Le fonti per la ricerca archeologica
di Mario Liverani
Le fonti scritte costituiscono un eccellente ausilio per la corretta interpretazione dei dati archeologici (insediamentali, monumentali, oggettuali) pertinenti alle antiche civiltà del Vicino e Medio Oriente. Oltre a fornire indicazioni esplicite sul significato attribuito a certe espressioni formali dell'architettura e delle arti figurative, contengono informazioni dettagliate sull'organizzazione del lavoro artigianale e artistico, sulle tecnologie impiegate, sui materiali utilizzati, sull'uso stesso dell'attrezzatura materiale e su ogni altro aspetto. Le informazioni scritte iniziano con l'introduzione stessa della scrittura, e dunque nel Vicino Oriente assai prima che in ogni altra parte del mondo. Iniziano precocemente in Egitto e in bassa Mesopotamia (verso il 3000 a.C.), poi si diffondono nelle altre regioni del Vicino e Medio Oriente. Tra i materiali scrittori hanno avuto una conservazione privilegiata, oltre alle epigrafi su pietra, soprattutto le tavolette d'argilla (Mesopotamia, anche Siria e Anatolia nell'età del Bronzo), e i papiri in Egitto, mentre altrove i testi non epigrafici sono conservati solo saltuariamente. Per certe regioni la documentazione scritta è o evanescente (civiltà dell'Indo) o nettamente tardiva (Asia Centrale). Mentre le fonti propriamente "letterarie" sono piuttosto rare, in confronto ad ambiti culturali più recenti, invece risaltano le fonti epigrafiche e quelle archivistiche. La ricchezza delle fonti epigrafiche è da rapportarsi al carattere celebrativo di molte realizzazioni architettoniche e figurative. Una particolare enfasi viene posta nel rapporto tra testo e immagine, tra l'epigrafe e il suo supporto architettonico o scultoreo, che vale anche a conferire alla stessa scrittura una funzionalità decorativa (dall'effetto "fregio" dell'iscrizione standard di Assurnasirpal II ripetuta decine di volte sui bassorilievi del Palazzo Nord-Ovest di Nimrud, alla profondità dei segni in rapporto all'incidenza della luce nel tempio di Ramesse III a Medinet Habu). L'altro grande campo di utilizzazione delle fonti scritte è quello archivistico o amministrativo, che fornisce dati preziosi in generale sull'organizzazione del lavoro e sugli aspetti tecnici, e in particolare su alcuni monumenti pervenutici. L'utilizzazione di questi dati per un chiarimento della documentazione archeologica è ancora parziale e insoddisfacente, pur essendo assai più pertinente di generici raffronti di carattere etno-archeologico. Rimane piuttosto scoperto l'altro campo in cui (specie per periodi più avanzati) si usa ricorrere alla documentazione scritta: quello dell'identificazione di singoli "maestri" autori di opere specifiche. Ad eccezione di casi in cui il "maestro" abbia assunto una fama particolare nella tradizione posteriore (è il caso soprattutto di Imhotep, architetto di Djoser e autore della piramide di Saqqara, poi divinizzato ma in quanto guaritore e non perché architetto), gli artisti restano di norma anonimi. Ciò si deve in primo luogo all'attribuzione delle opere piuttosto al committente (specie se di rango regale) che non all'esecutore, attribuzione assolutamente diagnostica di civiltà molto accentrate e gerarchizzate; in secondo luogo al modesto prestigio della creatività artistica (indicatore evidente di società che privilegiano la tradizionalità sull'innovazione) e soprattutto di quella figurativa (per quella letteraria si hanno parecchi nomi di autori sia in Egitto sia in Mesopotamia).
Le iscrizioni monumentali si addensano in misura quasi esclusiva nel settore delle realizzazioni regie, mentre edifici privati e oggetti d'uso comune non vengono di norma accompagnati da epigrafe alcuna. Il meccanismo logico per il quale le opere regie di urbanistica, architettura e scultura sono accompagnate da testi è connesso al loro scopo celebrativo, alla loro funzione di magnificare il potere del committente regale. Nella loro funzione di "messaggio propagandistico" il palazzo o il rilievo scolpito non sono soli, ma accompagnati da messaggi paralleli che utilizzano canali cerimoniali e soprattutto il canale del discorso sia orale sia scritto. Se il codice monumentale o figurativo aveva il vantaggio di una più impressiva e accessibile comunicabilità, il codice testuale, accessibile a pochi, era però più atto ad esprimere i dettagli dell'ideologia. Oltre a trasmetterci i valori ideologici originari, i testi monumentali sono miniera preziosa di indicazioni concrete: dalla terminologia architettonica, alla funzione dei singoli ambienti, alla più precisa datazione dell'opera. Ovviamente i testi celebrativi, anche se connessi con edifici specifici, dedicano gran parte della loro attenzione ad una celebrazione generale dell'opera del sovrano: includono quindi ampie titolature, riferimenti al mondo divino, e soprattutto narrazioni anche dettagliate di eventi bellici, utilissime queste ultime per lo studio territoriale, con le loro liste di città e villaggi, le elencazioni di risorse economiche (bottini e tributi), le informazioni ben datate su episodi di distruzione, tutti dati facilmente raffrontabili con la documentazione archeologica. Al di là delle parti narrative, il collegamento del testo celebrativo con l'edificio di riferimento è però sempre presente: ed è grazie ai testi che siamo in grado di attribuire con sicurezza i templi a specifiche divinità, i palazzi a specifici sovrani, le figurazioni a specifici episodi. Il vanto caratteristico di aver risucchiato risorse da tutta la periferia, per la costruzione del palazzo o del tempio collocato idealmente al centro del mondo, consente di avere indicazioni preziose sulla provenienza di materiali e di maestranze: si pensi già a Gudea di Lagash, che costruisce il tempio di Ningirsu utilizzando pietre, legname e metalli provenienti dalle remote montagne opportunamente dislocate tutt'attorno alla piana mesopotamica; e si pensi (come culmine del processo) a Dario, che edifica il palazzo di Persepoli impiegando specialisti fatti affluire da tutte le satrapie dell'impero (dall'Egitto alla Ionia, all'India), ciascuno per la sua caratteristica competenza. Oltre allo scopo celebrativo, c'è un'altra motivazione per le iscrizioni edilizie, in particolare per quelle dette "di fondazione" e deposte sotto le fondazioni degli edifici, in luogo inaccessibile al pubblico. Il fatto è che in Mesopotamia (e nelle altre zone a edilizia in mattoni crudi) l'edificio è sottoposto ad un inevitabile processo di degrado, crollo, riedificazione. Su uno stesso edificio (specie templare) lavorano in ideale staffetta più re a distanza di secoli, e ciascuno vuole lasciare la propria "firma" (nella collocazione in cui il futuro restauratore potrà trovarla), affinché il suo nome sopravviva al fatiscente edificio. La sequenza delle iscrizioni di fondazione, specie se citate a catena dall'ultimo ricostruttore, forniscono vere e proprie "storie di edifici" (frequenti in ambito medioassiro e poi neoassiro e neobabilonese) con datazioni precise per i diversi interventi. La cura posta da Nabonedo nel rintracciare le iscrizioni di fondazione dei re di Akkad (a lui anteriori di quasi due millenni) è esemplare in tal senso. Anche in Egitto, dove pure l'utilizzazione della pietra conferisce agli edifici una "eternità" altrettanto paradigmatica di quanto l'alterna vicenda di crolli e restauri lo sia per la Mesopotamia, gli interventi di successivi faraoni sullo stesso edificio sono ricostruibili e databili grazie alle iscrizioni, o magari in qualche caso grazie alle erasioni e usurpazioni di vecchi cartigli (come per la damnatio memoriae alla quale furono sottoposti Hatshepsut e Amenhotep IV). Meno frequente, ma tutt'altro che raro, è il caso della celebrazione non già di un edificio (tempio o palazzo), ma di un intero progetto urbanistico: si pensi per l'Egitto ai testi che celebrano la fondazione della nuova capitale ad el-Amarna da parte dell'"eretico" Amenhotep IV; o per l'Assiria alla celebrazione di Assurnasirpal II per l'edificazione ex novo della capitale Kalkhu (Nimrud) o di Sennacherib per l'ampliamento di Ninive. In questi casi, non solo l'assetto urbanistico viene descritto con utili dettagli (ad esempio i nomi delle porte urbiche), ma anche gli interventi di riassetto territoriale (che più facilmente sfuggono all'indagine archeologica) sono precisati: si pensi ancora agli interventi di Sennacherib per deviare corsi d'acqua verso la campagna di Ninive o, in tutt'altro ambito, alla luce gettata dalle epigrafi sudarabiche sulle opere di irrigazione (diga di Marib). All'estremo opposto, c'è l'iscrizione celebrativa apposta al singolo monumento figurativo, di norma statua o stele. Sia che si tratti di iscrizioni votive (come è di norma in Egitto e nel mondo sumerico), sia che si tratti di iscrizioni celebrative (come quelle dei re di Akkad), se ne ricavano comunque (con maggiori o minori dettagli) il committente, la datazione, le circostanze dell'esecuzione. In qualche caso se ne ricavano storie più complesse: le iscrizioni "trionfali" di Sargon e Naram- Sin continuarono ad esser ricopiate per secoli, esposte a vista nel tempio di Enlil a Nippur; e la stele dello stesso Naram-Sin (per citare un caso famoso tra i tanti analoghi) venne re-iscritta dall'elamita Shutruk-Nakhkhunte quando la trasportò a Susa. Le stele di confine (conservate soprattutto quelle rupestri, più che quelle mobili) hanno una precisa utilizzabilità per lo studio territoriale; se ne hanno dall'Egitto (Semna, el-Amarna), dall'Assiria e da Urartu. Vere e proprie "didascalie" (più frequenti in Egitto, ma attestate anche sui bassorilievi neoassiri) consentono di identificare luoghi e personaggi raffigurati. E occorre ricordare quelle "didascalie implicite" che risultano dalla coincidenza testo/immagine, e che consentono ad esempio di identificare i simboli divini raffigurati su una stele con le divinità citate nel testo annesso.
Assai più rare sono le epigrafi private che contengono riferimenti ad attività edilizie o artigianali. In Mesopotamia si hanno solo iscrizioni di governatori locali, che ripetono su scala ridotta i caratteri di quelle regie. Eccezione cospicua è data per l'Egitto dalle iscrizioni funerarie, sia su statue (di singoli o di famiglie), sia su stele, sia sulle pareti della tomba stessa. Queste iscrizioni, oltre ad identificare il titolare della statua o della tomba (e a datarla), possono alludere alla fattura del sarcofago o della falsa porta e al procacciamento della pietra necessaria allo scopo. Sempre in Egitto c'è poi il caso (unico, ma indicativo) della documentazione epigrafica del villaggio di Deir el-Medina, residenza degli artigiani addetti allo scavo e alla decorazione delle tombe delle vicine necropoli reali in età ramesside. Data la specifica attività degli artigiani, il quadro complessivo della loro organizzazione e delle loro attività getta luce vivissima sulla produzione artistica nell'Egitto del Nuovo Regno.
A differenza delle iscrizioni celebrative, la documentazione d'archivio fornisce un quadro più sistematico e realistico delle attività di produzione architettonica e artigianale, e dei problemi relativi. Possiamo qui includere anche la documentazione epistolare, che in qualche caso si riferisce a costruzioni in corso d'opera (ad es., le lettere di Sargon II sulla costruzione di Dur-Sharrukin), oppure al procacciamento di materiali e alle attività commerciali (lettere di Mari e, soprattutto, quelle paleoassire di Cappadocia), alla descrizione di oggetti artistici (ad es., certe lettere di el-Amarna), e così via. Assai più numerosi sono i testi amministrativi, vere e proprie miniere di informazioni sulla cultura materiale dell'epoca. L'amministrazione registra dati di rilevanza economica, ma che valgono per noi a recuperare anche informazioni di carattere tecnologico, sia generali sia riferite a specifiche (e ben datate) attività di produzione architettonica e artigianale. I dati amministrativi possiedono in genere grande precisione, che però non sempre è agevole valutare: le registrazioni riguardano infatti i rapporti tra artigiani (nonché mercanti, manodopera generica, ecc.) e l'amministrazione, più che l'effettiva realtà tecnica. Il "filtro" amministrativo della realtà tecnica è stato soprattutto studiato per l'agricoltura (dove si hanno stime forfettarie dei raccolti) e l'allevamento (dove si hanno parametri fissi di crescita delle greggi), ma è pure da presumere per le attività di trasformazione e scambio, dove anche tra norma amministrativa e realtà di fatto può sussistere un certo iato. Per l'agricoltura sono comunque di grande interesse le piante dei campi, sia quelle di cui vengono fornite le misure dei lati sia quelle effettivamente disegnate sulle tavolette, specie di età neosumerica; le stime dei raccolti in rapporto alla semente; l'individuazione dei coltivi prevalenti: elementi tutti utili alla ricostruzione del paesaggio agrario e della paleobotanica. Ai testi propriamente amministrativi si aggiungono testi giuridici che riportano descrizioni di proprietà agricole, contratti (di affittanza o mezzadria) per la coltivazione e altro. Riguardo all'artigianato, si hanno informazioni su tutti i settori esistenti, fino a veri e propri organigrammi complessivi degli specialisti dipendenti da un'amministrazione (è il caso di Ur nel XIX sec. a.C.). Per la metallurgia sono documentate le provenienze dei metalli, la composizione e il dosaggio delle leghe metalliche, le fasi di lavorazione, la tipologia e il peso di numerosi oggetti. Per la tessitura sono attestate (specie in età neosumerica) tutte le fasi dalla tosatura fino alla confezione dei tessuti: fasi la cui documentabilità archeologica è invece problematica. Per la produzione ceramica sono elencati i tempi di lavorazione e le tipologie riconosciute a livello amministrativo. Per la lavorazione delle pietre dure e l'oreficeria sono documentate le provenienze dei materiali e il peso e la tipologia dei prodotti finiti. Per l'edilizia si hanno descrizioni di case (in testi giuridici) e persino piante di edifici. I testi giuridici (testamenti e spartizioni ereditarie, vendite, adozioni, ecc.) sono anche utile fonte di conoscenza sulle strutture familiari e sulla loro ricaduta in termini di strutture abitative e di arredo domestico. Un problema, tanto difficile da affrontare sulla base dei dati archeologici quanto esplicitamente descritto dai testi amministrativi, è quello dell'organizzazione del lavoro. Le varie soluzioni sono di volta in volta rapportabili a specifiche esigenze di produzione. Sono soprattutto documentati: l'impiego di specialisti a tempo pieno per produzioni tecnologicamente specializzate; le prestazioni forzose (corvée ) per il lavoro generico addensato nel tempo (mietitura, edilizia pubblica, scavo di canali); il lavoro schiavile (soprattutto femminile e minorile), limitatamente alla tessitura e a servizi di tipo domestico (molitura dei cereali); l'affidamento esterno (con contratti di "affitto" o mezzadria) per la pastorizia e per coltivazioni speciali; la produzione di ambito familiare per le necessità correnti. Sempre nell'ambito amministrativo rientrano gli inventari, che descrivono il patrimonio detenuto soprattutto dai santuari: gli esempi più famosi provengono dalla capitale hittita (Boğazköy), ma se ne hanno anche dalla Siria (Qatna), dall'Egitto (si pensi al grande Papiro Harris), e altrove. La descrizione di statuette metalliche, di gioielli e pietre dure lavorate, ovviamente intesa a identificare gli oggetti e a quantificarne il valore, è utilissima a scopo iconografico. Tra i testi di carattere inventariale rientrano elenchi dettagliati di doni e doti matrimoniali (i più famosi vengono dall'archivio di el-Amarna), ed estratti di registrazioni di bottino incluse in iscrizioni reali (come l'inventario del saccheggio del santuario urarteo di Musasir effettuato da Sargon II).
Tutt'altro che rari sono i testi prodotti dagli scribi per il loro proprio addestramento (a vari livelli e specializzazioni), ovvero anche testi che derivano dall'ambito della scuola e che mantengono con l'utilizzo reale un rapporto piuttosto mediato. Facciamo alcuni esempi caratteristici. I repertori lessicali sono diffusissimi in Mesopotamia (dal III millennio a.C. in poi), ove si sistematizzano in vere e proprie "enciclopedie" di notevole ampiezza (la più celebre è detta Harra-hubullu), ma sono presenti anche in Egitto (Onomastica). Oltre a fornire indicazioni sulle tassonomie antiche, queste liste forniscono anche riferimenti precisi a singoli oggetti. In taluni casi si tratta di oggetti appartenenti a classi di materiali archeologicamente ben documentate (vasi, armi, attrezzi, pietre, metalli, ecc.) e allora si può arrivare a identificazioni tra terminologia antica e classificazione moderna. In altri casi si tratta di classi di oggetti archeologicamente mal documentabili (specie suppellettili in legno, intrecci vegetali, tessuti, ecc.) e allora l'informazione ha valore soprattutto di integrazione. I problemi matematici (e soprattutto di geometria solida) forniscono dati su attività di interesse archeologico: scavo di canali, produzione di mattoni, costruzione di murature, in genere le attività quantificabili nei tempi e nei costi (a "metro cubo" per così dire). Questi problemi sono diffusi in ambito paleobabilonese (e poi neobabilonese), ma se ne hanno indizi anche per l'Egitto (Papiro Anastasi I). Esistono poi veri e propri "manuali" tecnologici, di evidente origine e destinazione scolastica, ma che sembrano realistici e attendibili, e che comunque per la loro stessa esistenza sono indicativi di procedimenti tecnici e di trasmissione delle conoscenze tecnologiche. Naturalmente la loro utilizzabilità archeologica varia a seconda del settore trattato. Ricordiamo un testo neosumerico sulla coltivazione dei campi; alcuni testi mediobabilonesi sulla fabbricazione del vetro; un manuale hittita (Kikkuli) sull'addestramento dei cavalli, più testi ippiatrici medioassiri e ugaritici; un testo medioassiro sulla produzione di oli profumati. Anche ad ambito scolastico sembrano da assegnare testi che contengono indicazioni sistematiche sulla topografia di certi centri urbani di particolare valenza religiosa e culturale: sono noti i casi di Babilonia e Assur.
I testi letterari in senso stretto contengono informazioni di carattere culturale (in particolar modo religioso), che aiutano a inserire i reperti archeologici nel loro specifico contesto storico- culturale. Peraltro i testi che forniscono indicazioni più precise e abbondanti sono relativamente limitati. Si debbono citare soprattutto gli inni a divinità e a templi (bassa Mesopotamia neosumerica e paleobabilonese), che forniscono dati utili per la comprensione del funzionamento di edifici templari e di arredi di culto. Come caso atipico si può ricordare l'inno al carro regale (Egitto, età ramesside) che fornisce una terminologia tecnologica molto dettagliata. Affini agli inni sono le "lamentazioni" mesopotamiche sulla distruzione di città (Ur, Nippur, e anche la "maledizione di Akkad"), da cui si ricavano circostanze storiche relative a episodi di distruzione riscontrabili archeologicamente. Altra classe di testi letterari sono quei testi religiosi, specialmente egiziani (testi delle piramidi, testi dei sarcofagi, libro dei morti) che chiariscono le procedure di seppellimento e di culto funerario, con evidente riscontro nei dati archeologici sia riguardo all'edilizia funeraria, sia riguardo a corredi tombali e tracce del culto funerario. Infine, testi di carattere magico (incantesimi), presagi tratti dalla vita quotidiana (la serie babilonese šumma alu, "se una città"), liriche d'amore, testi medici, testi sapienziali mesopotamici e "insegnamenti" egiziani, raccolte di proverbi forniscono raffronti e chiarimenti utili alla documentazione archeologica relativa alla vita quotidiana (di ambito locale e familiare) e alle abitazioni e attrezzature domestiche. Tale raffronto è peraltro ancora tutto da sviluppare negli studi correnti. Un caso a parte, ma di particolare rilevanza, è costituito dall'Antico Testamento. Tenuto conto della varietà di tipologie letterarie (testi storici, profetici, poetici, legislativi) e della complessità redazionale, le informazioni sono tanto più preziose in quanto si riferiscono a una regione (la Palestina) per la quale le notizie scritte sono altrimenti assai ridotte. Per fare un solo esempio, il tempio di Salomone a Gerusalemme, che è archeologicamente non documentato, viene descritto nelle sue strutture architettoniche e nei suoi arredi cultuali con gran dovizia di dettagli. Ma il tempio salomonico è anche esempio di quella profondità redazionale alla quale si accennava: la descrizione esplicitamente riferita al "primo tempio" (costruito da Salomone alla metà del X sec. a.C. e poi distrutto da Nabucodonosor) risale però all'epoca in cui si progettava semmai il "secondo tempio" (età achemenide), che si pretendeva fondare in base al modello antico, benché di questo si avessero ricordi e documentazioni problematiche, e benché il nuovo progetto fosse assai innovativo per struttura e funzioni.
La bibliografia sulle fonti scritte è sterminata; qui si citeranno solo alcune opere che affrontano il problema della loro utilizzazione in rapporto ai dati della cultura materiale.
Imhotep: D. Wildung, Imhotep und Amenhotep. Gottwerdung im alten Ägypten, Berlin 1977.
Iscrizioni reali: S. Lackenbacher, Le roi bâtisseur. Les récits de constructions assyriens, Paris 1982; Ead., Le palais sans rival, Paris 1990.
Epigrafi private: J. Černy, A Community of Workmen at Thebes in the Ramesside Period, Cairo 1973.
Testi amministrativi: E. Stone, Texts, Architecture and Ethnographic Analogy: Patterns of Residence in Old Babylonian Nippur, in Iraq, 43 (1981), pp. 19-33; M. Civil, Les limites de l'information textuelle, in L'archéologie de l'Iraq, Paris 1990, pp. 225-32; M. Liverani, La ceramica e i testi: commercio miceneo e politica orientale, in M. Marazzi (ed.), La società micenea, Roma 1994, pp. 313-22.
Testi scolastici: A. Kammenhuber, Hippologia hethitica, Wiesbaden 1961; A.L. Oppenheim, Glass and Glassmaking in Ancient Mesopotamia, Corning 1970; K.R. Nemet-Nejat, Cuneiform Mathematical Texts as a Reflection of Everyday Life in Mesopotamia, New Haven 1993; M. Civil, The Farmer's Instructions, Barcelona 1994.
Testi topografici: A.R. George, Babylonian Topographical Texts, Leuven 1992.
Testi letterari: P. Matthiae, Il sovrano e l'opera, Roma - Bari 1994.
Testi biblici: W.G. Dever, Recent Archaeological Discoveries and Biblical Research, Washington 1990.
di Domenico Musti
Dal punto di vista lessicale "archeologia" ("archeologizzare") è termine che appare, col significato di attività di esposizione e ricerca relativa al passato, in Tucidide (VIII, 69) nel V sec. a.C. e che, dagli interpreti moderni di Tucidide, è riferito alla parte iniziale del I libro delle Storie, riguardante un passato ancora più remoto di quello che costituisce il tema centrale dell'opera. Con questo senso, conosce tappe importanti nella denominazione (῾Ρωμαϊϰή ᾿Αϱχαιολογία) delle Antichità romane di Dionisio di Alicarnasso (I sec. a.C.) o nel riferimento di uno storico come Diodoro Siculo al tema mitico delle Amazzoni (II, 46, 6). Simultaneamente con tale categoria cronologica, si poneva la necessità di allestire una metodologia che consentisse una verifica del passato, sia nel confronto con evidenze materiali, oggettuali, "archeologiche", sia nel confronto con altre fonti letterarie. È dunque proprio la storiografia contemporaneista tucididea a delineare il confine tra l'attuale e l'antico in senso lato e a porre al tempo stesso il problema di una verifica archeologica della tradizione, in primo luogo nei confronti di Omero. Quest'ultimo si presenta come fonte sicura già per Tucidide, almeno come testo da interpretare, e, quasi sei secoli dopo (II sec. d.C.), ancora per il periegeta Pausania, con una continuità significativa. Ma la verifica archeologica è criterio che mette in luce lo stesso Tucidide, quando prova a ricostruire (I, 8) le tracce della presenza di un popolo, come i Cari, nelle isole dell'Egeo. Quindi, quanto più la storiografia diventava storia contemporanea, tanto più manifestava un'esigenza di verifica critica del passato, ponendosi il problema dell'attendibilità della fonte scritta, o della tradizione orale, e del reperimento di una prova archeologica (semeion, tekmerion): in questa netta antinomia passato-presente è dunque fondata, già nella ricerca storica dell'antichità, l'esigenza di una verifica obiettiva della tradizione. In Erodoto il problema critico è in certa misura meno urgente, proprio perché la sua storiografia è tutta immersa nel flusso della tradizione orale, da un lato, e dell'autopsia, cioè della visione diretta di luoghi e monumenti, dall'altro; conta perciò su un rapporto immediato tra tradizione e oggetto e si confronta in misura minore con il diaframma rappresentato dalla testimonianza scritta. L'autopsia è, del resto, un canone adeguato alla pratica erodotea di scrittore-viaggiatore, che si tratti delle piramidi d'Egitto o delle mura di Babilonia, o di altri aspetti mirabili del mondo greco e barbarico (i thaumastà, cioè i theamata, tutto ciò che è degno di essere visto). Tucidide cerca la prova archeologica, anche in relazione alla dimensione e forma delle città greche del presente come del passato: ai posteri (I, 10) si porrà il problema dello scompenso (o, con termine moderno, dell'incommensurabilità) tra tradizione e archeologia: non diversamente dai resti dell'antica Micene, quelli di Sparta daranno assai male ai posteri l'idea della potenza (dynamis) di una città, di cui invece testimonia la tradizione (letteraria e non) e sopravvive il kleos, la "fama", mentre i resti di Atene suggeriranno, tutt'al contrario, l'immagine di una città ancora più grande di quel che la fama racconta. Si profila così già nel seno di una branca della tradizione letteraria la figura dello storico-archeologo, per quanto riguarda i grandi soggetti storici (popoli, città, perfino grandi personalità: Cari, Fenici, Micene, Sparta, Atene, Minosse, ecc.). Lo storico deve avere dunque un'esperienza autoptica, a suo modo "archeologica", quando si provi a costruire un'immagine storica sulla base di argomenti come forma e dimensioni di città, monumenti, tombe e usi funerari in genere, strade, edilizia pubblica, sacrale, privata, ecc. Dal momento in cui una storiografia greca contemporaneista si è posta un problema di ricostruzione obiettiva del passato, del volto dell'antico, si è posta anche il problema critico di valutazione della fonte scritta e orale, ammettendo che la tradizione abbia potuto dare rappresentazioni accrescitive o riduttive rispetto al reperto archeologico e l'abbia potuto fare, aggiungiamo (in termini di "verità" storica), a torto o a ragione; e noi in parte ci muoviamo, 2500 anni dopo, nella stessa problematica. Omero non è certo per noi fonte indiscussa: ma non si può negare che il confronto dei poemi omerici con la realtà archeologica di età micenea si ponga anche per noi, quando ci chiediamo se il mondo "di Omero", cioè quello da lui rappresentato, sia quello dei suoi tempi (VIIIVII sec. a.C.) o invece quello dell'epoca di cui il poeta racconta, il mondo miceneo all'incirca di quattro secoli anteriore. Il problema era stato posto con particolare vigore da H. Schliemann dal 1863, ma l'apprezzamento della testimonianza omerica è, ancora oggi, ben più positivo di quel che si potrebbe immaginare sulla base dei grandi progressi della tecnologia. Analogamente, una questione che sembrava del tutto superata, una volta posta in termini fortemente critici da K.J. Beloch, quella della validità della tradizione su un'invasione dorica del Peloponneso, sembra da trattare in maniera alquanto meno rigida di quel che una supponenza largamente diffusa lasciava ammettere fino a pochi anni fa. È ormai convinzione alquanto diffusa, di storici come di archeologi, che comunque l'età arcaica si apra in Grecia con un panorama istituzionale, urbanistico, artistico e monumentale ben diverso da quello di epoca micenea e che non si possa negare la presenza di nuove strutture sociali, anche nel modo di gestione del territorio. Alle fonti letterarie non è in ogni caso imputabile una rappresentazione dei Dori come grandi distruttori o, viceversa, come costruttori di grandi edifici, che se mai è dovuta alla esasperazione moderna del mito (nel senso di tradizione) riguardante i Dori: essi paiono costruire sulle rovine del mondo miceneo, ereditandone in gran parte la cultura, ma modificandone le forme organizzative del potere e della proprietà, le espressioni linguistiche, le forme della civiltà urbana. La storiografia greca, come la cultura greca in generale, si caratterizza per un forte coordinamento delle due categorie del tempo e dello spazio, perciò è sempre insieme racconto e descrizione di luoghi, è insomma sempre storia e geografia: una sorta di feconda nebulosa con cui si identificano la logografia e la storiografia più arcaica e da cui tendono a separarsi e a rendersi autonome, soprattutto dal IV sec. a.C. in poi (non senza precedenti arcaici adeguati al diverso livello culturale), la geografia e corografia e la descrizione di monumenti. Perciò è naturale che vadano tenuti particolarmente presenti, accanto a testi geografici, come lo Pseudo-Scilace (IV sec. a.C.), o lo Pseudo- Scimno (geografia in versi della fine del II sec. a.C., con importanti aspetti di stratificazione), in modo particolarissimo Strabone, geografo del periodo augusteo-tiberiano, autore fra l'altro di una Geografia in 17 libri da noi conservata. Si pensi quanto pesi, ad esempio, la testimonianza straboniana per la ricerca regionale e la storia archeologica dell'Italia antica, nei libri V e VI della Geografia. Ne sono tra l'altro investiti il grande tema della colonizzazione greca in Italia, perciò anche la discussione filologicoarcheologica (cioè compiutamente scientifica) della frequentazione (o anche precolonizzazione) micenea, oltre che della fondazione di vere e proprie colonie cittadine greche in età arcaica. Chi scrive ritiene che siano modi complementari o alterni di indicare frequentazioni micenee i concorrenti miti di fondazione greca o, rispettivamente, troiana sulle grandi migrazioni mediterranee del II millennio a.C., ma che, in connessione con la guerra di Troia, vero paradigma mitico, prevalga il mito di fondazione da parte di un profugo o di un gruppo di profughi troiani, là dove poi storicamente hanno prevalso genti barbare (pur se sentite come acculturate), e che invece tradizioni di fondazione da parte di reduci greci prevalgano là dove, in epoca pienamente storica, la città in questione ha un chiaro carattere greco. Naturalmente, oltre a quello etnico-culturale, ancora tanti altri problemi restano aperti nella ricca tematica coloniale, come ad esempio la definizione del ruolo mercantile o agrario di una determinata fondazione. La notizia tucididea (I, 8, 1) sui Cari e sui Fenici presenti nelle "isole" (probabilmente del Mar Egeo, cfr. 4, 1) in epoca anteriore all'avvento della talassocrazia di Minosse e l'individuazione, almeno dell'ethnos cario (maggioritario), in base alla foggia delle armi e al modo della sepoltura, esemplificano un livello di registrazione letteraria di tipici semeia o tekmeria, indizi autenticamente archeologici di quella che oggi chiameremmo cultura materiale, filtrati in qualche modo dalla tradizione letteraria. Si discute su che cosa significhi, in questo quadro e in altri affini, il richiamo a Minosse. Si è pensato possa trattarsi di allusione a una presenza micenea, ma più probabilmente Minosse sta a indicare il mondo egeo-cretese immediatamente premiceneo o un più vasto contesto egeo, poiché egli non è considerato nella tradizione come facente propriamente parte del mondo greco. Anzi, nel mito della morte di Minosse nella Sicilia occidentale, a Camico (Sant'Angelo Muxaro), sede del re sicano Kokalos, il richiamo al mitico personaggio cretese sta a indicare soprattutto un livello cronologico ‒ e culturale ‒ antichissimo della necropoli, rispetto alla cronologia dell'arrivo dei coloni greci rodio-cretesi a Gela prima e poi, per filiazione complessa, ad Agrigento e perciò nell'area agrigentina (tra VII e VI sec. a.C.). Ora, la supposta tomba di Minosse a Camico, proprio in quanto le si sarebbe, secondo la tradizione, sovrapposto un tempio ad Afrodite, sta semmai a indicare anche una presenza medio-orientale, forse più specificamente cipriota, che la menzione di Afrodite lasciava intuire e che l'archeologia puntualmente conferma, con le presenze cipriote di Milena e Caldara da tempo note, a cui si aggiungono ora quelle di Cannatello. Non si può appiattire tutta l'esperienza di traffici mediterranei del II millennio su un'indifferenziata nozione di espansione micenea; va invece ammessa la varietà strutturale del movimento mediterraneo; e ciò vale anche e in modo particolare per le origini di Roma, che sono sicuramente irrorate da presenze mediterranee micenee ed arcaiche, ma non autorizzano in alcun modo una statica e globale equiparazione di Roma a una polis hellenìs, giusta, ad esempio, la rappresentazione grecizzante di un Eraclide Pontico, noto anche nell'antichità come esempio di impostura; e queste cautele valgono anche, in generale, per le tradizioni pitagoriche che grecizzano radicalmente ‒ ma spesso precocemente ‒ le popolazioni indigene dell'Italia antica. La storia è proporzione, e perciò è indispensabile la correzione, attenuazione e riduzione della tradizione in termini accettabili. Per la storia di Roma, e in generale dell'Italia antica, andranno messi in gioco anche quegli autori di una letteratura antiquaria che fiorisce in Grecia a cominciare dal IV sec. a.C. (e a Roma almeno dal I sec.). Autori come Varrone, Plinio il Vecchio e Vitruvio sono perciò indispensabile complemento per le ricerche archeologiche sull'Italia antica e Pausania (II sec. d.C.) lo è per quanto riguarda le regioni della Grecia antica. Naturalmente va tenuto presente che la tradizione letteraria, come non costituisce un tutto unico (sì che si impone la necessità di valutare la singola testimonianza filologica), non è neanche un insieme statico di tradizioni: i miti conoscono un dinamismo, un fenomeno di crescita che porta all'estensione progressiva, nel corso del tempo, delle dimensioni, e, con esse, dei caratteri, della consistenza, della stabilità di movimenti o eventi. Le fonti più antiche testimoniano una presenza minoica in Sicilia di durata limitata cui segue un esaurimento in situ e un proseguimento altrove, mentre nelle fonti successive tale presenza si perpetua in Sicilia con caratteri mitico-storici, ponendo quindi necessariamente un problema critico. Dunque si pone sempre la necessità di una verifica critica, visto che i miti crescono nel tempo, riempiono i vuoti e cambiano i dati quantitativi e qualitativi: a questo punto, dovrebbe essere proprio l'archeologo a chiedersi se e quando la tradizione letteraria sull'epoca mitica sia accrescitiva e se e quando non sia invece riduttiva, e certo talvolta può esserlo, rispetto al fatto specifico, al movimento circoscritto, che essa tende, generalizzando, a mettere in ombra. Un chiaro esempio di una duplicità di presentazione e di impostazione dei problemi di ordine storico e cronologico, connessi con la ricerca archeologica, ce lo dà nel suo complesso l'opera storica di Tucidide che contiene almeno due grandi excursus di carattere archeologico: l'archaiologia per antonomasia (nel lessico dei moderni) che è quella che apre il I libro delle Storie (capp. 1-18) e investe il problema dei movimenti etnici in Grecia alla fine del II millennio a.C. (Pelasgi, Greci, Minosse, guerra di Troia, migrazione dorica e dintorni), e quella seconda archaiologia posta all'inizio del VI libro (capp. 1-5), che riguarda il complesso popolamento e le fondazioni coloniali di Sicilia, indicate con minuzia di determinazioni temporali, e che ruota in massima parte intorno a Siracusa, poggiando su fonti siracusane. Anche recentemente si è messa in discussione la cronologia tradizionale sia per il II che per il I millennio a.C.; il grande tema storico e cronologico del II millennio, quello del rapporto tra mondo egeo ed Egitto, che tradizionalmente era stato risolto nel senso della priorità egiziana, è stato riaperto sulla base delle cronologie accertate col carbonio- 14, che sembrerebbero dare una priorità ad alcune esperienze egee, ad esempio anticipando di 150 anni, rispetto al tradizionale 1500- 1450 a.C., l'eruzione vulcanica e la distruzione di Thera. Viceversa la cronologia del grande processo storico del I millennio, la colonizzazione greca arcaica, è stata rimessa in discussione con una prospettiva esattamente opposta alla precedente, che cioè le date tucididee per le fondazioni greche di Sicilia siano troppo alte di circa un quarto di secolo; ma l'argomento principe che si fa valere è l'interrogativo, non particolarmente perspicace, "perché mai Tucidide dovrebbe essere considerato buona fonte per la cronologia di eventi di alcuni secoli anteriori al suo tempo?". È chiaro che, con questi argomenti, è difficile anche solo avviare un'opera di revisione, che semmai può solo puntare a una verifica della coerenza interna a ciascuna delle due forme di documentazione (letteraria e archeologica) e alla possibilità di istituire un raccordo fra di esse. Ricerca storiografica e archeologica devono procedere in una prospettiva interdisciplinare, ma ciascuna con le sue gambe. Ciascuna delle due discipline e tecniche di ricerca deve sapere quel che può attendersi dall'altra e quel che non può attendersi e non deve chiederle. La sintassi concettuale è una giusta esigenza purché non diventi combinazione forzata e perciò impropria. Non si possono chiedere conferme reciproche su singoli particolari né operare immediati confronti. Ciascuno dei due tipi di documentazione ha in primo luogo un diverso rapporto col tempo; è quindi diverso il tipo di movimento che ciascuna delle due documentazioni è in grado di registrare. Spesso i reperti archeologici (e penso proprio e soprattutto a quelli ceramici) ci portano direttamente, sul piano dei processi di lunga durata, a quelle forme di arte o di civiltà che hanno altri tempi e altre cesure rispetto agli eventi politico-militari. Altre volte invece i resti archeologici si addensano intorno a un determinato momento della storia di un sito e sembrano segnalare una cesura storica che la storiografia non registra e bisogna evitare di fargliela registrare a tutti i costi. In generale si può dire che la tradizione letteraria registra le grandi arcate dello sviluppo e non le più sottili linee che l'evidenza archeologica è in grado di materializzare e visualizzare; viceversa la struttura narrativa delle fonti può talvolta condurci sul terreno dell'evento piccolo e determinato, rispetto a cui sono proprio le maglie dell'archeologia a risultare troppo larghe per catturare un fatto definito, specifico, circoscritto. Ne consegue la necessità di valutare attentamente il rapporto col tempo delle singole sequenze di evidenza archeologica e di testimonianza letteraria: quale delle due circoscriva di più il singolo evento, quale invece segnali la linea del lungo processo, della lunga durata, e perciò non possa essere invocata per riscrivere l'evento storico, come comunemente inteso, cioè l'evento politico-militare. La sommarietà e selettività della tradizione letteraria, quando comparata con la suggestiva particolarità dell'oggetto archeologico, costituisce al tempo stesso la "povertà" e la "ricchezza" della fonte letteraria; la sua sommarietà coglie le grandi linee del movimento storico, ma, proprio in forza della sua struttura narrativa, è anche spesso in grado di indicarci un fatto, la vicenda di un determinato sito o personaggio storico, i vari elementi di sutura o viceversa di cesura in quel lungo movimento. Si tratta dunque di praticare una sintassi interdisciplinare, basata su un corretto rapporto, oserei dire di "rispetto", tra le due discipline e le rispettive potenzialità e responsabilità. La testimonianza letteraria oggi appare certo più "povera" rispetto ai nuovi strumenti e alle nuove esigenze che la ricerca archeologica deriva dalle scienze esatte. Le ricerche della datazione con il carbonio-14, la termoluminescenza, ecc. pongono nuove esigenze di datazione, anche se il metodo delle scienze esatte è da invocare soprattutto quando le incertezze sono di secoli e rispetto a periodi per i quali la tradizione letteraria non ha da combattere se non con le armi deboli del mito o con le larghe maglie della memoria collettiva e della tradizione orale e con coordinate cronologiche non determinabili se non con metodi analogici e congetturali. L'archeologia quantitativa, l'archeometria vogliono dare risposte di tipo quantitativo, nella logica delle scienze naturali, dei sistemi esperti, e qui i limiti della tradizione letteraria appaiono evidenti, tanto quanto evidenti ne sono i limiti persino in quello che potrebbe sembrare il suo campo tradizionale, la ricerca etnografica, dell'individuazione di rapporti, collegamenti, continuità, sostituzioni tra etnie diverse: anche per questo aspetto l'indagine osteometrica o quella sul DNA può aiutare a porre meglio i problemi. Ma non va dimenticato che, al di là dei rapporti fisiologicamente accertabili, cioè al di là dell'etnicità genetica, c'è una costruzione storica di ogni ethnos, con le sue espressioni nell'intelligenza, nelle credenze, nelle forme di rapporto sociale, nell'educazione, che sono appunto l'oggetto della storia, intesa come grande processo culturale e non ‒ o non soltanto ‒ delle scienze positive. Il problema del confronto tra la tradizione letteraria nel suo insieme e l'archeologia è in termini troppo generali mal posto: è sempre necessario distinguere tra autore e autore e, a volte, in uno stesso autore, tra le diverse sue parti e perciò le sue diverse fonti. Quest'obbligo di distinzione e di selezione si pone ad esempio con chiarezza per le origini di Roma e la storia di Roma arcaica, nel confronto tra Livio e Dionisio di Alicarnasso. Dionisio persegue con coerenza, ma anche con caparbietà, la tesi della grecità di Roma e può così arrivare a dilatare la pur innegabile presenza greca a Roma in termini che reclamano una revisione, così come la richiede la dilatazione dell'elemento greco in tutta Italia, in un famoso capitolo del libro XX dell'epitome di Giustino a Pompeo Trogo, dove di fatto sono considerati greci quasi tutti i popoli della penisola, dalla Magna Grecia, che è ellenica storicamente e archeologicamente, a Roma, che lo è attraverso Troia, fino agli Etruschi, ai Veneti, ai Sanniti, ai Lucani ai Bruttii. È chiaro invece che i miti "crescono", proliferano, è perciò da evitare con somma cura una trascrizione immediata di ciascuno di essi in termini archeologici. Al confronto con Dionisio d'Alicarnasso, spicca il modo assai più prudente di trattare i medesimi argomenti in Livio, che non è soltanto autore di una celebre presa di posizione di metodologia critica riguardo ai primi secoli della storia romana (VI, 1, 1), ma ha anche esibito, riguardo ad aspetti specifici del grande tema Roma arcaica, posizioni più accettabili, che possiamo riassumere almeno sotto quattro grandi punti di vista: 1) il carattere solo progressivo della formazione del nucleo urbano di Roma, con una priorità del nucleo Palatino-Foro-Campidoglio e uno scaglionamento nel tempo dell'acquisizione delle altre colline, in particolare quelle orientali; 2) la netta separazione tra il momento "evandreo" (miceneo) e il momento della fondazione arcaica di Roma; 3) la relativa recenziorità dell'acquisizione di alcuni territori del Lazio, da ricostruire sulla falsariga della costituzione delle tribù rustiche; 4) una certa presenza di Etruschi a Roma, contro la visione sostanzialmente deetruschizzante di Dionisio. Tutto sommato, Livio è confermato dall'archeologia e le dà a sua volta una cornice di sviluppo razionale, anche se ci rendiamo conto che c'è qualcosa di un "circolo" in questo privilegiare una tradizione più prudente, ma è obiettivamente difficile trovare un criterio migliore di quello della intrinseca verosimiglianza, per un periodo storico che è già nella tradizione antica un campo privilegiato di riconsiderazione critica e di scetticismo metodologico sulle tradizioni anticipatrici, accrescitrici, livellatrici dell'antiquaria, da cui proprio la tradizione liviana prende le distanze. Se infatti la storiografia, come qualunque forma di testimonianza scritta, pone problemi di verifica, in modo particolarissimo li pone la letteratura antiquaria che ha la tendenza a raccogliere entro l'arco di tempo del fondatore, in generale del personaggio o dell'evento dell'epoca iniziale, anche sviluppi successivi e diversi, improntata come è dalla propensione tipologica ed etiologica (si pensi ad esempio alla tendenza varroniana a rappresentare del tutto sincrona la fondazione di Roma e la costituzione della città dei sette colli, a dispetto di ampliamenti progressivi e specifici). Può capitare che, con progressivi adattamenti dei due tipi di evidenza, si colmino le disparità della tradizione letteraria con isolate testimonianze archeologiche e viceversa: ad esempio, le scoperte di Castel di Decima (Politorium) sono servite dapprima a mostrare come l'archeologia confermasse la storiografia, cioè la sua distruzione sotto Anco Marcio nel VII sec. a.C., ma poi che se a Castel di Decima sembrano mancare necropoli del V sec. a.C., l'assenza di necropoli di questo secolo è un fenomeno più generale del Lazio; e una certa continuità, anche dopo il VII secolo, nell'abitato attenua il senso di corrispondenza. In parte la testimonianza letteraria e l'evidenza archeologica sono ‒ e devono restare, per non scadere in posizioni programmaticamente armonistiche ‒ due tipi di evidenza fra loro non immediatamente commensurabili, di cui vanno perseguite le logiche interne: quasi due parallele che si incontrano all'infinito, senza confondersi, e si sorvegliano lungo tutto il loro percorso. E soprattutto, nel ricercare la corrispondenza tra una tradizione e l'evidenza archeologica, occorre conservare il senso delle proporzioni: un frammento di ceramica è sicuramente un segno di presenza storica, ma non è prova sufficiente e immediata di un predominio politico o culturale, non avendo l'evidenza archeologica maglie così strette da catturare l'evento, a meno che non si tratti di un monumento espressamente collegato, per aspetti iconografici o epigrafici, in generale elementi commemorativi, con quell'evento o quel personaggio. D'altra parte anche la tradizione letteraria presenta i suoi peculiari e fortissimi limiti: in primo luogo i rischi derivanti dall'ingrandimento, dall'estensione analogica, dal livellamento e omogeneizzazione delle diverse fasi storiche, così come all'inverso limiti opposti, quale l'essere troppo riduttiva, quando, in omaggio a un disegno complessivo, trascura il dettaglio, l'evento abnorme, la presenza isolata e pur significativa. Lo stesso problema dell'origine degli Etruschi, che abbiamo sfiorato, è un importante terreno di verifica dei caratteri, dei limiti ‒ e comunque della necessità di una valutazione attenta ‒ della tradizione letteraria: la tradizione erodotea (I, 94) della provenienza dalla Lidia e gli stessi riferimenti alla presenza dei Tyrrhenoi nell'Egeo (si veda lo stesso Tucidide) hanno ampiamente fondato la discussione e provocato anche le repliche di impronta autoctonista di Dionisio, nell'antichità, e pur con le dovute prese di distanza da Dionisio, nei tempi moderni l'attenta rivalutazione storica delle premesse ambientali, del contesto locale, di M. Pallottino. Intensi scambi con l'Oriente mediterraneo, in epoca micenea e ancor più in età arcaica, sono evidenti e sono stati ribaditi recentemente e considerati ineludibili, ricercandosi semmai nella stessa tradizione letteraria extraerodotea, ragioni per invertire la direzione di un percorso e di un rapporto con l'Oriente egeo-anatolico che appare innegabile. Il modo in cui si colloca il tema delle origini etrusche nel quadro del capitolo lidio di una storia dei Persiani, quale è l'opera di Erodoto, esemplifica come una fonte di carattere eminentemente narrativo possa servire per la datazione e l'inquadramento storico anche di temi estranei all'argomento principale. Così, Livio (VIII, 17, 9) contribuisce alla corretta impostazione dell'aspetto cronologico delle tombe lucane di Paestum; la loro datazione, che era da porre nell'ultimo terzo del IV sec. a.C. per i primi scavatori (M. Napoli, P.C. Sestieri), nelle più recenti ricerche risulta spostata agli inizi del IV sec. a.C., in base alla convinzione, diffusa, ma mai dimostrata, che i Lucani siano venuti politicamente in possesso di Posidonia già intorno al 400 a.C. Il caso è metodologicamente emblematico: alcuni caratteri non propriamente greci di quegli affreschi tombali fanno pensare in effetti a una componente lucana presente a Paestum, ma se questa presenza si intende come un dominio politico, occorre tenere conto della probabile presenza dei Greci all'interno di Paestum suggerita dal passo liviano ancora per il tempo di Alessandro il Molosso (334-331 a.C.). Allora, delle due l'una: se la presenza lucana in queste tombe si intende come contributo di manodopera, di gusto e di tecnica pittorica, la data alta, da ultimo proposta, può essere conservata; se invece si intende che le due cose (presenza politica e presenza artigianale e tecnica) facciano tutt'uno, è veramente difficile accettare la cronologia alta (inizio del IV sec. a.C.) e un abbassamento di una settantina d'anni (cioè un ritorno alla cronologia che gli archeologi scopritori avevano proposto) diventa ineludibile. È però questo un caso in cui le fonti letterarie diventano uno stimolo essenziale a porre nei giusti termini il problema della paternità culturale e perfino etnica di quegli straordinari affreschi di interni tombali. In sintesi due canoni metodologici vanno dunque, sul tema di questo raccordo, tenuti ben presenti. Va innanzi tutto definito lo statuto di ogni singolo autore, anzi di ogni singola testimonianza, e comunque non si può immediatamente fare sboccare ogni singola testimonianza in un riscontro archeologico, né viceversa ad ogni singolo reperto va collegata una determinata testimonianza; ciò equivarrebbe a riproporre quel canone del "nucleo di verità" da ricercare in ogni singolo dato della tradizione, che è criterio ormai da tutti considerato insufficiente; è invece legittimo anzi doveroso il confronto fra la "struttura" di una tradizione letteraria (un mito, una sequenza cronologica o storica, una sequenza etnografica e così via di seguito) e la "struttura" complessiva del materiale archeologico. In termini generali, si potrebbe dire che l'archeologia abbia meno armi per verificare l'ingresso del dato storicamente nuovo, e in questo la soccorre la tradizione letteraria, mentre quest'ultima sembra meno attrezzata a vedere le persistenze e l'archeologia la soccorre soprattutto su questo terreno. Ma in realtà si tratta di una giostra a quattro posti, in questa considerazione di fonti e archeologia e di temi della continuità e della discontinuità: è vero infatti anche che a volte è proprio l'archeologia a verificare l'ingresso del nuovo e la rottura, mentre la tradizione letteraria coglie di meno i "fatti", per noi di enorme importanza, del lavoro umano, dello scambio, della epimeixia storica, fra popoli diversi, o perché non è strutturalmente capace di vederli, o perché ideologicamente non è capace di apprezzarli. Se perciò torniamo al tema storico per eccellenza, il tema fondamentale di una storiografia diacronica, quello della continuità/discontinuità (di un insediamento, di un dominio politico, di un tipo di cultura, ecc.), per poter parlare in maniera credibile di continuità o viceversa di trasformazione, bisogna assicurarsi che esse siano totalmente coerenti e grandiosamente vistose, se si pretende di asseverare con sicurezza: altrimenti, è preferibile praticare, in attesa di nuove scoperte e discussioni, l'ars nesciendi. Che però ha a suo merito e difesa di non essere puro silenzio, ma attenta e rigorosa disamina della problematica, quindi una fase della ricerca scientifica di tutto rispetto e di grande fecondità. Se non si rinuncia all'idea che ogni continuità formale significhi continuità etnica e politica, si cade nello stesso errore che si vuole combattere, quando ‒ ed a ragione ‒ si osteggia la cosiddetta lex Kossinnae, dal nome dell'archeologo e preistorico tedesco G. Kossinna per il quale ogni nuova cultura documentabile archeologicamente significava l'ingresso di un nuovo popolo, principio che egli faceva valere soprattutto nell'ambito della pre- e protostoria dei Germani. Se ci si sente più razionali negando validità assoluta a una lex che sa di visione razziale, non si deve incorrere, senza accorgersene, in un errore uguale e contrario, cioè speculare al precedente, che consiste nel ritenere che ogni continuità culturale, eventualmente verificabile a livello archeologico, significhi la negazione di mutamenti, in generale di eventi etnico-politici di qualche rilievo, compresi quei movimenti di ristrutturazione del dominio del territorio e delle relative forme organizzative (tribù) interne allo strato dominante che sembrano il minimo indispensabile; ciò vale per la questione dorica, cioè la tradizione relativa ai movimenti etnici verificatisi in Grecia alla fine dell'età micenea, per i quali si dovrà dare qualche riscontro alla tradizione letteraria, singolarmente compatta e univoca, nei tratti essenziali, sulla cesura tra epoca micenea e avvento delle società greche arcaiche (doriche, o comunque società nuove anche là dove, come in Attica e in Beozia, la tradizione non conosce un dominio di Dori). La verità, l'unico tipo di "verità" che lo storico può pretendere, è la sintassi complessiva dei dati, la ricostruzione più verosimile possibile del maggior numero possibile di dati. Un tipo di materiale del quale noi vediamo chiaramente la diversità di registro, fra la valorizzazione archeologica e la valutazione nelle fonti antiche (senza però ricavarne una conclusione di scetticismo o finanche disperazione, ma solo un ovvio invito alla prudenza), è quello della ceramica, che proprio per la sua presenza nei più diversi strati di un sito e la sua complessiva abbondanza ha la capacità di fondare una sequenza stratigrafica. Ma vanno tenute presenti almeno due cose fondamentali sul rapporto fonti letterarie-ceramica: in primo luogo per gli antichi la ceramica non è un elemento di valutazione culturale della stessa portata che per il moderno; nelle fonti antiche sono infatti scarsissimi i riferimenti alla ceramica come elemento di individuazione e identificazione di un popolo, in questo c'è un limite, ma, soprattutto, una caratteristica del pensiero antico: essa viene considerata materiale umile, di larga o universale diffusione, di scarsa portata identificativa, tranne che per ambienti storici, come Atene, in cui la ceramica o il quartiere dei ceramisti e i relativi protagonisti hanno avuto un ruolo politico e ideologico particolare. In effetti noi abbiamo chiara nozione, attraverso fonti letterarie ed epigrafiche, del ruolo politico e sociale che nell'Atene del V e IV sec. a.C. hanno l'attività, l'ambiente e lo stesso quartiere dei ceramisti, come mostrano testi di comici (Aristofane e Menandro) e di filosofi; persino un oligarchico estremo come Crizia (il capo dei Trenta Tiranni nel 404/3 a.C.) non può non celebrare, in una rapida rassegna delle caratteristiche etico-culturali del mondo antico, il ruolo del tornio ad Atene. Meno di un secolo dopo, un geografo può informarci dell'attività commerciale dei Fenici vettori di keramos attico e non a caso proprio in iscrizioni attiche (IG II/III² 463, 1668, 1672, ecc.) si ha menzione di keramos corinzio e laconico, che in Attica si rivelano categorie presenti ed evidenti. Ma tra questo uso vagamente identificativo e meramente esegetico e l'uso critico che ne è fatto dagli studiosi moderni c'è una distanza che non va sottovalutata, ma tenuta pienamente in conto dallo storico, cioè dall'archeologo-storico moderno. A caratterizzare un popolo, o comunque una cultura, da Tucidide a Strabone a Pausania, sono piuttosto il tipo delle armi, o di vestiario, o il modo della sepoltura, che servono per lo scrittore antico a distinguere tra popoli e livelli di civiltà. Il fattore guerra è nel mondo antico realmente e ideologicamente assai più presente di quanto noi ormai ci siamo abituati a pensare; così, il livello culturale e civile di un popolo che combatte con arco e frecce o (e soprattutto) con i cavalli viene sentito in genere come più arretrato, rispetto a quello oplitico (e in parte questo vale anche per il rapporto tra oplitismo e sviluppo navale, due tappe sentite anch'esse a loro volta come una sequenza e uno spezzone della linea di progresso dell'umanità). Siamo nel mondo degli ethe (hoplismou kai hestheton, dunque di armamento e di abbigliamento, semmai di forma delle case o di sepoltura), che in un passo suggestivo di Strabone (VI, 1, 2 fine), sui temi delle persistenze culturali degli stessi popoli barbari, è decisivo per la caratterizzazione dell'identità culturale e dei relativi destini (sopravvivenza o deculturazione). Se questo è un limite delle fonti antiche, e certamente lo è, è però anche un dato storicamente utilizzabile, in quanto sintomo di una diffusa coscienza che le tradizioni manuali, le produzioni di manufatti e artefatti sono più lente a trasformarsi, hanno cioè in generale una più lunga durata, delle forme di dominio e degli assetti politici e militari e non conoscono gli stessi confini; e questo è un dato che l'archeologia deve darsi ogni volta la pena di verificare e di interpretare. Ma la seconda osservazione, a proposito del rapporto fonti letterarie-ceramica, è da fare proprio sul terreno di quello che è forse il principale uso della ceramica per la ricostruzione storica, la cronologia, ad esempio della fondazione o trasformazione di un sito, di un evento, di un episodio o di un personaggio. Si può accennare a quello che ormai è un caso classico, la cronologia della fondazione delle colonie greche, che Tucidide pone all'inizio del libro VI (1-5), che deriva con ogni probabilità da Antioco di Siracusa e che ruota intorno ai cardini della fondazione di Siracusa, circa il 735-733 a.C., e di Megara Iblea, solo cinque anni dopo, cioè circa il 728 a.C. (con la conseguenza della datazione di Selinunte, posta circa 100 anni dopo, al 628 a.C.). Con questa cronologia antiocheo- tucididea contrasta, anche se di poco, la cronologia eforeo- diodorea per Megara, che ne anticipa di 22 anni la fondazione (e, corrispettivamente quella della sottocolonia megarese Selinunte) e perciò rimette in discussione la priorità siracusana. Probabilmente le oscillazioni per le fondazioni coloniali dell'Italia meridionale sono dovute proprio alla maggiore presenza complessiva, nella relativa documentazione letteraria, del filone eforeo-diodoreo. Qui si assiste a un uso che è un vero "circolo", come è stato ben messo in luce. Certamente un capitolo speciale, che sfugge spesso alla tradizione letteraria, è quello che potremmo definire delle presenze extracontestuali e che è qualcosa di diverso e in un certo senso metodologicamente più insidioso, comunque più difficile, del capitolo delle migrazioni e sostituzioni di popoli o popoli dominanti: la fonte letteraria spesso si attarda in moduli mitici o mitico-storici semplificativi e paradigmatici, con il rischio dell'analogia e dell'omologazione, a cui solo l'archeologia può contrapporre e restituire la specificità delle componenti. Accenno solo a due temi significativi che riguardano altrettante presenze (complessivamente definibili mediterranee) di elementi orientali in aree occidentali: il primo è quello della presenza greca in Etruria, con la discussione, spesso interessata a negare o ad affermare l'identità tra Pelasgi/Greci e Tirreni/Etruschi: Dionisio è interessato a distinguere, per riservare a Roma il tasso di grecità che i Pelasgi comportano e negarlo agli Etruschi, o ammettere la presenza di Greci in Etruria in epoca storica in forma marginale, come insegna la leggenda di Demarato a Tarquinia. L'altro è quello costituito dalle presenze troiane fra gli Elimi in Sicilia, da intendere come riflesso di contatti tra mondo asiano e Sicilia, che la ricerca archeologica (si pensi solo ai vasi antropomorfi presenti nelle due aree) conferma. Naturalmente il rapporto tra fonti e monumenti archeologici diventa in qualche misura più semplice quando ci si muove nel periodo classico, quando tutto è in piena luce di storia e ciò vale per il periodo classico della storia greca e per il periodo tardorepubblicano e imperiale della storia romana. Immenso è il sostegno reciproco che si possono dare fonti letterarie e monumenti archeologici, quando questi ultimi sono già di per sé datati e in grado di datare e aggiungono tanti dettagli alle nostre conoscenze, mentre, sul terreno della cultura materiale, le fonti letterarie possono dare solo parte dell'informazione necessaria. Una vera e spesso cruda evidenza sull'organizzazione economica e le condizioni sociali e materiali può risultare solo da un'analisi sistematica di una villa (si pensi allo scavo fondamentale di Settefinestre), che rappresenta il commento finalmente adeguato alle opere degli autori di res rusticae (da Catone a Varrone a Columella) e insieme ne riceve chiarimento. E altrettanto ovvio è che l'analisi di certe descrizioni periegetiche (faccio riferimento in primo luogo alla Guida della Grecia di Pausania) si confronta con il problema della veridicità autoptica dell'autore che descrive un sito e un monumento, affermando di averlo visto. Ormai abbiamo una visione diversa della credibilità del periegeta antico rispetto alle posizioni ipercritiche, o addirittura iperscettiche, di fine Ottocento o degli inizi del Novecento. Abbiamo dunque, in un discorso che non può non essere di sintesi e di grande impianto metodologico, toccato alcuni grandi temi del confronto: 1) rapporto tra fonti letterarie, evidenza archeologica ed evento storico; 2) ruolo dello strumento principe della cronologia (la ceramica) nelle fonti e nell'archeologia; 3) archeologia, fonti letterarie e cultura materiale; 4) archeologia, fonti e storia sociale. Anche la arealizzazione, cioè l'organizzazione della ricerca secondo aree storico-geografiche o storico-culturali, è da condurre con particolare rigore: l'insieme delle relazioni che le fonti evidenziano autorizza infatti a descrivere aree e circuiti che in parte coincidono con aree di espansione politica e di rapporti interstatali di cui appunto le fonti ci dicono. Importante che una ricerca sul campo come quella americana sulla Grecia e in particolare sull'Attica trovi conferme continue in Pausania e acceda a un credo nell'autore, a suo tempo così sufficientemente giudicato negli studi: oggi (stay with Pausanias, "stare dalla parte di Pausania") sembra diventato un nuovo principio regolatore e rasserenatore della ricerca archeologica! Ma l'estimatore della tradizione letteraria deve anche saperne valutare i limiti, che sono d'informazione (ed è il caso più scabroso), di ideologia (ed è fonte di indebite armonizzazioni, modificazioni, manipolazioni), ma anche semplicemente di ritmi, di tempi espositivi, di tecniche ricostruttive. Abbiamo trattato il tema del rapporto dell'archeologia con le fonti letterarie nella prospettiva della ricerca storica, lasciando da parte il capitolo immenso del rapporto tra le fonti e i monumenti dal punto di vista della resa iconografica di miti trasmessi dalla tradizione letteraria; un tema su cui vanno tenute presenti le varie opere enciclopediche, fra cui ormai spicca ed eccelle il Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae (LIMC). Anche sotto questo aspetto tuttavia si coglie l'interesse storico delle fonti letterarie, perché, oltre al rilievo esegetico, che in relazione a un monumento assume la tradizione letteraria su un mito, la sola presenza di un mito greco e la forma e i significati che questo assume sono un dato storico, indicano a pieno titolo un rapporto storico tra un ambiente che quel mito consacra e illustra e l'ambiente greco. La presenza del mito greco e troiano nei dipinti della Tomba François di Vulci e i riferimenti, anch'essi recuperabili su base letteraria, della storia di Roma (Tarquinio e Mastarna-Servio Tullio) sono altrettante prove della fecondità storica della presenza culturale greca e dell'importanza politica di Roma e non sono meno significativi delle allusioni, a mio avviso evidenti, alle situazioni interne alle città etrusche. Altrettanto vale per il mito tebano nell'altorilievo di Pyrgi, come per i riflessi del ciclo troiano e della storia di Enea nei monumenti di Lavinium, anche se hanno un rilievo storico più immediato le scoperte di Lavinium (Pratica di Mare) e un significato più generale quelle di Pyrgi o i rilievi delle urne volterrane: e l'elenco potrebbe essere infinito! Se però qui segnaliamo alcuni esempi, ciò è dovuto al fatto che tali monumenti attestano sia l'importanza del contributo della ricerca archeologica italiana, sia la cruciale vitalità del mito troiano e di quello tebano per la storia e l'archeologia e la stessa ideologia etrusca e romana. Appartiene piuttosto al cattivo uso delle fonti letterarie l'esaltazione di un aspetto solo della tradizione, l'estensione a dismisura di una sola e determinata componente storica: ad esempio, nell'ambito dei traffici e dei movimenti di individui e popoli nel Mediterraneo. Un caso classico è quello che riguarda l'espansione coloniale fenicia in Occidente e quella forma eccessiva che va sotto il nome di panfenicismo, da bocciare come tutte le interpretazioni che si definiscono con sostantivi che cominciano con pan-, che si tratti del panellenismo, del paniranismo o appunto del panfenicismo, particolarmente visibile quest'ultimo negli studi di V. Bérard sull'Odissea, che cede il passo a una ben più oculata ed equilibrata valutazione del rapporto tra racconto mitico e reperto archeologico negli studi del figlio Jean sulla colonizzazione in Sicilia e in Magna Grecia, che ha consentito di utilizzare al meglio i dati della tradizione letteraria sulle frequentazioni di epoca micenea e la colonizzazione greco-arcaica. Il tipo di insediamento dei Phoinikes (che non sembrano doversi tout court identificare con i Micenei, ma con presenze mediterranee orientali distinte, e in larga parte anteriori, nelle fonti greche più antiche), come mirabilmente descritto da Tucidide, trova riscontro nei dati reali archeologici, geografici, storici. Phoinikes è termine probabilmente da intendere in senso lato, come genti "dalla pelle brunastra" (P. Chantraine) dei paesi del Levante, e perciò sta spesso, a mio avviso, a indicare oltre che eventualmente gli abitanti della fascia costiera che comprende Tiro, Biblo, Sidone, anche più in generale popoli del Mediterraneo orientale, perciò genti dell'area siro-palestinese, cilice e cipriota. E un'altra spia di espansione fenicio-punica o cipriota nel senso largo e duttile ora illustrato, sta in indicazioni relative al culto di Afrodite, e mi riferisco in particolare alla Sicilia occidentale e nord-occidentale: la sua presenza sta a indicare non tanto presenze micenee o in generale egee quanto più specificamente presenze dall'area orientale del Mediterraneo. Come per i Micenei, anche per l'espansione dei Fenici è legittimo distinguere tra una fase precoloniale di frequentazioni e una fase coloniale di vere e proprie fondazioni cittadine. Va quindi da sé che la forma dell'insediamento-appostamento dei Fenici in posizioni commercialmente strategiche resta per questo ambiente prevalente, anche se non univoca, e in larga misura si perpetua in epoca classica. Per quanto riguarda invece l'espansione greca vi è più chiaro il passaggio a forme di colonizzazione vera e propria, nel senso della fondazione, tra VIII e VI secolo, di vere e proprie città in un modello comune e canonico nell'VIII sec. a.C. La duplicità di fasi in ambito fenicio corrisponde al passaggio da una ricerca di postazioni mercantili-strategiche, che si tengono piuttosto al margine, alla creazione di vere e proprie epikrateiai (termine, categoria e giusta visione storica che proprio le fonti greche ci tramandano), in una con lo svolgersi di processi interni al mondo fenicio e specialmente punico, cioè all'insorgere (in patria e fuori) di prospettive in senso lato imperialistiche. Inoltre, e sempre in relazione con questo sviluppo cittadino di larga portata e di rilevante varietà, l'ambiente coloniale greco procede dalla fase della migrazione a quella della colonizzazione vera e propria, nel senso di una vera società coloniale, caratterizzata da grandi dimensioni, notevole accumulo di ricchezze (in gran parte dovuto all'appropriazione di capacità lavorative e di terre di indigeni), con il risultato di squilibri all'interno e all'esterno delle città greche, che noi conosciamo proprio attraverso le fonti letterarie, ad esempio i ben noti giudizi di filosofi come Platone nella VI Epistola (sulla tryphè della società coloniale siceliota e italiota), che sono il miglior corredo illustrativo, se pur ideologicamente e moralisticamente caratterizzato, dei reperti archeologici, con le loro caratteristiche formali e il loro valore di indicatori di ricchezza. Per ciò che riguarda il movimento commerciale, e in generale di traffico nel Mediterraneo, sono proprio le fonti letterarie a parlarci di un intreccio che non ha senso trasformare in una ricerca di priorità e di preminenza dell'una o dell'altra componente. La funzione di vettori che spetta a elementi del Mediterraneo orientale, anche riguardo a merci micenee, è del resto confermata dall'archeologia (si pensi al relitto navale di Kaş, nell'Asia Minore occidentale, da cui risulta che contenitori ciprioti racchiudevano e proteggevano, nei viaggi navali, merci cipriote, micenee e di varia origine).
K.J. Beloch, Die dorische Wanderung, in RhM, 45 (1890), pp. 555- 98; V. Bérard, Les navigations d'Ulysse, I-IV, Paris 1927-29; M. Pallottino, L'origine degli Etruschi, Roma 1947; Ch.G. Starr, The Origins of Greek Civilisation, New York 1961 (trad. it. Roma 1964); J. Ducat, L'archaisme à la recherche de points de repère chronologique, in BCH, 86 (1962), pp. 165-84; J. Bérard, La Magna Grecia. Storia della colonizzazione greca nella Magna Grecia e in Sicilia, Torino 1963 (trad. it.); D. Musti, Tendenze nella storiografia romana e greca su Roma arcaica. Studi su Livio e Dionigi d'Alicarnasso, in QuadUrbin, 10 (1970); A.M. Snodgrass, The Dark Age of Greece, Edinburgh 1971; M.I. Finley, La Grecia dalla preistoria all'età arcaica, Roma - Bari 1972, 1975² (trad. it.); E. Will, La Grande Grèce milieu d'échanges. Réflexions méthodologiques, in CMGr XII (1972), pp. 21-66; G. Nenci - G. Vallet (edd.), Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole tirreniche, I-XIV, Pisa - Roma 1977- 96; P. Pelagatti, Siracusa. Elementi dell'abitato di Ortigia nell'VIII e nel VII secolo a.C., in CronA, 17 (1978), pp. 119-33, tavv. XXVI-XXXVI; D. Musti et al. (edd.), Pausania. Guida della Grecia, I-VI, Milano 1982- 96; D. Briquel, Les Pélasges en Italie. Recherches sur l'histoire de la légende, Rome 1984; M. Crawford et al., Le basi documentarie della storia antica, Bologna 1984 (trad. it.); M. Pallottino, Etruscologia, Milano 1984⁷; Id., Storia della prima Italia, Milano 1984; D. Musti (ed.), Le origini dei Greci. Dori e mondo egeo, Roma - Bari 1985, 1991²; Id., Etruria e Lazio arcaico nella tradizione (Demarato, Tarquinio, Mezenzio), in M. Cristofani (ed.), Etruria e Lazio arcaico, Roma 1987, pp. 139-53; E. Acquaro - L. Godart - F. Mazza - D. Musti (edd.), Momenti precoloniali nel Mediterraneo antico. Questioni di metodo, aree d'indagine, evidenze a confronto. Atti del Convegno Internazionale, Roma 1988; D. Musti, I Greci e l'Italia, in Storia di Roma, I. Roma in Italia, Torino 1988, pp. 39-51; Id., Strabone e la Magna Grecia, Padova 1988; E. Lepore, Colonie greche dell'Occidente antico, Roma 1989; Id., Origini e strutture della Campania antica, Bologna 1989; D. Musti, Modi e fasi della rappresentazione dei Fenici nelle fonti letterarie greche, in CFP II, Roma 1991, II, pp. 161-68; D. Musti et al., La transizione dal miceneo all'alto arcaismo. Dal palazzo alla città, Roma 1991; D. Musti, Livio e l'archeologia delle origini, in Livius. Aspekte seines Werkes, Konstanz 1993, pp. 111-24; C. Renfrew, The Roots of Ethnicity, Archaeology, Genetics and the Origins of Europe, Rome 1993; A. Giardina, Italia antica. Storie di un'identità incompiuta, Roma - Bari 1994; I. Malkin, Myth and Territory in the Spartan Mediterranean, Cambridge 1994; G. Vallet, Uno storico fra gli archeologi, in L. Breglia (ed.), L'incidenza dell'antico. Studi in memoria di E. Lepore, II, Napoli 1996, pp. 7-14.
di Maria Letizia Lazzarini
L'epigrafe per la sua stessa definizione (ἐπί γϱάφειν "scrivere sopra") è una qualunque forma di scrittura su materiale durevole (pietra, metalli, ceramica, vetro, legno, ecc.) articolata secondo un sistema grafico compiuto. Sua fondamentale caratteristica, che la distingue da altri tipi di documentazione che l'antichità ci ha tramandato, è quella di essere "immediata", poiché anche a distanza di secoli giunge nella forma in cui il suo estensore l'ha concepita e in cui è stata recepita dal suo originario fruitore. Per poter essere utilizzata come fonte storico-archeologica l'epigrafe deve essere correttamente letta, integrata nelle eventuali lacune (ciò va fatto solo qualora sussistano seri presupposti scientifici per poter compiere tale operazione), inquadrata cronologicamente, geograficamente, tipologicamente e interpretata nella sua globalità. La massima attenzione va quindi tributata, oltre che al testo in sé, anche al supporto (con cui l'iscrizione è intimamente legata, perché per lo più con esso originariamente concepita), al luogo e ai contesti di rinvenimento. Occorre a questo proposito determinare se l'oggetto iscritto è stato rinvenuto nella sua giacitura primaria o se è stato, come spesso accade, oggetto di reimpiego in epoche successive. Talvolta tramite l'esame del tipo di scrittura, della lingua e del dialetto, dell'onomastica, dei formulari usati si può ricostruire la provenienza di un'epigrafe, anche nel caso in cui se ne ignori totalmente l'origine. Elemento di fondamentale importanza per l'utilizzazione di un documento epigrafico è la sua datazione. I metodi più attendibili e anche più precisi, che talora consentono la datazione all'anno, se non al giorno, sono quelli interni al testo stesso. Oltre i casi in cui la data sia esplicitata nel testo mediante un sistema rapportabile alle cronologie correnti, può essere utile riferimento la menzione di magistrati e sovrani con le loro titolature, di personaggi ed eventi altrimenti noti. In mancanza di questi dati, riscontrabili solo in epigrafi di una certa complessità, assumono importanza ai fini della datazione altri elementi, quali l'aspetto della scrittura, che, soprattutto nelle iscrizioni su pietra e bronzo, predilige lettere capitali, che subiscono nel tempo una precisa evoluzione, legata anche al gusto dell'epoca che le ha prodotte. Il criterio paleografico è maggiormente valido per le iscrizioni di quelle località che possono offrire un vasto materiale di confronto. Da non sottovalutare, qualora siano presenti, i nomi propri. Gli elementi che li compongono (valga per tutti l'esempio del nome latino) possono infatti subire evoluzioni nel corso del tempo. Alcuni nomi, inoltre, entrano palesemente in uso in seguito a determinati eventi storici o culturali. Altro aspetto importante nell'epigrafe è quello formulare. Contrariamente alla piena libertà del linguaggio letterario, ogni tipo di iscrizione presenta formule ricorrenti, che ne semplificano la stesura e la comprensione e che variano nelle varie epoche. Ovviamente tutti questi elementi consentono datazioni ad ampie fasce cronologiche. Sterminato è il numero di iscrizioni che ci sono pervenute dal mondo classico: ciò è comprensibile se si considera l'ampio raggio d'uso del documento epigrafico nell'antichità. Nel valutare la documentazione a nostra disposizione bisogna tuttavia tenere presente che essa è frutto da un lato di una selezione a monte (solo alcuni testi si incidevano su materiale durevole) e dall'altro della selezione operata dal caso, che ne ha determinato il rinvenimento; né bisogna dimenticare che il materiale è in continuo incremento e che nuovi rinvenimenti potrebbero alterare valutazioni globali e dati statistici. Dei vari settori della ricerca archeologica cui i testi epigrafici forniscono un sostanziale apporto saranno qui presi brevemente in esame solo i più significativi.
Utili informazioni possono dare le iscrizioni sulla configurazione dei territori in antico, sul loro assetto e sulla rete della viabilità. Il cippo, che già per sua natura ha una funzione segnaletica e delimitante, se iscritto può ragguagliare su confini interstatali, intercittadini e, nell'ambito di un centro abitato, sui limiti tra aree sacre e pubbliche e tra i vari settori di queste ultime. Più precisi dettagli sulla disposizione di lotti e strade possono essere forniti da iscrizioni di tipo catastale, che possono essere meramente descrittive, come le famose Tavole di Eraclea (due tavole bronzee contenenti quasi trecento righe di scrittura databili al IV-III sec. a.C. che ragguagliano minuziosamente su una lottizzazione di terreni sacri e sui loro limiti tra le vie e i canali, ridisegnati per iniziativa della città), o nelle quali la scrittura ha funzione esplicativa di una rappresentazione grafica, come le iscrizioni che accompagnano la grande pianta incisa su tavola di marmo con la divisione in appezzamenti redatta nel 77 d.C. al momento della deduzione della colonia di Arausio (Orange), documentando la confisca delle terre fertili alle popolazioni locali. La viabilità trova ampia attestazione nei miliari, che, se rinvenuti in situ o comunque non lontano dalla positura originaria, ci forniscono i punti principali dei tracciati stradali e talora anche le distanze tra un centro e l'altro. Una funzione analoga svolgono gli itinerari antichi, di cui alcuni (come, ad es., i noti bicchieri argentei di Vicarello, con le tappe del percorso Cadice-Roma) sono iscritti su oggetti di vario tipo. È quasi superfluo ricordare, infine, che il documento scritto è in molti casi conferma o unico indizio per l'identificazione di centri antichi, di aree, di santuari e per l'ubicazione di edifici pubblici e privati. A quest'ultimo scopo rispondono anche le iscrizioni che fungono da didascalie a rappresentazioni grafiche, quali, ad esempio, la pianta marmorea di Roma di età severiana (la cd. Forma Urbis) o il mosaico topografico tardoantico di Antiochia sull'Oronte.
Le iscrizioni relative a questo settore sono particolarmente importanti, in quanto maggiormente legate alla temperie politica che le ha prodotte. Nella loro valutazione va tenuto pertanto conto della funzione di propaganda e di immagine che indubbiamente dovevano svolgere. Nella Grecia di età arcaica e classica i grandi monumenti di carattere pubblico e sacro sono considerati patrimonio della comunità; pertanto, più che recare iscrizioni che informino, come avviene successivamente, su singoli promotori delle opere stesse, sono spesso affiancati da rendiconti incisi su pietra (ne esistono, ad esempio, per le grandi costruzioni ateniesi del V sec. a.C. ‒ i più dettagliati sono quelli dell'Eretteo ‒, per il tempio di Apollo a Delfi, per il Didimeo di Mileto, ecc.) che, ragguagliando sulle modalità di appalto ed elencando in dettaglio le entrate e le uscite annue, consentono di calcolare il costo delle varie opere e di conoscere le fonti di finanziamento, il tipo di materiale usato, la tecnica di esecuzione, il grado di specializzazione, l'estrazione sociale e l'organizzazione della mano d'opera e, talora, il nome dell'architetto. Frutto di un radicale mutamento di mentalità, che si verifica a partire da Alessandro Magno, è la comparsa di iscrizioni a grandi lettere ben visibili, talora rese più evidenti applicando il bronzo nei solchi, poste direttamente sui monumenti, in cui sovrani, imperatori, magistrati ed evergeti privati, promotori e finanziatori della costruzione di nuovi edifici o restauratori di vecchi, affidano ai contemporanei e ai posteri la memoria del loro operato. Queste iscrizioni, spesso databili all'anno e talvolta menzionanti le circostanze che hanno condotto all'erezione dei monumenti stessi, sono particolarmente utili per la ricostruzione delle fasi edilizie degli edifici, per l'identificazione degli stessi, per l'interpretazione di eventuali scene figurate e, più in generale, per l'analisi del rapporto tra potere politico e opere pubbliche.
L'epigrafe costituisce un importante elemento per la cultura storico- artistica, in quanto consente talora di attribuire una paternità ad opere d'arte e di artigianato. L'uso dell'artista di apporre la propria firma all'oggetto prodotto si riscontra fin dalle prime manifestazioni della scrittura: l'esempio più antico nell'orizzonte delle civiltà classiche risale infatti alla seconda metà dell'VIII sec. a.C. e appartiene a un ceramista. Abbastanza precoci sono anche le firme degli scultori, attestate dalla fine del VII sec. a.C., cui si affiancano via via quelle di incisori di gemme e di monete, toreuti, pittori, architetti, mosaicisti, artigiani del vetro. Le espressioni usate dall'artista per indicare la paternità di un'opera vanno da termini generici quali "il tal fece", "opera del tale" a termini più mirati, che possono attenere alla specificità del settore (pinxit, sculpsit, ecc.) o al materiale usato (chalkourgein per il bronzo, lithourgein per la pietra, ecc.); ma in taluni casi ricorrono termini che ragguagliano anche sulle tecniche di esecuzione (particolarmente articolata è, ad esempio, la terminologia ricorrente nelle firme dei mosaicisti). Possono risultare utili ad una migliore comprensione delle opere anche iscrizioni di altro genere, che a queste talora si accompagnano. Un'epigrafe ci può infatti ragguagliare sulla funzione di una statua o di un rilievo (votiva, funeraria, onoraria), sul tipo di committenza (pubblica, privata, sacra), sull'oggetto della raffigurazione (divinità, gruppi familiari, singoli personaggi, che possono essere sovrani, magistrati, sacerdoti, atleti, letterati, ecc.). È possibile pertanto talvolta, soprattutto nell'ambito della scultura, dedurre dalle sole iscrizioni in quale tipo di rappresentazione fosse specializzato ciascun artista e quale fosse il suo committente preferenziale. Gli scultori, inoltre, nella firma spesso aggiungono al proprio nome anche il patronimico e di norma, quando lavorano fuori della patria, indicano il loro etnico: ciò consente da un lato di collocare geograficamente le principali scuole di scultura delle varie epoche e dall'altro di ricostruire famiglie di scultori che si tramandano l'arte per varie generazioni.
Prezioso è l'apporto dell'epigrafia anche in questo settore di ricerca, cui è stata giustamente tributata una notevole attenzione negli ultimi anni. Il materiale che offre un più complesso campo di indagine è quello ceramico, già da età molto antica oggetto di produzione seriale, che tuttavia solo a partire dal V sec. a.C. presenta epigrafi impresse a stampo. Lo scopo di queste bollature, e di conseguenza l'informazione che se ne può trarre, varia a seconda delle classi di oggetti. In quelli di uso domestico, quali la ceramica da mensa e le lucerne, ricorrono essenzialmente bolli con il nome del fabbricante, che consentono tuttavia di valutare anche mole produttiva e diffusione del prodotto. Assai più complesso è il problema delle grandi anfore da trasporto, che fanno parte di un ciclo produttivo strettamente legato a quello dei prodotti in esse contenuti e oggetto di esportazione e di commercio. Fra i filoni commerciali a più ampio raggio, i bolli stampigliati sulle anse consentono di seguire, ad esempio, quello del vino rodio, che in età ellenistica raggiunge praticamente tutto il bacino del Mediterraneo e che si svolge sotto il diretto controllo delle autorità cittadine a garanzia delle misure e dei contenuti, come indica la presenza nei bolli dell'emblema della città e del nome del magistrato eponimo, accanto a quello del fabbricante. Di grande interesse sono le iscrizioni relative al numeroso materiale anforario romano di età repubblicana e imperiale, per il trasporto sia del vino che dell'olio, che spesso recano il nome del fabbricante stampigliato sull'ansa, ma talvolta consentono di ampliare la nostra informazione, potendosi leggere il nome del trasportatore sul tappo o dipinto sull'anfora stessa, insieme ad altre annotazioni riguardanti il contenuto, la quantità, ecc. Processi produttivi più complessi sono talora evidenziati da bolli di contenuto più esteso, in cui, oltre al nome del padrone della fornace, compare anche quello dell'esecutore materiale dell'oggetto, di cui, attraverso l'onomastica, è possibile individuare la condizione. Queste produzioni a più ampio raggio risultano spesso legate a latifondi, in cui le esigenze commerciali sono determinate da un'ampia produzione agricola. Altro interessante settore è infine quello dei materiali da costruzione, quali tegole, coppi, mattoni. Attraverso i bolli è possibile distinguere le officine pubbliche da quelle appaltate a privati o gestite da santuari e talora apprendere a quale edificio i laterizi fossero destinati. Si segnalano in quest'ambito i bolli di mattone romani, che, accanto ai consueti elementi che consentono di seguire la dinamica della produzione, presentano talora date consolari, fondamentali per la datazione degli edifici in cui i mattoni sono stati impiegati. In generale le produzioni doliari evidenziano l'intensità di rapporti tra industria laterizia e industria edilizia. Si può affermare, in conclusione, che il dato archeologico e il dato epigrafico, debitamente confrontati e integrati, consentono di fornire allo studio dell'antichità una maggiore concretezza di informazione, una più precisa determinazione spaziale e temporale, un più attento esame dei fenomeni politici, economici, sociali, religiosi e pertanto un migliore e più articolato inquadramento storico.
In generale: M. Guarducci, Epigrafia greca, I-IV, Roma 1967-78; I. Calabi Limentani, Epigrafia latina, Milano 1991⁴.
L'epigrafia come fonte topografica: G.A. Mansuelli, Geografia e topografia storica, in P.E. Arias (ed.), Enciclopedia classica, X, 3, Torino 1957, pp. 234-38; A. Piganiol, Les documents cadastraux de la colonie romaine d'Orange, Paris 1962; A. Uguzzoni - F. Ghinatti, Le tavole greche di Eraclea, Roma 1968. Rendiconti di lavori pubblici: IG, I³, 433-97 (Attica); A. Rehm - R. Harder, Didyma, II, Berlin 1958, 20-64a; J. Bousquet, Corpus des inscriptions de Delphes, II, Paris 1989.
Per alcuni esempi di iscrizioni su edifici monumentali: G. Alföldi, Studi sull'epigrafia augustea e tiberiana di Roma, Roma 1992.
Firme di artisti: E. Löwy, Inschriften griechischer Bildhauer, Leipzig 1885; J. Marcadé, Recueil des signatures des sculpteurs grecs, I-II, Paris 1953-57; M. Donderer, Die Mosaizisten der Antike und ihre wirtschaftliche und soziale Stellung, Erlangen 1989; Id., Die Architekten der späten römischen Republik und der Kaiserzeit. Epigraphische Zeugnisse, Erlangen 1996.
Epigrafi su materiale fittile prodotto in serie: J.-Y. Empereur - Y. Garlan (edd.), Recherches sur les amphores grecques, Athènes 1986; W. V. Harris (ed.), The Inscribed Economy. Production and Distribution in the Roman Empire in the Light of Instrumentum Domesticum, Ann Arbor 1993; Epigrafia della produzione e della distribuzione. Actes de la VII Rencontre franco-italienne sur l'épigraphie du monde romain, Rome 1994.
di Francesca Romana Stasolla
L'archeologia tardoantica e medievale si avvale di svariati tipi di fonti letterarie, che da un lato stimolano la ricerca archeologica, altrove contribuiscono all'interpretazione dei dati materiali, sempre comunque costituiscono occasione di verifica e di confronto dei risultati del lavoro sul campo. Nel corso del tempo, il dibattito sul loro uso ha a lungo alternato momenti di fiducia, talora incondizionata, nei confronti dell'attendibilità di alcune fonti a episodi di sottovalutazione del loro apporto, specie se non coincidente con le risultanze della ricerca archeologica. Paradigmatica a questo proposito è l'analisi della presenza vandala nell'Africa settentrionale, ritenuta devastante dalla storiografia contemporanea e rivalutata proprio dalla ricerca archeologica, soprattutto dall'analisi dei contesti produttivi e dei flussi commerciali nel Mediterraneo. In realtà l'attendibilità delle fonti dipende non solo dalla precisione dei compilatori, quanto piuttosto dagli scopi per cui sono state redatte, oltre che dalla conoscenza che i fruitori potevano avere delle località trattate: l'orizzonte geografico pesa infatti in un testo quanto quello cronologico. Ci si orienta pertanto verso un uso controllato e critico delle fonti letterarie, nella consapevolezza della sostanziale casualità del loro tramandarsi, che spesso comporta l'impossibilità di confrontare fonti coeve, e di una gerarchia di importanza dei temi trattati spesso difforme dall'odierna. Per il periodo tardoantico e altomedievale un apporto determinante è dato dalle fonti cristiane, spesso di ambito ecclesiastico. Per lo studio dei resti paleocristiani sono fondamentali gli "itinerari", guide sintetiche ad uso dei pellegrini che visitavano i luoghi santi, le cui coordinate topografiche sono generalmente attendibili, almeno per gli esempi più antichi, e che pertanto costituiscono strumenti preziosi per l'analisi e l'individuazione di monumenti cristiani e delle loro caratteristiche. Spesso testimoniano anche dell'incidenza nel tessuto urbanistico e toponomastico delle strutture di età romana, utilizzate come punti di riferimento e delle quali alcuni compilatori annotano lo stato. I più antichi sono gli itinerari per la Terra Santa, quali l'Itinerarium Burdigalense (IV sec.), che illustra il percorso da Bordeaux a Gerusalemme e ritorno via Roma, la più nota Peregrinatio ad loca sancta della monaca Egeria, della fine del IV secolo, che descrive accuratamente i luoghi di culto cristiani di Gerusalemme e quelli di varie località dell'Asia Minore, e il più tardo Itinerarium Antonini Placentini (seconda metà del VI sec.), che comprende anche regioni dell'Arabia e dell'Egitto. Altrettanto varie sono le relazioni di epoca crociata, quali la Descriptio Terrae Sanctae di Giovanni di Würzburg e il Libellus de locis sanctis di Teodorico. La topografia cristiana di Roma, soprattutto quella cimiteriale, molto deve a tali fonti che, seppur non anteriori al VII secolo, e che quindi tengono conto solo dei monumenti ancora visitabili all'epoca o comunque dei quali si conservava la memoria, sono compilazioni degne di fede, determinanti per la ricostruzione dell'assetto topografico delle catacombe e delle basiliche subdiali. I più importanti itinerari sono il De locis sanctis martyrum quae sunt foris civitatis Romae, la Notitia ecclesiarum urbis Romae, entrambi della metà del VII secolo, il cosiddetto Itinerario di Einsiedeln, di età carolingia, che tra l'altro riporta la descrizione delle mura di Roma tra fine VIII e IX secolo, l'Itinerario Malmesburiense, a noi noto solo in una versione di XII secolo, ma che è sicuramente più antico. All'archeologo è particolarmente utile anche la conoscenza delle Sacre Scritture, dei Vangeli apocrifi e dei testi di normativa ecclesiastica (Didachè, Tradizione Apostolica, ecc.) che contribuiscono alla comprensione dei resti architettonici legati alla liturgia. Informazioni indirette sugli edifici di culto si ricavano anche dagli scritti degli autori dei primi secoli del Cristianesimo (tra gli altri, Eusebio di Cesarea, Paolino da Nola, Prudenzio), oltre che dalle Passiones, soprattutto in merito al contesto in cui si svolgevano i processi subiti dai martiri, sovente compendiate dai martirologi. Di fondamentale importanza per la topografia cimiteriale paleocristiana di Roma risultano i calendari che vanno sotto il nome di Depositio martyrum e Depositio episcoporum, inseriti nel Cronografo romano del 354, utilmente completati dai sacramentari e, per la localizzazione di alcuni edifici di culto, da sinassari e menologi. I canoni conciliari contengono informazioni sulle modalità liturgiche e dei riti funerari, mentre le cronache monastiche illustrano le committenze e le modalità architettoniche dei complessi ai quali si riferiscono. La conoscenza della topografia urbana di alcuni centri può giovarsi delle informazioni contenute nei cataloghi vescovili, redatti in alcune diocesi allo scopo di ricordare e sottolineare le opere dei vari presuli. Il più noto è il Liber Pontificalis della Chiesa di Roma che, al di là degli intenti celebrativi, fornisce una serie di indicazioni topografiche e consente di riconoscere nella stratigrafia dei monumenti le committenze papali. Inoltre, con il passaggio ai vescovi di funzioni amministrative a cominciare dall'Alto Medioevo, vengono annotati anche lavori di natura non ecclesiastica, come la costruzione e il restauro di acquedotti, ponti, magazzini, ecc. Le biografie di vescovi e sovrani, pur nel limite dell'intento celebrativo che talora conduce all'enfatizzazione delle gesta del personaggio al quale si riferiscono, rappresentano una fonte talora indispensabile per stabilire le relazioni tra dato archeologico o monumentale e committente, oltre a fornire eventualmente ulteriori informazioni in merito alla storia costruttiva delle strutture menzionate e all'assetto urbano. L'attendibilità di tali fonti è ovviamente legata all'autore e ai suoi intenti celebrativi o denigratori nei confronti di personaggi e di popolazioni. Generalmente preziosi risultano i riferimenti indiretti, che esulano da tali intenti, e le coordinate topografiche, sovente utilizzate in modo corretto proprio per avallare l'autenticità di un racconto. La conoscenza delle popolazioni germaniche è affidata, oltre che alle fonti romane con esse in netto antagonismo, alle storie nazionali, quali l'Historia Langobardorum di Paolo Diacono (VIII sec.) e l'Historia Francorum di Gregorio di Tour (VI sec.), e alle raccolte di testi legislativi. Questi, insieme ai codici Giustinianeo e Teodosiano, facilitano l'interpretazione di alcuni dati archeologici, ad esempio in merito al panorama urbanistico, a patto di accettarne l'uso come fonte a posteriori rispetto al dato archeologico, come sanzione normativa di usi ormai entrati nella prassi e quindi attestati già in epoca anteriore (ad es., nel caso delle sepolture in urbe). Nel mondo bizantino o di influenza bizantina le fonti letterarie, nella rarità della documentazione archivistica, rappresentano uno strumento prezioso per chi opera sul campo, soprattutto per l'epoca protobizantina. Nel gran numero di testi, molti dei quali raccolti nel Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, particolarmente utilizzati al fine della ricostruzione archeologica sono il De aedificiis di Procopio di Cesarea (VI sec.) e il De caerimoniis aulae Byzantinae di Costantino VII Porfirogenito (X sec.). La complementarità tra ricerca storiografica e indagine archeologica è stata evidenziata soprattutto nei lavori sull'apparato difensivo e sull'organizzazione territoriale di età giustinianea e immediatamente successiva, grazie alle ricerche di superficie condotte sulla scorta delle opere di Procopio, di Agazia, di Menandro Protettore, oltre che alla trattatistica militare. Per i secoli successivi, il panorama letterario si presenta meno omogeneo, sia sul piano geografico che tipologico, così da non poter costituire un supporto altrettanto valido per l'archeologia. Molte fonti tardoantiche e medievali sono rintracciabili nella struttura tripartita (Scriptores, Diplomata, Leges, successivamente affiancati dalle Antiquitates) dei Monumenta Germaniae Historica, la cui edizione consente l'accesso a un buon numero di testi. Nel pieno Medioevo, con la più ampia diffusione della pratica scrittoria, anche la tipologia delle fonti letterarie si parcellizza. Se da un lato aumenta la produzione di testi, con il vantaggio di avere più informazioni, dall'altro la collazione fra opere diverse per spirito e intenti richiede un approccio maggiormente critico. Inoltre, la mole delle fonti archivistiche, spesso più puntuale in merito ai singoli dati di rilevanza archeologica, si affianca e talora prevale sui testi letterari. Al Medioevo avanzato appartengono le cronache cittadine e notarili, la storiografia "pubblica" e, a partire dalla fine del XII secolo, gli statuti di alcuni centri urbani. Questi ultimi danno anche preziose informazioni sui contesti produttivi, nell'analisi dei quali risulta fondamentale la trattatistica di tipo tecnico, come De coloribus et artibus Romanorum di Eraclio (XI sec.) e il più tardo Li tre libri dell'arte del vasaio di G. Piccolpasso (XVI sec.).
R.Ch. van Caenegem - F.L. Ganshof, Kurze Quellenkunde des Westeuropäischen Mittelalters. Eine typologische, historische und bibliographische Einführung, Göttingen 1964; La storiografia altomedievale. Atti della XVII Settimana CISAM (Spoleto, 10-16 aprile 1969), Spoleto 1970; M. de Boüard, Manuel d'archéologie médiévale, Paris 1975, pp. 159-61; P. Testini, Archeologia Cristiana, Bari 1980², pp. 3-36; J. Karayannopulos - G. Weiss, Quellenkunde zur Geschichte von Byzanz (324-1453), Wiesbaden 1982; G. Arnaldi, Cronache con documenti, cronache "autentiche" e pubblica storiografia, in G. Zanella (ed.), Storici e storiografia del Medioevo italiano, Bologna 1984, pp. 111-37; O. Capitani, La storiografia altomedievale: linee di convergenza della critica contemporanea, ibid., pp. 79-110; F. Winkelmann - W. Brandes, Quellen zur Geschichte des frühen Byzanz (4.-9. Jahrhundert). Bestand und Probleme, Amsterdam 1990; P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma 1991; E. Zanini, Introduzione all'archeologia bizantina, Roma 1994, pp. 35-48.
di Maria Isabella Marchetti
Le epigrafi di età tardoantica e medievale costituiscono una ricchissima fonte di dati utili alla ricostruzione storica del contesto archeologico dal quale provengono e di quello socio-culturale in cui venivano utilizzate. Se le notizie che possono essere acquisite dipendono molto dal tipo di iscrizione, la loro quantità è al momento dipendente anche dallo stato di avanzamento degli studi. Mentre l'epigrafia cristiana, sia in Italia che in tutto il bacino del Mediterraneo, può contare su più di un secolo di ricerche e su numerose sillogi (tra le fondamentali: Inscriptiones Latinae Urbis Romae, Roma 1856 ss.; Inscriptiones Latinae Christianae Veteres, Berlin 1923-31; Sylloge Inscriptionum Christianarum Veterum Musei Vaticani, Helsinki 1963; Inscriptiones Christianae Italiae, Bari 1985 ss.), più giovane e in fase di sviluppo è quella medievale, che ha visto l'avvio di raccolte in alcune regioni, quali la Francia (Corpus des inscriptions de la France médiévale, Poitiers 1969 ss.), la Germania e l'Austria (Die deutschen Inschriften, 1942 ss.), mentre per l'Italia si attende l'uscita del Corpus ideato dal Centro di Studi sull'Alto Medioevo di Spoleto. Tra le epigrafi cristiane le più numerose sono quelle funerarie. Questo tipo di iscrizione ha le prime attestazioni nelle catacombe di Roma già tra la fine del II e il III sec. d.C., per proseguire poi in età tardoantica, quando è molto frequente anche nei sepolcreti sub divo. Il testo, inciso su una lastra di marmo o di altra pietra, graffito, dipinto (a carboncino sulle tegole o sull'intonaco di chiusura della sepoltura), oppure a mosaico, presenta inizialmente un formulario estremamente scarno, con una stringata formula di saluto, un brevissimo riferimento escatologico e il nome del defunto; a partire dall'età costantiniana il contenuto si fa via via meno sintetico, aggiungendo una maggiore quantità di informazioni sul defunto. Dal punto di vista strettamente archeologico, queste iscrizioni sono particolarmente utili quando vengono trovate in situ, poiché l'analisi paleografica e del formulario consente di definire indirettamente la cronologia della sepoltura; spesso il riferimento al luogo di deposizione di un martire o i graffiti devozionali sulle pareti accanto ad esso hanno consentito di identificare la tomba del martire venerato (ad es., l'ipotizzata sepoltura temporanea degli apostoli Pietro e Paolo nell'area cimiteriale presso la basilica di S. Sebastiano sulla via Appia). D'altro canto tali epigrafi hanno fornito elementi molto utili a una maggiore conoscenza della religiosità dei primi cristiani (attraverso le formule escatologiche), dell'organizzazione della gerarchia ecclesiastica dei primi secoli (già nelle più antiche compaiono le cariche quali praesbyter ed episcopus), dei sacramenti e dei riti (attraverso i riferimenti al battesimo, all'eucarestia, al refrigerium). Inoltre, hanno consentito la raccolta di dati statistici sulle popolazioni (fondamentali in questo senso gli studi sull'onomastica), sull'età in cui si contraeva il matrimonio, sulla lunghezza media della vita e infine sulla normativa vigente per quanto riguarda l'inviolabilità delle sepolture (continuano ad essere presenti infatti le formule deprecatorie). L'uso generalizzato dell'epitaffio funebre venne interrotto durante l'Alto Medioevo, quando è comunque documentato in ambito pontificio e alla corte longobarda, per riprendere, almeno per le classi più abbienti, all'inizio del Medioevo con le lastre tombali inserite nei pavimenti delle chiese o con le iscrizioni sui monumenti funebri. L'epigrafia cristiana è costituita anche da un numero minore, ma altrettanto rilevante, di iscrizioni monumentali votive e dedicatorie. Si tratta di quei testi d'apparato redatti per la dedica degli edifici di culto, per la loro decorazione o restauro (anche parziale), opere queste dovute all'evergetismo dei vescovi e dei pontefici, ma anche a quello di semplici fedeli, che contribuivano economicamente a seconda delle proprie disponibilità. Queste iscrizioni, talora in versi, sono per lo più redatte in scrittura capitale su lastre o elementi architettonici, quali gli architravi, in marmo o pietra; se in mosaico, sono invece inserite alla base delle partiture decorative dei catini absidali o degli archi trionfali (basilica di S. Maria Maggiore a Roma), o in controfacciata (basilica di S. Sabina), oppure nella decorazione pavimentale: a Grado ad esempio i pavimenti di alcuni ambienti annessi alla chiesa di S. Maria delle Grazie sono stati donati da persone di diversa estrazione sociale, tra le quali compaiono alcuni soldati. In questi casi sono preziose per l'archeologo e lo storico dell'arte le informazioni sulla cronologia di costruzione dell'edificio e/o della decorazione musiva (desunta evidentemente dal nome del papa e del vescovo), così come le notizie sugli eventuali interventi posteriori di restauro o di integrazione, e molte sono le riflessioni suscitate riguardo ai modi d'intervento dei presuli al momento della liturgia di dedica e consacrazione degli edifici di culto. Se durante l'Alto Medioevo si assiste a una flessione della produzione epigrafica monumentale, con l'inizio del Medioevo in molte città italiane, come Pisa, Salerno o Milano, si nota una nuova fioritura che attesta queste epigrafi non solo nelle chiese, dove venivano esposti i privilegi pontifici (le cd. "carte lapidarie"), ma anche nelle piazze e sui monumenti pubblici. Un altro genere di iscrizioni è quello devozionale: un fedele o un pellegrino in visita a un luogo di culto, spesso un santuario, affidava a un brevissimo testo la propria preghiera. Questo tipo di iscrizione è per lo più graffita con uno strumento appuntito direttamente sull'intonaco di una parete, anche se affrescata, o su quello di chiusura di un loculo. Il formulario è estremamente sintetico e comprende il nome del pellegrino, una formula acclamatoria e la richiesta di una preghiera. Anche in questo caso i dati desunti dall'onomastica sono molto illuminanti circa la provenienza dei pellegrini o la loro estrazione sociale: sulle pareti del santuario di S. Michele Arcangelo a Monte Sant'Angelo sul Gargano tra la seconda metà del VII secolo e l'869 si è formato un palinsesto di iscrizioni dei numerosissimi pellegrini, i cui nomi hanno consentito di riconoscere le loro origini longobarde, franche, anglosassoni e romane. Per quanto riguarda le iscrizioni sugli oggetti la presenza di un testo, sia pure brevissimo, ha contribuito in modo determinante alla definizione non solo della sua funzione, ma anche dell'ambito culturale di produzione e della sua area di diffusione: è il caso delle cinture, le cui proprietà protettive su chi le indossava sono talvolta documentate dalle iscrizioni di apprezzamento inserite nella decorazione dei puntali (cintura multipla da Donzdorf ), mentre i riferimenti alla fede cristiana sono frequenti, non solo sugli oggetti di abbigliamento (cucchiai del tesoro di età gota di Desana). A questi esempi vanno aggiunti tutti i dati di onomastica deducibili dai monogrammi o dalle iscrizioni sugli anelli matrimoniali, sulle fibule e sulle placche di cintura, sia in ambito culturale romano che germanico e bizantino. Dati differenti possono essere desunti invece dalle iscrizioni sulla ceramica. In età tardoromana è noto il contributo svolto dalle iscrizioni dipinte sulle anfore da trasporto, per la definizione del loro contenuto e della loro capacità. Dopo l'interruzione altomedievale l'uso di scrivere sui vasi in ceramica riprende nel pieno Medioevo, con gli stemmi e i monogrammi del committente o le brevi invocazioni teologiche che caratterizzano sia le produzioni fatte su commissione per i personaggi o le famiglie di rango elevato, sia quelle conventuali. A parte alcuni casi di epigrafia aulica o monumentale (ad es., la Casa dei Marili a Roma, la Domusculta Capracorum, Cencelle), si nota una generale flessione delle attestazioni dopo il VI secolo, per poi avere una ripresa nel pieno Medioevo. Questo dato può essere letto come ulteriore indicatore del calo di alfabetizzazione nell'ambito della società occidentale durante l'Alto Medioevo.
E. Le Blant, Inscriptions chrétiennes de la Gaule antérieures au VIIIe siècle, I-II, Paris 1856-65; F. Grossi Gondi, Trattato di epigrafia cristiana latina e greca del mondo romano occidentale, Roma 1920; A. Silvagni, Monumenta epigraphica christiana saeculo XIII antiquiora quae in Italiae finibus adhuc extant, I-IV, Città del Vaticano 1938-43; A. Campana, Intervento, in Fonti medievali e problematica storiografica. Atti del Congresso Internazionale (Roma 1973), II, Roma 1977, pp. 70-77; M. Guarducci, Epigrafia greca, IV. Epigrafi sacre, pagane e cristiane, Roma 1978; A. Melucco Vaccaro, Il restauro delle decorazioni ageminate "multiple" di Nocera Umbra e di Castel Trosino: un'occasione per un riesame metodologico, in AMediev, 5 (1978), pp. 9-75; A. Petrucci, s.v. Epigrafe, in EAM, V, 1994, pp. 819-25; Id., s.v. Graffito, in EAM, VII, 1996, pp. 64-66 (con bibl. ult.).
di Paolo Delogu
Sono fonti archivistiche i documenti, di natura prevalentemente anche se non esclusivamente giuridica o amministrativa, prodotti e raccolti da istituzioni e uffici pubblici o da soggetti privati nell'esercizio delle loro attività sociali e istituzionali e da loro conservati in archivi. Questi possono essere giunti fino a noi presso lo stesso soggetto che li pose in essere, oppure dopo essere confluiti in altri archivi a seguito di vicende storiche più o meno complesse; i casi più tipici di questa seconda possibilità sono gli archivi di conservazione istituiti da tutti gli stati moderni e dalle istituzioni ecclesiastiche centrali, proprio per conservare i complessi documentari di enti che nel tempo hanno cessato di esistere. Questa definizione generale vale per qualunque epoca storica; tuttavia archivi e fondi archivistici si cominciano a trovare con frequenza e regolarità via via crescenti solo a partire dall'età medievale. In Italia, dove pure sono conservati taluni tra i più antichi archivi d'Europa, come l'archivio arcivescovile di Lucca, l'archivio di S. Ambrogio di Milano o quello del monastero di Cava dei Tirreni presso Salerno, i documenti non risalgono più indietro dell'VIII secolo (con la sola eccezione di un gruppo di documenti provenienti dall'archivio arcivescovile di Ravenna). La possibilità di far ricorso a una consistente documentazione archivistica riguarda dunque l'epoca medievale, moderna e contemporanea; di conseguenza l'utilizzazione di fonti archivistiche per la ricerca archeologica è tendenzialmente limitata alle archeologie postclassiche (medievale, postmedievale, industriale). I più antichi archivi medievali sono quelli delle istituzioni ecclesiastiche e in particolare dei monasteri. Essi trassero origine dall'esigenza di conservare i documenti relativi alle proprietà immobiliari dell'ente e alla loro gestione. Infatti dopo il VI secolo, venuta meno con la crisi delle curie municipali la tecnica romana della insinuatio degli atti privati nei gesta municipalia, attraverso la quale tali documenti venivano convalidati e garantiti, l'originale del documento era spesso l'unico strumento che faceva fede legale dei diritti dei singoli soggetti e doveva essere conservato dal titolare, tendenzialmente in perpetuo. Anche per questo i documenti vennero redatti su pergamena, più durevole del papiro e delle tavolette cerate. In talune regioni della Spagna furono perfino utilizzate scaglie di ardesia su cui veniva graffito il testo dell'atto. Dai primi secoli del Medioevo non sono giunti invece archivi delle istituzioni di governo che producevano i documenti. Le cancellerie dei regni barbarici e dell'impero romano- germanico non usavano conservare una copia dei documenti che emanavano. Solo il Papato e probabilmente anche alcune sedi vescovili, proseguendo la tradizione degli uffici amministrativi romani, conservavano le copie dei propri atti amministrativi; tuttavia questi archivi centrali, in particolare quelli papali, sono andati completamente perduti, sicché si conoscono solo pochi complessi documentari e precisamente quelli che furono trascritti in registri, proprio per garantirne una più sicura conservazione. Archivi centrali delle istituzioni di governo vennero costituiti a partire dal XII secolo, grazie alle nuove concezioni amministrative dei comuni italiani e dei regni europei. Negli archivi dei comuni vennero conservati testi legislativi, deliberazioni consiliari, atti giudiziari, registri finanziari, ecc.; in quelli dei regni, atti amministrativi, concessioni sovrane, disposizioni di governo, registri fiscali, ecc. Tali documenti sono conosciuti con il nome di rolls, rotoli di pergamena in cui gli uffici fiscali e giudiziari dell'amministrazione regia inglese registrarono i loro atti. Dal XIII secolo crebbe poi il numero dei soggetti che tenevano un archivio e si arricchisce la tipologia della documentazione che in essi era conservata. Accanto agli uffici di governo e alle istituzioni ecclesiastiche ebbero propri archivi le magistrature inferiori, le associazioni devozionali o di mestiere, le famiglie nobili, i mercanti; perciò la documentazione comprende atti amministrativi, matricole di corporazioni, registri fiscali, libri di conti, corrispondenza commerciale e privata, memorie di famiglia. Un'enorme quantità di documenti venne poi prodotta dai privati man mano che le forme della vita sociale ed economica si complicavano, si diffondeva l'uso della scrittura e cresceva il numero dei soggetti che avevano bisogno di documentare e tutelare, attraverso strumenti giuridicamente rilevanti, le loro proprietà, diritti, interessi. La documentazione privata del Tardo Medioevo comprende infatti compravendite immobiliari, contratti d'affitto, locazioni d'opera, transazioni commerciali e finanziarie, accordi matrimoniali, testamenti. Figure fondamentali nella creazione di questa documentazione furono i notai, che a partire dal XII secolo assunsero la fondamentale funzione di garantire la legalità delle transazioni giuridiche intercorse tra privati e l'attendibilità dei documenti in cui erano registrate. A tal fine cambiarono le tecniche della redazione e conservazione degli atti: mentre il ricorso al notaio diventava sempre più frequente anche per questioni apparentemente di scarsa rilevanza, i notai adottarono l'uso di registrare i termini degli accordi tra le parti private su registri, o minutari, che conservavano nelle proprie botteghe e alla fine della carriera trasmettevano al successore o depositavano negli archivi comunali. Questa registrazione, o imbreviatura, era già sufficiente a porre in essere e dare validità legale al negozio delle parti, che peraltro potevano chiedere al notaio anche la redazione di uno strumento, più o meno esteso, che riportava i termini del negozio ed era autenticato dalla sottoscrizione e da altri segni del notaio, e garantito dalla conformità con il testo dell'imbreviatura conservata nel registro notarile. In età moderna le forme e le tecniche della documentazione proseguirono sostanzialmente quelle messe a punto negli ultimi secoli del Medioevo; si moltiplicarono però gli uffici che producevano e conservavano documentazione della loro attività istituzionale. Ebbero notevole sviluppo tra l'altro le registrazioni fiscali, i catasti delle proprietà, e, per quanto riguarda l'attività ecclesiastica, le visite pastorali dei vescovi alle chiese e alle comunità della diocesi e i registri parrocchiali, in cui venivano annotati battesimi, matrimoni e decessi dei fedeli, creando una preziosa anche se parziale documentazione anagrafica. Il contenuto delle fonti archivistiche può essere estremamente vario, come sono varie la natura e le finalità della documentazione che veniva prodotta dalle relazioni sociali e istituzionali, e conservata negli archivi. Da queste fonti si traggono infatti essenziali informazioni sulle istituzioni di governo, sui rapporti giuridici, sull'attività economica, sulla consistenza della popolazione. Per quanto riguarda più specificamente l'utilizzazione della documentazione archivistica in rapporto alle esigenze della ricerca archeologica, si può ricordare che in essa è possibile trovare un gran numero di informazioni relative all'assetto del territorio, al reticolo stradale, alla topografia urbana e rurale, alla toponomastica, all'evoluzione degli insediamenti, alle tecniche edilizie, alla tipologia degli edifici, sia d'abitazione che militari ed ecclesiastici, ai corredi delle case private e delle chiese, alla strumentazione della vita quotidiana, alla tipologia e all'uso della moneta. Si tratta di notizie che vennero inserite nei documenti non per lasciare una testimonianza alla posterità, ma con lo scopo pratico di descrivere, localizzare, valutare situazioni e beni rilevanti per il negozio giuridico registrato nel documento; esse hanno dunque generalmente un buon grado di attendibilità, che è comunque maggiore per i dati la cui alterazione non era suscettibile di influenzare la sostanza del negozio. Peraltro archeologi e storici dell'arte spesso auspicano il ricorso alle fonti d'archivio soprattutto come mezzo per trovare informazioni su singoli fatti significativi in rapporto alle situazioni materiali che stanno indagando. Esempi tipici sono la ricerca della data di fondazione di un edificio, l'identificazione di un autore o di un committente, o ancora la cronologia della fondazione o della distruzione di un insediamento. Una richiesta così orientata può avere vario esito, ma, soprattutto per l'epoca medievale, può anche sortire risultati deludenti. Ciò dipende in parte dalle lacune originarie o sopravvenute della documentazione; va ricordato infatti che consistenti quantità di documentazione archivistica sono andate perdute nel tempo, e che non sempre è possibile identificare con sicurezza tutta quella sopravvissuta, ma dispersa in vari archivi. Inoltre le stesse condizioni culturali in cui la documentazione venne prodotta aggiungono difficoltà alla ricerca. Nel Medioevo infatti i lavori edilizi venivano spesso appaltati senza contratto; il ruolo creativo dell'artista, e quindi la menzione del maestro nelle carte d'archivio, non si afferma che a partire dal XII secolo e comunque non in modo sistematico; gli stessi concetti di fondazione o costruzione di un edificio o di un monumento hanno valore ambiguo in quanto spesso si riferiscono piuttosto all'aspetto simbolico che a quello materiale dell'iniziativa. Lo stesso vale per le notizie sulla fondazione o la distruzione di un insediamento, che spesso in realtà preesiste o sopravvive agli eventi registrati nella documentazione scritta. Senza escludere la possibilità di reperire singole informazioni cronologiche, politiche, topografiche, di decisiva importanza, la documentazione archivistica va dunque considerata soprattutto nel suo valore statistico e seriale, come testimonianza composita sull'organizzazione di una società o di un ente nella sua evoluzione nel tempo, anche per gli aspetti che hanno a che fare con l'insediamento e la cultura materiale. Raramente infatti una conoscenza sicura ed esauriente delle situazioni di interesse archeologico può essere acquisita attraverso un singolo documento. La ricostruzione archivistica presuppone l'esame di interi complessi documentari coerenti per origine, epoca, località, e ciò non solo perché così è maggiore la possibilità di trovare informazioni, ma anche per poter valutare adeguatamente la rappresentatività generale dei singoli dati e per costruire quadri d'insieme che più proficuamente dei singoli eventi possono essere posti in rapporto con le situazioni culturali individuate dall'esplorazione archeologica. Si deve inoltre tener presente che situazioni relative a un determinato orizzonte cronologico possono aver lasciato tracce in documentazione posteriore, sicché non è prudente limitare la ricerca d'archivio ai soli documenti coevi. In sostanza, non sembra raccomandabile finalizzare la ricerca archivistica all'acquisizione di informazioni singole da integrare nella ricostruzione archeologica. È certamente assai più produttivo, sebbene ciò richieda una più complessa organizzazione della ricerca e delle relazioni interdisciplinari, impostare il questionario nel senso di sollecitare la ricerca archivistica a indagare sulle stesse situazioni oggetto dell'indagine archeologica, puntando alla ricostruzione di quadri socio-culturali complessivi, come contemporaneamente fa la ricerca archeologica lavorando sui propri materiali e con le proprie tecniche. Posti a confronto, i due sistemi ricostruiti potranno chiarirsi vicendevolmente e nello stesso tempo sarà possibile mettere in evidenza i limiti e le compatibilità delle rispettive ipotesi.
M. de Boüard, Manuel d'archéologie médiévale. De la fouille à l'histoire, Paris 1975; C. Violante, Lo studio dei documenti privati per la storia medievale fino al XII secolo, in Fonti medievali e problematica storiografica. Atti del Congresso Internazionale (Roma, 22-27 ottobre 1973), I, Roma 1976, pp. 69-130; J.-M. Pesez, Archéologues et historiens, in Mélanges d'archéologie et d'histoire médiévales en l'honneur du doyen Michel de Boüard, Genève - Paris 1982, pp. 295-308; P. Rahtz, New Approaches to Medieval Archaeology, in D.A. Hinton (ed.), 25 Years of Medieval Archaeology, Sheffield 1983, pp. 12- 23; M.S. Mazzi, Civiltà, cultura o vita materiale?, in AMediev, 12 (1985), pp. 573-92; P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma 1991; J. Moreland, Method and Theory in Medieval Archaeology, in AMediev, 18 (1991), pp. 7-42; P. Delogu, Introduzione allo studio della storia medievale, Bologna 1994; J. Coste, Scritti di topografia medievale. Problemi di metodo e ricerche nel Lazio, Roma 1996; M. Ginatempo - A. Giorgi, Le fonti documentarie per la storia degli insediamenti medievali in Toscana, in AMediev, 23 (1996), pp. 7-52.
di Maria Adelaide Lala Comneno
Alla fine del XIX secolo molti orientalisti si sono dedicati alla ricerca, alla catalogazione e allo studio delle numerose e varie fonti letterarie orientali e le loro edizioni critiche restano, in molti casi, di base per qualsiasi ulteriore approfondimento, proprio in vista di un approccio archeologico. Non si può non ricordare almeno l'opera di Th. Nöldeke (1836-1930), M.J. de Goeje (1830-1889), E. Sachau (1845-1930), C. Brockelmann (1868-1956) e, per quanto riguarda la Sicilia islamica, M. Amari (1806-1889). L'archeologia islamica, che può dunque disporre anche del supporto di edizioni critiche delle fonti scritte, ne ha fatto sinora un uso relativamente limitato, forse a causa delle diverse difficoltà da affrontare. Il mondo islamico nel suo insieme richiede infatti l'analisi di testi scritti prevalentemente in arabo, ma anche in persiano e in turco (a partire dal XIII sec., più numerosi solo dal XV sec. in poi). Per quanto riguarda il cosiddetto "Islam periferico" bisognerà far riferimento, comunque per epoche più tarde, anche alle lingue locali. Va aggiunta la difficoltà nel classificare secondo concetti occidentali molte fonti islamiche: il confine tra una materia e l'altra spesso non risulta chiaro, per di più lo stesso autore si è cimentato in opere che noi definiremmo storiche e in trattati di geografia, o comunque di materie vicine alla geografia. Su tutto, comunque, prevale una superiore visione religiosa. Vanno sotto la denominazione di geografi gli autori di opere che in realtà contengono molte altre informazioni sui paesi trattati, quali la storia, la descrizione di città, i monumenti, le leggende, talvolta i nomi di uomini illustri, o gli elenchi dei prodotti locali. Tra i tanti vale la pena di citare al-Idrisi (1100 ca. - 1165), geografo alla corte del re normanno Ruggero II, che ha lasciato, a corredo di un grande planisfero in argento, dettagliate descrizioni del mondo intero. Vanno tenuti presenti anche i testi destinati alle segreterie califfali o di altri regnanti, con descrizioni, spesso accurate, di strade, città e posti di tappa. Le relazioni di viaggio però non sono sempre di prima mano, spesso ci giungono attraverso ampie citazioni di autori posteriori: per questo i testi di geografi- viaggiatori assumono particolare valore. Tra questi bisogna citare almeno Masudi (893 ca. - 956), storico più che geografo, al-Muqaddasi (X sec.), la cui opera si fonda sul viaggio e sulla testimonianza diretta, Ibn Hauqal (seconda metà del X sec.) e Ibn Battuta (1304-1368 o 1377), che ha attraversato quasi tutto il mondo islamico in nove lunghissimi viaggi, dei quali ha lasciato dettagliate memorie a posteriori. Non va dimenticato Ibn Giubair (1145-1217), definito il principe dei viaggiatori arabi, particolarmente attento nel descrivere le città dell'Iraq, della Siria e dell'Egitto. A proposito dei testi storici va rammentato, in primo luogo, il particolare approccio alla storia: il mondo islamico, nel suo insieme, non è portato a storicizzare gli avvenimenti esposti, anche nelle opere di tipo annalistico, spesso in apparente disordine e raramente basati in modo sistematico su documenti d'archivio o delle cancellerie, anche perché questi avvenimenti risultano, soprattutto agli occhi del credente, ma anche dell'autore che li riporta, segni dell'opera di Dio nel mondo. Data la strettissima relazione tra cultura e religione, la storiografia non può caratterizzarsi come scienza a sé, e per questo bisognerà arrivare al XIV secolo con Ibn Khaldun (1332-1406). Nel mondo islamico i trattati di storia, opera quasi sempre di un teologo o di un giurista, si configurano, soprattutto in certi secoli, come storie universali, oppure in molti altri casi si limitano, proprio per il prevalere dell'aspetto religioso, alla koinè islamica. Gli autori fanno risalire le loro informazioni a testimoni oculari per i periodi più prossimi, ma utilizzano anche estensivamente fonti scritte considerate attendibili, citandole però solo raramente con precisione: fanno eccezione Tabari, Yaqut e il più tardo al-Maqrizi (1364- 1442), che trascrive testi di iscrizioni. Va anche notato che generalmente i monumenti hanno suscitato negli storiografi arabi un interesse marginale: esistono comunque descrizioni di intere città, con i loro monumenti, particolarmente utili nel caso di edifici distrutti. Ad esempio, le nostre conoscenze di Baghdad all'epoca della sua fondazione sono dovute esclusivamente alle descrizioni che ci hanno tramandato storici e geografi, dato che la città, capitale del Califfato, è andata completamente distrutta: al-Baladhuri, Yaqubi, Tabari (tutti e tre del X sec.), al-Hatib (della metà dell'XI sec.), e il più tardo Yaqut (1179-1229), assai preciso e dalla sconfinata erudizione, hanno permesso diverse, e quindi controverse, ricostruzioni della città circolare abbaside. Altre città ormai morte o completamente modernizzate rivivono nei testi degli autori che le hanno descritte: Samarra, l'effimera capitale abbaside, ora un immenso campo di rovine, si ritrova nelle pagine di Yaqubi; Damasco è ricostruibile anche in base all'opera di Ibn Asakir (1105-1176), che ha lasciato un vero e proprio catalogo dei monumenti; Gerusalemme, ormai quasi esclusivamente mamelucca e ottomana, resta nelle descrizioni particolarmente accurate di al-Muqaddasi (conosciuto anche come al-Maqdisi); il Fustat e il Cairo fatimide, quasi illeggibili a causa dell'estendersi e dell'addensarsi dell'abitato nei secoli successivi, riemergono attraverso al- Maqrizi, che riporta, sia pure dopo qualche secolo, una gran massa di documenti precedenti. In zone periferiche dell'Islam, Palermo, completamente priva di qualsiasi testimonianza leggibile dell'epoca araba, ci appare in modo abbastanza dettagliato in Ibn Hauqal, al-Idrisi e Ibn Giubair (questi ultimi due già in periodo normanno); mentre la lontana capitale samanide, Bukhara (oggi in Uzbekistan), appare descritta con interessanti dettagli nell'opera dello storico Narshakhi. Alle fonti storiche arabe e persiane vanno aggiunte quelle occidentali coeve che, per quanto generalmente scarse di informazioni attendibili, con uno studio comparato possono risultare utili anche nella datazione e nell'individuazione della provenienza di manufatti islamici che si trovano in Occidente. Le fonti odeporiche occidentali e gli itinerari di pellegrinaggio in Terra Santa apportano il loro contributo con informazioni di prima mano, anche se lo spirito tendenzioso che molto spesso le anima rende particolarmente difficile il loro utilizzo. I documenti di archivio, abbondanti in Occidente, scarseggiano in originale nel mondo islamico, almeno fino al XIV-XV secolo: una cospicua eccezione è rappresentata dalla raccolta della Geniza al Cairo, che conserva migliaia e migliaia di lettere, contratti, conteggi, datati dal 750 al 1265 circa. Si tratta del materiale accatastato in un deposito della Sinagoga dei Palestinesi a Fustat (Cairo Vecchia) e miracolosamente conservatosi sino ad oggi. Questo archivio studiato sistematicamente ha permesso di ricostruire i legami commerciali ed economici non solo dell'Egitto, ma di gran parte dell'Africa settentrionale e della Sicilia islamica, dove le comunità ebraiche erano attivissime. Per quanto riguarda l'epigrafia islamica, la sterminata documentazione che fornisce non è stata studiata, finora, né sistematicamente né estensivamente, e l'uso di un tale strumento a fini archeologici non si è ancora generalizzato. L'orientalista M. van Berchem (1863-1921), vero iniziatore della disciplina, ha impostato il primo corpus su base geografica, opera mai portata a termine, e ha pubblicato le iscrizioni dell'Egitto e della Siria. Risultano più studiate alcune aree relativamente periferiche dell'Islam, soprattutto europee: la Sicilia, le cui iscrizioni sono state raccolte e pubblicate da M. Amari, la Spagna studiata da E. Lévi-Provençal e successivamente da altri, l'Armenia, regione limitrofa e parzialmente islamizzata, della quale è in via di completamento un corpus. Le iscrizioni, soprattutto quelle monumentali, sono nella stragrande maggioranza in arabo; anche in ambito iranico l'arabo prevale e in Turchia il turco appare solo all'inizio del XV secolo. Si devono però aggiungere per il loro apporto all'archeologia islamica anche iscrizioni in altre lingue, quali quelle siriache dell'VIII secolo, o quelle armene e georgiane per periodi di poco successivi. L'uso dell'epigrafia è limitato anche dai contenuti convenzionali di molte iscrizioni, che riportano, in prevalenza, formule religiose, citazioni coraniche e, talvolta, brani di poesia. Però, soprattutto nelle zone del Vicino Oriente, le iscrizioni, forse per imitazione di quelle bizantine di poco precedenti, riportano dati oggettivi, quali il nome del califfo, quello del sovrintendente ai lavori e spesso la data. Il nome dell'architetto viene dato con formule quali "l'umile servitore di Dio", che lasciano nell'anonimato gli artefici dei monumenti, anche i più famosi. Solo su edifici costruiti dal waqf (istituzione paragonabile alle "fondazioni pie"), a partire dal XIV secolo, si trovano informazioni più dettagliate. Le iscrizioni monumentali dei mausolei, diffusi in tutto il mondo islamico, attestano la diffusione di un certo culto e i nomi di chi lo ha sostenuto, costruendo o ingrandendo la tomba e il complesso che spesso sorgeva intorno. Anche le semplici lastre tombali riportano, nelle loro eleganti iscrizioni, oltre ai nomi, le titolazioni dei defunti, nonché i titoli dei sovrani locali, tutti elementi utili per una datazione: infatti le date, riportate in forme diverse, vengono talvolta espresse attraverso cronogrammi (soprattutto in ambito turco). Le iscrizioni su particolari architettonici o anche su oggetti danno con una certa frequenza il nome dell'autore e talvolta la data. Citazioni coraniche, professioni di fede, invocazioni, formule di augurio, ma anche il nome del proprietario, o del regnante, nonché la data, assumono infine un ruolo eminentemente decorativo su oggetti diversi (stoffe, ceramiche, vetri e bronzi), tendendo persino ad una pseudo-scrittura, per ripetere all'infinito una parola o una frase.
M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, ossia raccolta di testi arabici che toccano la geografia, la storia, la biografia e la bibliografia della Sicilia, Lipsia 1857; M. van Berchem, Matériaux pour un Corpus Inscriptionum Arabicarum: Égypte, Jérusalem, Syrie du Nord, Le Caire 1903-55; E. Lévi-Provençal, Inscriptions arabes d'Espagne, Leyde - Paris 1931; M.S. Zbiss, Corpus des inscriptions arabes de Tunisie, Tunis 1955; A.A. Khachatrjan, Korpus arabskikh napdpisej Armenii, VIII-XVI vv., Vypusk I [Corpus delle iscrizioni arabe d'Armenia, VIII-XVI secc., Parte I], Erevan 1987; S.S. Blair, The Monumental Inscriptions from Early Islamic Iran and Transoxiana, Leiden 1992; M. Sharon, Corpus Inscriptionum Arabicarum Palestinae, I-II, Leiden 1997-98.
di Anna Filigenzi
Nel 1617 lo spagnolo G. Silva y Figueroa, con una copia del testo di Diodoro tra le mani, identificava nelle rovine di Chihil Minar l'antica Persepoli; cominciava così, con la guida delle fonti letterarie, la riscoperta dell'Iran antico. Fra le testimonianze scritte, molto deve la storia degli studi alla decifrazione dell'alfabeto cuneiforme sulla base dell'iscrizione trilingue di Dario I a Bisutun (redatta in antico persiano, elamita e babilonese); da quel momento si acquisiva alla storia una messe di testimonianze scritte che avrebbero cambiato la visione dell'Iran e del Vicino Oriente antico, fino a quel momento basata su fonti classiche e bibliche, integrandola con la registrazione e l'interpretazione dei fatti dal punto di vista dei protagonisti. Le testimonianze scritte provenienti dal mondo esterno sono, prima della spedizione in Oriente di Alessandro Magno, piuttosto scarse: fra le più note e importanti si ricordano gli scritti di Eschilo, Erodoto, Senofonte, Platone, Aristotele, Isocrate, Ctesia; esse rappresentano il punto di vista greco sul nemico "barbaro", non prive però di una certa ammirazione per i passati splendori dell'impero persiano e per le qualità di alcuni dei suoi sovrani. Tra le fonti più tarde, in gran parte basate sulle testimonianze di epoca macedone, si ricordano Diodoro, Strabone, Plutarco, Arriano, Curzio Rufo; Apollodoro di Artemita, Isidoro di Characene, Pompeo Trogo, Strabone, Polibio, Plutarco, Tacito, Plinio il Vecchio per il periodo partico; Ammiano Marcellino, Agathias, Procopio, insieme ad autori bizantini più tardi (Teofilatto di Simocatta, Giorgio di Pisidia, Antioco-Eustrazio) e fonti cristiane (soprattutto atti di martiri) per il periodo sasanide; notizie sul mondo persiano provengono, sia pure in misura minore, anche dall'India e dalla Cina. Fra le testimonianze interne vanno innanzitutto citati i documenti epigrafici, in gran parte costituiti da iscrizioni regie di varie dinastie (specie dei primi sovrani achemenidi e sasanidi), molte delle quali incise su roccia (a Bisutun, Naqsh-i Rustam, Khung-i Nauruzi, ecc.) e accompagnate da rilievi figurati. I testi epigrafici costituiscono la fonte di informazione più diretta sull'estensione e l'organizzazione dello stato (come le iscrizioni di Dario a Bisutun e, in periodo Sasanide, di Shapur I nella Ka'ba - i Rardusht e di Narseh a Paikuli), a cui fanno eco numerosi riscontri provenienti dai territori annessi (iscrizioni regie e documenti amministrativi a Babilonia, Ur, Uruk, papiri e ostraka da Egitto, Palestina, iscrizioni in Asia Minore per il periodo achemenide; ostraka da Nisa in Turkmenistan, pergamene e papiri da Dura-Europos per il periodo partico). Spesso essi identificano inoltre le più importanti realizzazioni architettoniche e urbanistiche dei vari sovrani, ma tramandano anche preziose informazioni (sebbene in parte ancora controverse) sulla concezione della regalità, sui costumi e sulla religione. Tra i documenti amministrativi una particolare menzione meritano quelli achemenidi rinvenuti a Persepoli, incisi su tavolette di argilla e preservati proprio dall'incendio che la tradizione attribuisce ad Alessandro Magno. A queste testimonianze dirette si aggiungono quelle contenute nella letteratura religiosa e profana, di cui tuttavia non si conoscono redazioni antecedenti al periodo sasanide, epoca di "riscoperta" dell'Iran antico; ad esso risale la prima redazione pervenutaci dei testi avestici (la più antica sarebbe andata perduta nell'incendio di Persepoli) e la compilazione della prima "storia nazionale" dell'Iran (Khwadāy-nāmag: Libro dei re), perduta nell'originale pahlavico, ma nota tramite in traduzioni arabe e persiane. Documenti epigrafici (fra cui importantissima la lunga iscrizione del gran sacerdote Kirdir a Naqsh-i Rajab) testimoniano inoltre l'istituzionalizzazione dell'ortodossia zoroastriana in epoca sasanide, fornendo alla ricerca archeologica importanti spunti interpretativi sull'architettura religiosa e funeraria. Numerose e dettagliate sono infine le fonti arabo-persiane, che in parte si inseriscono nel solco della tradizione sasanide, tramandando così non solo informazioni sul periodo ad esse contemporaneo, ma anche una raccolta di notizie e tradizioni più antiche. Autori di grande importanza sono Ibn Qutaiba, Yaqubi, al-Dinawari, Tabari e Firdausi, autore del famoso Šāhnāmah (Il libro dei Re). Alle fonti scritte, qui solo parzialmente citate, l'archeologia deve, oltre che un supporto essenziale per l'interpretazione dei ritrovamenti, anche preziose indicazioni topografiche, talora fondamentali per l'identificazione di specifici siti e monumenti. Si apprendono ad esempio da Erodoto notizie sull'ultima formazione statale dell'Iran occidentale prima dell'avvento degli Achemenidi, la Media, e soprattutto sulla sua capitale Ecbatana, sepolta sotto l'odierna Hamadan e solo parzialmente indagata di recente. Maggiori notizie ci sono pervenute sull'impero achemenide. Le ricerche archeologiche sembrano confermare alcune importanti osservazioni, quale l'uso dei Persiani, tramandato da Erodoto, di adorare la divinità all'aperto in luoghi alti sulla cima dei monti (pochissimi sono infatti, per l'epoca achemenide, gli edifici di culto sicuramente identificati come tali). Assai controversa rimane invece l'identificazione dei "luoghi per l'adorazione" restaurati da Dario, secondo l'iscrizione di Bisutun, dopo la distruzione operata dall'usurpatore Gaumata. Conferme archeologiche sono state rinvenute anche dell'efficiente sistema stradale, citato sia da fonti classiche che da fonti locali, e che i Macedoni avrebbero mantenuto, così come dell'architettura di giardini (o pairidaēza, termine persiano reso dai Greci con paradeisoi), di cui restano alcuni esempi (Pasargade, Qala-i Yazdgird, Taq-i Bustan). Tra i singoli monumenti che devono la loro identificazione a notizie contenute nelle fonti classiche si annoverano invece la tomba di Ciro il Grande a Pasargade e il cosiddetto Zindan-i Sulaiman (Prigione di Salomone), edificio invero di interpretazione controversa, in cui è stato proposto di riconoscere il luogo dal quale, dopo l'investitura, il re si mostrava al popolo.
Oltre ai cenni contenuti nelle parti più antiche dello Avesta, è nelle iscrizioni dell'Iran achemenide che si trova la prima menzione di quelle regioni dell'Asia Centrale (Chorasmia, Sogdiana, Margiana, Battriana) che costituivano le satrapie orientali dell'impero. Dalle stesse fonti si apprendono le vicende dei conflitti con le popolazioni Saka, ampiamente menzionate anche da Erodoto, i cui racconti tracciano un complesso disegno dei costumi dei popoli nomadi, in buona misura confermati dalle ricerche archeologiche, ma via via più fantasioso e impreciso man mano che le sue descrizioni si spostano verso le regioni più settentrionali, quasi ignote agli storici e geografi del tempo se non per vaghe e confuse nozioni rielaborate spesso in chiave fantastica. Notizie più dettagliate sulla geografia antica provengono dalle fonti classiche collegate alle campagne orientali di Alessandro Magno (in particolare Curzio Rufo, Arriano, Plinio), che descrivono la marcia delle truppe macedoni attraverso i territori centroasiatici, i luoghi scelti per l'accampamento e le fortezze espugnate. Le indicazioni fornite da queste fonti (toponimi, caratteristiche fisiche dei luoghi, distanze) restano tuttavia difficili da interpretare, anche alla luce di dati archeologici in parte controversi, e molte città ricordate da più fonti (tra cui Ciropoli, "la più ragguardevole", fondata dal re achemenide Ciro) non sono finora che luoghi letterari. Un valido sussidio agli studi è costituito da riscontri incrociati con fonti più tarde (specie quelle dei pellegrini cinesi, o degli storici e geografi di epoca islamica). L'importanza strategica di Merv in Margiana, snodo del traffico commerciale in Asia, costantemente confermata dalle fonti, rende ad esempio assai verisimile l'identificazione del sito di Gyaur Kala con la città conquistata e ingrandita da Alessandro Magno e da lui ribattezzata Alessandria Margiana, poi ricostruita da Antioco I col nome di Antiochia Margiana. Altrettanto citata nelle fonti è Afrasiab (Samarcanda), in Sogdiana, nota agli autori classici come Maracanda e costantemente descritta, da Arriano a Ibn Battuta, come una delle più belle città del mondo. Ancora le notizie contenute nelle fonti classiche (sostenute da altre evidenze, in primo luogo numismatiche) hanno incoraggiato e diretto la ricerca archeologica, premiata da importanti successi quali la scoperta di Ai Khanum in Battriana e di Nisa in Margiana (citata da Isidoro di Characene come necropoli dei re arsacidi), che tramandano le testimonianze più significative tra quelle finora rinvenute rispettivamente per il periodo ellenistico e partico. Una generica coincidenza tra fonti scritte e ritrovamenti archeologici si riscontra inoltre in una delle caratteristiche più originali dell'urbanistica centroasiatica, le fortezze-rifugio, citate da Arriano e Curzio Rufo con il nome di petra. Questa caratteristica sembrerebbe peraltro confermata anche per epoche più antiche: numerosi villaggi fortificati in Battriana e in Margiana dell'età del Bronzo sono stati da alcuni identificati con le fortezze dei Dasa, i nemici con cui, secondo i Veda, si sarebbero battuti gli Indoarii nella loro discesa verso l'India. Oltre alle iscrizioni in greco dalla Battriana, databili dal IV sec. a.C. in poi, e quelle più tarde in battriano e sogdiano (fra cui l'iscrizione di Rabatak, scoperta nel 1993, che aggiunge nuovi spunti di discussione all'annoso dibattito sulla cronologia Kushana), fonti locali di estremo interesse provengono dalla Chorasmia; in particolare, i materiali di archivio da Toprak Kala (a partire dal III sec.) e le iscrizioni sugli ossuari di Tok Kala (VII sec.) forniscono importanti notizie sulla cronologia, sull'economia e sui costumi sociali e religiosi della regione. Preziose si dimostrano anche le fonti cinesi, in primo luogo le varie cronache dinastiche, le quali registrano in particolare notizie sulle popolazioni nomadi che, gravitando a ridosso dei suoi confini, costituivano per la Cina una perenne minaccia. Tuttavia non soltanto tra le varie fonti cinesi, ma anche tra queste e fonti di diversa provenienza, esistono discordanze, in particolare per quanto concerne le tribù unne che invasero l'Asia Centrale e parte dell'India tra il IV e il VI secolo e sui loro successori Eftaliti. Ad essi si sono spesso attribuiti la distruzione e l'abbandono di diversi siti, soprattutto sulla base delle descrizioni apocalittiche contenute in alcuni testi. Della loro presenza non si sono rinvenute che scarse tracce archeologiche, anche se lo scrittore bizantino Procopio parla degli Eftaliti come di una popolazione da tempo sedentarizzata. In qualche modo concorde è il resoconto di Xuanzang, che parla di Balkh (Po-no) come la capitale degli Eftaliti (purtroppo indagata in maniera ancora insufficiente) e di altre capitali regionali identificate ipoteticamente in Budrach e Kafir Kala. Di particolare interesse sono i documenti epigrafici relativi all'impero fondato dai Turchi, che dalla Mongolia si estese all'intera fascia delle steppe eurasiatiche nel corso del VI secolo. È questo il primo popolo altaico ad aver lasciato di sé una documentazione scritta, che integra le notizie provenienti dalle cronache cinesi e da fonti bizantine (Menander Protector) e armene (Sebeos). Le epigrafi più importanti sono quelle su stele, dapprima in sanscrito e in sogdiano, quindi in turco in caratteri runici dalla metà del VII secolo, le più estese e significative delle quali sono quelle di Koshotsaidam. Il quadro che esse tracciano, di una società fortemente gerarchizzata con a capo una aristocrazia ereditaria, è confermato dai dati archeologici, sia pure scarsi e pertinenti per lo più agli usi funerari. Assai consistente è la mole dei documenti scritti provenienti dal Turkestan orientale (l'odierno Xinjiang Uygur): letteratura religiosa (buddhista, manichea, nestoriana) e profana, documenti amministrativi, legali ed epistolari in una varietà di lingue (sanscrito, pracrito, sogdiano, khotanese, tocarico, saka, turco, cinese) si aggiungono alle notizie registrate dagli storici di corte e dai pellegrini cinesi, restituendo un vivido e dettagliato panorama della vita nelle oasi dislocate lungo la Via della Seta. Fu proprio l'interesse suscitato dall'arrivo sul mercato antiquario di alcuni di essi, unitamente ad oggetti d'arte, che stimolò l'avvio delle fortunate ricerche archeologiche nella regione. Molte notizie sull'Asia Centrale sono state tramandate inoltre da geografi, storici e poeti di epoca islamica (al-Biruni, al-Muqaddasi, Tabari, al-Baladhuri, Istakhri, Yaqubi, Ibn Hauqal, Ibn Battuta, Firdausi, ecc.). Ancora poco l'archeologia conosce delle "mille città" centroasiatiche di cui essi parlano ammirati, ma l'aiuto di queste fonti si è rivelato prezioso anche nell'interpretazione di alcuni aspetti della civiltà centroasiatica di epoca medievale.
In generale: History of Civilizations of Central Asia, I-III, Paris 1996; P. Briant, De Cyrus à Alexandre. Une histoire de l'empire achéménide, Leiden 1996; J. Wieserhöfer, Ancient Persia, London - New York 1996. Iran: F.H. Weissbach, Die Keilinschriften der Achämeniden, Leipzig 1911; C. Clemen, Fontes historiae religionis Persicae, Bonn 1920; L. Robert, Inscriptions séleucides de Phrygie et d'Iran, in Hellenica, 7 (1949), pp. 22-24; Id., Inscriptions hellénistiques d'Iran, ibid., 11-12 (1960), pp. 85-91; A. Pertusi, La Persia nelle fonti bizantine del secolo VII, in La Persia nel Medioevo. Atti del Convegno Internazionale, Roma 1971, pp. 605-28; G. Pugliese Carratelli, La Persia dei Sasanidi nella storiografia romana da Ammiano a Procopio, ibid., pp. 597- 603; Ph. Gignoux, Glossaire des inscriptions Pehlevies et Parthes, Londres 1972; M. Back, Die sassanidischen Staatsinschriften, Leiden - Teheran - Lüttich 1978; E. von Voigtlander, The Bisitun Inscription of Darius the Great: Babylonian Version (CIIran I, II, Texts I), London 1978; H. Humbach - P.O. Skjaervø, The Sassanian Inscription of Paikuli, Part 1, Part 2, Part 3.1 and 3.2, Wiesbaden 1978-83; H. Sancisi-Weerdenburg, Yaunā en Persai, Groningen 1981; J.C. Greenfield - B. Porten, The Bisitun Inscription of Darius the Great: Aramaic Version (CIIran I, V, Texts I), London 1982; R. Schmitt, The Bisitun Inscriptions of Darius the Great: Old Persian Text (CIIran I, I, Texts I), London 1991; P. Lecoq, Les inscriptions de la Perse achéménide, Paris 1997; Ph. Huyse, Die dreisprächige Inschrift Šābuhrs I. an der Ka'ba-i Zardušt (CIIran III, I, Texts I), London 1999 (2 voll.); R. Schmitt, The Bisitun Inscriptions of Naqsh-i Rustan and Persepolis (CIIran I, I, Texts II), London 2000.
Per i documenti parthici di Nisa: vari volumi dal Corpus Inscriptionum Iranicarum; E.M. Yamauchi, Persia and the Bible, Grand Rapids 1990. Asia Centrale: H.A.R. Gibb, The Arab Conquest of Central Asia, New York 1923; E.D. Phillips, The Legend of Aristeas: Facts and Fancy in the Early Greek Notions of East Russia, Siberia and Inner Asia, in ArtAs, 18 (1955), pp. 161-77; J. Harmatta (ed.), Prolegomena to the Sources on the History of Pre-Islamic Central Asia, Budapest 1979; W. Winter, Studia Tocharica. Selected Writings, Poznam 1984; E.V. Rtveladze, On the Historical Geography of Bactria-Tokharistan, in SilkRoadArtA, 1 (1990), pp. 1-33; R.E. Emmerick, A Guide to the Literature of Khotan, Tokyo 1992²; A. Parpola, Margiana and the Aryan Problem, in InfBIASCCA, 19 (1993), pp. 41-62; N. Sims-Williams - J. Cribb, A New Bactrian Inscription of Kaniṣka the Great, in SilkRoadArtA, 4 (1995-96), pp. 75-142.
di Pia Brancaccio
Le intense attività archeologiche condotte nel Subcontinente indiano durante il XX secolo hanno restituito cospicui resti materiali di vita e cultura dell'antichità. L'interpretazione di queste testimonianze sarebbe impossibile senza il contributo di fonti scritte, in particolare di testi compilati da autori del passato che menzionano fatti a loro contemporanei o vicende tramandate dalle generazioni precedenti. L'India antica ha sempre mostrato uno scarso interesse per la registrazione della storia. Abbondante è la letteratura di carattere religioso, né mancano iscrizioni celebrative o a ricordo di donazioni, ma di rado le fonti scritte si soffermano esclusivamente sull'accadimento storico in sé e per sé. La storia, intesa come successione di eventi unici e irripetibili, non può acquistare grande importanza in una civiltà che non conosce percezione puntuale e lineare del tempo. Piuttosto, in India gli eventi storici sono legati al circolare manifestarsi di forze che non sono esclusivamente umane e solo in tal senso vengono documentati. Nel numero delle fonti storiche vanno incluse pertanto non solo cronache dinastiche e celebrative a sfondo religioso, opere letterarie di poeti di corte, trattati, testi religiosi ed epigrafi che celebrano eventi particolari, realizzati nelle varie lingue del Subcontinente, ma anche testimonianze di storici stranieri del passato che in modi diversi sono venuti a conoscenza dell'India. In primo luogo, fra le fonti relativamente più accurate per la ricostruzione della storia antica del Subcontinente indiano è necessario ricordare le cronache Pali a sfondo buddhistico compilate nello Sri Lanka. Sebbene le cronologie non siano sempre del tutto attendibili, il Dīpavaṁsa (Storia dell'Isola), redatto nel V secolo, che copre un periodo che va dalle origini fino al IV sec. d.C., e il Mahāvaṁsa (La grande storia), che continua fino al XIII secolo, contengono notizie di rilievo per la storia dell'India peninsulare. A queste cronache si aggiungono opere letterarie di carattere pseudo-storico in lingua sanscrita sulla storia di una regione o la vita di un sovrano o di una dinastia. Fra queste va ricordata la Rājataraṅginī (Fiume dei re), che narra le vicende del Kashmir dalle origini leggendarie fino al XII secolo. Compilata da Kalhana a partire dal 1148, è una delle opere storiografiche più accurate che si siano conservate, in cui l'autore dichiara di aver consultato sia narrazioni storiche preesistenti che iscrizioni e documenti di vario tipo. Lo Harṣacarita (Le gesta di Harsha) è invece uno dei principali esempi della tradizione dei romanzi biografici; redatto dal poeta di corte Bana, esso tramanda le gesta del re Harshavardana, sovrano dell'India settentrionale dal 606 al 648. Fra le biografie di questo genere, composte in varie regioni dell'India, va ricordato infine il Vikramāṅkadevacarita (Le gesta del re Vikramā, 1081-89), che ricrea l'atmosfera del regno di Vikramaditya IV, re Chalukya di Kalyana nel Deccan. Oltre al gran numero di fonti appartenenti a questo genere letterario, sia in sanscrito che nei vari pracriti, ovvero lingue locali, un cenno a parte meritano alcuni poemi profani in lingua Tamil raccolti nel terzo Sangam (antico genere letterario di contenuto epico-romantico). Questi, compilati in momenti diversi fra il I sec. a.C. e i primi secoli d.C., contengono interessanti riferimenti alla situazione storica dell'India meridionale al principio della nostra era, allorché queste regioni erano fortemente coinvolte in contatti commerciali con il mondo mediterraneo. I ripetuti cenni sulla presenza di stranieri (detti yavana) nelle regioni più meridionali della penisola condussero sir Mortimer Wheeler all'identificazione del sito di Arikamedu in Tamil Nadu come emporium romano in India. Di grande valore informativo è invece la trattatistica degli śāstra (trattati), fra cui va ricordato l'Arthaśāstra, testo di carattere squisitamente politico, attribuito a Kautilya, consigliere di Chandragupta, primo sovrano Maurya (fine del IV sec. a.C.). Infine il vasto corpus della letteratura religiosa in prevalenza Hindu, ma anche buddhistica e Jaina, contiene alcune informazioni di rilievo per la ricostruzione della storia e della geografia dell'India antica. Vaghe e frammentarie notizie sugli invasori ariani e sulle popolazioni assoggettate si ricavano dai Veda, i più antichi testi letterari dell'India. Una lettura poco critica di questi e dei dati di scavo ha accreditato per lungo tempo la teoria che attribuiva agli Arii la distruzione dei centri urbani della civiltà dell'Indo. Maggiori informazioni si ricavano dai Purāṇa di tradizione Hindu, liste dinastiche compilate a partire dal IV sec. a.C. e non precisamente databili, che contengono una serie di nomi e fatti in successione cronologica relativamente accurata. Tuttavia la cronologia assoluta suggerita da questi testi è assolutamente inattendibile dal punto di vista storico, in quanto basata su credenze di carattere mitologico. Le notizie riportate nelle fonti scritte indiane vanno integrate con i frequenti e precisi passaggi relativi alla storia del Subcontinente contenuti in testi stranieri: greci, latini, cinesi e arabi. Ricordiamo, per il V sec. a.C., gli Indikà, redatti da Ctesia, medico alla corte persiana di Artaserse, e i racconti fantastici dello storico Erodoto (484-406 a.C.). In seguito alla spedizione di Alessandro Magno del IV sec. a.C., testimonianze più dirette sono raccolte nelle storie delle sue campagne di conquista, fra cui va ricordata la Indikè di Arriano (II sec. d.C.). Sulla base di tali resoconti, grazie ai lavori di A. Cunningham, J. Marshall, M.A. Stein, M. Wheeler e G. Tucci, è stato possibile individuare e identificare siti e monumenti di grande importanza storica, tra cui l'antica Bazira (Barikot), Ora (Udegram), la rocca di Aornos (Ilam), l'antica Peukelaotis (Charsada). Di diversa matrice sono gli Indikà di Megastene, inviato del sovrano Seleuco Nicator alla corte Maurya, resoconto tra i più completi dell'India del tempo, citato come fonte da altri autori dell'antichità, la cui ammirata descrizione della capitale Pataliputra ha stimolato e guidato le ricerche archeologiche nell'area dell'odierna Patna. Accanto alle opere di carattere storico, si sono conservati trattati di geografia e resoconti di viaggio del II sec. d.C. che contengono preziose notizie sul Subcontinente, quali la Geografia di Tolemeo e il Periplo del Mare Eritreo, manuale per i mercanti che si dirigevano verso il Subcontinente, redatto da un anonimo mercante alessandrino. Fra le fonti latine di rilievo va ricordata la Naturalis historia di Plinio del I sec. d.C., anch'essa ricca di notizie sull'India. Le fonti cinesi, fra cui le storie dinastiche e le narrazioni di viaggio dei pellegrini buddhisti, offrono una documentazione storica molto accurata. Essenziali per una conoscenza del Subcontinente in epoca post-Gupta sono gli straordinari resoconti di Faxian, che visita l'India nel V secolo, quindi quelli del più famoso Xuanzang e di Yijing nel VII secolo. In particolare, le indicazioni fornite da questi attenti cronisti hanno consentito l'identificazione di siti buddhistici, tra cui l'area sacra di Butkara, dell'antico Uddiyana (Swat, nel Pakistan settentrionale), oggetto di indagine da parte della Missione Archeologica Italiana. Nel periodo successivo sono le fonti arabe a fornire notizie. Molti sono i racconti di viaggio e vasta è la letteratura di carattere storico, ma l'eccellente opera di al- Biruni Tārīkh al-Hind (Storia dell'India, XI sec.) spicca su tutte. Infine va menzionata, fra le storie dell'India fatte redigere in persiano dai sovrani della dinastia Moghul, il Bābur nāmah (Memorie di Babur) dell'imperatore Babur (XVI sec.), fonte insostituibile per ricostruire la complessa realtà dell'epoca. I nomi e le vicende riferiti nelle fonti storiche indiane e straniere non avrebbero grande significato senza il supporto della documentazione epigrafica, per lo più raccolta nei volumi del Corpus Inscriptionum Indicarum, di Epigraphia Indica e nella sezione epigrafica degli Annual Reports dell'Archaeological Survey of India. Numerosissime iscrizioni di diverso genere sono sopravvissute nell'intero Subcontinente incise su pietra, su oggetti preziosi e su metalli, in particolare lastre di rame. Realizzate principalmente in sanscrito nell'India settentrionale a partire dal I secolo, e in diverse lingue e alfabeti nelle altre regioni, esse documentano eventi, nomi e cronologie relative. Le più antiche iscrizioni che abbiano importante valore storico sono quelle fatte redigere nell'India settentrionale da Ashoka, imperatore Maurya (III sec. a.C.), che le fonti incoraggiano a ritenere il grande promotore dell'espansione non solo della fede buddhista, ma anche dell'architettura monumentale ad essa collegata. Scritte in kharoṣṭhī nelle regioni del Nord-Ovest e in brāhmī nel resto del Nord del Paese, incise su colonne di pietra polita con capitelli zoomorfi o su roccia, queste iscrizioni costituiscono un prezioso strumento per l'identificazione e la datazione di siti archeologici, come nel caso dello stūpa I di Sanchi. Fra le fonti epigrafiche dell'India di epoca post-Maurya vanno ricordate l'iscrizione della cosiddetta "colonna di Eliodoro" a Vidisha (II sec. a.C.) e le iscrizioni di epoca Satavahana del Deccan occidentale, fra cui quella su roccia presso il valico di Nanaghat, e altre presso le grotte buddhistiche di Karli, Nasik, ecc. L'epigrafia diviene forse la fonte principale per ricostruire, sia pure frammentariamente, le vicende dell'India settentrionale nei primi secoli della nostra era. In particolare vanno ricordate le iscrizioni dei Saka, quelle attribuite agli Kshaharata a Nasik e Karli, e la più famosa dello kṣatrapa Rudradaman di Ujjain presso Girnar del II sec. d.C. La mole di iscrizioni e graffiti rinvenuti, dalla fine degli anni Settanta, nella regione dell'Alto Indo (Northern Area) testimonia l'importanza dell'area in relazione alle vie di comunicazione tra l'Asia Centrale e l'India, specie nel periodo dei Patola - Shahi (VI-VII sec.), incoraggiando la ripresa delle ricerche archeologiche, finora scarse. È tuttavia a partire dal periodo Gupta (V sec.) che si stabilisce una tradizione epigrafica in sanscrito. Nell'India settentrionale di epoca post-Gupta si conservano numerose iscrizioni di carattere religioso, come del resto in India meridionale e nell'altopiano del Deccan. Un prezioso supporto delle fonti storiche e delle attività di ricerca archeologica è costituito dalle numerose epigrafi realizzate da alcuni sovrani Chalukya (VII sec.), Pallava (VIII sec.) e, ancora più a sud, dai Chola (a partire dal X sec.).
J. Burgess - Bhagwanlal Indraji (edd.), Inscriptions from the Cave- Temples of Western India, 1881 (rist. Delhi 1976); J.W. McCrindle, Ancient India as Described in Classical Literature, Westminster 1901 (rist. Delhi 1979); F.E. Pargiter, Purāṇa Text of the Dynasties of the Kali Age, London 1913; H.M. Eliot - J. Dowson (edd.), The History of India as Told by its Own Historians, I-III, Cambridge 1931; J.V. Chelliah, Ten Tamil Idylls, Colombo 1947; H. Chakrabarti, Early Brāhmī Records in India, Calcutta 1974; V.V. Mirashi, The History and Inscriptions of the Sātavāhanas and the Western Kṣatrapas, Bombay 1981; J. André, L'Inde vue de Rome: textes latins de l'antiquité relatifs à l'Inde, Paris 1986; K. Karttunen, India in Early Greek Literature, Helsinki 1989; K. Jettmar (ed.), Antiquities of Northern Pakistan, Reports and Studies, I-III, Mainz a. Rh. 1989-94.
di Maurizio Scarpari
Le più antiche fonti scritte per i Paesi dell'area estremo-orientale a disposizione degli archeologi sono le iscrizioni su gusci di tartaruga e ossa di animali (jiaguwen), note come "iscrizioni su ossa oracolari" per il loro prevalente carattere oracolare o divinatorio, risalenti all'ultima fase della dinastia cinese Shang (XVI-XI sec. a.C.), cioè al periodo compreso tra i secoli XIII e XI a.C. circa. Si tratta di iscrizioni complete e articolate che denotano uno sviluppo avanzato del sistema di scrittura adottato dai Cinesi, sistema che alcuni studiosi fanno risalire al V millennio a.C. (ma non tutti concordano con questa tesi) e che, nonostante le modifiche anche sostanziali che ha subito nel corso dei secoli, è ancora oggi in uso. Mentre per la Cina è possibile rifarsi a un'epoca così remota, in Corea e in Giappone la scrittura fu introdotta in epoche di gran lunga successive. Le prime opere coreane di valore letterario-storiografico sono infatti il Samguk sagi e il Samguk yusa (note con il nome collettivo di Storie dei Tre Regni), originariamente redatte in cinese durante il periodo Koryo (918-1392 d.C.). Le prime fonti scritte giapponesi risalgono agli inizi del VI sec. d.C., quando si iniziò a registrare con una certa sistematicità la tradizione orale servendosi, anche in questo caso, dei caratteri cinesi. Il corpus di storie ufficiali del Giappone, noto con il nome collettivo di Rikkokushi (Sei storie nazionali), copre il periodo che va dall'origine dell'impero all'anno 887 d.C., e fu compilato tra il VII e il IX sec. d.C. Se le opere letterarie e storiografiche e le collezioni di archivio restano per la Corea e il Giappone le fonti scritte principali a disposizione dell'archeologo, per la Cina esiste invece una quantità impressionante di materiali e di documenti diversi, essenziale per la comprensione della civiltà cinese antica. "Le fonti del nostro sapere risiedono in quanto è scritto su bambù e seta, inciso su metallo e pietra, impresso su vasi da tramandare ai posteri", così si esprimeva Mo Di (480-390 a.C.) intorno al V sec. a.C. Si deve allo spiccato senso della storia dei Cinesi e alla loro millenaria e consolidata abitudine ad archiviare, raccogliere e studiare le iscrizioni e ogni forma di materiale documentario, se oggi abbiamo una mole di informazioni dirette su quasi ogni aspetto della cultura e dell'organizzazione sociale, economica, politica e religiosa della Cina antica. Accanto ai sempre più numerosi dati che le scoperte archeologiche continuano a fornire, importanti informazioni ci derivano dunque dalle iscrizioni su ossa oracolari del tardo periodo Shang e dell'inizio della dinastia Zhou (1045 ca. - 222 a.C.), dalle iscrizioni su bronzi risalenti alle dinastie Shang e Zhou e in misura assai più modesta ai periodi successivi, dalle iscrizioni su pietra, giada, osso, bambù, legno, seta e altri materiali risalenti al periodo che va dal V sec. a.C. in avanti. In una società come quella cinese, la cui élite al potere costantemente si formava sullo studio dei classici, considerati i depositari più autentici del corretto insegnamento per la vita individuale, sociale e politica, le opere letterarie e filosofiche del periodo antico e, più in generale, i testi basilari della scuola confuciana rivestono un'importanza fondamentale come fonte primaria, non solo per lo studio della storia preimperiale, ma anche per la storia delle epoche successive. A partire dal III sec. a.C., e in particolare dopo la fondazione dell'impero, una sempre maggiore coscienza critica dei Cinesi nei confronti della propria storia ha portato alla realizzazione di opere imponenti, quali lo Shiji (Memorie storiche) di Sima Qian (145- 86 a.C.), storia generale della Cina che copre l'intero arco delle conoscenze per oltre 2500 anni, dai tempi del mitico Imperatore Giallo (vissuto secondo la tradizione tra il 2697 e il 2599 a.C.) al regno dell'imperatore Wu degli Han (140-87 a.C.). Lo Shiji è la prima delle Ershiwu shi (Venticinque storie dinastiche) compilate nel corso di oltre venti secoli, nelle quali sono confluiti migliaia di documenti ufficiali e di archivio, annotazioni dei più importanti eventi pubblici e biografie delle personalità di maggiore spicco (oltre 50.000 nell'intero corpus). Sulla scia di un precoce, quanto persistente, interesse per le fonti epigrafiche e paleografiche furono compilate raccolte di iscrizioni di varia natura. Questa ricchezza di materiali ha consentito di comprendere il formarsi e l'evolversi di taluni fenomeni politici, economici, sociali e religiosi che spesso sfuggivano o non venivano volutamente registrati nelle pubblicazioni ufficiali e ha reso possibile individuare le aree geografiche di maggiore concentrazione di attività tra le più disparate e, di conseguenza, la localizzazione precisa di importanti luoghi e città. La scoperta all'inizio del XX secolo di importanti depositi di ossa oracolari, veri e propri archivi di corte, e il rinvenimento quasi simultaneo di intere librerie di documenti e di testi di varia natura, avvenuto all'interno ma anche all'esterno del vasto territorio controllato dall'amministrazione imperiale cinese durante le diverse epoche storiche, in particolare nelle ricche oasi dell'Asia Centrale disseminate lungo la Via della Seta, hanno portato all'istituzione nel 1926 dell'Istituto di Storia e Filologia dell'Academia Sinica. Il primo progetto dell'Istituto fu l'avvio di imponenti e sistematiche campagne di scavo nell'area archeologica di Yin Xu (rovine di Shang- Yin), sita nei pressi dell'attuale villaggio di Xiaotun, a pochi chilometri dalla città di Anyang, nello Henan settentrionale, dov'è stata rinvenuta un'enorme quantità di ossa oracolari, molte delle quali recanti iscrizioni. In Cina, quindi, accanto alle fonti letterarie, storiografiche e archivistiche, di cui le Storie Dinastiche sono l'opera primaria a cui fare riferimento, esiste una ricca e diversificata documentazione epigrafica su vari tipi di materiali.
In seguito a mirate campagne di scavo condotte nel XX secolo sono state scoperte centinaia di migliaia di ossa di animali, prevalentemente scapole di bovini, ma anche ossa di pecora, piastroni e talvolta carapaci di cheloni (tartarughe e testuggini), che durante gli ultimi secoli della dinastia Shang venivano impiegati dagli sciamani nei culti religiosi e nelle pratiche divinatorie di corte. Questi materiali venivano raccolti e stivati in immensi archivi regali appositamente predisposti. Sono 200.000 circa i frammenti di ossa, piastroni e carapaci finora rinvenuti che recano incisi i quesiti sottoposti alle divinità e i responsi che da queste venivano inviati. Scapulimanzia e plastromanzia erano attività quotidiane nella Cina Shang, i pronostici piromantici venivano tenuti in altissima considerazione dalla corte e considerati un passaggio preliminare irrinunciabile nel complesso sistema decisionale della corte e dello stato. La pratica divinatoria effettuata con ossa e gusci continuò per un certo periodo anche dopo la dinastia Shang, come conferma il ritrovamento di oltre 17.000 frammenti di gusci di tartaruga, 300 circa dei quali recanti importanti iscrizioni, rinvenuti nel 1977 a Qishan, nello Shaanxi, in un sito risalente all'inizio della dinastia Zhou. Si tratta dell'unico ritrovamento di ossa oracolari del periodo Zhou. Buona parte dei quasi 3000 diversi caratteri di scrittura individuati nelle iscrizioni su gusci e ossa è stata da tempo decifrata, rendendo possibile l'utilizzazione di questi preziosissimi documenti relativi a un periodo per il quale le uniche altre fonti scritte sono rappresentate da brevi iscrizioni su vasi di bronzo.
Alcune migliaia di iscrizioni su bronzo, perlopiù vasi e calici di varia tipologia, ma anche campane, utensili e armi di ogni tipo, sono state raccolte e studiate in Cina fin dal II sec. a.C. Sebbene la pratica di porre iscrizioni sui vasi rituali in bronzo risalga alla dinastia Shang, fu comunque durante il primo periodo della dinastia Zhou (Zhou Occidentali, sec. XI - 771 a.C.) che le iscrizioni su bronzo conobbero il momento di maggiore splendore, per quantità, qualità, mole di informazioni e lunghezza (fino a diverse centinaia di caratteri). Nel successivo periodo dei Zhou Orientali (770-222 a.C.), quando i vasi in bronzo avevano ormai perduto l'alto valore religioso e rituale che li aveva caratterizzati nei periodi precedenti, lo stile e i contenuti delle iscrizioni subirono significativi mutamenti. Negli ultimi decenni sono state rinvenute centinaia di nuovi vasi con iscrizioni, prevalentemente in tombe di aristocratici vissuti nel periodo Zhou, e talvolta anche in veri e propri depositi segreti. È il caso del ritrovamento avvenuto a metà degli anni Settanta, ancora una volta a Qishan, di un deposito contenente ben 103 vasi di bronzo, 74 dei quali recanti un'iscrizione, fatti forgiare nei primi secoli della dinastia dai membri di una famiglia aristocratica nel corso di almeno cinque generazioni. Gli studi condotti sulle iscrizioni su bronzo del periodo Zhou hanno gettato una luce completamente nuova sulle nostre conoscenze della Cina del I millennio a.C. e hanno consentito scoperte di notevole valore archeologico.
Si tratta di centinaia di iscrizioni incise su tavolette di pietra o di giada o su lastroni di pietra databili dal V sec. a.C. in avanti. Particolarmente interessanti sono le iscrizioni su tamburi di pietra risalenti alla prima dinastia imperiale dei Qin (221-207 a.C.) e le stele in pietra su cui sono stati trascritti, nel 175 d.C., sei classici confuciani: lo Shujing (Classico dei documenti), lo Shijing (Classico delle odi), lo Yijing (Classico dei mutamenti), il Liji (Memorie sui riti), il Chunqiu (Annali delle Primavere e Autunni) e i Lunyu (Dialoghi [di Confucio]). Di grande utilità per la ricerca archeologica si sono rivelate le centinaia di iscrizioni incise su stele erette in luoghi pubblici o scolpite direttamente sulla roccia per commemorare personaggi importanti o eventi particolarmente significativi a livello locale. Queste iscrizioni si sono dimostrate fonti preziose per comprendere l'effettivo funzionamento degli organismi amministrativi decentrati, la gestione del potere a livello locale e la sua influenza sull'apparato centrale, l'organizzazione sociale ed economica di ampie zone dell'impero, spesso troppo periferiche per essere osservate con attenzione dalla corte imperiale. Sia che si tratti di documenti del tutto originali, sia che si tratti di documenti accessori che vanno a integrare fonti, per così dire, più tradizionali (storie dinastiche, memoriali, opere letterarie, ecc.), le informazioni contenute in queste iscrizioni si sono dimostrate di notevole interesse e utilità, al punto da diventare indispensabili per il lavoro degli archeologi e degli storiografi moderni. Tra i ritrovamenti più significativi va ricordata la scoperta avvenuta nel 1986, in un sobborgo a nord di Xi'an, nello Shaanxi, in un sito risalente alla dinastia imperiale degli Han Occidentali (206 a.C. - 9 d.C.), di 30.000 tavolette in osso, recanti iscrizioni di diversa lunghezza, per un totale di alcune decine di migliaia di caratteri. Esse fanno parte dell'archivio dell'organismo governativo di livello più elevato preposto al controllo delle attività artigianali che venivano condotte per conto della corte imperiale. Di particolare rilievo è stato anche il ritrovamento, avvenuto nell'inverno del 1965-66, a Houma, nello Shanxi, di oltre 5000 frammenti di tavolette di giada e di pietra, centinaia delle quali recanti iscrizioni anche piuttosto lunghe e complesse, risalenti al V sec. a.C. A questo ritrovamento ha fatto seguito la scoperta, avvenuta nel 1980-82, a Wenxian, a 150 km da Houma, di oltre 10.000 frammenti di tavolette di giada e strisce di bambù recanti iscrizioni.
Sempre più numerosi sono i ritrovamenti archeologici di materiali deperibili (strisce di bambù o legno, rotoli di seta, ecc.) che venivano impiegati per scrivere prima dell'introduzione della carta, avvenuta nel II sec. d.C. e che sono rimasti nell'uso fino al V sec. d.C. Le strisce di bambù sono scritte a pennello, in verticale (ogni striscia una colonna), e sono legate le une alle altre a formare veri e propri libri. Di particolare interesse sono le 1155 strisce trovate nel dicembre 1975 in una tomba del 217 a.C. a Shuihudi, Yunmeng, nello Hubei. Più della metà, 612 per la precisione, trattano di questioni di carattere giuridico e amministrativo. Le informazioni ivi contenute hanno consentito di ricostruire buona parte dei codici in vigore durante la prima dinastia imperiale Qin. Nel 1984 a Zhangjiashan, nei pressi di Jiangling, è stato rinvenuto un altro migliaio di strisce di bambù, gran parte delle quali recanti sezioni del codice in vigore durante la seconda dinastia imperiale Han. Un'altra sensazionale scoperta è avvenuta nel 1993, a Guodian, presso Jinmen, nello Hubei. In una tomba risalente al 350 a.C. sono stati trovati cinque libri integri, scritti su 804 strisce di bambù, per 16.000 caratteri complessivi. È il più importante ritrovamento di questo tipo mai avvenuto in Cina. Altri manoscritti importanti, gran parte dei quali su seta, sono stati invece rinvenuti nel 1973 in una tomba del 168 a.C. a Mawangdui, presso Changsha, nello Hunan. Si tratta di testi filosofici (alcuni dei quali inediti), storici, politici, astronomici, astrologici e medici. Vi erano anche mappe, carte e diagrammi.
M. Loewe, Manuscripts Found Recently in China: a Preliminary Survey, in T'oung Pao, 63, 2-3 (1977), pp. 7-136; D.N. Keightley, Sources of Shang History. The Oracle-Bone Inscriptions of Bronze Age China, Berkeley 1978; P. Ebrey, Later Han Stone Inscriptions, in HarvJAsSt, 40, 2 (1980), pp. 325-53; A.F.P. Hulsewé, Remnants of Ch'in Law, Leiden 1985; G.L. Mattos, The Stone Drums of Ch'in, Nettetal 1988; E.L. Shaughnessey, Sources of Western Zhou History: Inscribed Bronze Vessels, Berkeley 1991; M. Loewe (ed.), Early Chinese Texts. A Bibliographical Guide, Berkeley 1993; M. Scarpari, Epigrafia e storiografia: come le iscrizioni su pietra rivelino aspetti della società cinese antica ignorati dagli storiografi di corte, in M. Scarpari (ed.), Le fonti per lo studio della civiltà cinese antica, Venezia 1995, pp. 27-33; W.G. Boltz, Manuscripts with Transmitted Counterparts, in E.L. Shaughnessey (ed.), New Sources of Early Chinese History: an Introduction to the Reading of Inscriptions and Manuscripts, Berkeley 1997, pp. 253-82; A.F.P. Hulsewé, Qin and Han Legal Manuscripts, ibid., pp. 193-221; D.N. Keightley, Shang Oracle-Bone Inscriptions, ibid., pp. 15-55; M. Loewe, Wood and Bamboo Administrative Documents of the Han Period, ibid., pp. 161-92; G.L. Mattos, Eastern Zhou Bronze Inscriptions, ibid., pp. 85-123; R.D.S. Yates, Five Lost Classics: Tao, Huang Lao, and Yin-Yang in Han China, New York 1997.
di Nicoletta Celli
Le fonti di interesse storico per l'Asia sud-orientale si basano per lo più su documenti epigrafici diversamente databili per ciascuno dei regni indianizzati sorti nel I millennio della nostra era. Il contenuto delle iscrizioni, in sanscrito e in pāli nei periodi più antichi (fino al VII sec.) e in lingua locale in quelli più tardi, ha un carattere ufficiale e dedicatorio, mentre sono escluse informazioni riguardanti la vita quotidiana. Tuttavia l'epigrafia indocinese costituisce oggi uno degli ambiti più significativi per la ricerca. Basti qui ricordare la preziosa documentazione trasmessa dalle iscrizioni di Pagan, che testimoniano il debito della cultura birmana nei confronti della più antica tradizione Mon di Thaton, dalla quale ha adottato lingua e scrittura; o la messa a punto della cronologia cambogiana e dunque dei monumenti di Angkor grazie alla decifrazione delle stele in sanscrito e in lingua Khmer; e, analogamente, la ricostruzione attraverso le fonti epigrafiche sanscrite e Cham della successione dei re e della storia politico-religiosa del Champa. In alcuni casi la ricerca filologica ha persino sopperito alle lacune dei dati archeologici: ne è esempio il regno di Shrivijaya, la cui importanza storica venne svelata e ricostruita grazie al lavoro di G. Cœdès su poche e frammentarie iscrizioni. Infine, le nuove proposte di lettura di materiali epigrafici e letterari si sono rivelate illuminanti rispetto al significato religioso di alcuni monumenti indonesiani, dei quali si è accertato il carattere commemorativo anziché funerario, restituendo così ai templi il loro ruolo di edifici religiosi e non di tombe regali. Meno frequenti risultano le testimonianze letterarie, in genere assai recenti, poiché, a causa della deperibilità del materiale usato (la foglia di palma seccata e opportunamente preparata), i reperti più antichi non si sono conservati. Accanto alle fonti locali, un buon numero di informazioni proviene dalle storie dinastiche cinesi, dai diari di viaggio dei pellegrini buddhisti e da alcune opere cinesi di carattere enciclopedico. Le notizie comprendono racconti sulle relazioni tra la Cina e i regni dell'Asia meridionale, descrizioni dei luoghi visitati dalle missioni diplomatiche e informazioni sull'organizzazione dei Paesi. Pur essendo uno strumento prezioso, spesso le informazioni più dettagliate sono vanificate dall'impossibilità di identificare con certezza il luogo o la città riportati dai testi cinesi. Per quanto concerne infine le fonti archivistiche, nulla è giunto sino a noi e le notizie di cui si dispone sono indirette: sono infatti ancora le testimonianze cinesi a informare dell'esistenza di archivi e documenti dei regni con cui la Cina intratteneva relazioni diplomatiche. Le uniche fonti di tipo archivistico sono rappresentate dagli annali e dalle cronache reali, genere sviluppatosi per lo più dopo il XIII secolo, nel quale tuttavia la mera descrizione degli eventi si alterna a racconti di carattere leggendario.
Le testimonianze più antiche provengono dall'antico regno dei Pyu, popolazione di lingua tibeto-birmana, considerata l'avanguardia delle migrazioni birmane e stanziata lungo il corso medio dell'Irrawady. Le fonti epigrafiche si dividono tra le iscrizioni in lingua indiana (pāli ), che riportano frammenti del canone buddhista su lamina d'oro, risalenti al VI secolo e rinvenute nell'area della capitale del regno, Prome, e quelle in pyu, rimaste indecifrate fino al 1911, quando venne scoperta la stele di Myazedi (a sud di Pagan), redatta nel 1113 in pyu, pāli, môn e birmano. All'epoca di Pagan (XI-XIII sec.) e delle capitali posteriori appartiene inoltre la maggior parte delle iscrizioni di carattere dedicatorio, per lo più in birmano, ma anche in sanscrito, pāli, môn e pyu. Per quanto riguarda le fonti cinesi, mentre le prime notizie sul regno Pyu risalgono al III secolo, le storie dinastiche della Cina Tang ricordano la capitale del regno Pyu, Shrikshetra (Prome), distrutta da un saccheggio nel IX secolo per mano di popolazioni Thai provenienti dallo Yunnan.
Le fonti sulla storia dei regni indianizzati della Thailandia, sorti tra i primi secoli dell'era cristiana e il XIII secolo, si basano soprattutto sulle cronache cinesi che riferiscono l'esistenza di questi regni nel II secolo e su alcuni sigilli le cui iscrizioni sono datate al III e IV secolo e testimoniano gli stretti contatti con il mondo indiano. Altre iscrizioni ritrovate nella Penisola Malese, in lingua indiana e d'ispirazione buddhista, confermano le relazioni con le dinastie dell'India meridionale. Particolarmente importante si è rivelata la scoperta delle medaglie iscritte in sanscrito di Nakhon Pathom, probabile capitale nei secoli VII-VIII del regno di Dvaravati, la cui esistenza è stata stabilita grazie alla conferma di altri dati archeologici. Per quanto concerne la storia dei regni Thai, una fonte di grande importanza è rappresentata dall'iscrizione su pietra del 1293 ordinata dal re Rama Khamheng, il cui nome è legato all'introduzione della scrittura in lingua Thai. Le cronache regie locali risalgono invece a periodi più tardi, come ad esempio una storia del regno di Ayutthaya dal 1350 al 1604 (Phong Sawadan), composta nella seconda metà del XVII secolo.
Le prime fonti appartengono al regno del Funan, uno dei più antichi e potenti regni dell'Asia sud-orientale, localizzato lungo il corso inferiore e il delta del Mekong. Le testimonianze locali sull'antico regno funanese comprendono materiali archeologici quali i sigilli inscritti di Oc Eo e numerose iscrizioni, tra cui figura quella in sanscrito di Vo Canh (sito nei pressi di Nha Trang, Vietnam meridionale). Quest'ultima costituisce la più antica attestazione dell'uso della lingua indiana nel Sud-Est asiatico ed è datata in base alle analisi epigrafiche al III-IV secolo. Le fonti cinesi riportano invece informazioni risalenti alla metà del III secolo, epoca a cui corrispondono le missioni nel Funan descritte nei resoconti di viaggio dei primi osservatori. Al periodo preangkoriano (VI-VIII sec.) e angkoriano (IX-XIII sec.) risale la maggioranza delle iscrizioni volute dai sovrani cambogiani: nel VII secolo compaiono iscrizioni in versi sanscriti, ma anche in prosa e in lingua Khmer e a partire dal IX secolo ricorre inoltre il nome Kambuja per indicare la regione abitata dai Khmer. Tra i diversi materiali, celebri sono le iscrizioni di Vat Samrong (X sec.) e di Sdok Kak Thom (XI sec.), che ricordano la fondazione del regno Khmer e l'istituzione del rituale shivaita a opera di Jayavarman II agli inizi del IX secolo. L'imponente patrimonio epigrafico, nelle lingue indiane e in lingua Khmer, studiato e tradotto sin dal secolo scorso, fu in gran parte raccolto e pubblicato da G. Cœdès. Infine, tra le fonti letterarie più tarde, spicca il diario dell'osservatore cinese Zhou Daguan (Chou Ta-Kuan), che visitò a lungo il regno Khmer nel XIII secolo.
Le fonti più antiche sono quelle cinesi, che dal II secolo menzionano il regno chiamato Linyi, il più settentrionale dei regni che in seguito si fonderanno nel Champa. L'esistenza di quest'ultimo è attestata localmente da iscrizioni reali in sanscrito, del IV secolo, relative all'area di Mi Son, mentre l'evidenza del nome Champa risulta da materiali epigrafici posteriori: le iscrizioni dei sovrani Cham del VII e dell'VIII secolo di Mi Son e quelle dell'VIII secolo di Po Nagar (Nha Trang), altra probabile residenza regale. Dall'area di Tra Kieu proviene invece la prima iscrizione che attesta l'esistenza della lingua Cham (IVV sec.). Le raccolte di iscrizioni risalgono a E. Aymonier e ad A. Bergaigne, in seguito accresciute dalle scoperte più recenti.
Il fenomeno dell'indianizzazione è attestato in particolar modo nelle isole di Giava occidentale e del Borneo orientale dalle fonti epigrafiche, che testimoniano la diffusione di culti religiosi di matrice induista. Le iscrizioni in sanscrito di Kutei (Borneo orientale), datate all'inizio del V secolo, costituiscono i più antichi documenti ufficiali conservati, mentre quattro iscrizioni rupestri della metà del V secolo provano la diffusione dei culti brahmanici a Giava occidentale. Le più antiche iscrizioni in giavanese (lingua diffusa nella parte centro-orientale dell'isola) sono incise su lamine di pietra o di rame e risalgono ai primi sovrani di Giava centrale: ne è esempio la più antica, datata al 732, ritrovata presso un monumento shivaita nella piana di Kedu. Nonostante il numero consistente di iscrizioni su pietra e metallo rinvenute a Giava, Bali e Sumatra, la documentazione offerta da queste testimonianze non fornisce un quadro coerente degli eventi storici anteriori al X secolo. Infatti, la maggior parte ricorda privilegi o proprietà accordate alle comunità religiose, ma tace invece sulla costruzione dei monumenti. Inoltre, gli oscuri rapporti tra le genealogie dei sovrani di Sumatra e quelli di Giava tra l'VIII e il IX secolo rende ancora difficile l'attribuzione certa di monumenti di Prambanan o di Borobudur. Solamente a partire dal X secolo l'identità dei sovrani giavanesi può essere stabilita con sicurezza attraverso le fonti epigrafiche. Analogamente, le fonti letterarie (la maggior parte delle quali è posteriore al X sec.) menzionano di rado monumenti ancora esistenti. La situazione appare assai diversa per i periodi più tardi, per i quali si dispone di due importanti fonti storiche. La più antica è il Nāgarakṛtāgama (1365) che, oltre a includere un elenco di tutti i santuari del regno e una descrizione di alcuni templi, offre preziose informazioni sulla vita di corte e sui riti funerari nella Giava del XIV secolo. Importante, ma meno attendibile della precedente, è la seconda delle cronache locali, Pararaton, della fine del XV secolo.
E. Forchhammer, The Inscriptions of Pagan, Pinya and Ava, Rangoon 1892; A. Bergaigne, Inscriptions sanscrites de Campā et du Cambodge, Paris 1893; G. Cœdès, Le Royaume de Çrīwijaya, in BEFEO, 18 (1918), pp. 1- 36; H.A. Giles (ed.), The Travels of Fa-hsien (399-414 A.D.), or Record of the Buddhistic Kingdoms, Cambridge 1923; G. Cœdès (ed.), Inscriptions du Cambodge, I-IX, Hanoi - Paris 1937-66; P. Pelliot, Mémoires sur les coutumes du Cambodge de Tcheou Ta Kouan, Paris 1951; L.-C. Damais, Études d'épigraphie Indonésienne III, in BEFEO, 46 (1952), pp. 1-105; Tin Lwin, Ananda Brick Monastery: Inscriptions of Pagan, in JBurmaRecSoc, 59 (1976), pp. 101- 15; P. Wheatley, Nagara and Commandery. Origins of the Southeast Asian Urban Tradition, Chicago 1983; Mak Phocum, Chronique royale du Cambodge (des origines légendaires jusqu'à Pamarâja Ier), Paris 1984.
di Rodolfo Fattovich
L'Africa vanta la più lunga sequenza culturale di tutto il pianeta. La ricostruzione di questo lunghissimo passato ha richiesto di definire una griglia cronologica entro la quale collocare le diverse fasi dello sviluppo sociale, economico e culturale delle popolazioni del continente. Ciò è stato possibile, almeno in parte, utilizzando quattro diversi tipi di dati: 1) evidenze archeologiche; 2) dati linguistici; 3) fonti scritte; 4) fonti orali. La documentazione archeologica è senza dubbio, in una prospettiva sia temporale sia geografica, la più completa. Benché ancora molto frammentaria, essa copre lo sviluppo culturale di tutto il continente, dalle primissime attestazioni di manufatti attribuibili a ominidi fino al presente. L'evidenza linguistica copre un arco di tempo relativamente breve, in pratica solo gli ultimi 10.000 anni. Le fonti scritte (letterarie ed epigrafiche) offrono riferimenti cronologici per gli ultimi 4000 anni e, fino ad epoca molto recente, solo per alcune regioni del continente. Le fonti orali coprono un periodo di tempo non superiore ad alcuni secoli, anche se talvolta possono raggiungere una maggiore profondità temporale, specialmente se riportate in testi scritti. Le fonti scritte, in particolare, comprendono fonti letterarie non africane e africane. Le fonti non africane (includendo l'Egitto antico, che costituisce un mondo a sé nel contesto della storia del continente) comprendono testi egiziani di età faraonica e copta, fonti letterarie ellenistico-romane e bizantine, fonti arabe preislamiche e islamiche e relazioni di viaggiatori europei di epoca precoloniale. Esse riguardano principalmente le regioni maggiormente entrate in contatto con l'esterno: l'Africa mediterranea, la Nubia, il Corno d'Africa, l'Africa orientale, l'Africa occidentale e, dal XVI secolo, le regioni costiere dell'Africa australe. Per le regioni interne del continente di fatto non esistono fonti documentarie anteriori all'epoca coloniale (XIX sec.). Tra i testi egiziani di età faraonica particolare interesse hanno per l'archeologia e la storia dell'Africa subsahariana quelli che fanno riferimento al commercio con la Terra di Punt, oggi identificata con la costa e l'entroterra delle regioni africane che si affacciano sul Mar Rosso meridionale. Queste fonti hanno permesso infatti di delineare il circuito commerciale tra l'Egitto e il Corno d'Africa nel III e nel II millennio a.C. e hanno offerto uno stimolo importante alla ricerca archeologica nella regione, soprattutto lungo i bassopiani eritreo-sudanesi. Informazioni abbastanza dettagliate sulle popolazioni dell'Africa nord-orientale a sud dell'Egitto (Sudan e Corno d'Africa) e della costa dell'Africa orientale, a partire dal III sec. a.C., sono fornite dalle fonti classiche (ellenistico-romane e bizantine). Due testi in particolare vanno ricordati: il Periplo del Mare Eritreo di autore anonimo e la Topografia cristiana del monaco e mercante egiziano Cosma Indicopleuste. Il Periplo, redatto tra il 40 e il 70 d.C., offre una descrizione particolareggiata degli approdi e delle popolazioni lungo la costa africana del Mar Rosso e dell'Oceano Indiano fino alla Tanzania settentrionale. Particolarmente importante in questo testo è la descrizione del porto aksumita di Adulis sulla costa eritrea. La Topografia cristiana, scritta probabilmente fra il 535 e il 547, descrive il viaggio compiuto da un monaco-mercante egiziano dall'Egitto all'India. Essa fornisce un quadro generale del regno etiopico di Aksum nel periodo della sua massima espansione territoriale, nonché una descrizione molto accurata dell'antico porto di Adulis. I testi di autori arabi costituiscono un'altra fonte preziosa di informazioni per la ricostruzione del passato del continente tra la fine del I e la metà del II millennio d.C. Essi comprendono numerose descrizioni geografiche della Nubia, del Corno d'Africa e delle regioni costiere dell'Africa orientale, che hanno permesso di delineare il loro quadro etnico e politico a partire dal IX sec. d.C., anche se riferimenti precisi a località archeologicamente ben definite, quali Mogadiscio, Merca, Barawa, Mombasa, Mkumbu, Mtambwe, Tumbatu e Kilwa, si riscontrano soltanto a partire dal XIII secolo. I resoconti arabi del commercio trans-sahariano con l'Africa occidentale hanno a loro volta offerto indicazioni archeologicamente utili sull'esistenza e la possibile localizzazione di centri commerciali e insediamenti urbani quali Sigilmissa in Marocco, Tegadaus, Azugi e Kumbi-Saleh in Mauritania, Djenné- Djeno, Timbuctù e Gao nel Mali, Azelik e Marandet nel Niger. Le fonti europee, soprattutto portoghesi, offrono infine informazioni utili per le regioni costiere dell'Africa occidentale, più direttamente coinvolte nel commercio di schiavi, a partire dal XV secolo. Le fonti letterarie africane sono assai più limitate. L'uso della scrittura si è diffuso in Africa ‒ eccettuato l'Egitto ‒ in epoca molto tarda, a partire dal I millennio a.C. e quasi esclusivamente in regioni dove si sono sviluppate società di tipo statale (Nubia, Etiopia, costa dell'Africa orientale, Africa occidentale), nonché tra le popolazioni berbere del Sahara. In particolare, la penetrazione dell'Islam ha avuto un ruolo rilevante nella formazione di una tradizione scritta in Africa orientale e occidentale. I documenti più antichi, nubiani ed etiopici, sono costituiti in prevalenza da iscrizioni reali. Quelli più recenti, di età medievale e moderna, comprendono cronache e testi con chiaro intento storiografico (Etiopia, Africa orientale, Africa occidentale). A questi va aggiunta in Etiopia una cospicua tradizione di testi agiografici. Di particolare interesse sono le cronache reali etiopiche, che permettono di delineare l'espansione del regno cristiano medievale sull'altopiano etiopico tra la fine del XIII e gli inizi del XVI secolo e offrono interessanti riferimenti alle popolazioni periferiche, sia musulmane sia pagane, dell'Etiopia orientale, meridionale e occidentale. Cronache locali, quali la Tarikh al-Sudan (Cronaca del Sudan) e la Tarikh al-fattash (Cronaca del cercatore), redatte a Timbuctù nei secoli XVI-XVIII, sono attestate anche nell'Africa occidentale e contengono soprattutto informazioni sulle genealogie dei clan. Tutte queste fonti hanno permesso di delineare lo schema generale della storia dell'Africa in epoca precoloniale e hanno fornito riferimenti cronologici preziosi anche agli archeologi. Si deve comunque ricordare che non sempre è facile stabilire una correlazione precisa tra dati storici e dati archeologici. Le fonti orali costituiscono un'altra categoria di dati utilizzata nell'archeologia africana, particolarmente nell'Africa orientale, centrale e occidentale. Le popolazioni del continente possiedono infatti una precisa coscienza storica del loro passato, che viene trasmessa per via orale in forma di genealogie e di racconti storici. In ogni caso, l'uso delle fonti orali come documenti storiografici e come riferimenti cronologici richiede un'accurata valutazione critica, in quanto esse possono essere soggette a distorsioni dovute a fattori ideologici o a rielaborazioni più recenti, spesso inquinate dalle ricostruzioni storiche proposte da studiosi occidentali. Inoltre, una cronologia assoluta interna abbastanza sicura delle fonti orali è possibile soltanto qualora esse ricordino eventi astronomici databili con precisione, come ad esempio eclissi solari. Queste fonti pertanto richiedono una costante verifica archeologica. Ciononostante, le fonti orali hanno effettivamente fornito indizi utili anche in archeologia, permettendo di localizzare le possibili capitali di regni antichi, di correlare i resti archeologici a determinate popolazioni e di datare approssimativamente tali resti. Queste fonti si sono dimostrate particolarmente fruttuose nell'Africa centrale e occidentale.
L'uso di fonti epigrafiche per la ricostruzione del passato dell'Africa è fortemente limitato dalla sostanziale assenza in gran parte del continente di materiale documentario. Escludendo l'Egitto, dove innumerevoli iscrizioni di vario contenuto e lunghezza sono attestate fin dalla fine del IV millennio a.C., e l'Africa mediterranea, dove un ricco materiale epigrafico è presente fin dal I millennio a.C., numerose iscrizioni ‒ per lo più reali ‒ sono documentate principalmente in Nubia (Sudan), in Eritrea e in Etiopia settentrionale. In Nubia esse sono redatte sia in egiziano geroglifico sia in lingua meroitica (quest'ultima purtroppo ancora non decifrata) e sono databili al periodo napateo-meroitico, quando il regno indigeno di Kush si sviluppò nella regione tra il IX sec. a.C. e il IV sec. d.C. Esse comprendono sia iscrizioni monumentali reali, sia brevi iscrizioni su tavole d'offerta funerarie e su ostraka. Tra le iscrizioni reali si possono menzionare la stele di incoronazione di Aspelta (593-568 a.C.), che getta luce sulla procedura di successione al trono, e quelle dei re Harsiyotef (404- 369 a.C.) e Nastasen (340-335 a.C.), che ricordano spedizioni militari verso il Deserto Orientale e i bassopiani eritreosudanesi. In Eritrea e in Etiopia settentrionale sono state segnalate finora oltre 260 iscrizioni redatte in sudarabico, etiopico (ge'èz) e greco. Queste comprendono sia brevi iscrizioni rupestri, individuate soprattutto nella regione del Qohaito in Eritrea, sia iscrizioni monumentali reali e brevi iscrizioni su oggetti votivi. Esse sono databili tra la metà del I millennio a.C. e la fine del I millennio d.C. e forniscono informazioni sulle forme più antiche di istituzioni statali nella regione, ma tacciono completamente sull'economia di sussistenza e su altri aspetti rilevanti delle società antiche. Le iscrizioni monumentali più antiche, databili tra il 600 e il 300 a.C., sono redatte in grafia sudarabica e in lingua sabea e attestano l'affermarsi sull'altopiano etiopico settentrionale di una società statale di tipo sudarabico (regno del Daamat) con sovrani che portavano il titolo sabeo di mukarrib. Vanno poi ricordate due iscrizioni in greco, oggi scomparse, copiate ad Adulis sulla costa eritrea da Cosma Indicopleuste e riprodotte nella sua Topografia cristiana. La prima, attribuibile a Tolemeo III Evergete (246-222 a.C.), suggerisce una frequentazione di Adulis già in epoca tolemaica. La seconda, attribuibile a un anonimo re aksumita del II-III sec. d.C., descrive le conquiste di questo sovrano sia in Etiopia e in Eritrea, sia in Arabia meridionale e fornisce informazioni molto importanti sulle modalità con cui il regno di Aksum si consolidò nei primi secoli dell'era volgare. Si possono inoltre menzionare alcune iscrizioni del re Ezana (330 d.C. ca.) che ricordano operazioni militari verso i bassopiani sudanesi, ma soprattutto testimoniano la conversione del sovrano alla fede cristiana e di conseguenza l'introduzione del cristianesimo nel regno di Aksum. Iscrizioni arabe arcaiche, in caratteri cufici, databili ai primi secoli dell'Egira, sono state infine segnalate in varie località del Sudan orientale (a Khor Nubt nell'entroterra di Port Sudan), nelle isole Dahlak (Dahlak Kebir) di fronte a Massaua in Eritrea e presso Mekele nel Tigrai (Etiopia settentrionale). Esse rivestono una particolare importanza, in quanto testimonianza della più antica diffusione islamica lungo la costa africana del Mar Rosso già nell'VIII-IX secolo.
Fonti letterarie: J. Ki-Zerbo (ed.), General History of Africa, I, Berkeley 1981; G. Mokhtar (ed.), General History of Africa, II, Berkeley 1981; P. Salmon, Introduction à l'histoire de l'Afrique, Bruxelles 1986; O. Vogel (ed.), Encyclopedia of Precolonial Africa, London 1997.
Fonti epigrafiche: C. Conti Rossini, Storia d'Etiopia, Bergamo 1928; D.A. Welsby, The Kingdom of Kush. The Napatan and Meroitic Empires, London 1996.
di Claude-François Baudez
Nell'antica America vere e proprie forme di scrittura vennero prodotte solo dalle civiltà mesoamericane. Due furono i fattori all'origine dei testi epigrafici: la politica e la divinazione. La volontà di registrare eventi storici, reali o immaginari, di legittimare il potere dinastico e di glorificare le azioni dei sovrani spinse gli scribi a inventare un mezzo per trascrivere nomi propri e toponimi. Il precoce sviluppo di un sistema calendariale permise non solo di collocare nel tempo gli avvenimenti politici, ma anche di celebrare anniversari, stabilire corrispondenze tra cicli e predire il futuro. La qualità e la quantità delle informazioni provenienti dalle fonti epigrafiche utilizzabili dagli archeologi dipendono da tre fattori: la complessità della scrittura, i suoi campi di espressione e lo stato della sua decifrazione. Un sistema di scrittura limitato a notazioni calendariali e all'espressione di nomi propri, come quello azteco, può offrire solo dati circoscritti, di ordine storico o economico (come, ad es., quelli contenuti nel Codice Mendoza), mentre altri tipi di notazione, tecnicamente in grado di esprimere qualsiasi concetto, risultano essere stati utilizzati solo in ambiti ristretti, per lo più religiosi o politici. Attualmente sono stati identificati in seno alle civiltà mesoamericane cinque tipi di scrittura. Le più antiche evidenze di scrittura sono state rinvenute nell'Oaxaca (Messico): il Monumento 3 di San José Mogote, datato tra il 600 e il 500 a.C., è costituito da una lastra scolpita in bassorilievo su cui è ritratto un nemico ucciso, di cui viene riportato il nome calendariale, 1 Movimento. Uno o due secoli più tardi l'Edificio L di Monte Albán venne decorato da pannelli litici su cui erano rappresentati cadaveri, accompagnati da glifi con il nome del nemico vinto e da un segno per indicare la sua sconfitta. Su due stele aniconiche appaiono inoltre un testo in colonna con cifre (un punto per il numero 1 e una barra per il numero 5) e alcuni elementi del sistema calendariale mesoamericano, che combinava un calendario divinatorio di 260 giorni e un calendario solare di 365 giorni. Le fonti per la scrittura zapoteca del Periodo Classico (300- 900 d.C.) sono costituite da monumenti scolpiti, la cui rarità ha ostacolato i progressi nella decifrazione: finora un terzo dei 100-300 caratteri inventariati è conosciuto attraverso un unico esemplare. È stato comunque possibile decifrare la maggioranza dei dati calendariali e degli ideogrammi. La scrittura era in primo luogo al servizio della politica: essa accompagnava infatti l'immagine dei sovrani riportandone il nome, la nascita, il matrimonio, gli antenati e la discendenza. Le immagini e i testi scolpiti o dipinti nelle sepolture indicavano il nome dei defunti, tracciandone a volte la genealogia. La grande semplicità della scrittura zapoteca e altri ostacoli alla sua decifrazione limitano molto le nostre conoscenze in tale ambito: si hanno così ancora scarsi dati sulla storia politica, militare e dinastica e su alcune genealogie. Per i periodi più recenti, invece, per i quali si dispone di manoscritti pittografici, mappe (lienzos) e calendari divinatori, lo storico e l'archeologo possiedono precise informazioni sulla geografia politica e sulla religione. Nel XVI secolo esistevano infatti numerosi libri in forma di codici (piegati a fisarmonica) o di rotoli; vi erano testi contabili (di tributi), genealogie e mappe. Gli esemplari conservatisi, risalenti agli inizi dell'epoca coloniale, descrivono unità territoriali attraverso toponimi in cui sono associati elementi pittografici, logografici, ideografici e fonetici. I monumenti litici rinvenuti in area mixteca mostrano affinità con quelli zapotechi. I documenti scritti su carta, cuoio o tessuto di cotone o di agave, prodotti da gruppi di lingua mixteca tra il 1100 e il 1600 d.C., consistevano essenzialmente in libri religiosi (calendari divinatori), storici (genealogie) e geografici; la pittografia narrativa in forma di "fumetto" vi occupava un ruolo importante. I soggetti rappresentati erano per la maggior parte personaggi storici, ritratti in posture, gesti e abbigliamento convenzionali; la narrazione visuale era integrata da elementi scritti, soprattutto date e nomi propri di persone e di luoghi. I toponimi utilizzavano il glifo "montagna" accompagnato da un nome di luogo spesso in forma di rebus; vi erano inoltre pittogrammi che designavano città, di pianura o montane, e corsi d'acqua. Le mappe mostrano la città al centro di un territorio i cui confini sono delimitati da toponimi disposti alla periferia. Insieme con la pittografia narrativa, da cui è inseparabile, la scrittura mixteca ha permesso agli specialisti di ricostruire la storia di due delle più importanti dinastie della Mixteca tra il 1009 e il 1164 d.C. Questa ricostruzione è stata portata a termine combinando tra loro numerosi codici che possiedono passaggi comuni. In taluni casi la veridicità storica di questi manoscritti è stata confermata da particolari rinvenimenti effettuati in altre località: così in una sepoltura di Zaachila si sono ritrovati i nomi dei personaggi 9 Fiore e 5 Fiore del Codice Nuttall. Oltre a questa storia cronachistica, ricca di matrimoni, nascite, guerre, conquiste, sacrifici di nemici vinti, ecc., i codici offrono interessanti passaggi sulle relazioni di alcuni importanti personaggi con il mondo soprannaturale. Contrariamente ai Mixtechi, per i quali non si possiedono molti esempi precortesiani, gli Aztechi hanno lasciato alcuni monumenti litici con glifi. La Pietra di Tizoc è un inventario delle conquiste attribuite al sovrano Tizoc (1481-86): esse sono indicate attraverso l'immagine convenzionale del re (accompagnata dal suo nome) che afferra per i capelli il sovrano di una città conquistata. I codici avevano soprattutto contenuto storico, riportando genealogie, proprietà, territori e tributi, ma comprendevano anche calendari divinatori, libri di festività, riti, nomi da attribuire a neonati, ecc. È possibile che con gli Spagnoli la scrittura azteca abbia acquisito nei codici storici ed "economici" maggiore rilievo: una parte importante del Codice Mendoza, manoscritto della prima metà del XVI secolo, è costituita infatti dall'inventario dei tributi pagati alla capitale azteca dalle province conquistate. I nomi di persona non vennero trascritti in termini calendariali, come nei codici mixtechi, ma in forma di rebus. Nel Codice Fiorentino è riportata la lista dei re di Tenochtitlan, di Huexotla e di Tlatelolco. Una pagina del Codice Xolotl documenta il matrimonio di Acamapichtli con una figlia di Achitometl, signore di Culhuacan. I calendari divinatori, con pittografie narrative, erano accompagnati dal racconto orale e servivano da supporto al discorso. Nelle basseterre della Mesoamerica, durante il Preclassico Recente (300 a.C. - 300 d.C.), si manifesta la presenza di due famiglie linguistiche e di due tradizioni di scrittura. Alcuni testi che utilizzavano numerosi segni, la cui struttura indica una lingua del gruppo Mixe-Zoque, vennero incisi sulla statuina di Tuxtla e sulla stele 1 di La Mojarra (Veracruz); quest'ultima comprendeva datazioni di Conto Lungo (vale a dire calcolate a partire da una data iniziale). Sulla costa pacifica e nelle alteterre del Guatemala vari monumenti datati tra il 100 a.C. e il 100 d.C. attestano gli inizi di una tradizione Maya di registrazione degli eventi politici e militari; non vi sono invece iscrizioni nei grandi siti preclassici delle basseterre Maya, quali Nakbé o El Mirador. È certamente dalle iscrizioni Maya che gli archeologi hanno tratto il massimo profitto, essenzialmente perché un gran numero di monumenti reca datazioni di Conto Lungo, esplicite o implicite, che consentono di ricondurre le date degli eventi narrati al calendario gregoriano. I progressi nella decifrazione compiuti dopo il 1960 hanno permesso di comprendere il vocabolario politico e militare e di scrivere la storia delle vicende delle città, i loro conflitti e alleanze, le loro vittorie e sconfitte, la loro ascesa e il loro declino. Analoghi progressi sono stati compiuti anche nella comprensione dei rituali connessi con la regalità, delle conoscenze astronomiche e delle pratiche divinatorie. I Maya idearono e utilizzarono il sistema di scrittura più efficiente e il calendario più preciso dell'intera Mesoamerica. Mentre in altre culture le datazioni non erano precise se non all'interno di un "secolo" di 52 anni, i Maya perfezionarono il Conto Lungo, che permise loro di indicare l'anno di qualsiasi avvenimento, reale o mitico, a partire da una data iniziale, corrispondente all'11 agosto del 3114 a.C. Per ribadire la legittimità dei loro sovrani, essi fecero a volte ricorso ad eventi o a esseri mitici situati in un lontano passato (fino a 400 milioni di anni sulla stele D di Quiriguá). Il più antico monumento Maya in cui sia certamente riportata una datazione di Conto Lungo, corrispondente al 292 d.C., è la stele 29 di Tikal. Dopo il crollo delle città Maya delle basseterre centrali nel X sec. d.C., il sistema di scrittura perdurò per un certo periodo nello Yucatán, sparendo invece del tutto nei monumenti pubblici di Chichén Itzá. La sua ricomparsa a Mayapán nel XIII secolo è sporadica: i glifi sono rari, dipinti o modellati in stucco anziché scolpiti. Poche sono le iscrizioni monumentali di questo periodo che si sono conservate e sembrerebbe che la scrittura sia stata molto meno utilizzata in campo politico e militare. Per il Periodo Classico si dispone invece di migliaia di monumenti litici scolpiti (stele, altari, architravi, pannelli, scalinate con iscrizioni glifiche, ecc.), a cui vanno aggiunti i manufatti di pietra, di conchiglia o d'osso e le ceramiche dipinte e incise. I testi presenti sulle stele erette periodicamente (ogni cinque, dieci o venti anni) avevano un contenuto essenzialmente politico e riportavano i principali avvenimenti di un regno, oltre che i più importanti riti che li avevano accompagnati. I Maya possedevano inoltre libri in corteccia battuta, di cui si sono rinvenuti resti nelle sepolture. Solo tre esemplari, risalenti a poco prima della Conquista e conservati a Dresda, a Madrid e a Parigi, sono sopravvissuti: essi contengono almanacchi rituali, oroscopi e predizioni astronomiche.
H.B. Nicholson, Phoneticism in the Late Pre-Hispanic Central Mexican Writing System, in E.P. Benson (ed.), Mesoamerican Writing Systems, Washington 1973; M.D. Coe, Breaking the Maya Code, London 1992; J. Marcus, Mesoamerican Writing Systems: Propaganda, Myth and History in Four Ancient Civilizations, Princeton 1992.
di Miguel Rivera Dorado
Nel vasto territorio occupato dall'area culturale denominata Mesoamerica dal 1511 in poi sono stati prodotti innumerevoli documenti scritti che possono essere considerati fonti letterarie utili per la ricerca archeologica. In parte essi coincidono con quelli utilizzati nel campo degli studi etnostorici, una cui accurata catalogazione è apparsa in Handbook of Middle American Indians (1972-75). L'impiego di fonti letterarie nella ricerca archeologica richiede tuttavia un'attenta lettura critica di ciascun complesso documentale e un'appropriata definizione dei caratteri che rendono questo materiale idoneo ai fini perseguiti. In vari casi, infatti, l'uso indiscriminato e prematuro di una fonte ha causato distorsioni nell'interpretazione dello stesso contesto archeologico, che gli specialisti hanno letto in una luce errata, con valutazioni attribuibili a opinioni preconcette totalmente fuorvianti. Per citare un solo esempio, si ricordi l'interpretazione distorta di vari complessi architettonici religiosi aztechi e delle evidenze ad essi associate ingenerata dalle informazioni dei cronisti spagnoli, che, per ragioni di ordine politico o religioso, posero l'accento sui dettagli più crudeli e terrificanti di sacrifici umani, pratiche antropofagiche e offerte cruente. Un'altra importante questione riguarda l'uso di tali documenti scritti. Un'adeguata valutazione critica permette di accertare la loro autenticità, di stabilire il valore dei contenuti e di elaborare allo stesso tempo una tipologia che ne faciliti l'uso agli specialisti. Per certe fonti si impone una rigorosa ermeneutica, poiché il loro carattere religioso e iniziatico le rende oscure e di equivoca interpretazione; altre hanno subito alterazioni nel corso del tempo ed è necessario un arduo lavoro di esegesi e ricostruzione prima del loro utilizzo. In alcuni casi, infine, il testo è un esemplare unico e costituisce da solo una categoria, non potendo dunque essere contraddetto o confermato da materiali affini o complementari. Una prima classificazione delle fonti letterarie per la ricerca archeologica mesoamericana è costituita da una loro suddivisione cronologica in fonti coloniali, prodotte tra il 1511 e il 1810, periodo del dominio spagnolo, e fonti moderne, datate dal 1810 in poi. Nonostante la facilità di produzione e di diffusione di testi che caratterizza l'epoca moderna, le fonti coloniali sono altrettanto abbondanti e ovviamente più rivelatrici, in quanto si occupano di società più vicine nel tempo e, proprio perché generalmente restie all'acculturazione, oggetto di particolare attenzione e analisi da parte delle autorità coloniali. Le fonti coloniali possono essere divise in fonti indigene e non indigene. Le prime furono generalmente redatte dai nativi sottomessi nelle loro lingue originali, benché venissero anche prodotti testi pittografici o in spagnolo. Le fonti indigene possono essere a loro volta raggruppate in due altre categorie: quelle riservate alle élites o "ad uso interno" e quelle pubbliche. Le fonti tradizionali, di cui sono un buon esempio i Libri di Chilam Balam dei Maya dello Yucatán, comprendono testi destinati alla conservazione della memoria storica, delle idee e delle credenze all'interno del gruppo. A questa categoria appartengono molti libri e rotoli dipinti, generalmente detti codici, alcuni dei quali di incalcolabile valore artistico e documentale, come il Codice Baranda dell'Oaxaca, la Tira de la Peregrinación, il Codice Selden, il Codice Magliabechiano, ecc. I documenti pubblici erano destinati ad avere un'ampia circolazione, a sostenere cause contro gli Europei o a rispondere a precise esigenze dei colonizzatori; solitamente si tratta di contratti di compravendita, di memoriali, di codici o mappe (come il Codice Mendoza), e persino di opuscoli di propaganda politica. I documenti coloniali non indigeni sono, come già detto, molto numerosi; citeremo qui i tipi più importanti per lo studio delle culture archeologiche. In primo luogo vi sono le cronache spagnole, relazioni di eventi o di viaggi scritte da soldati, sacerdoti o coloni al fine di giustificare le loro azioni, di diffondere conoscenze sulle realtà del luogo, di facilitare l'opera di proselitismo religioso o di sottomissione politica, ecc. Alcune cronache sono veri trattati antropologici, come la Historia general de las cosas de Nueva España di Bernardino de Sahagún, per l'accuratezza e il poderoso apparato documentale e critico opera precorritrice degli studi di etnologia messicana. L'archeologia dei gruppi Nahua sarebbe impensabile o notevolmente impoverita senza il ricorso a questo monumentale trattato sul Messico antico. Qualcosa di simile, nonostante si tratti di un'opera più modesta, si può dire della Relación de las cosas de Yucatán di Diego de Landa. Le Relaciones geográficas (1577-1648), contenenti mappe e dipinti, furono compilate per ordine di Filippo II sulla base di un questionario di 50 domande; riguardano gran parte della Mesoamerica, vale a dire l'area del Vicereame della Nuova Spagna, ad eccezione delle zone non ancora colonizzate o di difficile accesso. Numerosi coloni risposero a questa inchiesta, esprimendo le loro opinioni personali o quelle degli indigeni loro sottoposti. Le Relaciones riportano eventi storici, tradizioni, credenze religiose e fatti economici, risultando così di enorme valore documentale. Tali materiali si trovano oggi nell'Archivo de Indias di Siviglia, alla Real Academia de la Historia di Madrid e nell'Università del Texas. Altre fonti sono le leggi dirette ai nativi, le disposizioni amministrative e gli atti di processi tra nativi o tra Spagnoli e nativi, talora corredati da pareri e giudizi di esperti e funzionari. In termini generali si potrebbero classificare come testi giuridici e legali quelli provenienti dalle corti di giustizia, dalle autorità civili e militari in Spagna e in America, dai visitadores (ispettori) e dagli oidores (giudici del tribunale di giustizia della Real Audiencia), dai vescovi e dai superiori di ordini religiosi, ecc. I documenti linguistici, stilati nelle diverse lingue native, a volte con interessanti glosse, sono molto numerosi sia nel Messico centrale che nell'Oaxaca e in area Maya. I documenti religiosi sono invece adattamenti, compiuti dai sacerdoti cattolici con l'aiuto di nativi convertiti, delle Sacre Scritture, dei catechismi e di altri sussidi dell'attività evangelizzatrice. Essi costituiscono uno dei migliori strumenti per comprendere il pensiero degli eredi delle culture preispaniche e spesso la presenza di pittografie o di immagini permette di identificare elementi della cultura materiale tradizionale. Citeremo come esempi il Confesionario mayor di Alonso de Molina e l'anonimo e ingenuo Catecismo nahuatl en imágenes pubblicato da M. León-Portilla nel 1979. Un altro gruppo di fonti è costituito dalle relazioni di viaggio; furono soprattutto i Francescani a percorrere ogni regione lasciando accurate descrizioni di quanto vedevano o di ciò che li colpiva maggiormente. Come esempio si ricordino le importantissime Carta-relación e Relación y forma dell'oidor Diego García de Palacio sul Guatemala del XVI secolo e l'opera di Antonio de Ciudad Real sui viaggi di Alonso Ponce in varie province della Nuova Spagna. Le fonti indigene moderne sono di due tipi: quelle tradizionali, in cui vanno incluse le riedizioni di testi antichi, quali i già citati Libri di Chilam Balam, di carattere storico, calendariale e religioso, che continuano ad essere realizzate in alcune località dello Yucatán, e le opere di carattere letterario in cui sono raccolti e rielaborati leggende e costumi della tradizione orale, quale ad esempio il mito cosmogonico di Oxkintok redatto in spagnolo alcuni decenni fa da Donato Dzul, anziano del villaggio di Maxcanú. Accanto a questa categoria, occorre citare ancora una volta i cosiddetti "documenti pubblici", destinati allo sviluppo delle relazioni tra gruppi indigeni e rappresentanti della cultura occidentale, soprattutto funzionari del governo messicano, anche se alcuni sono rivolti da autori nativi a membri della loro stessa etnia. Un esempio rilevante è costituito dalla grande quantità di testi scritti prodotta nello Yucatán in occasione della lunga guerra de castas che afflisse la penisola. Tra le fonti moderne non indigene si devono segnalare i libri di viaggi (ad es., quelli del XIX sec. pubblicati da J.L. Stephens, F. Calderón de la Barca o E.B. Tylor), i documenti amministrativi quali censimenti, leggi, atti catastali e inchieste di varia natura, ecc.
di Franklin Pease G.Y.
Le fonti coloniali per lo studio dei Paesi andini sono numerose; molte di esse hanno avuto e continuano ad avere grande importanza per la ricerca archeologica. Prima ancora delle relazioni storiche, i più antichi documenti che forniscano informazioni sull'avanzata degli Spagnoli in America furono le lettere scritte a partire dal 1520 dai conquistadores. Di notevole interesse risultano ad esempio gli scambi epistolari tra i membri delle spedizioni di Francisco Pizarro nell'Oceano Pacifico, a sud di Panama, e i funzionari dell'istmo, così come quelli tra i coloni già residenti in Panama e le autorità spagnole. Questi primi documenti sono però imprecisi riguardo ai toponimi e, ovviamente, alla loro trascrizione. Il più vasto complesso di documenti storici del XVI secolo per l'America Meridionale è quello che si riferisce al Vicereame del Perù, la cui giurisdizione comprese fino al XVIII secolo l'intera porzione occidentale del subcontinente. Nel 1528 un membro dell'equipaggio dell'imbarcazione di Bartolomé Ruiz (o forse egli stesso) riferì dell'assalto a una balsa (zattera) carica di mercanzie e della cattura di alcuni individui, che poi fecero da interpreti nel corso della prigionia di Atahualpa a Cajamarca nel 1532. Un altro documento con importanti notazioni è una lettera di Hernando Pizarro agli oidores (giudici) della Audiencia di Santo Domingo (1533), scritta durante il suo viaggio verso la Spagna per portare il quinto real, la parte spettante alla Corona del bottino raccolto in Perù. Risalgono poi al 1534 due opere classiche, La conquista del Perú llamada la Nueva Castilla, il cui autore è stato identificato da R. Porras Barrenechea in Cristóbal de Mena, e la Verdadera relación de la conquista del Perú di Francisco de Xerez. Le cronache possono essere classificate in base alla qualità e alla contemporaneità delle informazioni trasmesse. Nel caso del Perù è evidente che in quelle scritte prima dell'arrivo al Cuzco di Pizarro gli Spagnoli non conoscevano ancora il termine Inca, né sono riportati altri nomi di sovrani oltre a quello di Atahualpa; tali fonti non sono neppure precise per quanto concerne i toponimi, ad eccezione di quelli delle zone attraversate dagli Spagnoli nei loro viaggi fino a Cajamarca. Secondo queste cronache, Cuzco era il nome dell'Inca Huascar o quello di suo padre Huayna Capac, mentre Collao era una città. Altri cronisti, il più importante dei quali fu Pedro Sancho, vennero progressivamente interessandosi alla geografia e all'onomastica. Successivamente si iniziò a riportare le "dinastie" dei sovrani Inca e a precisare il periodo del loro regno; nella Noticia del Perú, scritta probabilmente nel 1542, si legge per la prima volta "Ingua, que quiere dezir Rey" ("Inca, che significa Re"). Solo tra il 1550 e il 1560 fu elaborata una lista di sovrani, in cui però non si trova ancora menzionata quella divisione diarchica del potere di cui si è tanto discusso in anni recenti; molto importanti in questo senso risultano le cronache di Juan de Betanzos e di Pedro Cieza de León. Numerose informazioni di carattere archeologico sono contenute in varie opere relative alla storia Inca (tra cui quelle di Pedro Sarmiento de Gamboa, Cristóbal de Molina, Martín de Murúa, Felipe Guaman Poma de Ayala e Bernabé Cobo), scritte a partire dal 1550. In tutte risultano di grande interesse le indicazioni relative all'ubicazione dei centri amministrativi e dei luoghi ritenuti importanti nelle campagne di conquista attribuite a ciascuno dei sovrani Inca, oltre alla descrizione di particolari edifici. Non sono invece del tutto attendibili le affermazioni dei cronisti in merito all'ambito geografico occupato da ciascuna entità etnica o politica; in genere, infatti, essi riproposero senza discernimento alcuni criteri di controllo territoriale e di giurisdizione esistenti in Europa. Le notizie sulle credenze religiose acquisirono importanza fin da prima delle celebri campagne di extirpación de idolatrías, condotte nella prima metà del XVII secolo nell'arcivescovado di Lima: sia le cronache in generale, sia i documenti relativi alla proprietà terriera fanno infatti frequente riferimento a luoghi sacri e a santuari (huaca). Esiste anche un'abbondante documentazione amministrativa relativa alle autorizzazioni concesse per scavare in huaca o templi, o per reimpiegare in nuove costruzioni le pietre di edifici preispanici, soprattutto nella sierra meridionale peruviana, centro della cultura Inca. Importanti sono pure le cronache sull'evangelizzazione, quali la Relación scritta dai frati agostiniani di Huamachuco, in cui si trovano numerosi dati archeologici sulla regione. Lo stesso dicasi per la maggioranza dei testi sulla extirpación de idolatrías, come i manoscritti di Huarochirí, compilati da Francisco de Ávila agli inizi del XVII secolo ed editi in forma bilingue solo nel XX secolo. Sempre in riferimento alla repressione della religione autoctona, molto note sono le relazioni scritte su queste campagne dal gesuita Pablo José de Arriaga e dall'arcivescovo di Lima Pedro de Villagómez. La tradizione delle relazioni di viaggio venne proseguita da Cieza de León nel terzo volume della sua Crónica del Perú, sulla spedizione di Francisco Pizarro (1554). Col tempo i viaggiatori divennero più numerosi: per il XVII secolo sono di particolare rilevanza le relazioni di Pedro de León Portocarrero, inizialmente noto come l' "ebreo portoghese", e di Antonio Vázquez de Espinosa (1628), che percorse vaste regioni dell'America Meridionale compilando accurate descrizioni dei luoghi visitati. Parte delle informazioni da questi raccolte non risale però al tempo in cui venne scritta l'opera: Vázquez de Espinosa infatti riportò numerosi dati demografici risalenti ai decenni precedenti e questo è un elemento importante se si considera il forte calo di popolazione verificatosi agli inizi del XVII secolo. Le relazioni di viaggio divennero più numerose nel XVIII secolo; di particolare rilevanza è quella di Alonso Carrió de la Bandera, scritta sotto lo pseudonimo di Concolorcorvo. Maggiore risonanza ebbero le descrizioni geografiche e successivamente quelle archeologiche di viaggiatori quali A. von Humboldt, J. Juan e A. de Ulloa. E.J. Squier applicò la sua esperienza di scavo dei mounds del Mississippi alla zona centroamericana e successivamente alla regione andina. Altre importanti relazioni di viaggio furono inoltre scritte da E. de Sartiges, F. de Castelnau, J.J. von Tschudi, A. Raimondi, A. d'Orbigny e Ch. Wiener.
R. Porras Barrenechea, Fuentes históricas peruanas, Lima 1954; Id., Cartas del Perú, Lima 1959; Th.L. Welch - M. Figueras, Travel Accounts and Descriptions of Latin America and the Caribbean, 1800-1920, Washington 1982; R. Porras Barrenechea, Los cronistas del Perú y otros ensayos, Lima 1986; E. Otte, Cartas privadas de emigrantes a India, 1540- 1616, Jerez 1988; E. Nuñez, Viajes y viajeros extranjeros por el Perú. Apuntes documentales con algunos desarrollos histórico-biográficos, Lima 1989; F. Pease G.Y., Las crónicas y los Andes, Lima 1995.
di Miguel Rivera Dorado
I documenti conservati presso gli archivi nazionali e provinciali, di giurisdizione statale o ecclesiastica, degli stati moderni in cui si svilupparono le antiche società mesoamericane sono stati e continuano ad essere una preziosa fonte di informazioni per la ricerca archeologica. Vi si possono infatti rinvenire mappe con l'ubicazione di antichi insediamenti preispanici, lettere che contengono descrizioni di luoghi, di popoli e di costumi di grande interesse per l'archeologia, comunicazioni che riportano avvenimenti legati alla conquista e alla colonizzazione della Nuova Spagna, con informazioni di prima mano sui nativi, dati censuali e tributari relativi ai periodi storici precedenti e molti documenti che testimoniano le difficoltà incontrate dagli evangelizzatori nell'intento di sradicare credenze e pratiche religiose tradizionali. Gli archivi per la ricerca archeologica mesoamericana possono essere così classificati: 1) archivi soggetti all'amministrazione centrale dello stato, ubicati nelle capitali o nei capoluoghi regionali; 2) archivi delle diocesi ecclesiastiche, ospitati nelle sedi principali dei vescovati; 3) archivi parrocchiali; 4) archivi degli ordini religiosi, situati nei paesi e nelle città in cui si trovano le case madri. I principali archivi a cui gli archeologi fanno più frequentemente ricorso sono l'Archivo General de la Nación de México, l'Archivo General de Centroamérica in Guatemala, l'Archivo General de Indias di Siviglia, l'Archivo de Simancas di Valladolid e l'Archivo Histórico Nacional di Madrid. Indubbiamente, e per ragioni diverse, molti manoscritti di particolare importanza si trovano in biblioteche e musei degli Stati Uniti, come ad esempio alcuni di quelli che si riferiscono alle entradas (spedizioni di esplorazione) al Petén del Guatemala di Agustín Cano e di altri religiosi nel XVII secolo, oggi nella biblioteca dell'Università del Texas, o il celebre Popol Vuh dei Maya Quiché nella trascrizione di Francisco Ximénez, conservato nella biblioteca Newberry di Chicago. Occorre inoltre citare gli archivi del Vaticano e quelli del Palacio Real di Madrid. Anche se vari studiosi ritengono che gli incartamenti ancora inediti contenuti in archivi europei e americani non dovrebbero ormai riservare particolari sorprese, in essi è comunque contenuta una enorme quantità non ancora studiata di lettere, attestati, decreti, minute, titoli, credenziali, relazioni, registri, leggi, ordinanze, giudizi, mandati, inchieste, indagini e disposizioni, prodotta dall'intricata burocrazia spagnola talora per mano degli stessi nativi. In tale vastissima documentazione si trovano significative e attendibili informazioni sulle culture di interesse archeologico e dunque il loro studio è sovente in grado di arricchire o integrare i dati derivanti dalle ricerche sul terreno.
D. Zemurray Stone, Some Spanish Entradas 1524-1695, New Orleans 1932; N.M. Hellmuth, Preliminary Bibliography of the Chol, Lacandon, Yucatec, Itza, Mopan, and Quejache of the Southern Maya Lowlands: 1524- 1969, Greeley 1970.
di Franklin Pease G.Y.
I documenti di archivio possono fornire agli archeologi una grande messe di informazioni: in essi si ritrovano infatti notizie importanti non solo in merito all'ubicazione di luoghi di interesse archeologico, ma anche riguardo, ad esempio, alle specifiche funzioni di determinate strutture architettoniche. In particolare, le visitas (ispezioni) amministrative del periodo coloniale chiariscono, tra l'altro, le modalità di approvvigionamento dei depositi di alimenti e altri beni nelle Ande Centrali, documentando inoltre i meccanismi di redistribuzione e la stretta relazione di queste attività con le strutture di parentela e altre sfere della organizzazione socio-economica. I registri notarili di vendita di terre informano anche sul loro uso e sul tipo di coltivazioni, riportando inoltre dati riguardanti le forme di segnalazione dei confini tra i campi coltivati, i sistemi di misurazione, ecc. Anche i censimenti tributari e i registri di raccolta dei tributi coloniali, così come le sentenze emesse dai tribunali, forniscono generalmente questo tipo di informazioni. Sebbene molte visitas si riferiscano ad ambiti locali e siano motivate da ragioni giudiziarie, generalmente riferibili alla definizione di proprietà terriere in rapporto alla Corona, quelle realizzate sulla base di questionari e quelle che riportano descrizioni generali delle giurisdizioni amministrative contengono importanti informazioni archeologiche. Le più celebri visitas sono le Relaciones geográficas de Indias, il cui nucleo sul Vicereame del Perù fu riunito nel XIX secolo da Marcos Jiménez de la Espada. Per le Ande Centrali riveste particolare importanza la visita del viceré Francisco de Toledo (1572-75), che copre gran parte dell'area; rilevanti dati geografici e demografici vengono inoltre forniti da una seconda visita generale, disposta dal viceré Duque de la Palata alla fine del XVII secolo. Gli eccellenti risultati offerti dall'impiego di questo tipo di fonti sono dimostrati dalle ricerche realizzate nel sito di Huánuco Pampa, un antico centro amministrativo Inca. Le visitas hanno tra l'altro in molti casi permesso di identificare andenes (terrazzamenti artificiali) con funzioni particolari (ad es., per lavare il sale) e di rintracciare i luoghi di provenienza delle risorse utilizzate.
J.V. Murra, Formaciones económicas y políticas del mundo andino, Lima 1975; L. Hanke - G. Mendoza, Guía de las fuentes en Hispanoamérica para el estudio de la administración virreinal española en México y en el Perú, Washington 1980; J. Tepaske, Research Guide to Andean History, Durham 1981; F. Pease G.Y., Del Tawantinsuyu a la historia del Perú, Lima 1989².
di Thomas R. Hester
Nonostante per le culture dell'America Settentrionale si possiedano anche varie fonti di carattere storico-letterario, nell'ambito degli studi su quest'area la documentazione propriamente etnografica, volta alla descrizione e allo studio delle culture native sincronicamente osservabili, ha costituito in molti casi uno strumento privilegiato per la ricostruzione diacronica delle fasi preistoriche recenti di quelle stesse culture. Fortemente impegnata, a differenza di altri generi di ricerca, nell'esercizio critico del concetto di cultura e nell'individuazione dei processi di mutamento, la ricerca etnografica è arrivata in alcuni casi a costituirsi come fonte storica, orientata anche in senso archeologico, a seguito dei drastici mutamenti intervenuti con la colonizzazione e con i successivi processi di modernizzazione che hanno cancellato l'identità etnica e in molti casi la stessa esistenza fisica di numerosi gruppi nativi. Di fatto, gli archeologi americanisti hanno per lungo tempo attinto dalla ricca documentazione storica ed etnografica sulle popolazioni indigene esistenti nel Nuovo Mondo al momento della Conquista. In America Settentrionale molti gruppi si estinsero dopo il XVIII secolo a causa della diffusione di malattie di origine europea: è il caso, in particolare, del Sud-Est degli Stati Uniti e del Texas, dove le missioni spagnole dell'epoca coloniale furono involontarie responsabili della decimazione dei gruppi di cacciatori-raccoglitori. In altre aree, come la Costa Occidentale e il Gran Bacino, le popolazioni autoctone furono sottoposte a dure sofferenze intorno alla metà del XIX secolo (ad es., durante la "corsa all'oro" in California), anche se molte riuscirono a sopravvivere, conservando alcuni tratti del loro patrimonio culturale fino agli inizi del XX secolo. Nelle Grandi Pianure numerose popolazioni stanziali incontrate dai primi esploratori furono sostituite da nomadi in possesso di cavalli, o divennero nomadi esse stesse come nel caso dei Comanche, dei Pawnee e dei Sioux. Nel Sud-Ovest, etnie native di agricoltori sedentari (Navaho, Zuñi, Hopi) protrassero, in molti casi fino ad epoca moderna, il loro tradizionale modo di vita. Numerosi gruppi furono invece obbligati a trasferirsi negli Stati Uniti orientali. Alcuni, come i Kickapoo della regione dei Grandi Laghi, si spostarono verso sud raggiungendo il Messico settentrionale verso la metà del XIX secolo; altri, come i Cherokee e i Seminole degli Stati Uniti meridionali, furono costretti a insediarsi nel Territorio Indiano (l'attuale Oklahoma). I principali gruppi del Nord-Est vennero trasferiti e annientati nel corso delle prime fasi dell'espansione dei coloni americani e solo piccoli nuclei delle antiche tribù sopravvivono attualmente. Per molte culture indigene dell'America possediamo abbondanti fonti etnostoriche. Si tratta di documenti redatti nel corso delle esplorazioni e dell'insediamento dei coloni inglesi, francesi e spagnoli. In alcuni casi questi materiali integrano le relazioni etnografiche degli antropologi del XIX e del XX secolo; in altri casi costituiscono le uniche testimonianze disponibili su alcune culture indiane, quale ad esempio quella dei cacciatori-raccoglitori di lingua Coahuilteco del Texas meridionale. Questi gruppi furono decimati nel XVIII secolo dalle malattie diffusesi dal Messico e in parte incorporati nelle missioni spagnole. Così, nel decennio tra il 1810 e il 1820, molto tempo prima che potesse essere studiata dagli etnografi, qualsiasi traccia della loro cultura era scomparsa. Di queste etnie rimangono solo scarse informazioni negli archivi spagnoli. La documentazione etnografica per l'America Settentrionale è molto ricca, nonostante gli effetti devastanti della diffusione di malattie, delle guerre indiane e dei numerosi casi di genocidio. Tra le prime accurate sintesi sugli Indiani d'America spicca l'opera in sei volumi di H. Schoolcraft, Historical and Statistical Information, Respecting the History, Conditions, and Prospects of the Indian Tribes of the United States, pubblicata tra il 1851 e il 1857. Tuttavia solo agli inizi del decennio tra il 1870 e il 1880, dopo la guerra civile, vennero avviate ricerche sistematiche dai primi antropologi americani. La maggioranza di questi lavori fu coordinata da J.W. Powell, il primo direttore del Bureau of Ethnology, successivamente Bureau of American Ethnology, della Smithsonian Institution. Benché avesse compiuto studi di geologia, Powell si interessò della conservazione del patrimonio culturale degli Indiani d'America, in particolare di quello dei gruppi del Gran Bacino, dove svolse ricerche tra il 1871 e il 1874; il fotografo della sua spedizione, J.K. Hiller, scattò numerose eccellenti fotografie di queste etnie del deserto. Tra i primi etnografi che lavorarono al di fuori del Bureau vi furono F.H. Cushing (talora considerato "il primo etnologo americano" per i suoi studi sugli Zuñi), J. Fewkes e i primi antropologi con incarichi accademici, come F. Boas che svolse approfondite ricerche tra gli Indiani della costa nordoccidentale. Un allievo di Boas, A.L. Kroeber, produsse importanti lavori etnografici, tra cui il celebre Handbook of the Indians of California, ultimato nel 1919 e pubblicato nel 1925. Sebbene buona parte di quest'opera fosse frutto delle sue ricerche, Kroeber attinse informazioni anche dalle relazioni etnografiche di P. Goddard, E. Gifford e S. Barrett e dai pionieristici studi di P. Schumacher, effettuati nel decennio 1870-80. Dal suo arrivo a Berkeley nel 1902 fino al termine degli anni Trenta, Kroeber insistette affinché i suoi studenti e i suoi colleghi si adoperassero per preservare la cultura delle tribù indiane superstiti della California attraverso approfondite indagini etnografiche. Questi studi furono pubblicati in gran parte nella collana University of California Publications in American Archaeology and Ethnology. Un altro docente di Berkeley, R.H. Lowie, condusse ricerche tra gli Indiani delle Pianure, in particolare tra i Crow. Lowie e successivamente altri studiosi, quali O. Stewart e J.H. Steward, effettuarono indagini anche tra i gruppi del Gran Bacino. Tra i primi etnografi del Sud-Est va ricordato A. Gatschet, la cui ricerca sui Karankawa della costa del Texas venne pubblicata nel primo volume (1891) dei Peabody Museum Papers in Archaeology and Ethnology. J.R. Swanton svolse a partire dal primo decennio del XX secolo indagini assai più ampie, di carattere sia etnostorico che etnografico, tra i Caddo, i Choctaw, i Creek e altri gruppi del Sud-Est. Il merito di questi e altri antropologi fu quello di raccogliere una ricca documentazione etnografica sugli Indiani d'America. Nei primi decenni del XX secolo l'archeologia americana fu fondamentalmente descrittiva e di orientamento storico-culturale. Nel tentativo di ampliare i confini interpretativi dell'indagine archeologica, iniziò ad essere utilizzata frequentemente l'"analogia etnografica". Attualmente questo procedimento metodologico è spesso considerato privo di carattere scientifico e di scarso rilievo. Di fatto si è abusato nell'impiego di tale metodo, utilizzando ad esempio in modo indiscriminato dati etnografici sugli aborigeni australiani, sui !Kung Bushmen (San) del deserto del Kalahari e sugli Indiani d'America per ricostruire antichi modelli culturali, sovente senza considerare che le società documentate dagli etnografi erano coinvolte in processi di mutamento. R.L. Kelly, come altri studiosi, avverte che un uso incauto dell'analogia etnografica potrebbe indurre i ricercatori a ricostruire il passato ancora prima di effettuare indagini archeologiche. Tuttavia ciò non dovrebbe impedire loro di utilizzare i dati etnografici "per costruire modelli da verificarsi mediante l'informazione archeologica". Questo approccio è stato ampiamente utilizzato nel Sud-Ovest, in particolare nello studio della cultura Pueblo, poiché le evidenze archeologiche indicano che, prima del contatto con gli Europei e delle ricerche antropologiche, essa era caratterizzata da un modo di vita molto stabile e conservatore. Un campo in cui l'analogia etnografica ha dato risultati assai positivi è quello dell'interpretazione funzionale dei manufatti. I musei americani ospitano ricche collezioni di materiali degli Indiani d'America, le cui affinità con manufatti preistorici possono rivelarsi di grande utilità. I coltelli di selce immanicati degli Yurok, impiegati per il taglio delle carni dei salmoni e raccolti da Kroeber agli inizi del XX secolo, sono stati oggetto di analisi al microscopio per individuare tracce d'uso. Sulla base di questi dati sono state individuate tracce analoghe sui bifacciali preistorici (salmon knives) rinvenuti in questa regione. Un altro caso che si può citare è l'analisi che E. Wilmsen ha condotto sui raschiatoi in pietra scheggiata, ben documentati etnograficamente, degli Eschimesi e di altre popolazioni. Lo studioso ha misurato l'angolazione dei bordi taglienti di questi manufatti, la cui funzione era stata descritta dagli antropologi. Utilizzando il campo di variabilità di queste misure, Wilmsen ha tentato di risalire alla funzione dei raschiatoi paleoindiani di 10.500 anni fa. Anche se questi studi hanno fornito preziose indicazioni sull'uso degli utensili preistorici, i valori delle angolazioni non possono essere utilizzati da soli per determinare con precisione i materiali lavorati dai raschiatoi preistorici. Un altro importante uso dei dati etnografici ha contribuito ad ampliare il complesso delle conoscenze archeologiche nei 10-15 anni che hanno preceduto l'invenzione delle tecniche di datazione radiometrica. Si tratta dell'"approccio storico diretto", attraverso cui l'archeologo, partendo da realtà etnografiche ben documentate, tenta di risalire indietro nel tempo fino alle epoche più antiche. L'esempio migliore dell'applicazione dell'approccio storico diretto è costituito dagli studi sull'archeologia del Nebraska effettuati negli anni 1935-40 da W.D. Strong, che ricostruì una sequenza a partire dalle epoche storiche fino alle fasi preistoriche. Studi analoghi sono stati condotti nelle Pianure da W.R. Wedel e in California da R.F. Heizer. Questo approccio si rivela ancora particolarmente valido in alcune situazioni che vengono oggi sottoposte a verifiche molto accurate, quale ad esempio il tentativo di individuare nelle fasi archeologiche recenti manufatti indiani analoghi a quelli recuperati nelle missioni spagnole. Studi etnografici sono stati spesso utilizzati per inquadrare problematiche legate alla ricerca archeologica. D.H. Thomas ha impostato le sue indagini sulla sussistenza e sui modelli d'insediamento preistorici nella valle del Rees (Nevada) sulla base delle ricerche etnografiche condotte da J.H. Steward tra gli Shoshone. I dati etnografici si sono rivelati di estrema utilità per la ricostruzione degli antichi sistemi culturali del Gran Bacino, che includevano un modello "lacustre", ossia basato sullo sfruttamento delle risorse dei laghi, risalente a circa 4000 anni fa e praticato ancora dai Paiute del nord nel XX secolo. Nelle Foreste Orientali numerose informazioni vennero raccolte dai primi esploratori inglesi, francesi e spagnoli tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo. Le ultime manifestazioni della cultura Mississippi furono registrate dai Francesi tra i Natchez, che ancora edificavano le abitazioni e i templi su tumuli e possedevano una divisione in due classi, nobili e gente comune, forse analoga all'organizzazione sociale di epoche più antiche. Inoltre, gli esploratori francesi assistettero alle cerimonie funerarie riservate al capo supremo dei Natchez, il Grande Sole, nel corso delle quali si praticava il sacrificio rituale degli schiavi e delle mogli. Queste informazioni sono state utilizzate dagli archeologi per interpretare le sepolture preistoriche Mississippi, con un defunto in posizione centrale e numerosi altri resti di individui chiaramente sepolti nello stesso momento. Nel Nord-Est la cultura irochese venne documentata nel XVII secolo dagli esploratori inglesi e francesi, che lasciarono dettagliate descrizioni e a volte disegni delle piante dei villaggi fortificati, con le tipiche long-houses (grandi case collettive) rivestite di corteccia. Queste relazioni costituiscono fonti etnostoriche di estrema importanza per gli archeologi che scavano i siti di questa regione. Partendo da tali documenti e risalendo dalle epoche storiche a quelle tardopreistoriche, è probabilmente possibile tracciare la storia degli insediamenti irochesi scavati da J. Tuck nello stato di New York: così possono essere ricostruiti archeologicamente sia la tradizione delle caratteristiche long-houses che lo sviluppo dei sistemi di fortificazione nel XVI secolo, quando si registrò un aumento della conflittualità tra le tribù indiane.
A.L. Kroeber, Cultural and Natural Areas of Native North America, Berkeley 1939; J.R. Swanton, The Indians of the Southeastern United States, Washington 1946; R. Ascher, Analogy in Archaeological Interpretation, in SouthWestJAnthr, 17 (1961), pp. 317-25; R.H. Lowie, Indians of the Plains, Garden City 1963; E.P. Dozier, Making Inferences from the Past, in W.A. Longacre (ed.), Reconstructing Prehistoric Pueblo Societies, Albuquerque 1970, pp. 202-13; G.P. Murdock - T.J. O'Leary, Ethnographic Bibliography of North America, New Haven 1975⁴; HNAI, XX; J.A. Tuck, The Iroquois Confederacy, in G.R. Willey - J.A. Sabloff (edd.), Pre-Columbian Archaeology, San Francisco 1980, pp. 73-83; R.L. Bettinger, Hunter-Gatherers: Archaeological and Evolutionary Theory, New York 1991; T.J. O'Leary - D. Levinson (edd.), Encyclopedia of World Cultures, I, Boston 1991; R.L. Kelly, The Foraging Spectrum: Diversity in Hunter-Gatherer Lifeways, Washington 1995.
di Gaetano Cofini
L'esplorazione europea del Pacifico iniziata circa 500 anni fa ha tramandato un corpus documentale estremamente ricco, da cui gli specialisti di varie discipline hanno continuamente attinto. Archeologi e studiosi di preistoria hanno spesso utilizzato le fonti etnostoriche (diari e cronache di viaggio, relazioni etnografiche, documenti di epoca coloniale) per definire le fasi conclusive di sequenze culturali regionali, per sviluppare questioni e ipotesi verificabili tramite la ricerca archeologica o, più comunemente, per interpretare i dati ottenuti nel corso di scavi. L'utilizzo di tali fonti, giustificato dalla continuità dei complessi culturali presi in esame, comporta tuttavia notevoli difficoltà interpretative: in primo luogo le osservazioni dei viaggiatori europei tra il XVI e il XVIII secolo si riferivano a visite effettuate in brevi periodi dell'anno e in aree circoscritte; inoltre la visione eurocentrica degli esploratori e le difficoltà iniziali di comunicazione con i nativi furono sovente all'origine di equivoci o di falsate valutazioni dei fenomeni osservati. Non è da sottovalutare infine che in molti casi diari e relazioni di viaggio, compilati soprattutto nel XVIII e XIX secolo, descrivevano un quadro culturale soggetto a profondi mutamenti, innescati da contatti precedenti con visitatori europei. Tra questi documenti ricoprono senza dubbio un ruolo preminente i diari dei tre viaggi di J. Cook (1768-71; 1772-75; 1776-79). L'abbondanza e il dettaglio delle informazioni raccolte, sia dallo stesso Cook che dagli studiosi e dagli artisti che lo accompagnarono nelle sue esplorazioni (tra questi ricordiamo i naturalisti J. Banks e H.D. Spoering, i botanici D.K. Solander e S. Parkinson e il paesaggista J. Webber), influenzarono profondamente lo sviluppo delle scienze naturali e antropologiche. I resoconti etnografici sulle popolazioni incontrate, molte delle quali non avevano avuto contatti con Europei prima di allora, e sui loro aspetti culturali offrirono le basi per disamine sullo stato delle società primitive e per l'elaborazione di teorie sull'evoluzione umana. Frequente è stato il ricorso a tale serbatoio di informazioni da parte di archeologi interessati alla cultura materiale, all'economia, all'organizzazione sociale e agli aspetti religiosi e simbolici delle culture preistoriche e protostoriche del Pacifico. Le cronache e le illustrazioni riportate nel primo viaggio di Cook sul diario di bordo dell'Endeavour hanno dato lo spunto, per citare un esempio, a recenti analisi sui sistemi Maori di coltivazione orticola, in cui vengono discussi fattori chiave, quali l'entità numerica della popolazione, la produttività dei terreni e delle specie coltivate e le tecniche agronomiche adottate. Valide informazioni per gli studi di preistoria sono contenute altresì nelle cronache più antiche dei viaggiatori iberici e olandesi. In particolare, gli spagnoli Álvaro de Mendaña e Pedro Fernández de Quirós, visitando rispettivamente nel XVI e nel XVII secolo gli arcipelaghi delle Salomone e delle Vanuatu, in Melanesia, hanno fornito notizie rilevanti sulla presenza di gruppi allogeni polinesiani, sulla struttura gerarchica e sulla consistenza demografica delle comunità osservate. Studi paleodemografici pubblicati negli ultimi tre decenni del XX secolo hanno spesso integrato i dati archeologici con le fonti etnostoriche per elaborare stime attendibili sulla dimensione delle popolazioni aborigene australiane e delle comunità insulari polinesiane al momento del contatto con la cultura europea. Notevole influenza per lo sviluppo dell'antropologia e dell'archeologia in Tasmania ebbe nella metà degli anni Sessanta la pubblicazione dei diari di G.A. Robinson, il quale tra il 1829 e il 1834 esplorò estesamente l'isola per riunire e trasferire in centri governativi gli autoctoni residenti ancora nei territori di origine. Le notizie tratte dai suoi documenti furono largamente utilizzate per trattare argomenti quali le strategie di sussistenza, l'organizzazione del lavoro, la dimensione e gli spostamenti dei gruppi aborigeni e le loro credenze religiose. Più recentemente l'esame combinato dei dati archeologici e delle prime fonti storiche è stato finalizzato alla ricostruzione dei modelli di distribuzione e di scambio di manufatti nel Sud- Est dell'Australia o all'analisi dei processi di trasformazione sociale e politica dei chiefdoms hawaiiani. L'interesse crescente per le culture indigene e per il loro passato ha visto, a partire dal XIX secolo, la raccolta da parte di etnologi, antropologi e missionari di miti e tradizioni orali. In Nuova Zelanda le fonti tradizionali, pubblicate tra la metà del XIX e gli inizi del XX secolo da G. Grey, P. Smith ed E. Best, hanno fornito le basi per una ricostruzione della storia pre-europea di questo Paese, ritenuta attendibile fino alla metà del XX secolo e successivamente invalidata dai progressi compiuti dalla ricerca archeologica. In base a tale ricostruzione, il Paese sarebbe stato colonizzato intorno al 950 d.C. da una razza "inferiore" di origine melanesiana, identificata con i Moriori; nel 1350 d.C. circa gruppi polinesiani bellicosi, i Maori, sarebbero sbarcati sulle coste neozelandesi, divenendo la "razza dominante" e costringendo i precedenti occupanti a rifugiarsi nelle Isole Chatham. Sorprendenti risultati sono stati ottenuti dalle ricerche archeologiche di J. Garanger nelle Vanuatu centrali. L'archeologo francese ha delineato un quadro sufficientemente accurato della preistoria aceramica di queste aree, principalmente in base agli scavi di tombe nobiliari identificate attraverso un repertorio particolarmente ricco di tradizioni locali. Sensazionale è stata la scoperta della sepoltura collettiva di Roy Mata, un capo leggendario giunto con la sua gente nell'isola di Efate molto tempo prima dell'eruzione del vulcano Kuwae (1452 d.C.). Lo scavo della sua sepoltura avrebbe in seguito confermato gran parte delle notizie riportate dalle fonti tradizionali, sebbene vi siano ancora incertezze sulla datazione del complesso funerario. Un'influenza diretta su alcuni indirizzi recenti dell'archeologia del Pacifico deriva infine da studi antropologici ed etnologici pubblicati nel XX secolo. Va ricordato, in particolare, l'apporto fornito dalle ricerche di B. Malinowski sul sistema circolare di scambi kula per le indagini sulle relazioni commerciali tra le popolazioni preistoriche delle coste neoguineane e dei vicini gruppi insulari.
B. Malinowski, The Argonauts of the Western Pacific, London 1922; J.C. Beaglehole (ed.), The Journals of Captain James Cook on his Voyages of Discovery, London 1955-67; N.J.B. Plomley (ed.), Friendly Mission: the Tasmanian Journals and Papers of George Augustus Robinson 1829-1834, Hobart 1966; J. Garanger, Archéologie des Nouvelles-Hébrides, Paris 1972; B.J. Egloff, The Kula before Malinowski: a Changing Configuration, in Mankind, 11 (1978), pp. 429-35; I. McBryde, Wil-im-ee Moor-ring: or, where Do Axes Come from?, ibid., 10 (1978), pp. 354-82; B. Meehan - R. Jones, Archaeology with Ethnography: an Australian Perspective, Canberra 1988; K. Jones, "In Very Much Greater Affluence": Productivity and Welfare in Maori Gardening at Anaura Bay, October 1769, in JPolynSoc, 98, 1 (1989), pp. 49-75; S. Bowdler, Views of the Past in Australian Prehistory, in M. Spriggs et al. (edd.), A Community of Culture. The People and Prehistory of the Pacific, Canberra 1993, pp. 123-38; M. Spriggs, The Island Melanesians, Oxford - Cambridge (Mass.) 1997.
di Maria Cristina Molinari
Al fine di tracciare un breve esame della numismatica come fonte per l'archeologo o il topografo anteriormente all'attività di scavo, appare necessario stabilire in quale settore della ricerca debba porsi lo studio del dato monetale. Si deve soprattutto agli storici e agli archeologi la discussione relativa alla più idonea collocazione della numismatica tra le scienze. Da un lato le si riconosce un carattere ausiliario di altre discipline, dall'altro si afferma che le monete, come del resto le epigrafi, debbono essere ritenute testimonianze non archeologiche, dal momento che, pur essendo rinvenute in contesti di scavo, una volta alla luce vengono interpretate attraverso metodologie distinte da quelle dell'archeologo. In realtà le monete sembrano pienamente corrispondere alla definizione di fonte archeologica, intesa all'interno di un determinato sistema socio-culturale, come: "ogni correlato oggettuale di questo sistema che, indipendentemente dalle condizioni del suo rinvenimento o identificazione, si trovi con esso in relazione di rappresentanza" (Donato - Hensel - Tabaczynski 1986). Tale formulazione permette dunque di considerare a tutti gli effetti la moneta come testimonianza archeologica in virtù del fatto che è possibile analizzare "i tratti esterni dell'oggetto, la sua autenticità, il tempo e il luogo di produzione, nonché il legame con il sistema socio-culturale in esame" (ibid.). La ricerca numismatica, infatti, si muove nell'ambito degli studi tipologici ed epigrafici, ovvero delle immagini e delle legendae presenti sulle monete, ne certifica la veridicità, cerca di determinarne la zecca e la datazione, ne spiega le motivazioni della produzione, anche attraverso la quantificazione delle differenti serie, per una ricostruzione di carattere socio-economico. Inoltre analizza l'ambito e il tempo di circolazione della moneta, ne identifica le cause della perdita o del volontario occultamento. Nonostante, dunque, esistano differenze di ordine cronologico e geografico, le tecniche di cui si avvalgono i numismatici nei diversi settori di ricerca si possono considerare piuttosto omogenee nel privilegiare, di volta in volta, strumenti di analisi differenti, secondo gli interrogativi posti dal diverso quadro storico-archeologico. Tali metodologie si sono affermate attraverso un lungo processo evolutivo, partito dall'analisi degli elementi più immediati, riscontrabili sugli esemplari numismatici conservati nelle collezioni, per poi giungere all'osservazione dei dati meno espliciti. Così per gli antiquari e gli umanisti rinascimentali e barocchi le tipologie monetali e le legendae costituirono preziosi elementi per le loro ricostruzioni storiche e archeologiche; in particolare, la moneta permetteva di determinare in modo immediato le fattezze degli uomini illustri o l'aspetto dei monumenti del passato, poiché, a differenza di altri reperti, l'immagine era accompagnata dai dati epigrafici. In questo senso, utilizzando il confronto tra l'iconografia dei tipi monetali e quella di altri manufatti archeologici, privi però di iscrizioni, fu allora possibile comprendere quale fosse il soggetto raffigurato in questi ultimi. Le legendae monetali, assieme alle epigrafi, furono inoltre impiegate per integrare le fonti letterarie o addirittura per emendarle: in questo senso l'opera magistrale di L. Holstenius, bibliotecario vaticano alla metà del XVII secolo, consentì di giungere alla giusta lezione dei nomi di molti siti dell'Asia Minore tramite il confronto tra le opere degli antichi geografi e le iscrizioni presenti sugli esemplari numismatici conservati nelle collezioni dell'epoca dello studioso. Allo stesso modo, periodi storici piuttosto oscuri, per la mancanza o la ridotta quantità di testimonianze testuali, possono ancora oggi essere parzialmente illuminati dai dati iconografici ed epigrafici monetali. Ad esempio, i regni della Battriana e dell'India di epoca ellenistica, che per lungo tempo sono rimasti scarsamente conosciuti mediante la documentazione storica ed epigrafica, hanno ricevuto dalle splendide monete ivi coniate alcune rilevanti informazioni sulla successione dei diversi sovrani. L'analisi delle collezioni numismatiche di carattere locale, formatesi prevalentemente attraverso l'acquisizione di materiale rinvenuto sul territorio circostante, ha permesso di ipotizzare la localizzazione topografica di alcuni siti citati dalle legendae monetali, che testimoniano la zecca di coniazione. È utile, peraltro, ricordare come questa forma di identificazione automatica sia stata causa di innumerevoli errori di attribuzione e di identificazione, dal momento che spesso non vi è certezza circa la provenienza degli esemplari conservati nei medaglieri. Inoltre, esistono maggiori difficoltà per il riconoscimento dei siti archeologici in aree caratterizzate da un alto numero di insediamenti antichi non troppo lontani gli uni dagli altri, come nel caso della Troade in Asia Minore; soltanto attraverso lo scavo archeologico e tramite un'attenta quantificazione delle diverse serie monetali ivi rinvenute si può forse raggiungere qualche sicurezza. Il metodo comunemente impiegato prevede l'accostamento del nome presente sulla maggior parte delle monete di basso valore, che avevano una circolazione limitata, con l'area di scavo, in modo da determinare il riconoscimento della città il cui toponimo originario sia andato perduto. Può comunque accadere che due siti limitrofi presentino la stessa percentuale di monete della stessa zecca, non permettendo così di giungere ad alcuna risoluzione del problema identificativo. Al contrario, un esempio fortunato in questo settore degli studi è fornito dal sito archeologico di Serra Orlando in Sicilia, dove furono rinvenute negli scavi condotti dalla missione americana 706 monete bronzee con l'iscrizione HISPANORVM, in precedenza considerate assai rare. Questa particolarità ha fatto giustamente ritenere che a Serra Orlando si dovesse collocare la zecca produttrice di tali emissioni. Poiché Livio ricorda che la città di Morgantina, distrutta dai Romani nel 213 o nel 211 a.C., venne occupata da Ispanici, il rinvenimento di un numero così cospicuo di tali bronzi rende assai probabile l'identificazione di Serra Orlando con Morgantina. Ogni considerazione relativa all'utilità del dato monetale nei confronti dell'indagine preliminare allo scavo non può peraltro tralasciare di prendere in considerazione il settore più significativo della ricerca, che riguarda le metodologie impiegate dai numismatici per definire la cronologia e giungere all'attribuzione degli esemplari ad una zecca; tali aspetti troveranno dunque più ampia trattazione nella disamina dedicata all'analisi dei reperti numismatici nei contesti archeologici.
Th. Mommsen, Lettera a Gian Carlo Conestabile. Sull'insegnamento della Scienza dell'Antichità in Italia, in RFil, 1874, pp. 74-77; R. Almagià, L'opera geografica di Luca Holstenio, Città del Vaticano 1942; L. Robert, Études de numismatique grècque, Paris 1951; L. Breglia, Numismatica antica. Storia e metodologia, Milano 1964; M. Crawford et al. (edd.), Le basi documentarie della storia antica, Bologna 1984; Ph. Grierson, Introduzione alla numismatica, Roma 1984; G. Donato - W. Hensel - S. Tabaczynski (edd.), Teoria e pratica della ricerca archeologica, I, Torino 1986; Th.V. Buttrey et al., Morgantina II. The Coins, Princeton 1989; A. Burnett, Coins, London 1991; Ch. Howgego, Ancient History from Coins, London 1997²; M.C. Molinari, I medaglioni, i contorniati e i bronzi di I forma della collezione Reginense-Odescalchi contenuti nel manoscritto Vaticano latino 10831 (Tesi di dottorato), Roma 1997.
di Luisa Migliorati
Nel campo dell'informazione la rappresentazione grafica è l'espressione del rapporto immediato tra comunicazione e comprensione; in questo ambito la cartografia elabora un linguaggio, anche complesso, che offre la visione sinottica di un contesto insediativo o territoriale. Una codifica di tale linguaggio deve essersi formata molto precocemente: la trasmissione attraverso l'immagine si rivolgeva infatti a un'utenza a cui spesso era sconosciuta l'area rappresentata ("questo è il paradosso della mimesis geografica: riconoscere quel che non si è mai visto", Jacob 1986). Un elemento che già denota la familiarità raggiunta nella rappresentazione grafica è la costante dimensionale che compare in una pittura parietale del 6200 a.C. da Çatal Hüyük (Anatolia centrale), raffigurante un insediamento con isolati disposti ortogonalmente e sovrastati da un vulcano in eruzione. Varie problematiche, quali la difficile lettura interna dei singoli isolati, che presentano diverse iconografie, l'incerta identificazione dell'agglomerato e la rappresentazione prospettica del vulcano, d'altronde spiegabile con un diverso valore simbolico, non ostano alla considerazione che si tratti del più antico esempio di cartografia giunto fino a noi. Benché alcuni studiosi ritengano che si possa parlare di cartografia solo se è presente un rapporto dimensionale grafico, è difficile non ricordare che in quasi tutti gli esempi di cartografia antica che noi possediamo il rapporto scalare resta sottinteso. A conferma della codifica non scritta di tale modularità si può ricordare la recente interpretazione come mappa topografica di una serie di incisioni su una pietra scoperta in una grotta nel territorio di Gebel Amud, nel deserto della Giordania meridionale. Sulla base del confronto con la realtà archeologica, le piccole concavità unite da una rete di canalini sono state riconosciute come abitati eneolitici collegati da percorsi che utilizzavano i letti asciutti di corsi d'acqua (scala 1:16.000 ca.); il fine sembra essere stato il controllo del pagamento da parte dei beduini di una tassa "della tranquillità" imposta ai vari villaggi. Sempre dall'ambito orientale (Mesopotamia) proviene comunque un primo documento cartografico con elemento dimensionale: nella seconda metà del XXII sec. a.C., con l'offerta della propria immagine seduta, Gudea di Lagash dedica a Ningirsu la sua attività di costruttore, come testimoniano l'iscrizione che copre gran parte della statua e, in particolare, la tavoletta che reca sulle ginocchia, sulla quale è scolpito il perimetro di una cittadella fortificata provvista di contrafforti e di sei porte, inquadrato da riga e monaco. Nello stesso periodo la tradizione mitologica sumerica, narrando che il primo atto di civilizzazione imposto dalle divinità all'uomo è stato quello di "disegnare la città", ribadisce l'importanza tributata all'analisi spaziale. La premessa teorica ad ogni divisione sul terreno è infatti ampiamente documentata fino al 2000 a.C. da oltre cento disegni di campi e di edifici (sia privati che religiosi) tracciati su tavolette di argilla e successivamente, per il periodo postcassita (XII sec. a.C.), anche da delimitazioni particellari incise su cippi di confine in pietra. L'aggiunta delle misure, che supplisce alla mancanza di scala, e la specifica descrizione delle proprietà sia immobiliari che agricole suggeriscono un campo di applicazione relativo all'aspetto fiscale-amministrativo che sarà uno dei principali agenti propulsori per la costante attualizzazione della cartografia (Hdt., II, 109). Il cartografo è infatti un funzionario con una buona conoscenza matematico-geometrica incaricato dell'allestimento e dell'aggiornamento delle carte. Ulteriore documentazione cartografica è la riproduzione schematica degli accampamenti (secondo il tipo quadrato, ovale, circolare) sui bassorilievi assiri (IX sec. a.C.). Riguardo allo spazio urbano specificamente richiamato dal mito, diretto esito documentale appare la pianta della città di Nippur, redatta su una tavoletta databile intorno al 1950 a.C.: i dati di scavo hanno confermato la veridicità della mappa, in cui i segni convenzionali adottati differenziano le singole strutture urbane, l'Eufrate, i canali e, a ulteriore chiarimento, compaiono i toponimi e le misure delle varie costruzioni. La presenza di un'analoga o anche più ricca simbologia su altre mappe più o meno coeve, sia corografiche (ad es., Gar-Sur a nord di Babilonia del 2300 a.C.) che di dettaglio urbano (quartieri della stessa Babilonia), ci informa della progressiva affermazione di una convenzione grafica univoca che affida le sue varianti al supporto tecnico, per lo più topograficamente differenziato. Se l'orientamento sembra specifico per ogni settore geografico (ad es., riferito al quadrante dei venti di nord-ovest per l'area babilonese), risulta comune l'uso della linea doppia per lo spessore murario (benché inizialmente riservata a mura urbiche) o per fiumi e canali distinti dal nome, di uno spazio per le porte, di una X per indicare l'errore; ma sulle tavolette di argilla utilizzate in Mesopotamia è raramente presente il tratto curvilineo, limitato a poche esemplificazioni di campiture interne di corsi d'acqua (cfr. il frammento della mappa di Babilonia con il sobborgo Tuba del IV sec. a.C.). Particolare interesse anche sotto questo punto di vista riveste dunque la Carta del mondo (600 a.C.) che, nello stesso ambiente, ma in ambito tematico differente, riproduce la Terra circondata dall'Oceano e in rapporto alle regioni siderali. Al contrario, il materiale tradizionale utilizzato in Egitto, il papiro, non offriva difficoltà di risoluzione grafica nella redazione di piante di tombe, con elementi misurati, o di sistemi di irrigazione (di cui si ha una documentazione più tarda: III sec. a.C.), o di case (cfr. il Papiro n. 2406 di Ossirinco del II sec. d.C.); più raro l'utilizzo di ostraka. Duttile era anche la tecnica pittorica utilizzata per le raffigurazioni del mondo dei morti (sarcofagi dipinti da el-Borsha, 2000 a.C. ca.) o cosmografiche (tombe reali delle dinastie XVIII-XX e pitture dal XV sec. a.C. in poi). Queste sono le due linee di sviluppo della rappresentazione dello spazio in Egitto; ma, mentre la sacralità dell'area religiosa induceva ad una riproduzione essenzialmente simbolica (cfr. il cd. Libro del Fayyum di epoca tolemaica), l'attività agrimensoria svolta in relazione alle sistematiche inondazioni del Nilo esigeva una documentazione puntuale proprio a fini fiscali. A tale attività si riferiscono ad esempio gli affreschi della tomba di Menna a Sheikh abd el- Qurna (Tebe) e della tomba di Mes a Saqqara. Sotto l'aspetto specifico della cartografia vista come strumento di riferimento topografico resta invece unica la Carta delle miniere d'oro (1300 a.C. ca.), che riproduce su papiro, con l'ausilio dei colori, la regione tra il Nilo e il Mar Rosso con l'indicazione di elementi fisici (colline, letti di corsi d'acqua) e antropici (strade, monumenti, case) necessari all'orientamento dell'équipe mineraria. Non rientrano nell'ambito più specificamente cartografico le rappresentazioni dello spazio derivate dalla contaminatio eccessiva tra pianta e prospetto, anche se è frequente tra la documentazione citata la presenza di elementi in veduta obliqua. Sono comunque da ricordare tra il 1500 e il 1000 a.C. disegni di edifici o di città sempre dall'Egitto e il noto affresco della Casa dell'Ammiraglio da Akrotiri, nell'isola di Thera. In ambito estremo-orientale è costantemente verificabile l'importanza del funzionario addetto alla cartografia, che nella Cina imperiale potrà raggiungere i massimi vertici dell'amministrazione statale, come dimostra la figura del cartografo Pei-Xiu nominato nel 267 d.C. ministro dei lavori da Wudi, primo imperatore della dinastia dei Jin Orientali (265-316 d.C.). Precedentemente si ricorda la figura di Zhang Heng, scienziato, matematico e astronomo di corte (Han Orientali, 25-220 d.C.), che fu il primo ad applicare alle carte geografiche griglie di coordinate, in modo da stabilire le corrette relazioni tra i diversi elementi riportati sulla mappa. Relativamente ai dati e alla documentazione per la cartografia cinese, per le carte regionali è di notevole importanza il rinvenimento nella necropoli di Fangmatan (Cina nord-occidentale) di sette tavolette in legno identificate come parti di un'unica mappa geografica: queste riportano alla stessa scala elementi fisiografici, amministrativi e di modificazione del paesaggio. Databili al 239 a.C., poco prima della fondazione del primo impero centralizzato sotto i Qin (221-207 a.C.), possono essere prese ad esempio per illustrare il principio, analogo a quello espresso nel mondo romano, della redazione cartografica come base strategica dell'espansionismo. Nella stessa necropoli, da una tomba dei primi anni della dinastia degli Han Occidentali (206 a.C. - 9 d.C.), proviene un frammento di mappa geografica su supporto cartaceo riferita alla stessa regione. Il mondo giapponese sembra invece lontano da questo tipo di esperienze, dal momento che le carte itinerarie documentate per un periodo molto più tardo (XVII sec.) sono ancora corredate da particolari pittoreschi. Sono invece notevoli le cartografie urbane, con visione da quattro punti diversi, eseguite per essere osservate stese sul pavimento (toshizu). Secondo una costante riscontrabile nel mondo antico, sempre su due percorsi paralleli (spazio geografico e spazio di dettaglio urbano/agricolo) si muove la cartografia greca, la cui documentazione è affidata quasi esclusivamente alle fonti. Erodoto (II, 109) attesta l'influenza del mondo egiziano nei sistemi di rilevamento e di registrazione di lotti agricoli. Gli horoi che alla fine del VI sec. a.C. delimitano l'Agorà ateniese e la contemporanea disposizione sul rispetto del suolo pubblico (Arist., Oecon., II, 2, 4), che poco più di un secolo dopo sarà riecheggiata da un condono edilizio (Polyaen., Strat., III, 9, 30), lasciano ammettere con buona probabilità l'esistenza di cartografia di riferimento per regolare i rapporti tra stato e privati. Il lessicografo Arpocrazione ricorda per il periodo classico che i demarchi di Atene avevano copie dei catasti particellari dei propri demi, così come piante di lotti agrari vengono menzionate nelle Nuvole di Aristofane. L'esistenza di una cartografia urbana ufficiale trova inoltre una possibilità di conferma nel rinvenimento di numerosi horoi, che in ambito urbano traducono sul terreno la definizione progettuale della città regolare. Le successive fasi amministrativo- fiscali non ci sono documentate che da atti privati limitati a testi scritti (atti di vendita del periodo seleucide). Tra le rare testimonianze è dunque da ricordare una mappa incisa su roccia, all'ingresso di una miniera, e che illustra i percorsi interni (IV sec. a.C., Thorikos, Attica). Si possono anche ricordare alcuni rilievi metrologici d'età ellenistica che propongono la corrispondenza tra due differenti sistemi di misurazione o trovano una funzione assimilabile al moderno scalimetro. Per quanto concerne l'ambito geografico, il rapporto tra illustrazione visiva e realtà continua a tradursi in un consapevole adeguamento della scala, che dalla corografia porta allo schema unitario della carta generale dell'ecumene, legando altresì il problema cartografico alla questione della rappresentazione sferica ‒ o meno ‒ della Terra (Agath., I, 1 ss.; Arist., Cael., II, 14 e Meteor. 362b, 11-15; Gem., Phaen., XVI, 4-5; Hdt., IV, 36; Strab., I, 1, 20). Le premesse poste dalla scuola filosofica ionica vengono riconosciute dalla concordanza degli stessi autori antichi sul nome del primo redattore della Carta del mondo, Anassimandro (Strab., I, 1, 4; 11 e 38; Diog. Laert., II, 1-2; Agath., I, 1 ss.). Sul finire del VI sec. a.C. la nuova redazione ad opera del concittadino Ecateo indica piuttosto nell'interesse commerciale milesio la spinta per l'aggiornamento della ricerca, che resta anche in seguito maggiormente legata al settore orientale del Mediterraneo. Da Eratostene a Eudosso e a Ipparco, da Strabone a Marino di Tiro fino a Tolemeo (dal III sec. a.C. al II d.C.), l'operazione cartografica appare concepita come verifica del precedente e adeguamento alle nuove conoscenze. Della maggior parte di tali redazioni (pinakes), ripetutamente rettificate e piuttosto diffuse (Ar., Nub., 200 ss.; Arist., Meteor., II, 6; Gem., Phaen., XVI, 5-6; Hdt., IV, 36; Plut., Alc., XVII, 6, Nic., XII, 1; Ptol., Geog., I, 6 e 19; Strab., II, 1, 2; II, 4, 1; II, 5; si ricorda inoltre il chalkeos pinax portato a Sparta da Aristagora di Mileto: Hdt., V, 49-54), si può avere un'idea solo attraverso le interpretazioni medievali: carte T-O (Terra completamente circondata dall'Oceano), tra cui è da citare il fine esemplare della mappa mundi (XIII secolo) conservato nella cattedrale di Hereford (Gran Bretagna). Le carte che dal XII secolo in poi sono state disegnate a corredo della Geographia di Tolemeo vengono invece interpretate come più fedeli riproduzioni degli originali, data la corrispondenza al testo e all'elenco delle 8100 localizzazioni, posizionabili sulla base del reticolo dei paralleli e dei meridiani (griglia che già compariva nelle carte cinesi dell'epoca Han dal III sec. a.C.). Nonostante i numerosi errori della sua Geographia, Tolemeo sembra segnare un decisivo stacco rispetto ai predecessori, nell'intento teorico (I, 1, 1 ss.) di non privilegiare nella rappresentazione le aree conosciute, utilizzando a tale proposito vari spezzoni regionali contro l'indispensabile sproporzione illustrativa derivante dalla concentrazione in un'unica carta di tutta l'ecumene (cfr. infatti le mappe di corredo alla traduzione latina comparsa i primi anni del XV sec. a cura di Jacopo Angelo). L'ideologia straboniana ispiratrice dell'opera del cartografo (Strab., I, 1, 11; 16 e 19) giustificava infatti il limitato spazio grafico concesso alle regioni sommariamente note. Documentazione di tale ambito tematico resta la "carta" di Eforo, uno schema della quadripartizione della Terra e del cielo riportato da Cosma Indicopleuste nel VI sec. d.C. È ovvio che anche circostanze legate ad eventi bellici, quali la rivolta delle città ioniche contro i Persiani, le spedizioni militari del principe cartaginese Annone, degli ammiragli di Dario e di Alessandro Magno, abbiano dato un notevole impulso alla redazione di carte geografiche attraverso l'esplorazione di nuove regioni (Hdt., IV, 44; V, 49, 51; GGM, I, pp. XVIII-XXIII, 1-14 e pp. XXIII-LI, 15-95). La diffusione della raffigurazione cartografica è tale che una moneta coniata intorno alla fine del III sec. a.C. da Memnone di Rodi, satrapo di Efeso, riproduce una "carta" della regione interna efesina. In Italia le incisioni rupestri delle età del Bronzo e del Ferro (mappe di Bedolina e di Pla d'Ort in Val Camonica) che, per il settore geografico occidentale, richiamano la "pietra topografica" di Gebel Amud, ribadiscono l'autonomia del mezzo informativo cartografico dalla scrittura. In seguito l'assenza di documentazione sia diretta che indiretta per gran parte del periodo storico non può essere considerata un argomento ex silentio per affermare l'inesistenza di cartografia fino ai dati offerti dal mondo romano della tarda Repubblica. Erede del patrimonio culturale greco, la mentalità romana recupera in particolare la funzione politico-celebrativa che il mondo ellenistico aveva attribuito ai pinakes geografici appendendoli alle pareti dei portici (Diog. Laert., V, 51; Apoll. Rhod., IV, 272-281). Ad una generica testimonianza di Properzio (IV, 3, 35) o di Eumenio (Pro instaurandis scholis, XX: nei portici della scuola di Autun) sulla destinazione o la finalità pubblica di rappresentazioni geografiche (cfr. la forma Aethiopiae presentata a Nerone: Plin., Nat. hist., XII, 18-19) si contrappone la documentazione della presenza di una carta della Sardegna nel tempio di Mater Matuta (a cura di Tiberio Gracco nel 174 a.C.: Liv., XLI, 22, 8-9), di una forma agrorum della Campania nell'Atrium Libertatis (a cura di P. Cornelio Lentulo nel 162 a.C.: Gran. Lic., 28), di una Italia picta (precedente di una raffigurazione a cui sembrano fare riferimento sia Strab., V e VI passim che Plin., Nat. hist., III, 46) nel tempio di Tellus (Varro, Rust., I, 2, 1) e della ben nota Carta del mondo, la cui redazione è ancora oggetto di ampie discussioni, affissa nella porticus Vipsania (Plin., Nat. hist., III, 17; cfr. Strab., II, 5, 16-17). La considerazione che la cartografia sia, ancora nel II secolo, una scienza di tradizione greca si poggia anche sulla continuità di alcune caratteristiche tecniche, come l'orientamento a nord nella cartografia scientifica del globo e delle zone climatiche. Il graduale adattamento è mostrato invece nella cartografia specifica dalla preferenza per un orientamento a sud e dal passaggio ad orientamenti basati sulla topografia locale o riferiti al punto di vista del lettore (o navigante), conducendo nel Medioevo ad una coesistenza di orientamenti, benché un gruppo di documenti tardoantichi attesti una scelta per l'est. La relazione uomo/superficie terrestre trova inoltre espressione particolare nella rappresentazione di percorsi regionali con indicazione delle tappe. I versi di Ovidio (Met., V, 189; XIII, 110) riguardo agli itinerari militari riportati dai soldati sui loro scudi, per decorazione o per ricordo (cfr. lo schizzo su una tegola da Carnuntum), denotano la diffusione, e dunque la semplificazione, del tipo cartografico che affidava ad una serie di segni convenzionali un insieme corposo di indicazioni, sganciato dalle distanze reali e con un riferimento simbolico anche agli elementi fisici e antropizzati (si vedano oggi analogamente i grafici per le reti viarie, ecc.). La particolare attenzione rivolta all'aspetto legale nel rapporto spaziale "pubblico/privato", ovvia in un apparato statale centralizzato quale quello romano, traspare frequentemente nelle fonti storico-epigrafiche con riferimenti alle carte di dettaglio sia urbane che agricole. Già nell'ambito della prima metà del I sec. a.C. la Tabula di Eraclea lascia individuare per il settore della manutenzione urbana una base cartografica associata ad un catasto descrittivo o ad una registrazione delle proprietà. La parola forma, che definisce la carta disegnata dagli agrimensori, è documentata sin dall'età della legge agraria (111 a.C.), ma è solo il Corpus Agrimensorum Romanorum (raccolta di scritti a carattere tecnico-giuridico dal I al VI sec. d.C.) che, accanto ad altre terminologie per tematismi analoghi, ne precisa i parametri di esecuzione e le finalità: documento ufficiale dell'assegnazione dei lotti coloniali, veniva redatto in scala e in due copie su bronzo depositate presso l'archivio locale e quello centrale a Roma. Le miniature che illustrano i manoscritti giunti fino a noi associano piante e vedute prospettiche, ma non presentano le caratteristiche tecniche desumibili dai testi. È probabile perciò che siano state aggiunte ai codici a scopo didattico o dimostrativo, ma restano comunque tra le testimonianze più prossime alla cartografia romana, come sembra documentare il confronto con un frammento di lamina bronzea recentemente rinvenuto in Spagna. Datato tra l'età triumvirale e l'età augustea, raffigura la parte terminale di un'area centuriata (forse pertinente alla colonia di Ucubi) e il vicino territorio di Lacimurga, nella zona di confine tra la Betica e la Lusitania. La plausibile lettura dei numeri all'interno delle centurie come iugeri riferiti alle aree assegnate, il tracciato di un fiume (Ana) e forse di una strada, la ricostruzione di un rapporto scalare a dimensione territoriale (1: 48.000) ne fanno l'unico documento finora conosciuto identificabile con una forma. La funzione di riferimento ufficiale svolta dalle formae è principalmente richiamata dalle fonti del periodo flavio, sebbene anche in precedenza vi siano precisazioni sulla definizione delle zone demaniali. È probabile che la cura di Vespasiano nel ripristino delle casse dell'erario anche attraverso la verifica delle aree pubbliche usurpate dai privati lo abbia condotto ad una politica di rilevamento topografico, come sembra attestare anche l'ampliamento del pomerio di Roma (Plin., Nat. hist., III, 66), documentata per ora cartograficamente solo dal cosiddetto Catasto di Orange. I frammenti marmorei che lo compongono, pertinenti a tre diverse mappe, per i dati topografici e amministrativi presenti e per il rapporto scalare (1: 6130), costituiscono una rara documentazione di cartografia redatta a scopo fiscale, quale che sia la localizzazione sul terreno della zona rappresentata. L'insieme dei dati presentati induce a riconsiderare seriamente la possibilità di una redazione flavia per la mappa urbana di Roma precedente la nota Forma Urbis severiana, pur mancando una documentazione archeologica diretta. È tuttavia da ricordare il restauro severiano del complesso del Foro della Pace, forse integrabile con un riferimento epigrafico (CIL, VI, 935) all'originale cartografico vespasianeo. La Forma Urbis risulta la documentazione attualmente più completa sul rilevamento topografico di una città antica. Eseguita tra il 203 (edificazione del Settizodio, presente in pianta) e il 211 d.C. (iscrizione: Severi et Antonini augg. nn.), riproduce su 151 lastre di marmo una superficie urbana totale di 235 m² circa (13.550.000 m² reali) in scala 1: 240 (1 piede: 2 actus). La deformazione accrescitiva di edifici severiani o comunque particolarmente significativi sul piano politico, l'esposizione al pubblico (sulla parete di un'aula del Foro della Pace) e le iscrizioni incise su di essa ne definiscono una funzione che era più celebrativo-ornamentale che amministrativa, benché sia la simbologia grafica che il rapporto dimensionale la assimilino ai parcellari odierni, cioè alle carte che danno ai vari livelli la suddivisione interna dei singoli edifici entro ogni isolato. Nell'ambito dei documenti ufficiali dell'Urbe un nuovo importante dato viene fornito da una lastra marmorea frammentaria (parzialmente sovrapponibile ad alcuni frammenti della Forma Urbis) proveniente da via Anicia, relativa ad una zona del Ghetto romano datata alla prima metà del II sec. d.C. Il rapporto scalare è identico, ma la specifica grafica degli spessori murari, la presenza di misure di riferimento alla riva del Tevere, la registrazione dei nomi dei proprietari, accanto alla considerazione della differenza di orientamento (nord/nordest) inducono ad ipotizzare che si tratti di uno strumento operativo settoriale per l'amministrazione del fiume. In realtà la familiarità con la riproduzione in scala dell'elemento urbano è ampiamente attestata dal ricordo di modelli (oppida eborea o lignea) di città vinte, eseguiti per i trionfi (Cic., Phil., VIII, 6, 18; Quint., Inst., VI, 3, 61), ovvero di piante esemplificative delle costruzioni da attuare (Cic., Quint., II, 5, 3; Plin., Epist., IX, 39, 5 ss.; Suet., Iul., 31, 1-6; Gell., XIX, 10, 2-3), ma anche da varie planimetrie di dettaglio incise su marmo (quelle provenienti dalla via Labicana, dall'Aventino, dall'Isola Sacra e quelle conservate oggi nei musei di Perugia e di Urbino) o risolte in mosaico (impianto termale da via Marsala). La determinazione della scala, che sembra attestarsi per lo più sul rapporto 1:240, e la simbologia grafica, quasi omogenea nell'analogia ai parametri presenti nella lastra di via Anicia (se ne discosta la cosiddetta "pianta di Urbino", più vicina alla Forma Urbis), suggeriscono la codificazione di disposizioni emanate da un potere centrale che aveva ormai al suo attivo secoli di esperienza nel settore. Accanto a tali testimonianze, gran parte della documentazione pervenutaci sul tema cartografico non sembra essere il prodotto del rigore tecnico delle formae, bensì risulta più assimilabile al concetto di adattamento del soggetto reale alla funzione decorativa, propagandistica o quanto meno commemorativa. Da tale punto di vista si spiega l'inserimento di elementi non corrispondenti alla realtà accanto ad altri puntualmente documentati dall'evidenza archeologica. Si ricorda ad esempio la rappresentazione del bacino traianeo sulla relativa moneta o la regione Palestina-Egitto raffigurata in età tarda sul mosaico di Madaba. Inoltre vi sono riproduzioni di edifici, città, paesaggi che nella stessa ottica utilizzano i più vari supporti, mancando però delle specifiche caratteristiche tecniche: dalla colonna di Traiano ai piatti d'argento di Kaiseraugst, dalla tomba degli Haterii al larario di L. Cecilio Giocondo a Pompei, alle varie monete, per ricordare solo alcuni esempi. In complesso più aderenti alla topografia reale del centro a cui si riferiscono sono i vasi vitrei della serie Puteoli, che nella presentazione su piani prospettici degli elementi urbani (come del resto il rilievo in pietra calcarea di una città fucense, da Avezzano) documentano una certa rispondenza ai canoni cartografici.
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di Chiara Lambert
Durante la Tarda Antichità la produzione cartografica sembra aver subìto una fase di declino, che è tuttavia difficile quantificare perché molti documenti noti dalle fonti sono andati perduti, ad esempio la mappa mandata da Alypius all'imperatore Giuliano (360-363 d.C.) dalla Britannia, mentre altri sono conservati solo in manoscritti tardi. Tra questi ultimi si annovera la Notitia Dignitatum utriusque imperii, una lista dei detentori di incarichi civili, militari e amministrativi nelle due parti dell'Impero, corredata di 88 tavole che, oltre a svolgere una funzione ornamentale, completano la descrizione delle competenze dei singoli funzionari e permettono di localizzare le aree geografiche affidate al loro controllo. Testo e illustrazioni, pervenutici in apografi del XV e del XVI secolo, riproducono un archetipo che risaliva verosimilmente al IX secolo (Codex Spirensis), dipendente a sua volta da un originale databile agli ultimi anni del regno di Teodosio (ante 396-397), che fu revisionato nel primo decennio del V secolo e al quale furono apportate modifiche considerate anteriori al 425-429. Alla categoria degli Itineraria picta appartiene la Tabula Peutingeriana (Österreichische Nationalbibliothek di Vienna, Vind. 324), già a Worms nel 1507 presso l'umanista K. Celtes, dal quale passò nella collezione di K. Peutinger di Augsburg (1508-1547), da cui prese il nome. Si tratta di un rotolo di pergamena di forma molto allungata (674 × 34 cm ca.) che copre tutte le terre abitate, dall'estremità orientale della Britannia alla Cina. Vi sono indicati oltre 3000 centri, la cui natura e importanza sono tradotte graficamente mediante 555 raffigurazioni diversificate; in base agli usi specifici di ciascuna area, le distanze tra le località sono espresse in miglia romane, leghe galliche, parasanghe persiane, miglia indiane e stadi. La forma della tavola, la ricca decorazione, la vastità del territorio considerato e il complesso utilizzo di diverse unità di misura rimandano ad un modello di carattere aulico, quale è testimoniato, ad esempio, dalla carta fatta realizzare da Agrippa (63-12 a.C.) per Roma, nota solo dalle fonti (Plin., Nat. hist., III, 1, 17), o da quella, descritta da Eumenio (Pro instaurandis scholis oratio, 20-21), che si trovava nel 297 ad Augustodunum (Autun). L'originale della Tabula di Peutinger, pervenutaci in una copia del XII-XIII secolo, va riferito con buona probabilità al IV o alla prima metà del V, ma per i caratteri enunciati non si esclude una sua dipendenza da un archetipo del I secolo. Da Dura-Europos (provincia romana di Siria) proviene la testimonianza archeologica di una mappa tipologicamente affine alla Tabula di Peutinger: si tratta dei resti in cuoio di uno scudo romano, i cui frammenti, databili al III sec. d.C., recano una carta del litorale del Mar Nero, con simboli analoghi a quelli della Tabula citata. Per quanto riguarda l'area bizantina, all'età giustinianea va assegnata la carta di Madaba (Giordania), un mosaico pavimentale eseguito tra il 542 e il 562 circa nella chiesa bizantina sulla quale è sorta l'attuale S. Giorgio. Conservata in ampi frammenti, tale carta è essenzialmente un documento di geografia biblica, che si presume concepito per illustrare l'Onomasticon di Eusebio di Cesarea (265-340), come testimoniano i suoi 157 toponimi, quasi tutti identificati. Dal punto di vista cartografico, il mosaico di Madaba è impostato secondo gli stessi criteri della Tabula Peutingeriana: le località, individuate mediante modellini che ne riflettono la maggiore o minore importanza, sono disposte lungo la rete viaria, in una visione allungata che va dal Delta del Nilo alla costa fenicia; il fulcro ideale della composizione è la raffigurazione di Gerusalemme, nella quale è possibile identificare i principali monumenti. Databile al IX secolo, ma dipendente da un prototipo del VI, è il più antico codice della Topografia Cristiana di Cosma Indicopleuste (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 699), che si inserisce nel solco della tradizione iconografica e tecnica della Tabula Peutingeriana e della carta di Madaba. L'opera originaria, in 12 volumi, era probabilmente corredata di grafici e illustrazioni e il manoscritto conservato contiene una cospicua serie di miniature a soggetto cosmologico e geografico, alcune delle quali rivelano la conoscenza da parte dell'autore di fonti cartografiche precedenti, quali Periploi, Itineraria adnotata e picta, Peregrinationes. Originale è tuttavia la figurazione che assimilava l'universo alla forma del tabernacolo del tempio di Gerusalemme, in cui la Terra, di forma quadrangolare, era circondata dall'Oceano, che vi si insinuava in quattro ampi golfi; verso occidente si ergeva una grande montagna, dietro la quale il sole tramontava quotidianamente, accompagnato da angeli lampadofori. Ai lati della Terra si innalzavano le pareti del cielo, che si congiungevano alla sovrastante volta celeste. Il "mondo quadrato" di Cosma esercitò una certa influenza nel campo della cultura geografica per circa un secolo e alcuni suoi elementi vennero mantenuti in molte rappresentazioni successive. La stessa figurazione della Terra in forma quadrangolare si ritrova in carte ecumeniche realizzate nel corso dei secoli VIII, X e XIII (si vedano, nell'ordine, il mappamondo di Albi, in un codice di Paolo Orosio, e quello del monaco benedettino Beato di Valcavado, allegato ad un commentario dell'Apocalisse di S. Giovanni, che si conservano rispettivamente nella Biblioteca Nazionale di Rochecude e, nella forma più antica, in un codice dell'XI secolo al British Museum; la cosiddetta Carta Anglosassone del Codex Cottonianus, allegata ad un testo della Periegesis di Prisciano, e la carta di Matteo Parigi, entrambe al British Museum). A partire dall'VIII secolo, comunque, in Occidente compaiono e si diffondono maggiormente le carte geografiche emisferiche ed ecumeniche note come mappe T-O, dove la T significa la divisione tra i tre continenti del mondo antico e la O l'oceano circostante; è stato proposto anche che la T rappresenti la croce in forma di "tau". Il più antico esempio di carta di questo tipo si ritiene sia quello contenuto in un manoscritto di Isidoro di Siviglia, datato al 700 d.C. su base paleografica. Queste imagines mundi, che hanno i loro presupposti culturali nelle età precedenti e soprattutto nella tradizione geografica e cartografica del mondo greco e romano, ben rispecchiano la cultura del tempo, fortemente connotata dal Cristianesimo: esse sono generalmente orientate con l'est in alto, facendo coincidere il lato più importante della rappresentazione con il punto in cui nasceva il sole, simbolo dell'origine della "luce divina", e al centro del disegno è situata la città santa di Gerusalemme. Questa organizzazione spaziale è apprezzabile, ad esempio, nei mappamondi del XIII secolo che fungevano da pale di altare nelle cattedrali di Hereford e di Ebstorf; nel secondo, l'est è simboleggiato dalla testa del Cristo Pantocratore, i cui arti superiori e inferiori indicano rispettivamente gli altri punti cardinali. Un altro tipo di mappamundi circolare, noto sempre a partire dall'VIII secolo, è diviso in sei zone che rappresentano approssimativamente le fasce climatiche; coeva è l'opera del Cosmografo Ravennate, di cui si conserva una selezione di toponimi, con liste dei popoli corrispondenti, disposti in senso orario. Nel corso del Basso Medioevo la raffigurazione circolare dell'ecumene acquisì ampia diffusione e si arricchì di nuovi elementi, in particolare nel mappamondo di fra' Paolino Minorita, allegato al trattato De Mapa Mundi cum trifaris orbis divisione (1320 ca., Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana). MONDO ISLAMICO Le carte islamiche non si discostano dalle coeve concezioni cosmologiche occidentali sulla forma della Terra, ma presentano un orientamento diverso: i punti cardinali sono invertiti, con il sud in alto e l'ovest a destra. Tale inversione sarebbe dovuta, secondo alcuni, alla peculiarità della scrittura araba che, correndo da destra verso sinistra, fece sì che anche l'immagine della Terra ne risultasse capovolta; secondo altri andrebbe ricondotta ad un antico sistema di orientamento arabo, che associava i punti cardinali ai quattro venti principali. Con la dinastia degli Abbasidi si ebbe, tra l'828 e l'832, l'istituzione a Baghdad di un grande osservatorio astronomico e la fondazione di una scuola per traduttori, che si trasformò poi in università. Una delle prime opere ad essere tradotta in arabo fu quella di Tolomeo, nota inizialmente da copie in siriaco e poi da copie greche. Nel mondo islamico l'astronomia rivestiva infatti una particolare importanza, in quanto uno dei dettami fondamentali del credo musulmano era quello di sapere immediatamente individuare, da qualunque luogo, la direzione in cui si trovava la città santa della Mecca. La diffusione dell'opera di Tolomeo, il cui titolo, arricchitosi dell'articolo arabo al, si trasformò in Almagesto, si deve all'erudito Muhammed ibn Kathir al-Farghani; nel mondo islamico lo studioso alessandrino fu apprezzato soprattutto come astronomo e al suo pensiero gli scienziati arabi aggiunsero presto nuovi calcoli ed osservazioni, grazie anche all'invenzione o al perfezionamento di strumenti quali l'astrolabio. Tra l'817 e l'826 il matematico persiano Muhammed ibn Musa al-Khwarizmi redasse, per incarico del califfo al-Mamun, una raccolta di tavole astronomiche, nota con il nome di Tabelle di Damasco o Tabelle di Mamun, che nel X secolo al-Masudi riteneva il miglior esempio di raffigurazione della Terra per fasce climatiche. Il maggiore astronomo del mondo arabo è ritenuto al-Battani, vissuto in Mesopotamia agli inizi del X secolo, il quale, apportando notevoli innovazioni al pensiero tolemaico, redasse carte astronomiche del tutto originali e calcolò con esattezza la precessione degli equinozi. Suo allievo diretto, sempre nella scia di Tolomeo, fu Abril Wafa, autore di un'opera sulla trigonometria sferica, non a caso intitolata Almagesto; all'alessandrino si riferisce anche l'erudito al-Biruni (973-1048), che fu autore di descrizioni dettagliate di alcune regioni dell'India. A partire dal X secolo si ebbe una particolare fioritura di mappe regionali, indipendenti dal modello tolemaico: si tratta di carte itinerarie di forma rettangolare, estremamente schematiche, che riportano la posizione delle città e la direzione delle strade, omettendo tuttavia le distanze. I manoscritti pervenutici constano di un testo e di ventuno carte, il cui archetipo, almeno per quanto riguarda lo scritto, risale ancora alla seconda metà del IX secolo. Tra le carte conservate, poche sono quelle databili tra la fine dell'XI secolo e gli inizi del XIII; tra queste occupa un posto di rilievo l'opera di al-Idrisi (XII sec.), nativo di Ceuta (Marocco), che a Cordova e successivamente a Palermo, alla corte di Ruggero II, raccolse in un unico testo le notizie disponibili per una descrizione geografica del mondo, che conserva la ripartizione classica dell'ecumene in sette climi e la Mecca al centro del sistema. Le carte del XIII secolo non differiscono da quelle precedenti, fatta eccezione per la mappa di Ibn Said, nella quale nuove conoscenze arricchiscono la vecchia rappresentazione cartografica del mondo. La cartografia islamica dei secoli XIV-XVI non presenta elementi originali, come mostrano la carta di Abu'l-Fida (XIV sec.), le mappe mongole del XV secolo, che ricalcano la cosiddetta "carta ilkhanide"disegnata due secoli prima da Nasir al-din al-Tusi, i mappamondi di Ali ibn Ahmad ash-Sharafi (1579) e di suo figlio Muhammad (1592).
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