Le forme del ministero cristiano alle soglie della secolarizzazione
Nel 1860 sui campi di battaglia di Capua e del Gargano si coprì di gloria Atanasio Bracci Cambini da Buti, in quel di Pisa: all’arrivo dell’esercito garibaldino si era spogliato della mozzetta nera di canonico regolare lateranense e, abbandonato quel chiostro di Bitonto dove il padre l’aveva seppellito da giovinetto, aveva scelto la camicia rossa e la rivoluzione. Ritornato allo stato laicale, recuperata la sua quota del patrimonio familiare, coniugato, abbracciò la professione di insegnante e di dirigente scolastico, rimanendo fedele agli ideali della sua conquistata libertà: sempre pronto a seguire il suo generale e i suoi compagni d’armi nelle loro iniziative più o meno avventurose per la libertà dei popoli1. Come molti altri suoi confratelli di quegli anni, e come era già avvenuto ai tempi della Rivoluzione francese e dell’occupazione napoleonica, Atanasio aveva compiuto una scelta precisa e volontaria fra il «rosso» e il «nero», secondo il noto paradigma storico, di cui siamo debitori a Stendhal. Anche se le pagine seguenti non potranno entrare in questa dimensione ideologica, che pure caratterizza la contemporaneità rispetto alla modernità postrinascimentale anche nei suoi tentativi più o meno riusciti di coniugare libertà e religione2, manteniamo sullo sfondo del nostro discorso la memoria della presenza di queste istanze e di questi ideali, che certamente hanno segnato la qualità del vissuto anche nell’ambito ecclesiastico, di cui qui ci occupiamo.
Le domande, alle quali tenterò di rispondere con questo mio contributo, sono le seguenti: quali erano le condizioni reali delle chiese italiane, e più nello specifico del clero secolare e dei religiosi alle soglie dell’inatteso appuntamento storico con la Rivoluzione francese prima e con quella risorgimentale dopo? Al di là del naturale processo di formazione, anche all’interno del corpo ecclesiastico, dei due schieramenti contrapposti di fautori e di avversari delle ‘novità’, a quella data era già presente e disponibile in ambito italiano un’ideologia di riferimento, che permettesse al clero italiano di rispondere alla secolarizzazione con un modello complessivo e precisamente delineato sulla sua figura e sulla sua presenza anche nella nuova società?
Parlando di chiese locali nell’età moderna, non si può prescindere dalla conoscenza dell’assetto dei poteri di giurisdizione al loro interno, partendo peraltro da una premessa indispensabile: le ‘chiese locali’ in Italia erano una miriade. In confronto con le altre nazioni della cattolicità per tutta l’età moderna il numero delle diocesi si era mantenuto su un livello eccessivo rispetto sia all’estensione territoriale sia alla popolazione: circa trecento, tanto nel Quattrocento che tre secoli dopo, e di queste, ancora alla metà del Settecento, ben centotrentuno, cioè i due quinti, si trovavano nel Regno di Napoli3. Nella prima metà dell’Ottocento, in applicazione del concordato di Terracina del 1818, nel Regno delle Due Sicilie fu messa in atto un’operazione di ridefinizione delle circoscrizioni diocesane, di qua e di là dello Stretto: nelle regioni continentali le diocesi furono ridotte a settantotto, oltre a tre abbazie «nullius dioecesis»4, ma in Sicilia furono aumentate di qualche unità5. Nell’uno come nell’altro caso, tuttavia, l’analisi delle procedure adottate per ridefinire i distretti ecclesiastici ha evidenziato la prevalenza delle motivazioni politico-governative nelle concrete scelte per la soppressione, l’annessione, la conservazione o la nascita delle singole diocesi, come pure nelle decisioni prese per apportare variazioni alla gerarchia istituzionale, con l’attribuzione a questa o a quella diocesi del rango di chiesa metropolitana con relative sedi suffraganee, talora sottratte a più antichi rapporti di subordinazione. Né si trattò di un fenomeno soltanto meridionale. Nel 1823, per esempio, papa Leone XII eresse in cattedrale la chiesa collegiata di Massa, allora città del ducato di Modena (dominio degli Asburgo-Este), e attribuì alla nuova diocesi alcuni pivieri garfagnini scorporati dalla diocesi di Lucca: giunse così a conclusione un lento processo plurisecolare, che aveva visto crescere in parallelo dalle oscure origini altomedievali fino al maggiore, duplice splendore moderno una pieve lunigianese e un feudo malaspiniano, in un contesto socio-economico in vivace ascesa grazie alla produzione e al commercio dei marmi6. Pare arduo, quindi, intravedere un radicale mutamento rispetto alle logiche che in passato avevano determinato i processi di fondazione e trasformazione della distrettuazione diocesana nel nostro paese: logiche che solo in minima parte erano riconducibili a strategie ecclesiastiche, o addirittura pontificie, come pure aveva sostenuto il poligrafo libertino e antiromano Gregorio Leti7. Esse, al contrario, rispondevano alle strategie politiche delle numerose e variabili compagini statali italiane, come invece aveva ben compreso il cardinale e giurista Giambattista De Luca8.
L’analisi condotta dalla ricerca storica ha individuato un lungo, complesso e contrastato processo, che ha modificato lentamente le forme del governo all’interno delle diocesi italiane. Ancora per molto tempo dopo la conclusione del concilio di Trento e anche ben oltre l’esaurirsi della spinta riformatrice della cosiddetta ‘svolta innocenziana’ fra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento9, si può parlare di un sistema basato sulla pluralità e la conflittualità dei centri di giurisdizione ecclesiastica. Prescindiamo pure dalla molteplice interferenza dei tribunali della Santa Sede nella vita delle chiese locali: dalla Sacra Penitenziaria alla Sacra Rota, dalla Camera Apostolica, con i suoi collettori, fino al Sant’Ufficio, con le sue corti, i suoi vicari e i suoi innumerevoli ministri insediati direttamente sul territorio. Anche senza questa subordinazione al centralismo romano, la giurisdizione ordinaria del vescovo era insidiata dalla persistenza delle giurisdizioni residue, godute dai capitoli cattedrali, da taluni abati monastici e da altri «nullius», che punteggiavano il territorio italiano, sia alle periferie, che nel cuore stesso delle diocesi. Si pensi, per esempio, al «nullius» della chiesa e piazza di S. Michele in Foro nel centro urbano di Lucca, sopravvissuto fino al pontificato di Pio X10, oppure al «nullius» di S. Nicola di Bari, uscito indenne, insieme con quello di Altamura, dalle soppressioni borboniche del 181811. Ma anche quando non si trattava della conservazione di aree di vera e propria giurisdizione quasi-episcopale, tanto nell’Italia centro-settentrionale come in quella centro-meridionale, i corpi ecclesiastici secolari erano caratterizzati da una rissosa litigiosità per difendere o estendere questo o quel privilegio, non di rado soltanto cultuale o procedurale (le famose liti di ‘precedenza’ nelle cerimonie sacre pubbliche, le ‘preminenze’, ecc.), ma non per questo ritenuto meno degno di conflitti nei tribunali ecclesiastici e persino di scontri fisici fra i chierici e i loro rispettivi sostenitori. In queste gare eccellevano in genere i capitoli canonicali delle chiese cattedrali, ancora legati alla tradizione giuridica che attribuiva ai loro corpi il carattere di alter episcopus nella rispettiva diocesi e, conseguentemente, sospettosamente ostili nei confronti del modello episcopale, che faticosamente si andava affermando nella Chiesa postridentina. Vi era poi tutta quella vastissima area dell’esenzione delle congregazioni religiose maschili, che sottraeva al controllo dei vescovi monaci, frati, chierici regolari e membri degli ordini cavallereschi, con tutti i loro conversi, oblati e servitori, con le loro chiese, i loro chiostri, i loro orti e giardini. A partire dal secolo XVIII, in parte per gli orientamenti emersi nelle congregazioni romane in parziale sfavore delle situazioni di privilegio, in parte come conseguenza degli interventi riformatori dei sovrani, la giurisdizione vescovile acquisì una progressiva preminenza. Tuttavia, con l’eccezione di alcune regioni interessate da un riformismo ecclesiastico più ‘eversivo’, come nel caso della Toscana di Pietro Leopoldo12 e della Lombardia di suo fratello Giuseppe II13, rimase fino alla Rivoluzione francese il limite costituito dall’esenzione dei regolari.
Quanto poi alla qualità del ministero episcopale in Italia, la ricerca non ha avuto difficoltà a individuare come nell’età moderna si siano attivati processi di costruzione e di diffusione fra le file dell’episcopato di modelli di ‘buon pastore’, soprattutto a partire dalla conclusione del Tridentino e con nuove riprese sullo scorcio del Seicento e dalla metà del Settecento14. Con questo paradigma possiamo intendere un vescovo residente nella sua diocesi, una qualità spesso disattesa, soprattutto nell’Italia meridionale15, e ivi impegnato con tutte le sue energie personali e finanziarie a realizzare i compiti assegnatigli dalla tradizione canonica: dalla visita pastorale all’amministrazione del sacramento della cresima, dalla verifica della preparazione culturale e dei buoni costumi del suo clero alla predicazione in prima persona, dalla realizzazione del seminario diocesano alla promozione degli interventi di educazione cristiana dei fedeli, dalla creazione di strumenti d’intervento pubblico per l’assistenza ai poveri alla cura del decoro degli edifici sacri. Tuttavia, sebbene sia innegabile l’esistenza di questo modello, pur declinato in direzioni non sempre omogenee e anzi talora persino contrastanti (alla fine del Settecento possiamo trovare vescovi «romani», vescovi funzionari dei sovrani locali, vescovi «giansenisti» e via dicendo), pare assai difficile misurare la reale distribuzione sul territorio dei vescovi, che potremmo definire ‘virtuosi’. Ce lo impedisce, forse ce lo impedirà anche in futuro, proprio la presenza di quel grandissimo numero di diocesi, nonché le loro eccessive differenze in termini di estensione territoriale, di popolazione e di rendite disponibili per i loro presuli, per non parlare delle profonde diversità riscontrabili sul piano economico-sociale ed etnico-culturale. In queste condizioni, pare corretto fermarsi alla individuazione di linee di tendenza, senza procedere a comparazioni fra entità assolutamente difformi.
Certo, il processo di inarrestabile subordinazione delle chiese locali all’autorità spirituale e alla giurisdizione ecclesiastica dei rispettivi vescovi era chiaramente visibile alla fine del secolo XVIII, ma non per questo aveva raggiunto ovunque tutte le sue mete: anzi, non mancavano resistenze tenaci e spinte contrapposte. Solo a titolo di esempio, si ricorda lo spazio sacro occupato dalle chiese ‘ricettizie’ e ‘collegiate’ nel Sud e nelle grandi isole16. In queste chiese la ripartizione delle funzioni del ministero sacro fra i loro componenti non prevedeva l’attribuzione stabile di questa o quella mansione, compreso l’ufficio parrocchiale, a l’uno o l’altro degli ecclesiastici ‘partecipanti’; costoro, invece, provvedevano per turno e rotazione alla soddisfazione delle varie incombenze, sacramentali o burocratiche, giurisdizionali o pastorali che fossero e ricevevano pro-capite i frutti delle rendite del patrimonio, o ‘massa’, comune, secondo il noto sistema delle ‘distribuzioni’ sulla base delle presenze agli uffici sacri e alle altre incombenze ecclesiastiche. Quest’ultima caratteristica spiega il favore incontrato da questa tipologia istituzionale nell’Italia meridionale e insulare. Qui, l’estrema debolezza politica dei governi, per secoli appannaggio di dinastie straniere, nei confronti della Chiesa di Roma, che peraltro reclamava diritti d’investitura feudale nei confronti dei rispettivi regni, aveva favorito il permanere anche dopo il concilio di Trento di una prassi di continuo saccheggio dei benefici ecclesiastici locali da parte della curia romana, sia tramite l’usurpazione del diritto di nomina dei rettori a danno dei legittimi patroni, sia tramite l’imposizione di pensioni sulle loro rendite17. Queste pratiche, che scoraggiavano privati e comunità a investire le proprie risorse economiche nella magnificenza del culto sacro, perché non garantivano la possibilità di far godere le rendite ecclesiastiche ai rampolli dei fondatori, trovavano invece un freno pressoché insuperabile nell’istituto della ‘ricettizia’ o della ‘comunia’. Infatti, poiché in queste il patrimonio era comune e la rendita del singolo chierico costituiva solo una sorta di remunerazione per il servizio prestato, i chierici della corte pontificia (i tantissimi «romani», toscani, genovesi e lombardi, che affollavano gli uffici del governo centrale della Chiesa) non aspiravano affatto a essere nominati come membri di chiese, per le quali avrebbero dovuto andare a lavorare di persona nella vigna del Signore.
A questo punto si possono individuare due piste di ricerca: dalla ‘clericalizzazione’ della società italiana nel lungo Seicento alla ‘sacerdotalizzazione’ del clero nel tardo Settecento. Con il primo paradigma indichiamo la crescita impetuosa del numero dei chierici nel nostro paese: l’abbondanza dei benefici ecclesiastici semplici nell’Italia centro-settentrionale, che non richiedevano l’adempimento di persona degli oneri sacri, e l’ampiezza del privilegio fiscale a favore di enti e persone sacre nell’Italia meridionale, alimentarono un movimento ascendente nelle ordinazioni sacre. Questo movimento, però, spesso si fermava allo stadio di quegli ordini sacri minori, che il diritto canonico riteneva sufficienti per la collazione di quegli uffici e per il riconoscimento dello status clericale, con tutti i privilegi connessi18. Inoltre, a causa della presenza di un gran numero di chierici ‘fannulloni’, titolari di uffici ai quali non potevano adempiere di persona per carenza di ordine sacro senza per questo rischiare di esserne privati (si trattava pur sempre della gran massa dei benefici semplici, ai quali non era connesso l’obbligo di ufficiarli di persona), molti giovani delle aree più periferiche e miserabili del nostro paese (le Prealpi, gli Appennini, le isole) erano stimolati e incoraggiati a intraprendere il mestiere dell’altare, nella fondata speranza di guadagnarsi il pane soddisfacendo gli innumerabili oneri di messe, che derivavano dai benefici e dalle ufficiature, dai legati pii e dalle elemosine ‘manuali’19. Queste ultime, che a differenza dei legati di messe non erano garantite da un contratto scritto, sfuggivano a ogni calcolo economico statistico sui redditi ecclesiastici e se ne poteva misurare l’incidenza solo in modo assai approssimativo, alla stessa stregua di quegli ‘incerti’, che erano connessi all’amministrazione di altri sacramenti, come i battesimi e i matrimoni, o di altri riti, come i funerali e le benedizioni: in sostanza, le elemosine manuali costituivano la massa informe e nascosta di quella sorta di iceberg, che può essere considerata la celebrazione del sacramento dell’eucarestia nella tradizione cattolica italiana. Intorno alla ‘messa’ si era coagulato un complesso assai intricato, composto di elementi teologici, giuridici, socio-antropologici ed economico-finanziari, di cui oggi difficilmente possiamo renderci conto in un clima sociale largamente secolarizzato. Basti qui solo qualche cenno, per indicare il groviglio ormai inestricabile in cui il vissuto quotidiano della Chiesa cattolica italiana aveva avvolto il sacramento dell’Eucarestia, al di là anche degli interventi correttivi messi in atto da non pochi pontefici manifestamente scandalizzati davanti a quegli abusi, come nel caso delle messe cedute ‘a cottimo’ o in appalto, che i vescovi denunciavano e inutilmente combattevano, dalla Padova del Seicento alla Sicilia del pieno Ottocento20. Intanto, va ricordato che nella versione cattolica la celebrazione eucaristica aveva perso ormai la dimensione comunitaria, nel senso che il rito aveva la sua validità non solo in assenza di fedeli, ma anche qualora questi, presenti al rito, non potessero partecipare al banchetto divino per motivazioni indipendenti dalla loro volontà: per esempio, quando il celebrante non avesse preparato per loro un numero sufficiente di particole consacrate. Ancora alla metà del Settecento, per dirimere la cosiddetta «controversia di Crema»21, con la bolla Certiores effecti del 13 novembre 1742 papa Benedetto XIV ribadì con fermezza che per il celebrante non vi era l’obbligo inderogabile di comunicare i suoi fedeli, i quali, da parte loro, erano tenuti a farne richiesta sempre con rispettosa discrezione. Poi, nonostante l’uniformità perseguita nel rito sacro a partire dall’uso esclusivo della lingua latina o delle rispettive lingue letterarie per le minoranze orientali presenti nel nostro paese (il greco e lo slavo), nei fatti proprio questa uniformità obbligatoria permetteva di esaltarne agli occhi e alle orecchie dei fedeli gli aspetti magico-liturgici, trascurando vistosamente tutto quanto era connesso alla funzione didattico-pastorale del rito, nonostante i ripetuti richiami della gerarchia e della letteratura per il clero. Qualche lettore coetaneo dello scrivente ricorderà ancora la cosiddetta ‘messa secca’: quella celebrazione frettolosa, francamente incomprensibile, che permetteva al fedele di prender messa in una ventina di minuti, per poi correre alle proprie personali faccende con la coscienza a posto per aver soddisfatto l’obbligo festivo. E se i vescovi, con i tempi lunghi richiesti per il successo di simili operazioni, riuscirono alla fine a inculcare nei parroci la necessità che almeno nei giorni festivi la ‘messa piana’ portasse a conoscenza dei fedeli la parola di Dio e le istruzioni dei vescovi e dei pontefici, non ci è dato sapere quanti fedeli sfuggissero a tale insegnamento perché si recavano ad ascoltare una messa veloce nelle tante chiese particolari e negli oratori privati, che costellavano le città e le campagne. D’altronde, l’offerta per la celebrazione della messa costituiva anche una delle vie principali per lucrare l’indulgenza indispensabile a diminuire il soggiorno della propria anima o delle anime dei propri congiunti in purgatorio, per scontare le pene meritate in espiazione dei peccati commessi in vita. A sua volta, infine, questa elemosina costituiva una sorta di unità di misura, variabile secondo i tempi e le località in relazione al movimento dei prezzi dei generi di prima necessità, del costo quotidiano necessario per mantenere un chierico, sulla base di una discutibile interpretazione del principio che fissava per i sacerdoti il diritto a vivere dei frutti dell’altare. La contabilità dell’aldilà22 si intrecciava così con la contabilità delle messe, per il cui controllo erano stati adottati particolari registri, cioè le famose ‘vacchette’: libretti per lo più di forma allungata e con i fogli suddivisi in colonne, che anticamente erano rilegati con pellame di vacca conciato con estratti vegetali e ingrassato con olio, e nei quali si segnavano le offerte ricevute dai fedeli e la soddisfazione delle messe dovute in corrispettivo di queste elemosine23. L’espansione, spesso ingovernabile e almeno apparentemente inarrestabile da parte delle stesse gerarchie ecclesiastiche, di questa economia del sacro dopo la confessionalizzazione della società italiana dovuta al trionfo della controriforma può essere spiegabile solo parzialmente con l’analisi a posteriori dei processi, pur riscontrati, di formazione dilatata nel tempo di nuovi benefici ecclesiastici da parte di famiglie ed enti emergenti nel contesto sociale24. Per il resto, una simile ‘richiesta del sacro’ attingeva a dimensioni emotive e culturali – nel senso sia della ‘piccola cultura’ degli umili, sia della ‘grande cultura’ elaborata e imposta dalle gerarchie – la cui analisi esula da queste pagine, ma che costituiscono un territorio da esplorare con metodi scientifici anche da parte dello storico.
Con il paradigma della sacerdotalizzazione indichiamo, invece, la crescita della porzione dei sacerdoti all’interno della massa dei chierici. Questo fenomeno, che si verificò a partire dalla seconda metà del Settecento, s’intensificò grazie alla confluenza fra due differenti percorsi. Innanzitutto, le fila del clero secolare furono ingrossate da un gran numero di sacerdoti già appartenenti alle famiglie regolari, soppresse negli anni da principi o dagli stessi pontefici, come i Gesuiti da papa Clemente XIV nel 1773 con la bolla Dominus ac Redemptor, dopo alcuni anni di espulsioni da parte di alcuni governi monarchici. Questi ecclesiastici, abituati a una vita comunitaria e a una diversa organizzazione gerarchica, si trovarono improvvisamente alle dipendenze o almeno sotto il controllo di pievani e parroci, la cui cultura teologica e liturgica non di rado era assai inferiore alla loro. In secondo luogo, alcuni sovrani imposero sulle chiese locali precise norme dissuasive e disincentivanti nei confronti dell’ordinazione sacra, innalzando l’età d’ammissione agli ordini sacri, oppure – come avvenne a Napoli dopo il concordato fra Benedetto XIV e Carlo III di Borbone25 – spostando al livello degli ordini minori quei requisiti patrimoniali (cioè il possesso di titoli patrimoniali che garantissero una rendita vitalizia sufficiente per il loro mantenimento), che invece la tradizione canonica richiedeva tradizionalmente solo per l’accesso agli ordini maggiori. Né mancò – come in Toscana e in Lombardia – l’imposizione da parte dei governi a tutti gli ecclesiastici di precisi e gravosi obblighi di servizio in favore e sotto il controllo dei titolari delle parrocchie, nelle quali formalmente dovevano incardinarsi. A questo punto è anche possibile individuare una chiave di lettura economico-giuridica di questo percorso: il ‘titolo’ per l’accesso dei chierici agli ordini sacri maggiori. Ebbene, nel corso del Settecento, con un’accelerazione negli ultimi decenni del secolo, in questo settore nevralgico prese l’avvio il passaggio dal ‘beneficio’ ecclesiastico, cioè dal diritto di percepire i frutti derivanti dall’amministrazione del patrimonio appartenente all’ente ecclesiastico, all’’ufficio’ sacro, cioè all’obbligo, che potremmo definire professionale26, di esercitare di persona le funzioni e le mansioni religiose. Se a prima vista questa trasformazione può apparire riconducibile alle politiche riformatrici e giurisdizionaliste messe in atto con maggiore o minore intensità dai governi monarchici e repubblicani della penisola (con l’ovvia esclusione dei domini papali), forse a ben guardare queste politiche statali consolidarono e accentuarono processi già in atto nei diversi contesti sociali. Nel corso del secolo XVIII diminuì il richiamo della carriera o, piuttosto, della collocazione nelle fila del clero sine cura di fronte all’apertura di altre prospettive d’impiego (e non è da escludere in ciò l’influsso di modelli culturali ultramontani), ma soprattutto i ceti detentori dei diritti di patronato diretto o indiretto sulla gran massa dei benefici ecclesiastici subirono un parziale sfoltimento dei loro ranghi a causa della strategie coniugali adottate a partire dal secolo precedente: l’endogamia di ceto, il maggiorascato, il celibato dei cadetti, la monacazione delle figlie. L’insieme di tutti questi processi rese sempre meno appetibile quelle forme di investimento patrimoniale nel sacro, che fino ad allora erano ampiamente ripagate dall’esercizio del giuspatronato e in particolare dal diritto di nomina degli usufruttuari pro tempore di quei beni scorporati dalla ricchezza domestica a favore della Chiesa, con il risultato di creare lentamente negli stessi ceti nobiliari un clima favorevole alla soppressione dell’intero sistema beneficiale, pur di tornare in possesso di parte dei beni a suo tempo alienati a favore della Chiesa27.
Ovviamente, non dobbiamo pensare che questo percorso si sia concluso effettivamente alla fine del Settecento. Fin tanto che persistettero il sistema beneficiale a prebenda individuale nel Centro-Nord, con l’attrattiva che esercitava anche su segmenti dei nuovi ceti sociali in ascesa, sensibili ad acquisire la dignità connessa ai titoli ecclesiastici, e il sistema ricettizio-collegiale nell’Italia centro-meridionale e insulare, una quota rilevante del clero diocesano italiano rimase legata ai modelli più tradizionali degli ecclesiastici d’antico regime. Si trattava di chierici che potevano adagiarsi nella vita di esattori di rendite, una volta passate le forche caudine degli esami per ricevere gli ordini sacri ed eventualmente, ma solo per un limitato numero di sfortunati, privi dell’appoggio di titolari di giuspatronati, il concorso per un beneficio parrocchiale o per un canonicato di libera collazione vescovile. Tutt’al più, se parroci o canonici, erano obbligati a ottemperare ad alcuni oneri burocratico-cultuali: la celebrazione della messa nei giorni festivi, un po’ di presenza al confessionale, qualche predica, la tenuta dei libri contabili (denari, derrate alimentari e funzioni religiose strettamente intrecciati negli stessi registri, nelle stesse vacchette) e, se del caso, l’amministrazione straordinaria di quei sacramenti che comportavano ulteriori offerte in natura o in moneta da parte dei fedeli. Questo clero secolare viveva immerso nel suo contesto sociale: teneva famiglia, nel senso che, anche quando non aveva la concubina e i figli naturali (come nelle grandi isole o nelle tante altre lontane periferie della nostra penisola), dimorava con i propri familiari d’origine e spesso faceva le funzioni di capofamiglia nei confronti della madre vedova e delle sorelle o della cognata vedova e dei nipoti orfani. Di conseguenza, questo clero si impegnava nella scuola, nelle arti liberali e nei commerci ma anche nei mestieri più umili, dal lavoro nei campi al servizio nelle famiglie dei ceti più ricchi; partecipava a feste pubbliche e private; frequentava i luoghi della sociabilità, dai caffè alle locande, dai teatri ai postriboli, dai circoli per giocare alle bandite di caccia; partecipava ai gusti e ai consumi del tempo, nelle letture come nelle bevande, nell’oggettistica e nelle nuove droghe (tabacco, caffè, cioccolata) e non esitava a godere delle ‘oneste conversazioni’ della tradizione sociale italiana, accompagnandosi alle dame in qualità di cicisbeo. Di fatto non erano servite a nulla le campagne di stampa condotte dagli scrittori moralisti (per lo più appartenenti alle congregazioni religiose) e le norme emanate da vescovi e pontefici in direzione di un maggior rigore nella disciplina degli ecclesiastici, con le loro lunghe liste di perentorie proibizioni di consumi, di intrattenimenti, di frequentazioni28. Ancora dopo la metà dell’Ottocento, il nobile lucchese Cesare Sardi racconterà di aver conosciuto sacerdoti impegnati in simili occupazioni: «gli ultimi resticciuoli delle costumanze antiche, come i bruciaticci di un incendio domato»29. Maggior efficacia, invece, ebbero le pressioni congiunte delle autorità ecclesiastiche e delle autorità civili affinché soprattutto i parroci si trasformassero in loro portavoce più o meno supini, trasmettendo dall’altare ai fedeli le decisioni assunte dai potenti proprio in occasione della celebrazione delle messe festive. Una volta intrapresa questa strada e attribuita ai parroci questa funzione burocratica da parte dei governi d’antico regime, Napoleone Bonaparte non esiterà a utilizzare il clero in cura d’anime come cassa di risonanza delle proprie decisioni, anche di quelle più odiate dal popolo, come la ‘tassa del sangue’, cioè la coscrizione obbligatoria. Né diversamente si comporteranno i governi della Restaurazione e i parroci, ricompensati con un indubbio miglioramento delle loro condizioni economiche, diventeranno sempre più ‘funzionari del sacro’, al servizio di due padroni: la gerarchia ecclesiastica e il potere politico30.
Per il resto, il sacerdote italiano dell’età moderna portava con sé un grave handicap, che, al di là di rare figure idealizzate come il proposto Benedetto Giacobini di Varallo oggetto della nota biografia scritta da Antonio Ludovico Muratori, gli impediva di superare i confini di un impegno sostanzialmente burocratico e ripetitivo: la sua formazione culturale. Non intendo ripetere per lo scorcio dell’età moderna quelle accuse di vero e proprio analfabetismo clericale, che pure avevano un buon fondamento ancora negli ultimi decenni del Cinquecento, documentato dai registri delle visite pastorali e delle visite apostoliche. Se si escludono alcune sacche dovute a condizioni di particolare isolamento geografico ed economico, alle soglie della Rivoluzione francese tutti i sacerdoti italiani avevano raggiunto un livello sufficiente di alfabetizzazione tanto in lingua volgare, quanto in lingua latina, e mostravano una conoscenza non solo mnemonica delle formule utilizzate nei riti sacri. Tuttavia, e qui sta la questione, questo processo di indubbio innalzamento culturale non era il risultato di una condivisa e diffusa strategia formativa messa in atto dal sistema ecclesiastico, quanto piuttosto di un impegno personale dei chierici stessi con il sostegno dei propri familiari. In altri termini, fino a oltre la metà del Settecento, a parte alcune meritevoli eccezioni, non vi era stata in Italia una vera attuazione della normativa adottata a Trento per l’istituzione dei seminari diocesani. In seguito la realizzazione di quell’ormai remoto progetto fu dovuta alla volontà dei governi assoluti, che vi impiegarono una parte dei patrimoni immobiliari e finanziari, nonché delle risorse librarie, incamerati dagli Stati in seguito alle soppressioni dei monasteri e dei conventi31. Il risultato della persistente carenza dei seminari vescovili era una formazione sacerdotale quanto mai frammentaria, priva di un metodo uniforme e di criteri omogenei, in parte frutto di apprendistato-tirocinio presso altri sacerdoti, ma in buona misura anche condizionata dalla frequenza più o meno continuativa di scuole tenute dalle famiglie di religiosi, che tentavano di trasmettere i propri modelli di vita comunitaria e tendenzialmente separata dalle persone del secolo a quei futuri chierici, che invece avrebbero vissuto in seguito proprio immersi nel secolo. L’insoddisfazione dell’episcopato nei confronti di questa formazione iniziale e la rassegnata consapevolezza dell’impossibilità di reperire le risorse necessarie per garantire a tutti la frequenza ai pochi e poveri seminari diocesani, emergono dal favore che dalla fine del Seicento riscossero presso molti vescovi due nuovi strumenti educativi più flessibili ed economici: le case degli esercizi spirituali e le conferenze dei casi di coscienza. Nel primo caso si trattava di istituti educativi, sia di formazione iniziale che di formazione in servizio, assai più agili rispetto ai veri e propri seminari, affidati a congregazioni religiose regolari o a famiglie di sacerdoti oblati diocesani, dediti all’istruzione dei chierici secondo forme più intense e con tempi assai più ristretti: in alcune diocesi divenne persino obbligatoria la permanenza presso queste case per un periodo di almeno qualche giorno prima di essere ammessi agli ordini sacri. Le seconde invece consistevano in semplici riunioni dei parroci e degli altri ecclesiastici presso la canonica del pievano o del vicario foraneo o di altro sacerdote designato dal vescovo: in queste adunanze venivano discussi i temi di teologia dogmatica e di teologia morale, di diritto canonico e di disciplina ecclesiastica, che lo stesso vescovo sottoponeva periodicamente all’attenzione del suo clero. Ma anche l’adozione di questi strumenti formativi, peraltro discontinua nel tempo e non diffusa in misura omogenea in tutte le diocesi, non poteva colmare il divario, che caratterizzava il sacerdote cattolico, in particolare quello italiano, dal pastore delle confessioni riformate: quest’ultimo era anche, se non principalmente, il maestro e la guida spirituale dei fedeli della sua comunità. Né il sacerdote ‘latino’ poteva aspirare a vivere in simbiosi con la sua comunità, condividendo gioie e dolori, speranze e timori dei suoi figli spirituali. A tenerlo separato da loro era l’obbligo del celibato, da intendersi nel senso di divieto assoluto della convivenza more uxorio sotto lo stesso tetto, condividendo la mensa e il letto, secondo i costumi della morale consuetudinaria: un divieto, peraltro, che distingueva nettamente questi chierici da quelli ‘greci’ o ‘orientali’, sui quali pure pesava tradizionalmente – anche da parte della Chiesa di Roma – l’accusa di ignoranza.
In effetti, pur immersi nella composita uniformità del clero cattolico italiano, alle soglie della rivoluzione nazionale sopravvivevano gli ultimi residui di un clero secolare considerato, almeno nel nostro paese, come un corpo estraneo dalla gerarchia della Chiesa di Roma, così come ancora estranee erano le comunità alle quali prestavano i loro servizi religiosi. Si trattava di comunità ‘orientali’: in maggior parte erano di origine slava, albanese o più genericamente ‘greca’, frutto delle migrazioni causate dall’espansione dell’Impero ottomano e insediate nelle regioni meridionali e insulari (Corsica compresa); in minor dimensione, ma spesso con maggior ricchezza e vivacità culturale, erano nuove e vivaci aggregazioni di mercanti, impresari e lavoratori specializzati, provenienti anche dalle coste dell’Asia Minore e dimoranti in grandi centri urbani, come Venezia, Napoli o Livorno32. Ciò che rendeva particolarmente inviso questo clero non risiedeva tanto in talune differenze sul piano meramente liturgico o su quello dottrinale, comprensibili solo da poche persone di cultura teologica più raffinata (come nel caso dei riti dell’estrema unzione o della questione del Filioque nel Credo niceano-costantinopolitano), quanto soprattutto nello ‘scandalo’ che il clero di rito orientale offriva sul piano disciplinare ai fedeli, ma in particolare ai chierici di rito latino. Per i chierici di rito orientale, infatti, non era vincolante l’obbligo del celibato, con la conseguenza che si sposavano prima di accedere all’ordine sacro del diaconato. Sui possibili effetti ‘scandalosi’ provocati dalla presenza di sacerdoti coniugati in un mare di ecclesiastici celibi (effetti certo possibili a livello individuale, ma anche storicamente innocui, almeno fino a oltre la metà del secolo XX, sul piano della disciplina esteriore della maggior parte del clero secolare italiano), ricordo un romanzo autobiografico degli anni Sessanta del secolo scorso, Il previtocciolo, di don Luca Asprea (pseudonimo di Carmine Ragno)33. Nonostante la conclamata protezione assicurata dai pontefici a tutti questi ‘greci’, che pure accettavano più o meno sinceramente la supremazia del papa e gli altri aspetti della disciplina cattolica nei restanti sacramenti (come la cresima o il matrimonio), dopo il concilio di Trento la gerarchia ecclesiastica locale aveva intrapreso una campagna di vera e propria ‘latinizzazione’ delle comunità di rito greco, grazie anche al sostegno di autorità politiche e feudatari. Tale campagna, che non di rado assunse il carattere di una ‘pulizia etnica’ (uso questo termine in senso culturale), fu condotta sul piano giudiziario e poliziesco e conobbe nel Regno delle Due Sicilie una nuova fiammata addirittura nel secolo XIX, proprio mentre gli spiriti liberi di mezza Europa accorrevano in Grecia per combattere e morire al fianco degli insorti contro il dominio turco. Del resto, anche la posizione di ‘protezione’ dei pontefici era sempre stata inficiata da un principio fondamentale, che proprio alla metà del Settecento il papa Benedetto XIV aveva voluto ribadire con forza: la validità del rito greco era confermata dai pontefici solo nel quadro della praestantia del rito latino34. In sostanza, come spiegò bene Gaetano Moroni un secolo dopo, se è indubbio che con quella bolla papa Lambertini «rinnovò tutti i privilegi concessi dai suoi predecessori ai medesimi greci», è anche vero che essa costituì «un distinto compendio di tutto ciò che questi devono credere e professare, di quello che è loro permesso di osservare e di ammettere, della maniera con la quale debbonsi portare co’ vescovi latini»35. Una lezione di ‘separazione nella distinzione’ fra i ‘superiori’ e gli ‘inferiori’; una lezione autorevole, che non sarà dimenticata fin quasi ai nostri giorni.
Fino agli anni Settanta-Ottanta del Settecento, nella società italiana d’antico regime l’esercizio del ministero sacro da parte degli ecclesiastici secolari soffriva strutturalmente per un limite invalicabile: la massiccia presenza di quei regolari che supplivano alle deficienze del clero diocesano sul pulpito, sulla cattedra e nel confessionale36. Ovviamente, parlando di ministero, il primo riferimento non può che essere alle congregazioni di monaci, di canonici regolari, di frati mendicanti (conventuali e osservanti delle varie graduazioni) e di chierici regolari, senza dimenticare quelle famiglie di cavalieri e di ospedalieri, nelle quali la tradizionale subordinazione dei fratelli laici ai fratelli sacerdoti era del tutto capovolta: una straordinaria ‘marca di frontiera’ interna alle stesse istituzioni ecclesiastiche. Le loro case e i loro chiostri, con orti e giardini annessi, occupavano spazi cospicui nelle città e nei borghi, mentre i loro confratelli strabordavano nelle piazze e nelle strade, nelle chiese e nelle scuole con la loro presenza innumerabile, ma soprattutto con la loro voluta invadenza, nel nome della loro pretesa funzione di apostolato continuo nei confronti del popolo basso, dei borghesi e degli aristocratici: nell’insegnamento della dottrina cristiana ai bambini come agli adulti, nella predicazione alle masse radunate nelle piazze o dentro le loro ampie chiese a navata unica, nell’esercizio instancabile ed esperto del sacramento della penitenza, nelle veglie funebri e nei funerali, nelle processioni ordinarie previste dal calendario sacro e in quelle straordinarie per ringraziare Dio delle vittorie della chiesa o per scongiurarlo nelle calamità del suo popolo, nella celebrazione delle messe e nella conduzione delle preghiere collettive. Per non parlare poi, della gestione pressoché egemonica di momenti religiosi collettivi, aventi una scansione ripetitiva nel corso del tempo o piuttosto un carattere estemporaneo: i cicli annuali delle prediche dell’Avvento e della Quaresima, nel primo caso, e nel secondo, quelle ‘missioni popolari’, che, pur coinvolgendo anche famiglie regolari già impegnate in altri ambiti, dai Cappuccini ai Gesuiti, divennero anche lo scopo principale, se non esclusivo, di più recenti congregazioni religiose anche di sacerdoti, come i Passionisti di s. Paolo della Croce o i Redentoristi di s. Alfonso Maria de’ Liguori37.
A partire dagli anni Settanta del Settecento, però, in tutti gli Stati italiani, con l’eccezione dello Stato della Chiesa, i governi intervennero pesantemente nel settore, sia emanando provvedimenti sulla professione religiosa (come l’innalzamento dell’età), sia sottoponendo le case regolari al controllo degli ordinari diocesani in voluta violazione del principio canonico dell’‘esenzione’ e della dipendenza diretta dal papa sia, infine, sopprimendo direttamente monasteri e conventi maschili38. Queste soppressioni, tranne nel caso dei Gesuiti colpiti da papa Clemente XIV, non ebbero caratteri uniformi, giacché non di rado la scelta di salvare o di eliminare questa o quella congregazione, questo o quel cenobio, dipese da fattori storici contingenti: la particolare tradizione, pacifica o conflittuale, dei rapporti con l’episcopato locale e con il potere politico centrale; il radicamento nazionale sul territorio come nel caso delle famiglie vallombrosiana e camaldolese, che il granduca Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena risparmiò perché di fondazione toscana39; i meriti acquisiti con l’attività assistenziale, come nel caso dei Fatebenefratelli, o educativa, come per gli Scolopi; l’appetibilità dei loro patrimoni immobiliari e delle loro risorse finanziarie, impiegabili per scopi anche religiosi, ma più vicini agli interessi governativi; il buon nome o meno di talune famiglie religiose per la correttezza della loro disciplina oppure la loro disponibilità a diventare un docile strumento del disciplinamento dei chierici ‘discoli’, secondo quei nuovi stili di polizia amministrativa, che evitavano il ricorso alla vera procedura giudiziaria, in campo sia civile che ecclesiastico. Le soppressioni napoleoniche del 1808-181140 parvero estirpare del tutto l’universo regolare dal nostro paese, a eccezione della Sicilia e della Sardegna in cui resistevano, grazie alla protezione della flotta inglese, i Borboni e i Savoia, ma la sconfitta di Napoleone prima in Russia e poi a Lipsia fece immaginare il ritorno a un passato più lontano, che facesse dimenticare non solo gli eccessi della Rivoluzione, ma anche il riformismo regalista, approfittando della paura dei sovrani e della ripristinata alleanza fra troni e altare. Risorsero, così, monasteri e conventi, in cui tornarono i regolari sopravvissuti alla secolarizzazione e alle vicende della vita e riprese il fenomeno delle vocazioni religiose, anche se ambedue i fenomeni procedettero con ritmi non omogenei e non sempre impetuosi, anche perché non era possibile recuperare gli antichi patrimoni, sottraendoli ai loro nuovi proprietari. Come per le famiglie religiose femminili, infatti, pur con grandi differenze locali anche all’interno dello stesso stato (come nel caso anche dei domini pontifici), la ripresa dell’universo regolare maschile raramente riuscì a raggiungere nell’età della Restaurazione la metà degli istituti presenti verso la fine dell’antico regime, che pure spesso erano già stati ridotti rispetto ai decenni precedenti dalle accennate riforme giurisdizionaliste, e la ripresa si mostrò particolarmente ardua per le famiglie benedettine e per gli stessi grandi Ordini mendicanti, soprattutto nei rami conventuali41. Più vivace fu la ripresa delle congregazioni dei chierici regolari, anche grazie alla specificità del loro ministero sacro, che rendeva la loro presenza indispensabile in una fase di ricostruzione dell’apparato ecclesiastico: l’istruzione dei quadri ecclesiastici e dei ‘buoni cattolici’ laici e l’ammaestramento delle masse popolari costituivano una loro indubbia e peculiare prerogativa, apprezzata persino dai governi ai fini della ‘pubblica utilità’ (un paradigma concettuale ricorrente nelle sterminate carte delle burocrazie ministeriali per palesare il favore politico verso alcuni istituti religiosi). Rinacque anche la Compagnia di Gesù, che papa Pio VII volle restaurare nel 1814 con la bolla Sollicitudo omnium Ecclesiarum, anche per il forte valore simbolico che poteva avere una simile operazione. Tuttavia, nell’età della Restaurazione era ormai acquisito un dato nella composizione del personale ecclesiastico: la superiorità numerica del clero diocesano rispetto a quello regolare42.
Con questa rinascita riprese pure la funzione apostolica continua dei regolari in sostegno, anzi in sostituzione della carente azione pastorale del clero secolare, e con questa funzione riprese anche la polemica tardo-settecentesca contro la Rivoluzione e contro i suoi effetti disgregatori dell’ordine naturale e della società cristiana: l’empietà-incredulità e l’immoralità-libertinaggio. Agli occhi della gerarchia ecclesiastica e dei moralisti cattolici un’infinita serie di mali discendeva da questi effetti della Rivoluzione: la bestemmia, l’inosservanza del riposo festivo, l’usura, la «pravità» e rilassatezza dei comportamenti, la dissipatezza nel gioco, l’impudicizia nel vestiario, la lussuria, il concubinato, le separazioni coniugali, la violazione degli impedimenti matrimoniali, e via dicendo. In realtà, queste presunte conseguenze della Rivoluzione erano già note e condannate da lungo tempo, anzi da secoli, e per alcune di esse si trattava né più né meno che di costumi tradizionalmente tollerati o persino approvati dalla morale consuetudinaria, come per esempio nel caso del concubinato fra persone libere da vincoli coniugali43, ma che la teologia cattolica aveva bollato come peccati mortali e il diritto canonico aveva trasformato in veri delitti, imponendo la loro criminalizzazione anche alle autorità civili, soprattutto a partire dal concilio di Trento. Un esempio classico di «invenzione della tradizione» destinata a un buon successo sul piano giuridico fino ai nostri giorni.
Non si può trascurare l’universo variegato delle religiose, anche se la dottrina cattolica esclude per costoro il concetto stesso di ministero ecclesiastico, almeno in senso stretto44. Ancora alle soglie della Rivoluzione francese, in Italia appariva prevalente il modello postridentino del monachesimo femminile, basato sul binomio della clausura e della vita comune e istituzionalmente improntato alla vita contemplativa, anche se il passar del tempo aveva imposto sostanziali compromessi al rigore disciplinare della controriforma. Dalla fine del Seicento i certificati di medici scrupolosi o compiacenti consentivano alle monache di derogare temporaneamente per motivi di salute al loro regime carcerario e molti dormitori erano stati sostituiti da celle individuali. Tuttavia, pur tralasciando la tenace persistenza di quel fenomeno intramontabile delle ‘monache di casa’, contro cui inutilmente si scagliavano i rigoristi misogini, accanto a questo monachesimo, oggetto delle cure particolari dei vescovi anche in Italia, era andato crescendo un composito movimento religioso femminile dedito alla vita attiva, all’assistenza ai malati, ai vecchi e ai bambini nelle case, negli ospedali e negli ospizi, all’istruzione e all’educazione delle ragazze, e talora alla loro ‘correzione’. Oltre alle ‘oblate’ di lontanissima memoria, ‘dame’, ‘maestre’, ‘madri’, ‘sorelle’, ‘figlie’: tanti nomi di nuove famiglie, caratterizzate dai voti semplici, spesso solo temporanei e dall’impegno sociale. I monasteri femminili tradizionali caddero nel gran calderone delle soppressioni napoleoniche, ma ancor prima erano entrati in una lenta, ma sensibile crisi. Da una parte premeva il secolo con la sua socialità, le sue letture, i suoi consumi; dall’altra parte anche in questo settore era calata la scure del riformismo governativo, innalzando l’età per la professione dei voti fino ai trent’anni, soglia di un irrimediabile zitellaggio, modificando le regole della costituzione delle doti, proibendo il dispendioso lusso delle consacrazioni, persino modificando autoritariamente la disciplina di molti monasteri, trasformati per ordine monarchico in conservatori dediti all’istruzione delle fanciulle. Quando poi arrivò la Restaurazione, quel modello controriformista di monastero femminile, di rigorosa clausura e di vita contemplativa, poté recuperare le sue posizioni solo parzialmente. Invece, le piccole e meno nobili comunità di vita attiva riuscirono a sopravvivere alla Rivoluzione e a Napoleone e decollarono definitivamente nei decenni della Restaurazione con la loro risposta vincente alle esigenze della società italiana: l’istruzione gratuita delle fanciulle povere, l’educazione della gioventù, l’assistenza ospedaliera, l’assistenza diretta nelle case, persino la cura delle vocazioni sacerdotali dei giovinetti nelle scuole preparatorie ai seminari (questo fu il caso delle Ancelle del Divin Prigioniero di Sondrio). Nacquero così, già dalla piena età napoleonica e poi con maggiore spinta dopo il 1815, nuove famiglie di religiose come le Ancelle della carità a Brescia, le Figlie della carità o Canossiane, le Figlie del Cuore di Gesù di Verona, le Figlie della divina provvidenza di Roma, le Figlie francescane della carità di Faenza, le Figlie di Gesù a Modena e a Verona, le Giannelline di Chiavari e le Figlie della misericordia di Savona, le nuove famiglie di Maestre pie a Forlì, a Roma, a Sestri Levante e a Genova, le Marcelline di Milano o le Ministre degli infermi di S. Camillo a Lucca45. Anche se negata dalle gerarchie, è esistita ed esiste anche una sacralità del ministero femminile verso le ‘cose’: i corpi e i bisogni primari degli esseri umani.
Ancora intorno alla metà del secolo XVIII una porzione non indifferente, anche se di difficile valutazione quantitativa, del ministero sacro era governata e gestita dal laicato, nelle sue diversificate forme di aggregazione comunitaria: dalle confraternite o compagnie (in particolare quelle che discendevano dai grandi movimenti dei ‘disciplinati’) ai ‘luoghi pii’, come le case di carità o di misericordia, gli ospedali, le ‘opere’ o fabbricerie, le ‘fraternite’, i ‘monti’, e altri simili istituti dalle più svariate denominazioni locali46. Anche a voler trascurare sia il servizio svolto nelle numerose scuole di dottrina cristiana per l’insegnamento del catechismo e dei rudimenti della fede ai fanciulli d’ambo i sessi, sia le funzioni rituali assunte massicciamente in alcuni momenti cultuali e liturgici persino in assenza di sacerdoti secolari o regolari (dalle processioni ai funerali, dalla recita del rosario alla veglia nei sepolcri o alla lavanda dei piedi), gli ufficiali di queste associazioni e questi enti avevano avuto per secoli ampi poteri decisionali nella gestione del ministero sacro. Da una parte, infatti, erano stati loro a scegliere gli ecclesiastici, secolari o regolari, a cui demandare l’ufficiatura delle loro chiese e dei loro altari, e, dall’altra, dalle loro decisioni era dipesa la possibilità di effettuare o meno questo o quel rito, questa o quella funzione: un potere d’indirizzo che dipendeva strettamente dal loro impegno finanziario nel sacro. Ebbene, a partire dagli ultimi decenni del Settecento con la legislazione asburgo-lorenese e poi ancora con la legislazione napoleonica questa dimensione sacrale del laicato fu disgregata nell’Italia centro-settentrionale: subordinati i luoghi pii alle municipalità poste sotto un maggiore controllo dei governi centrali e, soprattutto, private della componente più popolare, come nella Toscana leopoldina, le confraternite furono soppresse, i loro beni furono alienati o destinati a favore delle parrocchie, e al loro posto furono istituite nuove associazioni subordinate direttamente ai parroci e destinate al loro servizio. La lotta contro la superstizione popolare rivelò così la faccia dell’annichilimento di quella religiosità popolare, che trovò un ben misero rifugio nella rinascita di associazioni meramente devozionali, inabili legalmente al possesso di patrimoni comunitari. Diverso potrebbe apparire il caso del Mezzogiorno, dove i Borbone non procedettero a una tale politica di sradicamento perché privilegiarono, almeno nel Settecento, tutto ciò che comportava una diminuzione dei poteri della gerarchia ecclesiastica: qui, però, crebbe pesantemente la subordinazione al governo monarchico. Non a caso, oltre mezzo secolo dopo Antonio Rosmini affermerà che i cristiani laici «non ebbero forse mai un sentimento della propria dignità di membri della Chiesa» e, almeno in molti, «hanno fors’anco considerato sempre il Clero come una parte privilegiata e invidiabile, perché vive de’ proventi dell’altare, come un ceto di superiori non diversi da ogni altra superiorità laicale, un tutto a sé»47. Anche se la mia affermazione può apparire paradossale, sul breve periodo il riformismo regalista illuminato e la legislazione napoleonica avevano contribuito a rendere ancora più ‘clericale’ il ministero sacro, espropriando le masse dei fedeli o, piuttosto, i loro dirigenti tradizionali del diritto di gestire le risorse accumulate nei secoli dal popolo intorno al sacro.
Con quale attrezzatura ideologica, emarginati ormai i laici, le diverse componenti italiane del ministero sacro si posizionarono nella storia del loro paese, in una fase che sinteticamente possiamo definire ‘rivoluzionaria’? A parere di chi scrive, un momento importante del processo culturale di ridislocamento dei cattolici italiani può essere individuato ancor prima dell’esplosione rivoluzionaria, quando non pochi intellettuali ‘organici’ alla Chiesa cattolica italiana si resero conto con lucidità di quanto stava avvenendo nel nostro paese, sul piano politico come su quello socio-culturale. A questo proposito, vorrei sottolineare sia la loro riflessione sulla perdita definitiva della libertà politica da parte degli italiani, sia gli esordi del processo di secolarizzazione della società europea, che, pur timidamente, cominciò a fare la sua comparsa anche nel nostro paese. Timidamente, perché, stretti fra un’inquisizione romana ancora in vita e assolutismi dinastici forestieri in gagliarda ascesa, gli spiriti innovatori potevano procedere solo a passi piccoli e tortuosi. La lettura qui proposta è che gli stessi intellettuali italiani si resero conto di questa duplice crisi assai precocemente, seppur forse confusamente, nel momento stesso in cui emerse il blocco storico fondato dai due temi presi in esame e che questo primo momento della crisi italiana può essere collocato intorno alla metà del secolo XVIII. Ovviamente l’attenzione così puntata alla metà del secolo XVIII non intende affatto escludere o minimizzare la rilevanza della ben più drammatica crisi – almeno dal punto di vista delle vittime umane e delle perdite materiali – che si abbatté sull’Italia negli anni dell’involuzione napoleonica della Rivoluzione francese. L’intenzione è soltanto far emergere questa prima crisi complessiva e la risposta che da essa scaturì all’interno del mondo cattolico: una risposta che ritengo importante, perché capace di durare nel tempo.
Già dagli inizi del Settecento il tema della ‘decadenza’ dell’Italia era entrato nei dibattiti degli intellettuali sia italiani che stranieri48, ma fu intorno alla metà del secolo che questo concetto e la valutazione pessimistica sul destino del nostro paese che ne discendeva, assunsero una precisa connotazione politica. Ricordiamo quanto scrissero, a distanza di qualche anno l’uno dall’altro, Ludovico Antonio Muratori, l’erudito ecclesiastico modenese, e Bernardo Tanucci, il giurista toscano ministro di Carlo III di Borbone re di Napoli, rispettivamente il primo a commento della morte di Gian Gastone de’ Medici, granduca di Toscana, e il secondo di fronte al cambiamento di alleanze che l’imperatrice Maria Teresa realizzò tramite la politica matrimoniale e che dette i suoi frutti nella guerra dei Sette anni con l’inedito asse fra i Borbone e gli Asburgo:
«In lui [Gian Gastone] finì la Linea maschile dell’insigne Regnante Casa de’ Medici, con disavventura inesplicabile dell’Italia, che seguitava a perdere i suoi Principi naturali; ma senza paragone riuscì più sensibile a i Popoli della Toscana, i quali indarno s’erano lusingati di poter tornare a Repubblica; nè solamente restarono senza i Principi Medicei, che tanta gloria e rispetto aveano finquì procacciato a Firenze e alla Toscana, ma venivano a restar sottoposti a un Sovrano, certamente benignissimo e generoso, pure obbligato da’ suoi interessi a fare la residenza sua fuori d’Italia. Gran fortuna è l’avere i Principi proprj. L’averli anche difettosi, meglio è regolarmente, che il non averne alcuno, giacchè lo stesso è che l’averli lontani, mentre fuori de gli Stati ridotti in Provincia, volano le rendite, e dee il Popolo soggiacere a’ Governatori, i quali non sempre seco portano l’amore a’ paesi, dove non han da fare le radici»49.
«Avrem comuni [noi, ministri del Regno di Napoli] con cotesta Corte [di Torino] e le cure e i sospetti per la vicinanza simile a quella grande persiana, per la quale impallidiva la Grecia. Ma l’alleanza di Versaglies è stata per l’Italia il rovescio della lega di Cambray, onde si rese tanto formidabile Giulio II, che come Bruto e Cassio fu l’ultimo romano, o sia italiano. Sarà in avvenire nello stato di natura l’Italia, cioè nullius, e vi faranno tutte le comedie e tutte le tragedie e tutti li spettacoli Vienna e Parigi a lor capriccio e ogni parte grande o piccola d’Italia sarà facilmente giocata e contrattata e abusata, come della Giudea dei suoi tempi diceva il celebre difensore di Flacco»50.
Come si vede, i ceti dirigenti degli Stati italiani, pur di tendenze culturali e ideologiche diverse, ebbero la percezione che ormai i vecchi principati della penisola correvano il rischio di ridursi a semplici colonie, secondo il destino antico e moderno della Corsica, che non a caso di lì a poco, nel 1768, fu venduta in cambio di moneta sonante dalla Repubblica di Genova alla corona di Francia; né fu minore il timore che tale marginalità si trasformasse in un mero sfruttamento economico da parte delle potenze europee. Nello stesso periodo, pur mantenendo sacche non disprezzabili di originalità e specificità etnica sia nei costumi delle masse (ampiamente e vivacemente descritti dai viaggiatori forestieri), sia nella stessa ‘civiltà delle buone maniere’ dei ceti dirigenti, come è provato pure dalla lunga fortuna arrisa al fenomeno del cicisbeismo, l’Italia fu invasa dalla nuova cultura ultramontana. Cultura da intendersi nel senso materiale dei nuovi prodotti di consumo e dei nuovi luoghi per il loro consumo: dal tè al caffè, dal tabacco ai derivati dello zucchero di canna, fino ai nuovi tessuti. Ma cultura da intendersi anche nel senso intellettuale del termine, quella nata dalla crisi della coscienza europea51, quella passata dalla rassicurante stabilità del conformismo confessionale al vivace movimento della riflessione intellettuale aperta ai più pericolosi esiti: Locke, Bayle, gli illuministi francesi, l’Enciclopedia, ecc. Senza nascondersi, peraltro, la presenza di un limite assai grave nelle capacità percettive dimostrate dalla cultura italiana, tanto laica che ecclesiastica: l’assenza di una visione chiara di cosa accadeva nella politica, nella società, nella filosofia, nelle scienze, nella letteratura e nella religione in quei paesi di lingua inglese, che si affacciavano sui due versanti dell’Atlantico settentrionale, e della loro penetrazione sotterranea, certo meno appariscente rispetto ad altri processi e fenomeni provenienti da paesi europei a noi più vicini. Forse le parziali eccezioni a questa mancanza di percezione furono costituite dall’accoglienza riservata alla fisica di Newton, da una parte, e alla massoneria, dall’altra.
Ebbene, allo stesso Muratori possiamo fare riferimento anche per la consapevolezza della necessità di dover fare i conti con una cultura europea in veloce trasformazione e per l’indicazione di poter trovare una risposta, che non costituisse un mero arroccamento nella difesa della ‘tradizione’, ma che lo stesso fosse in grado di salvaguardare una netta linea di confine rispetto alla deriva aconfessionale, ormai sempre più evidente, della nuova cultura. Questa linea di confine era, anzi doveva essere, l’indefettibile fedeltà alla Santa Sede e la risposta fu individuata nell’erudizione storica: nel lavoro scientifico sul passato – su tutto il passato, anche a costo di far cadere qualche pia leggenda sulle virtù eroiche dei santi e sui poteri miracolosi delle reliquie – come strumento per ridefinire i temi culturali, etici, economici, sociali e politici, che la nuova realtà poneva. Su questo campo si mosse intorno alla metà del secolo una schiera di intellettuali cattolici, ecclesiastici ma anche laici, saldi nella loro conclamata ortodossia, ma nel contempo disponibili a giocare fino in fondo questa carta della ‘scienza’, in particolare della scienza storica, nonostante il rischio a loro ben noto dell’esposizione agli attacchi da parte degli esponenti della vecchia tradizione zelante, sempre presente nel seno della Chiesa e particolarmente rinvigorita dalle polemiche contro i più disparati aspetti della modernità.
Sia il variegato schieramento del ‘terzo partito’ muratoriano (ricordo il veronese Scipione Maffei e la sua polemica sul prestito a interesse o il toscano Giovanni Lami e quella miniera di informazioni sulla cultura del tempo, che furono le sue Novelle letterarie), sia gli stessi esponenti della polemica cattolica più zelante (come i fratelli Ballerini, Daniele Concina, Francesco Antonio Zaccaria, Ginepro da Decimo e tanti altri) furono oggettivamente favoriti intorno alla metà del Settecento dal lungo pontificato di papa Benedetto XIV (1740-1758), il bolognese Prospero Lambertini52. La sua avversione alle guerre fra le differenti scuole teologiche lasciò aperto a lungo uno spazio di dibattito fra gli esponenti delle opposte tendenze nei campi della dogmatica e dell’etica: filogiansenisti e antigiansenisti, probabilisti e probabilioristi. Proprio grazie a questa equidistanza non priva di ambiguità, il suo insegnamento si è posto come un punto di riferimento essenziale nella Chiesa italiana e in specie nel suo clero. D’altronde, l’attenzione di Benedetto XIV nei confronti del clero diocesano si dispiegò già prima di salire sulla cattedra di s. Pietro, durante i suoi due episcopati anconitano (1727-1731) e bolognese (1731-1740/1754), con una vasta gamma di interventi normativi – dalle semplici Notificazioni alle bolle – e con un ventaglio amplissimo di temi. In questa sede sarà possibile accennare solo ad alcuni punti, scegliendoli fra i principali nella prospettiva della durata nel tempo. Benedetto XIV, che è noto non solo per il suo deciso antinepotismo, ma anche per la sobria moderazione dei suoi costumi personali nel cibo, nei movimenti, nell’impiego del tempo e nei divertimenti, offrì con le sue molte pubblicazioni una sorta di enciclopedia ecclesiastica per il clero, un canone culturale e comportamentale. Questo canone si caratterizza essenzialmente per due direttrici, che sinteticamente verranno definite del ‘rigorismo nella distinzione’53 e del ‘riformismo conservatore’54.
Veniamo al primo punto: il ‘rigorismo nella distinzione’ dei costumi dei chierici rispetto a quelli dei laici. Benedetto XIV propose (e nelle sue diocesi impose, almeno per quanto poté) uno stile di vita clericale nettamente diverso da quello laicale tanto nei consumi quanto nelle forme disordinate e pericolose della sociabilità laicale, uno stile basato sul distacco dalle ‘pericolose conversazioni’ con i laici e sul ‘ritiro’ del sacerdote nella sua casa canonicale e nella compagnia esclusiva o almeno prevalente dei chierici (del resto lo stesso Lambertini contava su una scelta compagnia di amici laici), recuperando il mitico modello gregoriano delle canoniche secolari. Insomma, i chierici e i sacerdoti non avrebbero mai dovuto mischiarsi in affari laicali, feste, balli, commedie, mascherate, banchetti, bevute, giochi, cacce rumorose ecc. Quanto al ‘riformismo conservatore’, questo si esplicava su più piani. In primo luogo sul piano dell’assetto giuridico-istituzionale della Chiesa romana, nella forte strutturazione gerarchico-piramidale contro ogni possibile sinodalità episcopale e parrochista. I modelli ecclesiologici non verticistici erano del tutto estranei dal suo modo di sentire – e di insegnare – il corpo della Chiesa romana, nel quale per il Lambertini, già uomo di curia, l’autorità e il potere risiedevano nel pontefice romano, che poteva fare affidamento sui dotti e sperimentati ecclesiastici operanti nelle congregazioni e negli uffici della curia romana: chierici e regolari italiani nella quasi totalità. A chi gli prospettava l’esempio dell’esperienza storica della Chiesa gallicana, che affondava le sue radici, in parte storiche e in parte mitiche, nell’antica Chiesa franco-merovingia, obiettò sempre che se in Francia si parlava la lingua francese, in Italia si lasciasse parlare la lingua italiana. In effetti, a mio parere, il suo famoso trattato De Synodo Dioecesana è un’opera incentrata su ciò che il vescovo non doveva permettersi di legiferare, lasciandone ogni competenza a Roma: sembra proprio che sia stato scritto più per dissuadere i vescovi dal convocare il sinodo diocesano (che, guarda caso, egli stesso come vescovo non convocò mai), piuttosto che per indurli a convocarlo e ad assumervi le decisioni ritenute necessarie per la specificità della vita spirituale e materiale della propria diocesi.
Il suo ‘riformismo conservatore’, poi, si esplicitò sul piano degli studi, iniziali e in itinere, del clero. Da una parte, un percorso che si sarebbe dovuto snodare dal seminario agli esercizi spirituali presso case di religiosi fino alle periodiche conferenze sui casi di coscienza; dall’altra parte, una ‘ratio studiorum’ che, oltre ai rudimenti di lettere umane e di ‘gramatica’, si articolava su una sorta di quadrivio, composto dalla filosofia metafisica e logica, dalla teologia dogmatica, dalla teologia morale e dal diritto canonico. In questo programma di studi era assente quella cultura civile (a partire dall’economia agraria), che di lì a poco le correnti del riformismo cattolico porranno come un’esigenza non più rinviabile per il bagaglio culturale del sacerdote, soprattutto per quei tanti sacerdoti che avrebbero svolto il loro ministero nelle campagne, fra i contadini. Ma questa dimensione culturale ‘civile’ era stata sempre estranea al Lambertini. Estranea come suo personale percorso formativo: gli era sempre bastato far quadrare i conti dei bilanci di ciò che amministrava, senza creare, pur con certe sue passioni edificatorie, situazioni debitorie insopportabili. Estranea pure sul piano della sua dimensione intellettuale: gli sfuggiva la dimensione ‘materiale’ delle problematiche del tempo in cui viveva e opponeva un tacito, ma non per questo meno netto, rifiuto alla sua intrusione negli studi del clero. La conseguenza diretta di questa preminenza degli studi strettamente ecclesiastici nella formazione dei chierici era un’affermazione frequente sulle labbra di Benedetto XIV, un’affermazione che certamente divenne quanto mai attuale nel corso dell’Ottocento: era meglio avere pochi (chierici), ma che fossero buoni (nel senso culturale del termine).
Significativo era anche in Benedetto XIV il piano dell’ufficio sacramentale.
Com’è noto Benedetto XIV ha dedicato una particolare attenzione alla celebrazione della messa e agli altri atti del culto sacro: molte e lunghe pagine sulla messa come sacrificio divino, proprio ed esclusivo del sacerdote, ma anche sull’obbligo per i curati di celebrare la messa per il popolo. Né meno importanti sono i suoi interventi contro il rischio della simonia nel culto. Un rischio, che una lunga tradizione di interventi papali dimostra come fosse connesso in particolare agli abusi prodotti dalla pratica cattolica delle elemosine manuali per ricompensare i sacerdoti della celebrazione di messe in suffragio delle anime del purgatorio. Un corollario diretto di tutta questa attenzione concentrata sulla figura del sacerdote come parroco può essere individuato nell’accento che il vescovo e pontefice Lambertini pose sull’obbligo della manutenzione delle chiese, come edifici e come arredi sacri, che incombeva ai sacerdoti che ne fossero titolari. Si forma, così, quell’immagine del sacerdote e della sua ‘sposa’, che però, si guardi bene, non è la comunità umana dei fedeli, al cui servizio sacro il sacerdote è pure addetto, bensì la ‘cosa-chiesa’: questa sì rappresentazione concreta e visibile della più grande Chiesa a cui egli appartiene. Una Chiesa che scende pure ad accomodamenti con la realtà degli uomini, rimanendo però sostanzialmente estranea a essi. Infine, sul piano dell’ufficio pastorale del parroco verso i rispettivi parrocchiani, dall’insegnamento lambertiniano emerge il modello di un sacerdote che, oltre ad adempiere ai compiti liturgici e burocratici (come il controllo sull’osservanza del precetto pasquale da parte dei fedeli o il pronto accorrere al letto dei moribondi per il viatico), subiva soprattutto il pesante fardello di pastore impegnato nell’ammaestramento religioso del gregge affidato alla sua guida. Questo ammaestramento doveva essere non sporadico e frettoloso, ma continuo e articolato nella predicazione (in particolare all’interno della celebrazione eucaristica nei giorni di festa di precetto) e nell’insegnamento, tanto della dottrina sacra che del catechismo. Al fine di insegnare i rudimenti della fede, per Lambertini era obbligatorio che il parroco utilizzasse come spazio sacro anche il tempo immediatamente successivo alle celebrazioni delle messe nei giorni festivi. Anzi, un obbligo simile incombeva persino ai sacerdoti ufficianti negli oratori privati delle campagne, per evitare che proprio i fedeli delle zone più periferiche rimanessero senza una sufficiente istruzione religiosa: anche costoro, quindi, dovevano assumersi un fardello, pur più lieve, da curati delle anime, da collaboratori del parroco titolare (in linea con quel processo di sacerdotalizzazione al quale accennavo più sopra).
Per segnalare l’importanza ancora in pieno Ottocento dell’insegnamento del Lambertini saranno sufficienti alcune annotazioni bibliografiche. A partire dal 1830, la stamperia Aldiniana di Prato pubblicò una raccolta in sette volumi di opere del Lambertini, che comprendeva l’Opus de servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione, il De sacrosancto missae sacrificio libri tres, il De festis domini nostri Jesu Christi et beatae Mariae Virginis libri duo, le Institutiones ecclesiasticae, il trattato De Synodo Dioecesana, le Quaestiones canonicae et morales, gli Opuscola miscellanea e il Bullarium. Sempre in Toscana, nel 1846-1847 furono ripubblicate le Decisioni di casi di coscienza e di dottrina canonica, fatte nella diocesi di Bologna per ordine e giusta la mente dell’Em. Card. Prospero Lambertini, Arcivescovo (a Firenze per i tipi di G. Mazzoli), mentre nel 1852, a oltre cento anni di distanza dalla sua prima edizione, la Raccolta di alcune notificazioni, editti ed istruzioni dell’Eminentissimo e Reverendissimo signor cardinale Prospero Lambertini arcivescovo di Bologna, e principe di S. R. I. pubblicate pel buon governo della sua diocesi ebbe una nuova edizione nella Torino liberale, ormai rifugio dei patrioti in fuga da mezza Italia, con il titolo Del buon governo della Diocesi. Fu così riedito un corpus di ‘lezioni’ certo non irrilevante e con pochi altri esempi similari con cui confrontarsi, soprattutto in considerazione del livello raggiunto dal nostro autore nella gerarchia della Chiesa. D’altronde, questa fortuna ottocentesca delle opere del Lambertini in Italia è confermata dalla voce che nello stesso torno di anni Gaetano Moroni dedicò al pontefice bolognese nel suo fortunato Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica55. Si tratta di pagine di forte apprezzamento nei confronti del suo operato – anche di quello politico, come sovrano – svoltosi in frangenti assai difficili, ma soprattutto di grande lode per la dottrina ecclesiastica che il papa manifesta nelle sue opere e nei suoi atti normativi.
Un motivo di questa fortuna potrebbe risiedere nel fatto che il magistero di Benedetto XIV presentava il vantaggio di costituire, anche agli occhi del critico meno corrivo, un insegnamento di salda ortodossia e di sicuro rigore, senza peraltro riferirsi in alcun modo alla tempesta rivoluzionaria, che arrivò solo successivamente. Insomma, era un insegnamento chiaramente orientato, ma non legato ad una particolare, seppur deflagrante, contingenza storica. Fra i giansenisti/giacobini da una parte e dall’altra gli zelanti/reazionari, il modello proposto da Prospero Lambertini poteva apparire come una ‘posizione terza’, che contava sul grande vantaggio di essere estranea all’immediata contingenza storica, andando a fondare la sua giustificazione teorica proprio nell’asserita atemporalità delle ‘autorità’ addotte nelle sterminate pagine del nostro. In questa sede, allora, ci può interessare quale contributo il magistero di questo pontefice ha dato alla formazione culturale e professionale del clero italiano ancora nella prima metà dell’Ottocento, con gli immaginabili effetti di prolungamento almeno per qualche decennio successivo. In sintesi la multiforme produzione a stampa di Benedetto XIV può essere letta su più piani: quello dei contenuti, quello delle tematiche, quello dell’impostazione di fondo. Sul primo punto mi pare che si debba parlare di una vera e propria enciclopedia per il clero, tanto è vasta la gamma dei contenuti specifici delle sue opere. Quanto alle tematiche, però, queste appaiono limitate allo stretto ambito ecclesiastico e, aggiungo, in una dimensione fortemente eurocentrica: sono note le condanne di questo pontefice nei confronti dei riti cinesi e dei riti malabarici, ma non minore era sicuramente il suo disprezzo nei confronti dei turchi. Anzi, non mancarono neppure vistose contraddizioni all’interno della sua stessa dottrina. Per esempio, il favore espresso in più occasioni nei confronti del culto per i santi bambini martiri della ‘perfidia giudaica’, uccisi a causa dell’‘odio per la fede’, contrasta, almeno a prima vista, sia con i dubbi dottrinali sulla possibilità di applicare il concetto stesso di martirio a vittime inconsapevoli, sia anche con quel dispiego di conoscenze anche nel campo della metodologia della ricerca, che pure aveva contraddistinto la sua opera principale De Servorum Dei Beatificatione, et Beatorum Canonizatione. Quanto, infine, all’impostazione di fondo che nutre l’insegnamento lambertiniano sul ministero ecclesiastico, sulla scia di altri storici56 anch’io la ricondurrei a una sorta di ‘riformismo conservatore’. Coronato da un successo superiore e più duraturo di quello arriso alle correnti semplicemente più intransigenti e zelanti (che pure ebbero ampio spazio nella reazione alle violenze rivoluzionarie e alle novità ultramontane), si trattò di un tentativo di aggiustare il tiro su una serie di problematiche, di separare i propri destini da quelli di istituti ormai avvertiti dalla stessa gerarchia come fastidiosi intralci alla propria libertà di movimento (i giuspatronati laicali sui benefici ecclesiastici, gli oratori privati, ecc.), di scendere a compromessi con i poteri pubblici secolari su aree di riconosciuto interscambio (come l’ordine sociale, le immunità locali, la fiscalità ecc.). Ma si trattò anche di un programma abbastanza esauriente per la definizione di una concezione sacerdotale rivolta a una società in via di secolarizzazione: da una parte una concezione innovatrice, perché aspirante a liberarsi, senza troppa nostalgia, dagli infiniti lacci e laccioli della dimensione socio-familiare del chierico d’antico regime; dall’altra parte, però, una concezione arcaica non solo per il costante richiamo alle ‘autorità’ del passato, ma soprattutto per l’idealizzazione e la riproposizione di un modello di sacerdote separato dal contesto sociale e a esso superiore. Un modello che, come ho accennato più sopra, potremmo definire ‘gregoriano’ anche in virtù della memoria volutamente richiamata sulle antiche canoniche secolari e sulla loro disciplina comunitaria. Nell’Italia dell’Ottocento, fra Restaurazione, rivoluzione risorgimentale e Stato unitario, questo profilo costituirà, a mio parere, una componente importante di un modello ideale «di risposta sacerdotale e cristiana all’attacco nemico» caratterizzata da «un atteggiamento di equilibrata prudenza», piuttosto che da un atteggiamento pugnace e combattivo57: un modello capace di opporre una resistenza passiva ma tenace contro ‘il mondo che verrà’.
1 R. Bizzocchi, In famiglia. Storie di interessi e affetti nell’Italia moderna, Roma-Bari 2001.
2 E. Francia, «Il nuovo Cesare è la patria». Clero e religione nel lungo Quarantotto italiano, in St.It.Annali, XXII, Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti, P. Ginsborg, 2007, pp. 423-450; M. Viroli, Come se Dio ci fosse. Religione e libertà nella storia d’Italia, Torino 2009, pp. 199 segg.
3 G. Greco, La Chiesa in Italia nell’età moderna, Roma-Bari 1999.
4 F. Barra, Il problema della ristrutturazione delle circoscrizioni diocesane del Regno di Napoli tra Decennio e Restaurazione, in Studi di storia sociale e religiosa. Scritti in onore di Gabriele De Rosa, a cura di A. Cestaro, Napoli 1980, pp. 537-576.
5 A. Gambasin, Religiosa magnificenza e plebi in Sicilia nel XIX secolo, Roma 1979, pp. 92 segg.; R. Manduca, Le chiese lo spazio gli uomini. Istituzioni ecclesiastiche e clero nella Sicilia moderna, Caltanissetta-Roma 2009, pp. 162-163.
6 G. Franchi, M. Lallai, Da Luni a Massa Carrara – Pontremoli: il divenire di una diocesi fra Toscana e Liguria dal IV al XXI secolo, Massa 2000; R. Musetti, I mercanti di marmo nel Settecento, Bologna 2007.
7 G. Leti, L’Italia regnante, o vero Nova Descritione Dello Stato presente di tutti Prencipati, e Republiche d’Italia [...]. Opera Veramente utilissima, e nicessaria à tutti quelli che desiderano farvi il Viaggio, ò pure che vogliono instruirsi della qualità del Paese, e Prencipati d’Italia, I, Geneva, Appresso Guglielmo, e Pietro de la Pietra, 1675, pp. 115-116.
8 G.B. De Luca, Il Vescovo pratico, overo Discorsi familiari nell’ore oziose de giorni canicolari dell’Anno 1674, Roma 1675, pp. 13-23.
9 C. Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche (1675-1760), in St.It.Annali, IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini, G. Miccoli, 1986, pp. 719-766; C. Donati, Vescovi e diocesi in Italia dall’età post-tridentina alla caduta dell’antico regime, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Roma-Bari 1992, pp. 321-389.
10 G. Greco, Chiesa, società e potere politico a Lucca nell’età della Restaurazione, in Fine di uno Stato: il Ducato di Lucca. 1817-1847, Convegno di studi (Lucca 1997), «Actum Luce. Rivista di studi lucchesi», 26, 1997, pp. 90-186.
11 A. Quacquarelli, Il Concordato del 1818 fra la Santa Sede e il Regno delle Due Sicilie in Puglia, «Japigia. Rivista pugliese di archeologia, storia e arte», 13, 1942, pp. 247-260.
12 C. Fantappiè, Il monachesimo moderno tra ragion di chiesa e ragion di stato. Il caso toscano (XVI-XIX sec.), Firenze 1993; M. Rosa, Giurisdizionalismo e riforma religiosa nella Toscana leopoldina (1965), ora in Id., Riformatori e ribelli nel ’700 religioso italiano, Bari 1969, pp. 165-213, 280-286; F. Scaduto, Stato e Chiesa sotto Leopoldo I Granduca di Toscana (1765-1790), Firenze 1885.
13 M. Taccolini, Per il pubblico bene. La soppressione di monasteri e conventi nella Lombardia austriaca del secondo settecento, Roma 2000.
14 G. De Rosa, Giuseppe Crispino e la trattatistica sul Buon Vescovo, in Id., Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Roma-Bari 1978, pp. 103-143; M. Rosa, Tra cristianesimo e lumi: l’immagine del vescovo nel ’700 italiano, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 23, 1987, pp. 240-278; C. Donati, Vescovi e diocesi in Italia, cit.
15 A. Lauro, La Curia romana e la residenza dei vescovi, in La società religiosa nell’età moderna, Napoli 1973, pp. 869-883.
16 R.M. Abbondanza, S. Lando, Esame della legislazione borbonica relativa all’organizzazione ecclesiastica, in La società religiosa nell’età moderna, Atti del Convegno di storia sociale e religiosa (Capaccio-Paestum 1972), Napoli 1973, pp. 529-547; R. Baccari, Le Chiese ricettizie, Milano 1948; A. Cestaro, Le strutture ecclesiastiche del Mezzogiorno dal Cinquecento all’età contemporanea, in Id., Strutture ecclesiastiche e società nel Mezzogiorno. Studi e ricerche dal XV al XIX secolo, Napoli 1978, pp. 135-187; V. De Marco, Le chiese ricettizie nella diocesi di Taranto: l’attuazione del piano di riforma del 1822, «Analisi storica», 3/IV, 1985, pp. 65-81; V. De Vitiis, Chiese ricettizie e organizzazione ecclesiastica nel Regno delle Due Sicilie dal Concordato del 1818 all’Unità, in Per la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno d’Italia, a cura di G. Galasso, C. Russo, Napoli 1982, II, pp. 349-481; A. Lerra, La chiesa ricettizia, in Storia della Basilicata, III, L’età moderna, a cura di A. Cestaro, Roma-Bari 2000, pp. 222-273; E. Robertazzi Delle Donne, Le Chiese ricettizie nella legislazione borbonica, in La società religiosa nell’età moderna, Napoli 1973, pp. 1027-1047; Id., Le chiese ricettizie nella politica anticurialista: aspetti giuridici e socio-economici, «Ricerche di storia sociale e religiosa», 17, 1988, 34, pp. 75-99.
17 M. Rosa, Curia romana e pensioni ecclesiastiche, secoli XVI-XVIII, «Quaderni storici», 14, 1979, 42, pp. 1015-1055; Id., Per grazia del papa: pensioni e commende nell’Italia del Seicento, in Storia d’Italia, XVI, Roma, la città del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Woityla, a cura di L. Fiorani, A. Prosperi, Torino 2000, pp. 291-323.
18 E. Brambilla, Società ecclesiastica e società civile: aspetti della formazione del clero dal Cinquecento alla Restaurazione, «Società e storia», 4, 1981, 12, pp. 299-366; Id., Per una storia materiale delle istituzioni ecclesiastiche, ivi, 7, 1984, pp. 395-450; R. Colapietra, La “clericalizzazione” della società molisana tra Cinque e Seicento: il caso della diocesi di Boiano, «Critica storica», 24, 1987, pp. 411-452; G. Greco, Fra disciplina e sacerdozio: il clero secolare nella società italiana dal Cinquecento al Settecento, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Roma-Bari 1992, pp. 45-113; P. Stella, Strategie familiari e celibato sacro in Italia tra ’600 e ’700, «Salesianum», 41, 1979, pp. 73-109.
19 X. Toscani, Il clero lombardo dall’Ancien régime alla Restaurazione, Bologna 1979; Id., Il reclutamento del clero (secoli XVI-XIX), in St.It.Annali, IX, cit., pp. 573-628.
20 A. Gambasin, Religiosa magnificenza, cit., p. 120; I.L. Gatti, Il cardinale Gregorio Barbarigo vescovo di Padova e i frati minori conventuali del Santo, in Gregorio Barbarigo, patrizio veneto, vescovo e cardinale nella tarda Controriforma (1625-1697), Atti del Convegno di studi (Padova 1996), a cura di L. Billanovich, P. Gios, Padova 1999, pp. 1057-1103; G. Greco, La contabilità delle messe in Italia in età moderna, in Clero, economia e contabilità in Europa. Tra Medioevo ed età contemporanea, a cura di R. Di Pietra, F. Landi, Roma 2007, pp. 156-172.
21 G. Bernardi, Liturgia e sentimento religioso nel Settecento veneziano e veneto, «Ricerche di storia sociale e religiosa», 32, 2003, 63, pp. 91-136.
22 J. Chiffoleau, La comptabilité de l’au-delà. Les hommes, la mort et la religion dans la région d’Avignon à la fin du Moyen Age (vers 1320-vers 1480), Rome 1980.
23 G. Greco, La contabilità delle messe, cit.
24 A. Torre, Il consumo di devozioni. Religione e comunità nelle campagne dell’Ancien Régime, Venezia 1995.
25 E. Papa, Sacre ordinazioni a Belcastro nel 1745, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 12, 1958, pp. 391-404; M. Rosa, Politica concordataria, giurisdizionalismo e organizzazione ecclesiastica nel regno di Napoli sotto Carlo di Borbone, in Id., Riformatori e ribelli nel ’700 religioso italiano, Bari 1969, pp. 119-163, 272-280; M. Spedicato, Ordinazioni e clero a Lecce nel periodo delle riforme (1740-’90), «Annali della facoltà di magistero dell’Università degli studi di Bari», 14, 1974-1976, pp. 212-231; M. Spedicato, “I requisiti de’ promovendi agli ordini” nelle trattative tra la S. Sede e Regno di Napoli per il Concordato del 1741 in un manoscritto della biblioteca “A. De Leo” di Brindisi, «Archivio Storico Pugliese», 28, 1975, pp. 175-218.
26 A. Turchini, La nascita del sacerdozio come professione, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, a cura di P. Prodi, Bologna 1994, pp. 225-256.
27 G. Greco, I giuspatronati laicali nell’età moderna, in St.It.Annali, IX, cit., pp. 531-572; M. Rosa, «Nedum ad pietatem, sed etiam (et forte magis) ad ambitionem ac honorificentiam». Per la storia dei patronati privati nell’età moderna, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 21, 1995, pp. 101-117.
28 G. Martina, Una testimonianza sul clero italiano nel Settecento, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 15, 1961, pp. 467-480; M. Sinopoli, Rassegna di disposizioni sulla vita e onestà dei chierici nei secoli XVI-XVII-XVIII, «Il diritto ecclesiastico», 57, 1946, pp. 192-217; X. Toscani, La letteratura del buon prete di Lombardia nella prima metà del Settecento, «Archivio storico lombardo», 102, 1976, pp. 158-195.
29 C. Sardi, Vita lucchese nel Settecento, Lucca 1968, p. 106.
30 F. Agostini, La riforma napoleonica della Chiesa nella repubblica e nel regno d’Italia. 1802-1814, Vicenza 1990; G. Battelli, Clero secolare e società italiana tra decennio napoleonico e primo Novecento. Alcune ipotesi di rilettura, in Clero e società, a cura di M. Rosa, cit., pp. 43-123; A. Gambasin, Religione e società dalle riforme napoleoniche all’età liberale. Clero, Sinodi e laicato cattolico in Italia, Padova 1974; M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari 1997; G. Martina, Il clero italiano e la sua azione pastorale verso la metà dell’Ottocento, in R. Aubert, Il pontificato di Pio IX (1846-1878), a cura di G. Martina, Torino 1964, pp. 751-782; C. Semeraro, Il clero in Italia fra restaurazione e primo Novecento. Dall’intransigenza alla consapevolezza del ruolo, «Salesianum», 55, 1993, pp. 663-691.
31 C. Fantappiè, Istituzioni ecclesiastiche e istruzione secondaria nell’Italia moderna: i seminari-collegi vescovili, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 15, 1989, pp. 189-240; M. Guasco, La formazione del clero: i seminari, in St.It.Annali, IX, cit., pp. 629-715.
32 Gli armeni a Livorno. L’intercultura di una diaspora, a cura di G. Panessa, M. Sanacore, Livorno 2006; La Chiesa Greca in Italia dall’VIII al XVI secolo, Atti del Convegno interecclesiale (Bari 1969), Padova 1973; Geografie confessionali. Cattolici e ortodossi nel crepuscolo della Repubblica di Venezia (1718-1797), a cura di G. Gullino, E. Ivetic, Milano 2009; V. Giura, Storie di minoranze. Ebrei, Greci, Albanesi nel Regno di Napoli, Napoli 1984; G. Panessa, Le Comunità greche a Livorno. Vicende fra integrazione e chiusura nazionale, Livorno 1991; P.P. Rodotá, Dell’origine, progresso, e stato presente del rito greco in Italia, osservato dai greci, monaci basiliani e albanesi libri tre, Roma, per Giovanni Generoso Salomoni, 1758 (rist. anastatica con introduzione di V. Peri, Cosenza 1986).
33 Don Luca Asprea (pseudonimo di Carmine Ragno), Il previtocciolo, con prefazione di Franco Cordero, Milano 1971. Il romanzo è stato ripubblicato recentemente con l’aggiunta del secondo tomo, fino ad allora inedito, a Cosenza nel 2003.
34 Bolla Etsi Pastoralis, del 26 maggio 1742, in Benedicti Papae XIV. Bullarium, I, pp. 75-83.
35 G. Moroni, s.v. Grecia e Greci, in Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, XXXII, Venezia 1845, pp. 87-164, la citazione è tratta da p. 144 e la sottolineatura dei predicati verbali è mia.
36 A. Barzazi, Settecento monastico italiano. Ordini regolari, Chiesa e società tra XVII e XVIII secolo, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 30, 1994, pp. 141-173.
37 L. Châtellier, La religion des pauvres. Les sources du christianisme moderne. XVIe-XIXe siècles, Paris 1993 (trad. it. La religione dei poveri. Le missioni rurali in Europa dal XVI al XIX secolo e la costruzione del cattolicesimo moderno, Milano 1994); A. Guidetti SJ., Le missioni popolari. I grandi gesuiti italiani. Disegno storico-biografico delle missioni popolari dei gesuiti d’Italia dalle origini al Concilio Vaticano II, Milano 1988; L. Mezzadri, Predicazione, III: Missioni e predicazione popolare, in DIP, VII, 1983, coll. 571-572; G. Orlandi, La missione popolare redentorista in Italia. Dal Settecento ai giorni nostri, «Spicilegium historicum Congregationis SSmi Redemptoris», 33, 1985, pp. 51-141; G. Orlandi, La missione popolare in età moderna, in Storia dell’Italia religiosa, II, L’età moderna, a cura di G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez, Roma-Bari 1994, pp. 419-452; G. Orlandi, La missione popolare: strutture e contenuti, in La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento tra Cinquecento e Settecento, Atti del X Convegno di studio dell’associazione italiana dei professori di storia della Chiesa (Napoli 1994), a cura di G. Martina, U. Dovere, Roma 1996, pp. 503-535; D. Vizzari, Le missioni popolari dei “pii operai”, «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2, 1994, pp. 270-290.
38 Il monachesimo italiano dalle riforme illuministiche all’unità nazionale (1768-1870), Atti del II Convegno di studi storici sull’Italia benedettina (Brescia 1989), a cura di F.B. Trolese, Cesena 1992; Religione, conflittualità e cultura. Il clero regolare nell’Europa d’antico regime, a cura di M.C. Giannini, Roma 2006; F. Rurale, Monaci, frati, chierici. Gli ordini religiosi in età moderna, Roma 2008; R. Rusconi, Gli Ordini religiosi maschili dalla Controriforma alle soppressioni settecentesche. Cultura, predicazione, missioni, in Clero e società, a cura di M. Rosa, cit., pp. 207-274; Settecento monastico italiano, Atti del I Convegno di studi storici sull’Italia benedettina (Cesena 1986), a cura di G. Farnedi, G. Spinelli, Cesena 1990.
39 C. Fantappiè, Il monachesimo moderno, cit.
40 C.A. Naselli, La soppressione napoleonica delle corporazioni religiose. Contributo alla storia religiosa del primo Ottocento italiano (1808-1814), Roma 1970.
41 F. Traniello, s.v. Restaurazione, in DIP, VII, 1983, coll. 1690-1697.
42 A. Cestaro, La ricerca storico-religiosa nel Sud con particolare riferimento alla tipologia dell’organizzazione ecclesiastica nell’Ottocento, in La società religiosa nell’età moderna, Napoli 1973, pp. 130-165.
43 A. Gambasin, Religiosa magnificenza, cit., pp. 75-78; G. Romeo, Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione, Roma-Bari 2008.
44 «De Monialibus» (secoli XVI-XVII-XVIII), «Rivista di storia e letteratura religiosa», 33, 1997, pp. 643-715; Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, a cura di L. Scaraffia, G. Zarri, Roma-Bari 1994; Donne sante sante donne. Esperienza religiosa e storia di genere, a cura della Società Italiana delle Storiche, Torino 1996; G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna 2000.
45 Cfr. le rispettive voci in DIP, 1974-2003
46 A. Angelozzi, Le confraternite laicali. Un’esperienza cristiana tra medioevo e età moderna, Brescia 1978; Confraternite, chiesa e società. Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale europeo in età moderna e contemporanea, a cura di L. Bertoldi Lenoci, Fasano, 1994; D. Zardin, Le confraternite in Italia settentrionale fra XV e XVIII secolo, «Società e storia», 10, 1987, 35, pp. 81-137.
47 A. Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa. Trattato dedicato al Clero cattolico con Appendice di due lettere sulla elezione de’ Vescovi a Clero e Popolo, Perugia 1849, p. 23; P. Marangon, Il risorgimento della Chiesa. Genesi e ricezione delle “Cinque piaghe” di A. Rosmini, Roma 2000, p. 14.
48 F. Venturi, L’Italia fuori d’Italia, in St.It.Annali, III, Dal primo Settecento all’Unità, 1973, pp. 985-1481; M. Verga, «Nous ne sommes pas l’Italie, grâce à Dieu». Note sull’idea di decadenza nel discorso nazionale italiano, «Storica», 15, 2009, 43/45, pp. 169-207.
49 L.A. Muratori, Annali d’Italia dal principio dell’era volgare sino all’anno 1749, XII, Milano 1749, p. 232.
50 Lettera del 3 agosto 1757 al marchese Domenico Caracciolo, residente a Torino, in B. Tanucci, Epistolario, V, 1757-1758, a cura di G. de Lucia, Roma 1985, pp. 210-211.
51 P. Hazard, La crise de la conscience européenne, Paris 1935 (trad. it. La crisi della coscienza europea, Torino 1946).
52 Benedetto XIV (Prospero Lambertini), Convegno Internazionale di studi storici, a cura di M. Cecchelli, 2 voll., Cento 1981-1983; M. Rosa, s.v. Benedetto XIV, papa, in Dizionario biografico degli Italiani, VII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1966, pp. 393-408.
53 F. De Giorgi, La parrucca dei preti. Limiti interiori all’esteriorità barocca e sacralità sacerdotale nell’«Ancien Régime», in Le carte e gli uomini. Storia della cultura e delle istituzioni (secoli XVIII-XX), Milano 2004, pp. 3-42.
54 E. Garms-Cornides, Storia, politica e apologia in Benedetto XIV. Alle radici della reazione cattolica, in Papes et papauté au XVIIIe siècle, VIe Colloque franco-italien, Société française d’étude du XVIII siècle (Chambéry 1995), éd par P. Koeppel, Paris 1999, pp. 145-161.
55 G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, V, Venezia 1840, pp. 21-49.
56 Si veda, per esempio, la già citata Elizabeth Garms-Cornides.
57 G. Miccoli, «Vescovo e re del suo popolo». La figura del prete curato tra modello tridentino e risposta controrivoluzionaria, in St.It.Annali, IX, cit., pp. 881-928, 892-893.