio insoddisfatto, qualcosa di gratuito e di paradossalmente necessario.
Nell’agosto del 1945 a Gallarate, dove risiedeva (presso l’Aloisianum) la facoltà di Filosofia dei padri gesuiti, viene fondato il Centro di studi filosofici tra professori universitari, di cui sono primi animatori Felice Battaglia, Augusto Guzzo, Padovani, Michele Federico Sciacca e Luigi Stefanini, mentre padre Giacon ne sarà il segretario e l’instancabile animatore. Lo scopo è quello di offrire un punto di riferimento teorico nel momento di una grave crisi, conseguente a due guerre mondiali e al crollo di alcuni totalitarismi, il quale dovrebbe fornire anche la base per la ricostruzione, che dovrà basarsi sul cristianesimo ed essere di natura metafisica. In effetti, i titoli dei primi convegni sono emblematici, oltre a un incontro prospettico sul pensiero contemporaneo: Filosofia e cristianesimo nel 1946, Ricostruzione metafisica nel 1948, Fondazione della morale nel 1949, Persona e società nel 1950.
L’attività del Centro, giunta con alterne vicende sino a oggi, nell’intento di promuovere un indirizzo di pensiero almeno non anticristiano, ha svolto un’importante funzione accademica e culturale nel complesso della società italiana: ha promosso, oltre agli annuali convegni, importanti iniziative editoriali, come l’Enciclopedia filosofica, apparsa in una prima edizione negli anni 1957-58, poi, in successive edizioni ampliate, nel 1968-69 e nel 1979, sino a un’ultima versione, completamente rinnovata e quasi interamente riscritta, in 12 volumi nel 2006; la Grande antologia filosofica, diretta nel 1954 da Padovani e dal 1964 curata da Sciacca; a partire dal 1949 la Bibliografia filosofica italiana, nonché la pubblicazione di opere di filosofi antichi, cristiani, moderni e contemporanei in prestigiose collane.
Quest’attività, soprattutto negli incontri dei primi anni, sviluppa il dibattito interno alla filosofia cristiana tra i neoscolastici e gli spiritualisti o personalisti; successivamente mette a tema questioni teoricamente rilevanti o urgenti, come il problema della scienza, del valore, della storia, dell’esperienza religiosa o dell’ateismo; il rapporto tra politica, economia e morale, fra tradizione e rivoluzione, fra ontologia e assiologia, fra filosofia e teologia. Il Centro è stato anche occasione di confronto con i filosofi cosiddetti laici, sia sul piano culturale, sia su quello della politica accademica; insieme, costituisce anche un luogo di dialogo a più voci, cui sempre più frequentemente vengono invitati pensatori stranieri o colleghi italiani, appartenenti ad altre correnti ma disponibili a un incontro senza pregiudizi. Infine, pur essendo, soprattutto agli inizi e per molti anni, sostenuto sul piano organizzativo dalla struttura ecclesiastica, il movimento di Gallarate è espressione di una laicità nell’impegno filosofico e sul piano dei contenuti, che andrà sempre più caratterizzandosi e accentuandosi con il passare degli anni.
Nei primi anni del dopoguerra, il dibattito italiano è influenzato da alcuni filosofi stranieri, soprattutto di area francese, che sono rilevanti sul modo di concepire l’uomo e la sua partecipazione alla vita della società e dello Stato. Da un lato, Jacques Maritain, attraverso il volume Humanisme intégral (1936; trad. it. 1946), pone l’accento su questi temi: l’ideale storico di una nuova cristianità; una relativa autonomia delle realtà terrene e la nozione di fini infravalenti; la modalità di operare nel mondo da parte dei cristiani. In opposizione alle varie concezioni totalitaristiche dello Stato, la nuova città è pluralistica, in quanto raccoglie in unità una varietà di gruppi e società particolari, cui viene riconosciuta un’autonoma capacità di iniziativa. Inoltre, le diverse realtà temporali possiedono, a loro volta, autonomia e valore intrinseco, sicché esse, diversamente dal Medioevo, non vanno intese come semplici mezzi in funzione dello spirituale e del fine ultimo (Dio), ma, pur permanendo il primato dello spirituale, conservano una loro dignità e leggi proprie, sicché si costituiscono come fini intermedi che, a loro volta e in ultima istanza, rinviano alla dimensione spirituale. Infine, Maritain propone una distinzione che inciderà molto in alcune concezioni politiche: il cittadino, allorché agisce in quanto cristiano, coinvolge la responsabilità della Chiesa; quando però agisce da cristiano, impegna tutto se stesso e quindi testimonia anche la sua fede e il suo modo di vivere il cristianesimo, ma, così facendo, impegna solo se stesso e si deve sottomettere alle leggi e alle necessità delle realtà temporali in cui opera.
Dall’altro lato, Emmanuel Mounier (1905-1950), attraverso il suo personalismo, sottolinea il carattere indefinibile, inoggettivabile e quasi paradossale della persona, che non è un oggetto individuo come gli altri, ma è una dimensione che va continuamente guadagnata per essere tale, implicando interiorità e apertura, spiritualità e incarnazione in un corpo, relazione essenziale con le altre persone e con il mondo e, insieme, difficoltà di comunicazione.
Nei decenni successivi, Sessanta e Settanta, nuovi problemi emergono, le vecchie polemiche si attenuano e perdono vigore, mentre l’attenzione si diversifica in ambiti più specifici e determinati, senza che si ritrovi il clima appassionato e impegnato dei primi anni. Sul piano più prettamente teoretico, la disputa sulla realtà del divenire e su un proclamato ‘ritorno a Parmenide’ occupa il proscenio della riflessione metafisica, concentrata anche sui tentativi, variamente esperiti, di offrire una dimostrazione incontrovertibile dell’esistenza di Dio, cioè tale che il negarla implicherebbe una contraddizione logica. Questa tenace ricerca dell’incontrovertibile, che ha il suo epicentro nella riflessione di Gustavo Bontadini, se invita a perseguire il massimo rigore, tutto fondato sul principio di non contraddizione, nel tentativo di trovare un fondamento ultimo e innegabile, restringe però l’ambito del discorso a un percorso breve e, pur non negandola, lascia fuori dall’attenzione tutta una serie di problemi e di temi che non sono meno rilevanti per l’esistenza umana. Inoltre, il dibattito, teso a perfezionare sempre più quell’unico punto logico, rischia di avvitarsi in volute ripetitive che, pur contribuendo a chiarire le rispettive posizioni, non consentono di acquisire nuovi risultati condivisi.
Proprio in questi anni, tuttavia, si impone all’attenzione di molti filosofi un tema ricco di implicazioni non solo speculative, ma anche politiche, sociali ed ecclesiali: quello del confronto con il marxismo, soprattutto nella versione gramsciana, o con le forme assunte dai diversi neomarxismi occidentali e orientali. Questo argomento ha attraversato tutta la storia italiana del secondo dopoguerra, fin dai tempi dell’esperienza dei cattolici comunisti che, proprio in virtù dei contenuti della loro fede e della carica rivoluzionaria in essa contenuta, ritenevano doveroso impegnarsi direttamente a fianco di Palmiro Togliatti.
Ora, nel mutato clima del Concilio Vaticano II e delle aperture di natura pastorale più che dottrinale compiute da Giovanni XXIII, la questione si ripropone, sotto forma della possibilità e dell’opportunità di un dialogo fra cristiani e marxisti, finalizzato non tanto a una collaborazione politica (anche se, ovviamente, l’eventualità o il rischio non sono mai persi di vista), quanto piuttosto a chiarire, sul piano teorico, se e in che modo reciproche incompatibilità siano suscettibili di essere attenuate, reinterpretate o superate. Tanto più che molti filosofi marxisti, prendendo le distanze dalle democrazie del socialismo realizzato in Europa orientale, tentano dialoghi con altre correnti filosofiche (come la fenomenologia, l’esistenzialismo, lo strutturalismo) oppure danno una lettura di Karl Marx che valorizza il Marx giovane e umanista rispetto al Marx maturo, influenzato da Friedrich Engels e più incline al materialismo dialettico. Ne segue che tra marxismo e ateismo non sussisterebbe più un legame essenziale e, quindi, si aprirebbero spazi per una possibile intesa. Viceversa, altri filosofi, preoccupati anche delle conseguenze di un’eventuale collaborazione pratica, ribadiscono l’insuperabilità del nesso con l’ateismo e, quindi, l’impossibilità di ogni forma di dialogo effettivo.
Ad accentuare queste diffidenze, una ricerca di Georges M.-M. Cottier sulle letture e gli scritti del giovane Marx (L’athéisme du jeune Marx. Ses origines hégéliennes, 1959, 19692; trad. it. 1981) mette in luce come il suo umanesimo avesse una curvatura prometeica, ben diffusa nella cultura tedesca del tempo, sicché proprio questo primato dell’uomo sarebbe così esclusivo da essere incompatibile con una divinità trascendente che ne limiterebbe la portata e l’assolutezza. E nel 1969 la traduzione italiana di un libro di Maritain, Le paysan de la Garonne. Un vieux laïc s’interroge à propos du temps présent (1966), getta uno sguardo deluso e rattristato sull’evoluzione della società e della cultura contemporanee, così come sui modi discutibili con cui alcune riforme conciliari sono state attuate o tradite. Pur non rinnegando nulla delle sue posizioni passate, Maritain ritiene che i cristiani siano tentati di porsi in ginocchio davanti al mondo e che il cristianesimo abbia subito un processo di progressiva temporalizzazione, nel senso che ormai solo le realtà temporali sarebbero importanti e la predicazione dovrebbe omettere ogni riferimento all’altro mondo, alla croce e alla santità, che richiederebbero invece una frattura radicale con questo mondo.
Queste riflessioni, da parti opposte e per valutazioni contrastanti, daranno inizio a una lettura del Concilio Vaticano II per la quale certe aperture alla realtà contemporanea e alla cultura moderna avrebbero innescato un processo di strisciante secolarizzazione, nel tentativo di attuare il regno di Dio su questa Terra.
Intanto, mentre il marxismo va incontro a una fase di revisione interna e di crisi teorica, alle soglie degli anni Ottanta si afferma in Italia, a vari livelli del dibattito filosofico, una diffusa e variegata riflessione sulla crisi della ragione e la proposta di un «pensiero debole» diventa quasi lo slogan per caratterizzare l’epoca della postmodernità. In particolare, una nuova interpretazione del pensiero di Friedrich Nietzsche, grazie anche all’edizione critica dei suoi testi, e la valorizzazione delle riflessioni dell’ultimo Heidegger in chiave ermeneutica, hanno fortemente influito sulla riflessione dei filosofi cristiani, portandoli lontano dall’impostazione metafisica di molti decenni prima. A queste si sono in seguito associate, provenendo da un altro versante speculativo ma convergendo verso un’identica meta, le considerazioni occasionate dalla riflessione epistemologica e dai suoi sviluppi popperiani e postpopperiani.
Così, mentre per un verso si va diffondendo la convinzione che una fondazione ultima sia inevitabilmente totalizzante e quindi totalitaria, e che la pretesa di cogliere verità necessarie non solo sia lesiva della libertà e del rispetto nei confronti dei dissidenti, ma violi anche i vincoli e i limiti posti a ogni discorso scientificamente rigoroso dalla riflessione epistemologica attuale, per un altro verso si fa notare come la metafisica occidentale sia un’ontoteologia, inesorabilmente oggettivante e dimentica della radicale differenza ontologica tra gli enti e l’essere. Ne segue la convinzione che pensare equivalga a interpretare secondo una serie di prospettive e di rimandi che, mentre esclude ogni pretesa di inizio senza presupposti e senza premesse, considera impossibile pervenire a una conclusione necessaria e concettualmente definita.
Ulteriori sviluppi caratterizzano poi la riflessione della filosofia di ispirazione cristiana negli anni più recenti: l’attenzione ai dibattiti teologici, soprattutto di area tedesca e di matrice protestante; l’analisi della natura dello Stato in una società multiculturale e radicalmente plurale, quanto a concezioni del bene opposte e incompatibili, mentre si vanno affermando varie forme di liberalismo, spesso considerato la cornice adeguata per l’affermazione dei valori cristiani; un forte impegno nell’affrontare le questioni bioetiche, poste non solo dall’introduzione della legge sull’aborto, ma anche dai nuovi contesti delle ricerche di bioingegneria, nonché dalla crescente richiesta di piena autonomia di scelta nelle decisioni che riguardano la vita e la morte.
Soprattutto, la discussione su tali problemi, allorché manifesta i suoi risvolti applicativi e le sue conseguenze nell’organizzazione della società, rivela divergenze ultimamente insuperabili e fratture insanabili, cui il solo richiamo alla riflessione razionale difficilmente pone rimedio, permettendo di fissare punti di consenso. E talora sembra che su questo fronte riemergano quei conflitti tra laici e cattolici che, nel secolo scorso, coinvolgevano le prospettive metafisiche o le concezioni globali sulla realtà.
Pur affrontando autori e periodi della storia del pensiero con un criterio metodologico di comprensione e simpatia intellettuale, senza vedere nel pensiero moderno e contemporaneo una successione di concezioni patologiche e del tutto inaccettabili, Francesco Olgiati (1886-1962; con padre Gemelli uno dei fondatori dell’Università cattolica e ispiratore del suo programma filosofico) non si sottrae a un impegno teoretico e a una valutazione critica: di ogni pensatore cerca di afferrare l’idea vivificatrice, che unifica tutte le altre e le costituisce in un organismo, per poi giungere a individuare quale sia la sua anima di verità, vale a dire quell’aspetto che può essere assunto e assimilato pure dalla filosofia scolastica, anche se nella sua sede originaria si trova erroneamente collocato e inadeguatamente sviluppato. Ogni filosofia è, infatti, caratterizzata dalla sua metafisica, dal suo concetto di realtà in quanto realtà, che ognuna possiede, anche se esplicitamente non lo ammette, e nella storia della filosofia si possono reperire tre, e solo tre, tipi fondamentali di metafisica: quella realistica o metafisica classica, quella fenomenista e quella idealista.
La prima s’incentra sulla nozione della realtà come ente, la seconda intende la realtà come idea e la terza come creatività dello spirito umano; e solo la prima, muovendo dal concetto di ente come tale e dall’analisi delle leggi supreme dell’essere e del pensiero, può pervenire a dimostrare l’esistenza di Dio, che offre a tutta la realtà un fondamento e giustifica così anche l’affermazione del diritto naturale, giacché alcune leggi dell’essere non trovano la loro giustificazione nel venire imposte dallo Stato, ma nella stessa natura insopprimibile del reale e per questo motivo devono essere riconosciute anche dallo Stato. Così radicato, l’imperativo giuridico ha per oggetto la giustizia e per fine il bene comune, e lo Stato, in quanto è destinato ad attuare il bene comune, è un valore, che non distrugge quello delle singole persone ma consente di realizzarlo pienamente.
Se le doti di Olgiati sono la chiarezza concettuale e la carica polemica, il vero ispiratore della scuola filosofica della Cattolica è stato Amato Masnovo (1880-1955): fra i suoi contributi quello più rilevante, che sarà poi ripreso e rielaborato dai suoi allievi, consiste nell’analisi del divenire e nella domanda se esso abbia in sé la ragione sufficiente di sé, senza la quale non potrebbe sussistere. La risposta a questa domanda coincide con la posizione di un Indiveniente: il divenire implica successione, ma, diversamente che nella semplice successione, il prima e il poi sono in rapporto, così che il poi è condizionato dal prima. Di più, come il poi è sempre un prima, così il prima è sempre un poi. Così stando le cose, ciò che diviene, in quanto diviene, non ha in sé la ragione sufficiente del suo divenire. La ragione del divenire andrà trovata in un presente non più diveniente, ma permanente, e questo è Dio. In un ulteriore passaggio, si proverà che Dio è intelligenza e volontà, cioè persona, sicché la creazione del mondo avviene per un libero atto, senza il quale il mondo, divenuto necessario per Dio, implicherebbe in Lui il divenire. I risultati dell’indagine filosofica sono così garantiti da una pura argomentazione razionale, ma sono esigui e restano strutturalmente aperti alla religione.
I sostenitori di una metafisica spiritualista respingono proprio questa pretesa di arrivare a Dio attraverso una dimostrazione meramente razionale che, partendo da un qualunque ente diveniente, pervenga a un ente immobile, ben diverso dal Dio cristiano, quello di cui parlano le Scritture, che si è incarnato, è morto ed è risorto. In questo senso, soprattutto quelli che non lo hanno più condiviso vedono tuttavia nell’idealismo gentiliano un legame con il cristianesimo più autentico rispetto a quello con la filosofia greca: è significativo il percorso di Armando Carlini (1878-1959; dal 1922 insegna filosofia teoretica all’Università di Pisa come successore di Gentile; dato il suo forte coinvolgimento con il regime fascista, nel 1945 viene epurato), il quale, muovendo dalla certezza e dalla verità dell’autocoscienza, grazie anche all’influsso di Blondel, abbandona l’attualismo, non afferma più che l’uomo si sente, per se stesso, pienamente spirituale e, invece, sostiene che proprio la coscienza di sé attesta di essere finita e limitata, in quanto è legata, nella concretezza della persona, alla corporeità, e quindi richiede un assoluto trascendente, che sia autocoscienza perfetta e infinita. A Olgiati che lo accuserà di fideismo (questo rimprovero viene di frequente rivolto dai neoscolastici milanesi agli esponenti dello spiritualismo), egli replicherà richiamandosi ad Agostino e ai mistici cristiani: anzi, questo precedente storico prova che l’idealismo deriva dalla tradizione cristiana, ma presto se ne allontana in quanto identifica Dio, uomo e mondo, che sono certamente connessi ma distinti.
La peculiarità rispetto ai metafisici di ispirazione scolastica emerge soprattutto in due filosofi tra loro coetanei: Luigi Stefanini e Renato Lazzarini.
Luigi Stefanini (1891-1956; dopo aver insegnato filosofia teoretica all’Università di Messina, passa a Padova per insegnare prima pedagogia e poi storia della filosofia) non è mai stato attualista e prende nettamente le distanze da ogni forma di esigenzialismo o soggettivismo; si dichiara un razionalista, convinto però dei limiti dell’uomo e, quindi, della ragione umana. Proprio il possesso della ragione, che oltrepassa la pura spontaneità, l’impressione, l’emozione e l’impulso, permette all’io di essere se stesso, giacché l’essere personale è essere spirituale e questo è essere razionale. Quando riflettiamo, constatiamo che l’io è il fatto primordiale dell’esperienza, l’unico vero a priori; l’essere è personale e quanto non è tale rientra in ciò che la persona produce, giacché tutto il mondo non umano è fatto per l’uomo. Questi vede in Dio la condizione prima che consente al nostro intelletto di agire e operare, e Dio si manifesta attraverso l’uomo e il mondo che rivelano la loro intrinseca positività in quanto sono immagine e segno dell’azione creatrice divina. Proprio all’immagine Stefanini assegna un’importanza non solo estetica ma anche ontologica: come il principio assoluto si rende presente nella cosa creata, producendola e rendendola segno, senza che essa possa pienamente esprimere ed esaurire il principio, così la persona umana è immagine della trascendenza, anche in quanto comunica con se stessa e con gli altri mediante la parola, che di nuovo è un’immagine, un segno mai pienamente adeguato a esprimere la totalità del soggetto. Se idealismo è la concezione che subordina il reale empirico a un principio spirituale, allora solo la trascendenza di matrice cristiana può giustificare un simile idealismo.
Su una posizione assai diversa per l’impostazione argomentativa di fondo, ma affine per l’esito cui perviene, si trova la riflessione di Renato Lazzarini (1891-1974; ha insegnato filosofia teoretica nelle Università di Cagliari e di Bari, per poi trasferirsi alla cattedra di storia della filosofia medioevale dell’Università di Bologna): egli ritiene inevitabile un’opzione religiosa di fondo che aiuti a risolvere il problema della possibilità di una salvezza finale per l’uomo. Le prove razionali dell’esistenza di Dio, infatti, sono utili soltanto a rafforzare la vita dello spirito religioso, ma sono insufficienti a conseguire l’obiettivo che si propongono, mentre l’anima umana constata la miseria del mondo in cui vive e avverte la propria inadeguatezza e l’incapacità a realizzare quell’infinita voglia di vivere che la caratterizza. Lazzarini scopre che l’intenzionalità, su cui la fenomenologia si era soffermata, va oltre il mero adeguarsi alla realtà, alle cose che sono date, per aprirsi al possibile, a quella prospettiva di salvezza rispetto ad altre che sono previsioni di fallimento. Si ha allora un primato della volontà e dell’intenzionalità pratica, che spinge oltre le constatate insufficienze, oltre gli altri uomini simili a me, e altrettanto limitati e condizionati, per scommettere pascalianamente (essendo, comunque, sempre imbarcati) per un Altro, un soggetto assoluto, che mi conosca sempre e sia presente in me, dandomi quella consistenza cui aspiro.
In questo contesto, Michele Federico Sciacca (1908-1975; ha insegnato come ordinario di storia della filosofia nell’Università di Pavia, poi come ordinario di filosofia teoretica e, successivamente, di filosofia nell’Università di Genova) presenta alcuni elementi di raccordo tra le posizioni dei tomisti e degli spiritualisti. Dopo gli inizi attualistici, riflette sulla crisi della ragione, denunciata da molte correnti filosofiche contemporanee, e si avvede che essa dissolve il soggetto assoluto enfatizzato dal pensiero moderno, rivelando la finitezza e la miseria dell’uomo, e il nichilismo che ne consegue non è per Sciacca la risposta adeguata, ma è solo un altro sintomo di quella crisi, così come rendere assoluta la ragione è stato un atto assolutamente irrazionale. Occorre piuttosto una metafisica dell’uomo, e non del reale o dell’ente in generale, poiché non ci si interroga su ciò che le cose sono, ma su chi è l’uomo come soggetto vivente e pensante: si sottolinea come l’interiorità sia aperta all’idea dell’essere e come l’essere finito, nella misura in cui ha presente l’infinito, sia originariamente trascendenza, sicché Dio è in costante dialogo con l’interiorità, nella quale si annuncia, la sostiene nell’essere e le è profondamente intimo, pur non identificandosi con essa.
Questi accenti rivelano l’influenza esercitata su Sciacca da Agostino, così come da Antonio Rosmini-Serbati, al quale dedica non solo alcuni studi, ma pure un’intensa attività di promozione di ricerche per approfondirne il pensiero e rivelarne l’attualità. Questa sottolineatura ontologica consente di superare certe cadenze volontaristiche o edificanti, presenti in molti spiritualisti, e di intravedere possibili connessioni con il pensiero di Tommaso. La filosofia dell’integralità, che costituisce la fase conclusiva della riflessione di Sciacca, sottolinea lo squilibrio tipico dell’uomo, sintesi di finito e infinito, in cui la dialettica dell’implicazione spinge a superare continuamente i limiti dell’esperienza per raggiungere tutta l’essenza dell’essere, senza potersi mai identificare con essa. Pertanto l’uomo che, non essendo l’essere, ha l’essere solo per partecipazione, è in uno stato di permanente inquietudine e di strutturale squilibrio, tutto teso verso l’Infinito e insieme messo a repentaglio dalla contingenza e dal male.
Abbastanza eccentrico rispetto agli indirizzi precedenti è un filosofo abitualmente annoverato tra gli spiritualisti, anche se egli non si riconosce appieno in questa attribuzione: Augusto Guzzo (1894-1986; ha insegnato, se si esclude un biennio all’Università di Pisa, presso l’Ateneo di Torino), il quale, in modo coerente, argomenta per provare la naturale aspirazione dell’uomo al proprio trascendimento. Da un lato, affronta il rapporto tra l’io concreto e personale e la ragione universale: l’io non si identifica con la ragione, non è un suo momento; né la ragione va assolutizzata e sostanzializzata, ma l’io opera secondo la ragione, che è la legge che regola gli stessi moti del pensiero, sicché l’io possiede la verità solo nella forma della ricerca, non identificandosi con la verità stessa. È la verità che genera il tempo, e non ne è figlia, nel senso che fa nascere i nostri tentativi di intenderla. Proprio per questo, l’io, che è inoggettivabile perché dinamico, trascende sempre ciò che è esperito verso un’ulteriorità, che da semplice possibilità talora assume il volto di un’esigenza che si impone. Guzzo svolge poi acute osservazioni sul rapporto tra il discorso filosofico su Dio, in sede di teologia naturale, e l’esperienza vissuta di Dio, che si rivela alla coscienza religiosa. Il primo può essere corretto e rigoroso, può confermare quanto si sperimenta, ma non può mai sostituire l’esperienza diretta.
Nei decenni successivi, se il numero dei partecipanti si riduce, il dibattito si infittisce di interventi. Sarà Gustavo Bontadini (1903-1990; dopo aver insegnato a Urbino e Pavia, terrà la cattedra di filosofia teoretica all’Università cattolica), allievo di Masnovo, colui che con originalità compirà una valorizzazione dell’attualismo e, insieme, riaccenderà la discussione metafisica, sottolineandone la dimensione neoclassica, in un privilegiato riferimento a Parmenide e Aristotele. Da un lato, l’idealismo consegue un risultato decisivo, quando sottolinea l’immediatezza dell’esperienza nella sua unità e, superando ogni dualismo, rende l’essere intelligibile al pensiero. Così facendo, prepara il terreno per una possibile rinascita della metafisica classica. Infatti, finché riconosce l’immediatezza dell’immediato, l’idealismo non è immanentista; lo diventa quando afferma che l’unità dell’esperienza è l’assoluto, senza residui: ma questo non è possibile, giacché – e qui si inserisce la proposta positiva del discorso bontadiniano – l’esperienza attesta il divenire, ma questo deve provenire dall’Immobile. Se non provenisse, sarebbe originario, e nel divenire il non essere limiterebbe l’essere, esercitando una funzione positiva, che implicherebbe contraddizione. Il principio di creazione consiste proprio nella dipendenza del mondo diveniente dalla Realtà immobile, senza che questa abbia a mutare. Di qui sono nate le obiezioni di Emanuele Severino (n. 1929; dopo aver insegnato all’Università cattolica, si trasferisce a Venezia, quando la Santa Sede rileva l’incompatibilità delle dottrine da lui professate con l’insegnamento della Chiesa) e un conseguente intenso dibattito: la vera contraddizione non starebbe nell’originarietà del divenire, ma nell’equiparazione tra essere e nulla che in ogni divenire, originario o no, si attuerebbe. Inoltre, Severino fa rilevare che un’attenta analisi fenomenologica non attesta il passaggio dall’essere al nulla delle cose divenienti, ma solo il loro scomparire o apparire, e sarebbe illegittimo arguire l’annullamento di ciò che semplicemente scompare. La lunga discussione ha prodotto assestamenti e significative variazioni nel pensiero di Bontadini, mentre Severino, con echi heideggeriani applicati a un ben diverso registro, ha sviluppato una corposa e sistematica riflessione sul destino dell’essere nei suoi rapporti con la Terra e gli enti che vi appaiono.
La scuola padovana, soprattutto per l’opera di Marino Gentile (1906-1992; ha insegnato storia della filosofia e poi filosofia teoretica nell’Università di Padova) e del suo allievo Enrico Berti (n. 1935; ha insegnato storia della filosofia nell’Università di Padova), in dialogo con l’impostazione bontadiniana, vede nella filosofia un interrogarsi su tutto che è un interrogarsi radicale, il quale, allo scopo di pervenire a una fondazione rigorosa, sul modello dell’episteme greca, mette in rilievo la problematicità dell’esperienza, cioè la dialettica che si instaura tra la sua immediatezza, allorché sia fenomenologicamente accertata, e il perché di quella immediatezza, cioè il principio richiesto e potenzialmente presente nell’esperienza. La filosofia cerca di attuare quella potenzialità e fissare nel principio del darsi dell’esperienza la sua causa, non problematica, e trascendente rispetto a essa. Inoltre, proprio riflettendo sulla difesa aristotelica del principio di non contraddizione, viene valorizzata l’argomentazione confutatoria nei confronti di chi sostiene tesi incompatibili con altre, in precedenza ammesse come vere.
A questi dibattiti Cornelio Fabro (1911-1995; dopo alcuni anni all’Università cattolica, ha sempre insegnato nell’Università di Perugia) ha dato il contributo della sua dottrina, della sua acribia e della sua forza polemica: da un lato, nell’Introduzione all’ateismo moderno (1961) vede nel cogito cartesiano l’esercizio del principio di immanenza, che pone il primato del pensiero, della coscienza del soggetto, rispetto all’essere e che è all’origine dell’ateismo moderno, anche di quello apparentemente basato su premesse materialistiche. Viva è pertanto la critica nei confronti di quei neoscolastici che hanno positivamente valutato aspetti del pensiero moderno e contemporaneo, così come verso quei teologi, quali Joseph Maréchal e Karl Rahner, che hanno confuso il trascendentale tomistico con quello kantiano e si sono illusi di utilizzare questo per meglio comprendere quello. Acuto interprete di Tommaso, Fabro ha insistito nel sottolineare l’importanza della nozione di partecipazione e la peculiarità dell’actus essendi, come irriducibile a una qualche determinazione essenziale; per questo aspetto condivide con Heidegger la polemica contro la riduzione ontica dell’ontologia e il misconoscimento della differenza dell’essere rispetto agli enti, compiuto dalla filosofia occidentale, con la sola eccezione del pensiero di Tommaso, spesso tradito dai suoi stessi seguaci e interpreti.
Una costante della riflessione filosofica di ispirazione cristiana, che ha anche influito su intellettuali non professionalmente filosofi, è stata l’interesse per il problema dell’uomo e del suo impegno nella società, a fianco degli altri uomini. Qui l’influsso di Maritain ha accresciuto l’interesse per Tommaso, unitamente a quello per altre prospettive personaliste come quella di Mounier.
Alla riflessione antropologica e morale Sofia Vanni Rovighi (1908-1990; ha insegnato storia della filosofia e, poi, filosofia teoretica nell’Università cattolica) ha dato contributi di grande lucidità e acume, riprendendo l’insegnamento di Tommaso. Allieva di Masnovo, vede l’originalità e la novità del tomismo soprattutto nella concezione unitaria dell’uomo, contro il dualismo cartesiano e la riduzione dell’uomo a puro spirito, incarcerato in un corpo che gli sarebbe estraneo. Invece, noi ci percepiamo immediatamente come corporei, e il dolore a un organo corporeo è un modo di essere me: io vivo direttamente il mio male agli occhi come un modo doloroso di vedere, ben prima di dirigere la mia attenzione sugli occhi come su un oggetto da esaminare, sicché lo stesso identico uomo è colui che pensa e argomenta e colui che prova sensazioni; e provare sensazioni si può solo attraverso un corpo. Inoltre, l’anima, cioè il principio per cui l’uomo è uomo, è forma del corpo; il principio per cui l’uomo vive e pensa è lo stesso per cui ha un determinato corpo con certi caratteri fisici e biologici. Una delle manifestazioni tipiche della natura umana è la vita sociale, anche se l’uomo non si dissolve nella società, né è da questa costituito nel suo essere e nella sua dignità: la società è un’unione stabile e morale di uomini tendenti allo stesso fine, cioè al bene comune. Poiché esistono e operano solo gli individui, la società è un complesso di relazioni tra gli individui che la compongono e tali relazioni sono reali, perché aggiungono qualcosa di nuovo a chi vi partecipa. Nei riguardi dello Stato il rapporto dell’individuo è duplice: in quanto cittadino che riceve benefici dalla partecipazione alla società politica, dipende da questa fino a dover sacrificare la propria vita per essa. Ma poiché l’uomo ha un fine che va oltre l’esistenza terrena, è ordinato solo a Dio e non può sacrificare il suo perfezionamento morale per obbedire a qualche legge dello Stato.
Echi di questa posizione sono anche testimoniati da Giorgio La Pira (1904-1977) e Giuseppe Lazzati (1909-1986), due personalità fra loro legate anche da comuni esperienze e frequentazioni. Il primo vede in Tommaso un suo maestro, dal quale ha ricevuto una profonda influenza e che ammira per il limpido argomentare e per la sistematica struttura della Summa. A lui si affida per difendere la dignità della persona umana contro la statolatria dei totalitarismi; con i suoi occhi cerca di leggere e interpretare il presente, per attrezzarsi quando deve impegnarsi in difesa della povera gente o a favore della pace mondiale e dell’intesa tra i popoli, declinata spesso con qualche sottolineatura integralista. Lazzati, fortemente influenzato da Maritain, nel suo impegno culturale, educativo e politico rileva come il passaggio dai dettami della fede alle azioni della politica abbia bisogno di una difficile mediazione culturale, per realizzare la quale, nei politici e in tutti i cittadini, è necessaria un’opera di formazione attenta a mantenere l’unità dei distinti tra le diverse dimensioni dell’umano, che vanno salvaguardate nella loro reciproca relazione, e tra i diversi ambiti dell’impegno concreto del cristiano, che non vanno né astrattamente separati e neppure confusi e inquinati.
Allievo della Vanni Rovighi, Adriano Bausola (1930-2000; professore ordinario di filosofia morale e di filosofia teoretica e, per molti anni, rettore dell’Università cattolica) dedica ampie riflessioni alle condizioni antropologiche ed etiche dell’impegno sociale e politico, nel complesso contesto del pluralismo contemporaneo. Pur considerando necessaria e realizzabile una fondazione metafisica dell’etica, ritiene che ciò non impedisca la collaborazione con quanti diversamente giustificano l’adesione ad alcuni valori comuni. L’affermazione di uno Stato laico e rispettoso dell’inevitabile politeismo dei valori, condivisi dai suoi cittadini, è compatibile con l’impegno di individui o gruppi a presentare e difendere proposte eticamente rilevanti; inoltre, il rispetto della libertà di ciascuno non implica un atteggiamento di indifferenza o estraneità verso gli altri, anzi motiva la partecipazione solidale in ambito politico e sociale, mentre va difesa una concezione completa e armonica dell’uomo, che ne salvaguardi la strutturale complessità e le molteplici dimensioni e non assolutizzi particolari momenti o aspetti dell’esistenza, sfociando in visioni riduttive, solo apparentemente rispettose delle scelte dei singoli.
Il problema di realizzare una collaborazione pratica su progetti ispirati da visioni filosofiche o religiose divergenti ha alimentato il dibattito sulla possibilità di un incontro tra marxisti e cristiani che andasse oltre il dialogo meramente teorico. Mosso da queste preoccupazioni, Felice Balbo (1913-1964; è uno degli esponenti del movimento dei cattolici comunisti e poi del Partito della sinistra cristiana, sorti nell’immediato dopoguerra) propone una filosofia che delinei le condizioni per lo sviluppo umano nella sua globalità, lontana dalle astrattezze del pensiero moderno e che instauri un nesso vitale e operativo con la società. A questo scopo, ritiene necessaria un’alleanza tra marxismo e cristianesimo, mirante a realizzare, attraverso l’analisi scientifica e teologicamente neutra del primo, la prospettiva di riscatto e di liberazione umana annunciata dal secondo. Successivamente, per arginare il rischio incombente della fine del pensiero speculativo a vantaggio di una filosofia meramente pragmatica, proporrà una ripresa del pensiero di Tommaso, ancorata alla filosofia dell’essere e all’idea di partecipazione. Proprio considerando che l’essere non è solo staticità, ma anche dinamicità e tensione verso un costante incremento, diventa possibile fondare su tale ontologia una rinnovata idea di progresso mirante ad attuare il conseguimento del maggior bene umano possibile.
In questa prospettiva, alcuni autori, come Giulio Girardi, Angelo Marchese, Ruggero Orfei e Ferdinando Ormea, diversamente impegnati in ambito culturale, guardano con attenzione alle nuove forme di evoluzione teorica del marxismo, delineate negli anni Sessanta, e pensano che pure la rivalità assiologica tra sviluppo umano e prospettiva teologica, presente in molte proposte etiche del marxismo, non sia insuperabile, ma dipenda da forme storiche di interpretazione del cristianesimo, il quale, per parte sua, non è certo antiumanista, né è incompatibile con una concezione che veda nell’uomo il creatore della propria storia.
Su una posizione del tutto opposta si colloca la riflessione di Augusto Del Noce (1910-1989; ha insegnato storia della filosofia moderna e contemporanea nell’Università di Trieste e, poi, filosofia politica nell’Università di Roma La Sapienza). Secondo lui, l’ateismo è essenziale al marxismo, che porta a compimento il radicale umanesimo, laicizzato e secolarizzato, sviluppato da una linea della filosofia moderna, e ribalta l’ideologia platonico-agostiniana: nel marxismo il processo va dalla prassi alla teoria, giacché la filosofia non mira a comprendere una realtà che si rivela, ma tende a trasformarla e a fare la storia, la quale pertanto, nell’epoca contemporanea, diventa storia filosofica. D’altronde, il marxismo, vissuto come un’attitudine mirante a una trasformazione totale dell’uomo, da attuarsi nella storia, si trasforma in una fede, tutta immanente e secolare, in un razionalismo postulatorio che rinvia la sua verifica a un futuro indefinito. Infine, il marxismo, nella sua versione gramsciana, cercando di attuarsi nella società occidentale, determina, paradossalmente, il suicidio di quella rivoluzione che vorrebbe realizzare: la società opulenta, oggi diffusa, accetta la negazione radicale dei valori assoluti e del pensiero contemplativo o metafisico, proclamata dal marxismo, ma ne rifiuta gli aspetti rivoluzionari e messianici. Il successo politico viene pagato con la realizzazione del contrario di quanto ci si proponeva e lo spirito borghese, lungi dall’essere sconfitto, trionferebbe dei suoi tradizionali avversari: la religione trascendente e lo spirito rivoluzionario.
In una posizione apparentemente isolata, ma da cui ha esercitato vasta influenza filosofica e culturale, si colloca la sofferta riflessione e la testimonianza vissuta di Giuseppe Capograssi (1889-1956; ha insegnato nelle Università di Sassari, Macerata, Padova, Napoli e Roma), il quale, seguendo un’analisi fenomenologico-esistenziale e andando oltre le sue ricerche specialistiche nel campo del diritto, affronta il problema del rapporto tra l’individuo e l’universale, quale si pone in un momento di crisi dell’autorità e dello Stato, anche in seguito alle tragiche esperienze dei totalitarismi contemporanei. Rifacendosi in particolare all’insegnamento di Giambattista Vico e di Rosmini, rileva che la filosofia deve ritrovare il suo nesso con la vita individuale e mediare, in maniera non astratta, il passaggio all’universale grazie all’idea dell’essere, universalmente presente nella mente di ogni uomo pensante, e al concetto di Provvidenza, i cui eterni disegni sono, almeno parzialmente, rintracciabili nella storia. Proprio perché deve spiegare la vita e restituire alla vita una chiara consapevolezza di sé, la filosofia deve illuminare la situazione dell’individuo, che il pensiero moderno abbandona a se stesso, ormai privo di riferimenti trascendenti e assiologici. La crisi dell’autorità è, nella sua radice, crisi della consistenza dell’individuo e del suo orientamento etico: quando il concetto cristiano di persona si smarrisce, di fronte al male, pervasivamente presente nel mondo e nelle relazioni umane, l’attivismo senza riposo può sembrare una via di uscita. Di fronte al male, che l’esperienza comune continuamente attesta, si è posti, invece, nella condizione di formulare, con chiarezza, un giudizio sulla vita finita, di constatare la disperata situazione di povertà in cui l’uomo si trova, di esprimere con la preghiera un’accorata invocazione a Dio, perché si possa intravedere, oltre gli orrori, la speranza della redenzione.
Un ampio stimolo alla riflessione è stato poi offerto dalle ricerche teologiche che, anche in occasione del Concilio Vaticano II, si sono sviluppate nella Chiesa cattolica e presso le varie confessioni cristiane, soprattutto all’estero; esse si sono intrecciate con gli approfondimenti che l’ermeneutica filosofica ha offerto a una lettura complessiva dell’uomo e del suo rapporto con il mondo e con Dio. Una serie di importanti convegni, organizzati da Enrico Castelli, sono dedicati al tema della demitizzazione e dell’ermeneutica come necessaria interlocutrice della teologia.
Formatosi alla scuola di Bontadini, Italo Mancini (1925-1993; ha insegnato filosofia della religione all’Università cattolica, poi filosofia della religione, filosofia teoretica e filosofia del diritto nell’Università di Urbino) ha dedicato i suoi studi alla struttura epistemologica della religione, intesa essenzialmente come radicale annuncio di salvezza, che va salvaguardato nella sua specificità, contro ogni tentativo di cattura da parte dello strutturalismo, di teorie totalizzanti o di riduzionismi antropologici. Il metodo ermeneutico consente di rispettare quella inesausta riserva di senso che il «totalmente Altro» liberamente dona. Grazie anche alla frequentazione di importanti teologi come Karl Barth, Rudolf Bultmann e Dietrich Bonhoeffer, che ha contribuito a far conoscere e apprezzare in Italia, Mancini respinge una concezione consolatoria della religione, che muova solo dalle esigenze dell’uomo e cerchi in un ‘Dio tappabuchi’ la soluzione ai problemi e ai drammi dell’esistenza finita e la soddisfazione per le proprie aspirazioni inappagate. Della religione va sottolineato il fatto che l’annuncio di salvezza è rivolto non a un singolo, atomisticamente isolato, ma a un popolo, a una comunità, che richiede non solo un impegno teorico, ma anche un coinvolgimento prassiologico. Il nesso corretto è quello tra religione e rivoluzione, non tra religione e consolazione. Il cristianesimo deve animare una forte tensione etico-politica ed esprimere un senso in cui il mondo possa riconoscersi senza timori e l’uomo trovi una spinta per il proprio progresso e la propria liberazione, rifuggendo da tentazioni integraliste o clericali.
Il confronto con il cristianesimo e la sfida con l’abisso della libertà e la tragicità del male, giocata in chiave di coinvolgimento eminentemente personale, sono sviluppati da Luigi Pareyson (1918-1991; ha insegnato nell’Università di Torino dove è stato allievo di Guzzo), il quale, inizialmente, approfondisce il tema del rapporto fra la strutturale condizionalità storica e l’esigenza speculativa, per vedere come sia possibile la convivenza tra l’infinita inesauribilità delle prospettive e l’unicità del vero. L’impegno personale non ostacola, ma è l’unico modo per avvicinarsi al vero, giacché l’unicità della verità si annuncia solo all’interno delle diverse interpretazioni e prospettive. Si potrà così unire la fedeltà all’essere con la difesa della libertà, sicché l’ermeneutica diventa ontologia della libertà. Secondo Pareyson, la filosofia non ha nulla da dire sull’esistenza di Dio, giacché il Dio dei filosofi è solo un nome astratto, mentre il Dio vivente è quello incontrato nell’esperienza religiosa, grazie a un’opzione personale e rischiosa. Di fronte a filosofie rinunciatarie o evasive, Pareyson ritiene che ci si debba misurare con problemi come quello del male e della sua origine, che rendono tragica l’esistenza. L’unica prospettiva per dare un senso, sia pure senza comprenderlo, al problema del male è quella di collocare il male in Dio stesso, quel male che Dio, scegliendosi, ha per sempre scartato e che l’uomo ha fatto apparire nel mondo attraverso il peccato originale.
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