Le forme dello scambio e i sistemi premonetali e monetali
di Carmen Martinelli
Nel 1925 M. Mauss pubblicava l'Essai sur le don e, come già B. Malinowsky (The Argonauts of the Western Pacific, London 1922, trad. it. 1978), chiariva i meccanismi ed i mezzi dello scambio nelle società cosiddette "primitive ed arcaiche"; in contrasto con le conclusioni della teoria economica predominante, Mauss sottolineava l'inadeguatezza di formule ormai divenute canoniche, quali "economia naturale" e "baratto come forma primitiva di transazione". Lo scambio nelle società primitive ed arcaiche veniva individuato piuttosto in un "fatto sociale totale": un fenomeno unitario, a preminente valore sociale, che coinvolgeva insieme fattori economici e non economici (sociali, giuridici, ideologici, psicologici, ecc.). Solo quando l'economia cominciava ad incidere nei rapporti sociali il baratto mercanteggiato faceva la sua comparsa. Circa dieci anni dopo F. Simiand (1934) definiva la moneta come "realtà relativa", cioè comprensibile solo in relazione alla società e alle sue istituzioni. Individuando per l'antichità due "modi socioeconomici di transazione", la "reciprocità" e la "ridistribuzione", K. Polanyi (1980; 1983), evidenziava come solo i moderni scambi di mercato potessero essere considerati completamente indipendenti da qualsiasi altro aspetto della vita sociale. Polanyi inoltre trovava nelle società arcaiche la "moneta adatta ad uno scopo particolare": nella attuale economia di mercato la moneta assolve contemporaneamente alla funzione di misura del valore, mezzo di scambio, pagamento e tesaurizzazione; nei sistemi socioeconomici in uso nell'antichità, gli "oggetti fungibili utilizzati come moneta" potevano invece essere destinati anche ad una sola di queste funzioni. Dunque nelle forme arcaiche dello scambio l'azione economica non si presenta, come nello scambio di mercato, definita, autonoma e volta al semplice soddisfacimento di bisogni materiali, ma piuttosto appare incorporata all'interno di un "fenomeno sociale totale". Le transazioni si articolano sempre fra gruppi o rappresentanti di essi (ad es., i capi), in un sistema di doni e controdoni rigidamente governato, per mezzo di convenzioni sociali, dai tre imperativi di donare, accettare il dono, contraccambiare; l'atto del dono e l'essere in grado di contraccambiarlo accrescono il prestigio del donatore. Queste transazioni non coinvolgono solo merci o beni materiali ma anche matrimoni, riti, banchetti, giochi, prestazioni giuridiche e militari. In questo modo le cose seguono la stessa circolazione di persone e diritti. E come questo tipo di scambio non è solo un fatto economico ma anche e soprattutto sociale, così anche gli oggetti utilizzati per numerare e far circolare le ricchezze recano in sé qualità diverse (religiose, economiche, cerimoniali, ornamentali) e si presentano ancora intimamente legati alla vita delle società e delle persone a cui appartengono. La nozione di "valore" si presenta concreta e soggettiva: ogni oggetto ha valore in quanto collegato al prestigio della comunità e delle persone a cui appartiene e pertanto tale valore è suscettibile di variazioni con i passaggi e la durata della circolazione. Ancora del tutto estranea appare invece la nozione di "quantità misurata" e dunque la nozione di "equivalenza" deve essere intesa in puri termini qualitativi. Questo modello di organizzazione sociale dell'economia umana è stato definito "reciprocità" (Polanyi - Arensberg - Pearson 1978): prototipo di questa situazione sono le società a struttura di parentela, nelle quali cioè i rapporti fra gli individui che compongono il gruppo si fondano su rapporti di consanguineità. Con lo sfaldarsi delle forme di aggregazione basate sulla parentela, individui di rango occupano posizioni di vertice difficilmente raggiungibili dagli altri membri del gruppo. Comincia ad evidenziarsi allora una stratificazione della società secondo rapporti di produzione: il fattore economico comincia a determinare i rapporti sociali, anche se esso non è autonomo ma si presenta ancora sostanzialmente attraverso istanze di carattere politico, giuridico, religioso. In questa diversa forma di società anche gli oggetti impiegati per far circolare le ricchezze non si mostrano più legati al gruppo a cui appartengono, ma assumono una nozione del valore autonoma ed astratta, in sostanza, quantitativa. Lo scambio diventa in primo luogo scambio economico. Il passaggio da una nozione del valore concreta ad una astratta prende corpo ancora una volta al di fuori dello scambio puramente economico: in momenti sociali privilegiati (donazioni nuziali o votive, premiazioni di gare, divisioni del bottino, distribuzioni delle carni nei sacrifici) e in pratiche fondamentali di carattere amministrativo (imposte, determinazioni del censo). È importante notare come il processo non si è realizzato in maniera uniforme ovunque e nello stesso tempo: differenze si rilevano a seconda della forma sociale delle comunità e delle influenze di fattori esterni. Le due forme dello scambio non sempre si escludono a vicenda: sono descritti casi di coesistenza, magari attraverso una specializzazione che riduce al solo livello cerimoniale quella arcaica del dono. Un esempio noto in etnografia è lo scambio kula nelle Isole Trobriand (collane di conchiglie rosse che nell'arcipelago circolavano di isola in isola in senso orario e bracciali di madreperla che circolavano in senso opposto, con lo scopo di intrattenere relazioni sociali), che creava anche l'occasione per un vero e proprio scambio commerciale ( gimwali) basato sul baratto (Malinowsky 1978). Anche le società antiche offrono alcuni esempi: la coesistenza di uno scambio commerciale ed uno cerimoniale nel Vicino Oriente, o quella del commercio nobile e del baratto nell'antica Grecia. Considerati nell'ottica di uno scambio puramente economico gli scambi arcaici sembrano elementi "irrazionali" (cioè che non producono evidenti profitti, come avviene ad es. nello scambio di prodotti identici), ma anche la cosiddetta "razionalità economica" deve sempre essere intesa in relazione alla struttura della società in tutti i suoi aspetti (Godelier 1969).
Già a partire dalla metà del IV millennio a.C. sorgono in Mesopotamia le prime società fortemente gerarchizzate. Nella Bassa Mesopotamia fra il 3500 e il 3200 a.C. nasce la prima struttura organizzativa protostatale di Uruk; fra il 3200 e la fine del millennio il fenomeno si allarga nelle aree del medio Eufrate e dell'Alta Mesopotamia, sia grazie alla fondazione di avamposti commerciali o di vere e proprie colonie, sia per influenza del modello di Uruk sui centri indigeni. I rapporti sociali non appaiono più strutturati su base genealogica, ma cominciano ad evidenziarsi rapporti di produzione. Si è individuato un modello socioeconomico di "ridistribuzione" (Polanyi - Arensberg - Pearson 1978; Polanyi 1980): un'organizzazione centrale palatina o templare gestisce i traffici e lo sfruttamento del territorio e i beni prodotti da queste attività ritornano ad essa sotto forma di tasse, tributi, ecc. Il "capitale" che si accumula è ovviamente composto soprattutto da beni in natura, prevalentemente viveri. La struttura centrale provvede a gestire questo "capitale" mediante finanziamento di opere pubbliche, derrate ai lavoratori, finanziamento ai dipendenti non produttori, ecc., secondo la cosiddetta staple finance o "finanza fondata nell'ammasso di derrate" (Polanyi - Arensberg - Pearson 1978; Polanyi 1980). Alla base dell'economia ridistributiva della Bassa Mesopotamia sta l'orzo, la cui coltura era ideale per il tipo di ambiente e presentava caratteristiche (facilità di immagazzinamento e media deperibilità) tali da stimolare sia il processo di accumulazione che quello di un reimpiego a medio termine (Liverani 1998). Nel Vicino Oriente preclassico è possibile distinguere due tipi di scambio che coesistono nelle stesse epoche e negli stessi luoghi: uno scambio a livello "alto", cerimoniale, e uno non cerimoniale o "commerciale". Quando si effettuavano scambi non cerimoniali era consuetudine valutare i beni secondo precise equivalenze quantitative. Normalmente, e per più di due millenni, la misura del valore usata per effettuare queste equivalenze fra più beni era il metallo, soprattutto l'argento. I mezzi di pagamento erano invece più vari e legati al commercio "esterno" al palazzo o al tempio. Nella prima metà del II millennio a.C. in genere i pagamenti si effettuavano in quantità misurate di orzo nella Babilonia; in Siria invece si preferiva utilizzare l'argento pesato, poi il rame e infine argento e stagno. Successivamente, gli Assiri scambiarono stagno e stoffe contro l'oro e l'argento proveniente dall'Anatolia. I metalli pesati assolvevano dunque, anche separatamente, alle diverse funzioni della moneta: misura del valore, mezzo di scambio, di pagamento, di tesaurizzazione (Zaccagnini 1973). La predominanza dell'argento pesato negli scambi e nella misura del valore diede luogo all'uso di pesi di valore e forma standardizzati, talvolta arricchiti anche da segni che indicavano il valore o iscrizioni che indicavano l'appartenenza o la qualità del metallo. Ma questa standardizzazione di dimensioni e valore ponderale non diede origine, nel Vicino Oriente, a forme di garanzia che rendessero questi lingotti accettabili nelle transazioni senza ricorrere all'operazione della pesatura: solo questo atto poteva garantire e suggellare una transazione che fosse "equa" per entrambe le parti (Parise 1973). Nello scambio cerimoniale (scambio di doni fra sovrani, doti di fanciulle di rango, ecc.) invece prevaleva l'ideologia del dono: le testimonianze mostrano uno scambio a preminente valenza sociale, che prevedeva un contraccambio qualitativamente equivalente. In genere nelle "lettere di accompagnamento" a questi doni il valore quantitativo non veniva indicato, neanche quando si trattava di oggetti in metallo prezioso. Anche per gli oggetti che circolavano a livello "alto" esistevano standardizzazioni delle forme: le coppe e più raramente gli anelli per oro e argento, i calderoni per rame e bronzo. Le coppe d'oro e d'argento registrate negli archivi dei palazzi venivano sempre contate e talvolta pesate: anche il loro peso si mostra standardizzato. Nonostante questa "spiccata identità tipologica" la coppa, nel Vicino Oriente, come peraltro in Grecia, non sarebbe mai diventata unità di misura e mezzo di scambio, ma sarebbe sempre rimasta ancorata al suo livello cerimoniale di circolazione (Zaccagnini 1979; 1991). Anche in Egitto, nella seconda metà del II millennio a.C., si individua un'economia di tipo ridistributivo. Normalmente venivano utilizzati come mezzo di pagamento soprattutto derrate e argento, mentre il valore si misurava in argento oppure in rame. In genere i lingotti metallici avevano la forma di anelli o di pani. In età ramesside in Egitto era di uso corrente un'unità ponderale che ha particolarmente attirato l'interesse degli studiosi: lo š'ty, 1/12 del deben. Il termine sembra indicare non solo un peso ma anche una determinata quantità di metallo. Il nome di š'ty "sigillo" misura del valore ha evocato ad alcuni studiosi (Zaccagnini 1973; Balmuth 1980) un "meccanismo assai vicino ad una circolazione monetaria in senso stretto".
Anche nella cultura che si andava sviluppando in Grecia e a Creta dalla fine del XV sec. a.C. l'economia palaziale era predominante. Gli scavi dei principali palazzi micenei hanno restituito tavolette di argilla con registrazioni di carattere amministrativo da cui emerge un tipo di società e di organizzazione economica a prima vista non dissimili da quelle vicino-orientali della stessa epoca: società fortemente stratificata, gestione di beni e prodotti del territorio da parte del "palazzo", staple finance. Ma la ragioneria palatina micenea mostra un'importante peculiarità che la distingue dalle coeve registrazioni orientali: una totale assenza di metallo pesato utilizzato come misura del valore (Ventris - Chadwick 1973). Non potendo effettuare equivalenze, le varie operazioni (bilanci, saldi, controlli, verifiche) necessarie per la gestione di una staple finance dovevano essere compiute utilizzando metodi "sottomonetari", cioè metodi che permettevano di ottenere risultati aritmetici senza impiegare calcoli o misure del valore. Nei testi amministrativi micenei esiste traccia di "unità fiscali composite", che contenevano proporzioni fisiche fisse fra più beni; in questo modo si potevano adattare le tasse secondo le variazioni di popolazione (Polanyi 1980). Nei rapporti con agenzie esterne al palazzo ci sono indizi di pagamenti in grano e bronzo, in modo non dissimile da quanto accadeva nei palazzi del Vicino Oriente (Killen 1988; Sacconi 1995). Non si può invece parlare di "economia composita dove coesiste economia monetaria ed economia naturale" per la civiltà micenea, cosa che è stata fatta cadendo ancora nell'equivoco di applicare formule dell'economia di mercato a società che avevano un diverso tipo di organizzazione (Sacconi 1995). Nella seconda metà del II millennio nel Mediterraneo, da Creta e Cipro verso Oriente (Panfilia; Egitto) e Occidente (Mar Nero, Eubea, Sicilia, Sardegna e Ungheria, forse attraverso una via adriatica) si diffuse l'uso di pani di rame di forma grosso modo quadrangolare con i lati corti concavi, cosiddetti "in forma di pelle di bue". Ritenuti correntemente per la loro forma strumento dello scambio, questi lingotti sono ora più convincentemente considerati semplici manufatti da porre in stretto rapporto con la produzione e la distribuzione del rame nel Mediterraneo. Centri di distribuzione di questi lingotti sono stati individuati a Creta e poi a Cipro (Knapp 1986). La Sardegna si inserisce nel circuito commerciale cipriota solo in una fase avanzata del Tardo Bronzo, quando l'interazione fra l'Egeo e il Mediterraneo occidentale si fa più importante (Wheleer - Muhly - Maddin 1979). In particolare la produzione e la distribuzione del rame a Cipro sono state messe in relazione con lo sviluppo della stratificazione sociale attestata all'inizio del II millennio. Questi cambiamenti non devono essere stati senza conseguenze: nello stesso periodo si hanno la costruzione di fortificazioni e un uso di armi e sepolture di massa. Il fiorire dell'industria del rame deve aver favorito l'ascesa di nuove élites che giustificavano il proprio status grazie alla religione: edifici di culto vennero costruiti nelle aree industriali, cominciarono a comparire statuine di divinità sui lingotti tipo "pani di rame", raffigurazioni di portatori di lingotti su supporti metallici, ecc. Nel momento della massima fioritura del commercio di rame cipriota sorge una struttura di santuario che gestisce l'industria dei metalli (Knapp 1986). Sempre in ambito egeo e siro-palestinese, per la tarda età del Bronzo e l'inizio dell'età del Ferro, è attestata la presenza di lingottini di metallo prezioso fuso: le cosiddette "gocce" d'oro o d'argento. A più riprese e da più studiosi (Breglia 1961; Lipińsky 1979; Balmuth 1980) questi piccoli lingotti sono stati indicati come il precedente più immediato della moneta coniata, cercando di mettere in evidenza anche una connessione fra le tecniche dell'oreficeria e quella della coniazione. Da un punto di vista tecnico a questi globetti manca solo la garanzia del peso e del fino da parte dell'autorità emittente per essere una moneta coniata. Ma è stato sottolineato (Lombardo 1979; Parise 1987; Zaccagnini 1991) come la moneta coniata non possa essere considerata solo il frutto di perfezionamento delle tecniche di lavorazione dei metalli.
Alla fine del XII sec. a.C. tutto il Mediterraneo orientale è interessato da una serie di eventi che sconvolgono il generale assetto sociopolitico dell'area. Un mutamento importante si ravvisa nell'uso dei metalli: il passaggio dall'età del Bronzo a quella del Ferro è anch'esso un significativo cambiamento di ordine politico, economico e sociale. I regni micenei sono coinvolti in questa fase di generale declino: i palazzi alla fine del Miceneo III B subiscono distruzioni gravissime e la breve fase successiva del Miceneo III C presenta forti segni di decadenza; con la fine della necessità di registrazioni amministrative si perde anche l'uso della scrittura. La tradizione antica ha messo in relazione la distruzione dei palazzi micenei con l'arrivo dei Dori nel Peloponneso. La attuale ricerca storica (Musti 1985) tende però ad attenuare il ruolo dei Dori: infatti la fine del periodo palaziale si rileva anche in aree successivamente non dorizzate (ad es., l'Attica). L'indebolimento della potenza micenea, dovuto a cause diverse, deve avere permesso a genti straniere, forse già presenti nelle zone periferiche della Grecia, di penetrare fino alla Tessaglia e al Peloponneso. Si interrompono i traffici con l'Oriente, attestati archeologicamente per tutto il XIII sec. a.C., mentre si intrecciano più stretti legami con l'area microasiatica, dove si estrae o si importa il ferro. In Grecia inizia l'alto arcaismo. L'economia gestita e controllata dai palazzi è scomparsa: le prime importanti testimonianze letterarie greche (Omero, in qualche maniera, ed Esiodo, VIII-VII sec. a.C.) testimoniano il risultato finale di questo cambiamento. Il potere appare dislocato a scala locale e il modello ridistributivo sopravvive solamente su scala ridotta nell'oikos, l'azienda agricola autosufficiente a gestione familiare, semplificata nell'Iliade (XIV, 121-25): una casa (quella di Tideo) "ricca di provviste" con "campi fertili di messi", "molti filari di alberi" e "molte greggi". La produzione è dunque sostanzialmente agricola, affiancata dall'allevamento. Esiodo descrive gli oikoi più ricchi, che sfruttano vaste aree e utilizzano manodopera schiavile. I proprietari di oikoi più piccoli, sono schiacciati dai grandi possidenti e costretti ad emigrare. Mentre nei poemi omerici il commercio è appannaggio di popoli stranieri e il mondo aristocratico sembra rifiutarlo sdegnosamente, in Esiodo (VII sec. a.C.?) compaiono anche embrionali modelli di commercio, uno connotato positivamente (i "viaggi per mare") e uno negativamente (l'emporìa, cioè il commercio professionale). I "viaggi per mare" prevedono il baratto delle eccedenze compiuto dall'agricoltore con piccoli spostamenti nella stagione estiva, mentre l'emporìa è l'attività dell'uomo disperato che è costretto ad affrontare i pericoli del mare anche nelle stagioni meno propizie per sfuggire alla miseria (Polanyi 1983). Si configura un quadro dove gli aristocratici fruiscono del commercio e forse lo praticano attraverso intermediari che sono nascente espressione di una nuova classe sociale che tende a staccarsi dall'aristocrazia e dai possedimenti terrieri (Musti 1981). Anche in Grecia, come per il Vicino Oriente, è possibile individuare uno scambio economico e un "commercio nobile" dove sembra sopravvivere l'ideologia del dono; ma talvolta questa ideologia appare fraintesa e impregnata già di una mentalità dove è attiva la nozione di equivalenza, come ad esempio nell'episodio dello scambio delle armi fra Glauco e Diomede nell'Iliade (VI, 230-36) o in Esiodo (Op., 353-55). Lo scambio ha luogo fra oggetti e merci. Il bue compare in vari punti dell'Iliade e dell'Odissea come la misura del valore. Talora nello scambio intervengono anche i metalli preziosi, come il talento d'oro: sono ancora metalli misurati a peso, la moneta coniata non ha ancora fatto la sua comparsa. Ma è nell'ambito della trasformazione socioeconomica e politica che si viene avviando in Grecia, probabile apporto della cultura dorica (Musti 1992) e che porterà alla nascita della polis classica, e "nella tensione fra città greche e regno di Lidia", che va individuato il terreno dove prenderà forma finalmente, verso la fine del VII sec. a.C., la moneta coniata (Mazzarino 1989). È stato L. Gernet (1983) a studiare compiutamente le sopravvivenze del sistema del dono e il passaggio da una nozione preferenziale del valore ad una quantitativa e astratta nella società greca antica. Oggetti di lusso, impiegati in un "commercio nobile" (doni nuziali, ospitali o votivi, pegno per riscatto, premi di gara, ecc.) compaiono più volte nell'Iliade e nell'Odissea come "valori circolanti", in contrasto con il bue che viene utilizzato come misura del valore. Fra questi agalmata (o più precisamente fra i keimelia, cioè le cose preziose custodite nella stanza del tesoro dell'oikos) il cui valore è ancora concreto, si distinguono alcuni oggetti (tripodi, bipenni, lebeti) che passano ad essere considerati misura del valore astratta: "segni premonetari" da mettere direttamente in relazione con l'inizio della monetazione (Gernet 1983). I "valori circolanti" avevano una circolazione ampia, quelli che diventano "segni premonetari" vedono restringersi invece gli ambiti della circolazione; il fenomeno è ben attestato per il pelekys (ascia bipenne), che è "valore circolante" in tutto l'Egeo ma come "segno premonetario" è limitato all'ambito cretese-cipriota (Parise 1984b). L'individuazione dell'ambito in cui è avvenuto il passaggio da una nozione concreta ad una astratta del valore non ci permette comunque di descrivere secondo quali meccanismi alcuni speciali "valori circolanti" siano potuti diventare "segni premonetari". Il passaggio può essere invece più precisamente seguito per lo spiedo (obelòs) e il fascio di spiedi (drachmè) che passano in epoca successiva ad indicare unità di misura (obolòs e drachmè). Lo spiedo non è propriamente un agalma o un keimelion, ma è uno strumento del sacrificio, precisamente l'oggetto nel quale veniva infilata la carne da cuocere dell'animale sacrificato. Obelòs può anche indicare le porzioni di carne infilate in uno spiedo (Laum 1924), porzioni che erano distribuite a tutti i cittadini. Il passaggio da una distribuzione qualitativa della carne, tipica della società aristocratica dell'età arcaica, ad una distribuzione quantitativa tipica invece della polis classica democratica, deve aver segnato anche il passaggio da una nozione concreta ad una nozione astratta del valore (Parise 1988).
Anche per la storia di Roma arcaica si è parlato e si parla tuttora di una primitiva fase di "economia naturale" dove le cose venivano semplicemente barattate fra di loro; l'economia monetaria sarebbe nata grazie all'adozione di un intermediario intervenuto in progresso di tempo per semplificare le transazioni. Questo intermediario sarebbe stato all'inizio più rozzo e in armonia con l'economia di Roma arcaica (capi di bestiame) poi via via sempre più raffinato (metallo pesato e quindi moneta). Ma attraverso l'analisi di istituti giuridici e pratiche sociali si può cogliere anche per Roma la sopravvivenza di fasi arcaiche dello scambio in cui la circolazione era un "fatto sociale totale" che si articolava secondo il sistema del dono individuato da Mauss, in cui buoi, pecore e bronzo assolvevano ad un ruolo privilegiato di beni di prestigio. Come in Grecia allora forse anche a Roma da una particolare categoria di beni che assolvevano alla funzione di segno esteriore della ricchezza è probabile che emergessero bestiame e bronzo come misura del valore prima qualitativa e, in seguito, quantitativa. Le prime attestazioni di determinazioni di censo, indennizzi o multe in buoi, pecore o metallo pesato indicano che essi funzionavano già come misura astratta del valore. Questo significa che la società doveva essersi da tempo strutturata in base a rapporti di produzione e non più in base a rapporti di parentela; lo scambio doveva essere diventato in primo luogo scambio economico (Parise 1989). La lex Aternia Tarpeia del 454 a.C. (Gell., XI, 1, 2) e la lex Menenia Sestia del 452 a.C. (Fest., p. 268, 33-270, 5 Lindsay) presentavano multe fissate in pecore e buoi in concorrenza con la valutazione in libbre di bronzo, ma già secondo precisi rapporti quantitativi: una libbra di bronzo equivaleva a 10 buoi o 100 pecore (dunque 1 bue aveva lo stesso valore di 10 pecore). In epoca immediatamente successiva però, e sicuramente già dal 451 a.C., nella legge delle XII Tavole (in Gaius, Inst., I, 122) il bronzo pesato si attestava come unico equivalente e strumento dello scambio.
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Per l'economia antica più in generale:
M. Weber, Economia e società, Milano 1968; K. Polanyi, La grande trasformazione, Torino 1974; M. Weber, Storia economica e sociale dell'antichità. I rapporti agrari, Roma 1981; L. Capogrossi, Economie antiche e capitalismo moderno. La sfida di Max Weber, Roma - Bari 1990.
Sul baratto come forma primitiva di scambio e la teoria del "perfezionamento" della moneta, per tutti: E.
Babelon, Le origini della moneta considerate dal punto di vista economico e storico, in V. Pareto (ed.), Biblioteca di storia economica, III, Milano 1915, pp. 139-349.
di Renata Cantilena
Nel valutare l'incidenza della moneta nei sistemi di scambio vanno tenute presenti le funzioni ad essa attribuite alle origini e le determinazioni assunte, in progresso di tempo, in relazione al sistema economico e sociale di cui è espressione. Dal dibattito sul ruolo della moneta nelle società antiche, particolarmente vivace negli ultimi decenni, è emersa la consapevolezza che in una comunità arcaica produrre moneta risponde, in definitiva, all'esigenza di poter disporre di un metro ufficiale del valore e di un mezzo universale di acquisto e di pagamento di beni o di servizi (Parise 1996). Queste sono, in sintesi, le valenze attribuite in origine ad un dischetto di metallo prezioso (elettro in ambito microasiatico, argento in Grecia), il quale assume la sostanza di "moneta" in virtù del peso prestabilito e della garanzia assicurata dall'autorità politica attraverso la stampigliatura dell'immagine rappresentativa della stessa comunità emittente. Presupposto ineludibile per la coniazione di moneta è, dunque, l'esistenza di un'organizzazione sociale ed economica politicamente strutturata, tale da assumere il ruolo di garante di un valore riconosciuto e accettato. Di fatto, le prime esperienze monetali hanno origine nel contesto politico e ideologico della polis greca e più precisamente delle poleis greche di Asia Minore, che, influenzate dai modi di scambio dell'Oriente, erano avvezze ad una circolazione del metallo impiegato sotto forma di "gocce" di peso già definito. Gli importanti ritrovamenti dalle fondazioni dell'Artemision di Efeso (93 esemplari di elettro e 7 di argento, tra "gocce" tagliate su un peso definito, globetti striati e punzonati e pezzi contrassegnati da un'impronta o già con iscrizione) documentano che il passaggio dal metallo pesato alla moneta si è compiuto in poco tempo, nell'arco dell'ultimo quarto del VII sec. a.C. Dall'Asia Minore, con uno sviluppo non lineare ma dalle tappe alterne, con momenti di accelerazione e casi di ritardi collegati alle differenti situazioni sociali ed economiche, la pratica di coniare moneta si estese nei decenni successivi, attraverso le isole egee, nelle principali città della Grecia. In tutto il mondo greco, nelle fasi iniziali della produzione, le monete valevano quanto pesavano: vale a dire che il loro valore era reale e pressoché corrispondente a quello del metallo di cui erano composte. Le valute venivano tagliate secondo il sistema dei pesi localmente in uso quando lo scambio era realizzato attraverso la circolazione metallica, prima dell'introduzione della moneta e della definitiva affermazione della circolazione monetaria. Grande rilievo assunsero in ambito greco le monete di Egina (tagliate sull'unità ponderale locale di 6,22 g), di Corinto e di Atene (tagliate entrambe secondo il piede euboico-attico di 8,72 g, ma suddiviso per 3 a Corinto e per 2 ad Atene); ad esse si affiancarono le serie di Calcide e di Eretria in Eubea, di Tebe in Beozia e le emissioni cicladiche di più o meno certa attribuzione. Tra la fine del VI e l'inizio del V secolo diventarono numerosi in tutto il Mediterraneo i centri greci che coniavano moneta; in quest'epoca, infatti, risultano già attive oltre un centinaio di zecche, sebbene la maggior parte di esse non producesse moneta in quantità consistente e in maniera continua. Nella seconda metà del VI secolo (dal 540-530 ca.) progressivamente anche nelle colonie di Magna Grecia e di Sicilia si diffuse la pratica di emettere moneta. Nelle colonie poste sul versante ionico fu prevalente la coniazione di uno statere d'argento di 8 g circa, suddiviso per 3; in Sicilia meridionale era predominante invece il piede euboico-attico. Diversa la situazione sul versante tirrenico, dove, oltre al sistema di pesi fenicio attestato a Posidonia e Velia che utilizzarono il valore di 7,76 g suddiviso per metà, risulta diffuso quello delle colonie calcidesi della Sicilia le quali ‒ come Cuma in Opicia che tuttavia solo in seguito iniziò le sue emissioni monetarie ‒ usarono un piede di 5,82 g. Questi valori (che sono tra loro in rapporto di 3 : 4 e appaiono documentati, peraltro, in epoca successiva anche in Etruria) sono stati importati dall'Oriente prima della colonizzazione greca per il tramite cipriota e poi fenicio e restano quale traccia incisiva dei traffici e degli scambi che si svolgevano in epoca precoloniale e premonetale lungo il Tirreno (Parise 1981). Nelle aree di contatto tra i diversi ambiti che si servivano di differenti sistemi ponderali, il tipo di frazionamento utilizzato rispondeva all'esigenza di rapportare tra di loro, in maniera semplice, i diversi valori circolanti per favorirne la conversione. In epoca arcaica la moneta, in qualità di misura oggettiva del valore e unità di conto, serviva alla comunità politica per regolare i rapporti sociali al suo interno, era il mezzo più idoneo per riscuotere tributi e lo strumento in grado di assicurare ogni forma di acquisizione di beni o di servizi e di prestazioni, ma nello stesso tempo consentiva di accumulare la ricchezza, tesaurizzando l'eccedenza sotto forma di depositi. In altri termini, l'avvio della monetazione va considerato un provvedimento di carattere economico, dalla forte valenza politica, teso a facilitare operazioni gestite dallo stato di accumulo e di scambio. Da ciò ne consegue che la polis greca, in sostanza, coniava moneta in rapporto ai propri bisogni e non in funzione al volume degli scambi, come pure si è voluto intendere in una prospettiva modernistica che attribuiva alla moneta e al commercio le connotazioni da essi assunte soltanto in età moderna. L'economia monetaria privata non fu dunque il presupposto dello sviluppo dell'economia dello scambio, quanto piuttosto "una conseguenza e un aspetto" (Musti 1981). La moneta infatti ‒ proprio per il suo carico di valore normato ‒ una volta immessa in circolazione e accettata dai privati finì a sua volta con il determinare attivazioni economiche di varia natura, non escluse quelle di mercato (sempre tenuto conto della specificità della forma del commercio che nelle città greche arcaiche e classiche è ben altra cosa di quello di età moderna), e a divenire lo strumento di ogni tipo di transazione. Il dibattito è tuttora assai vivo sull'epoca e sui contesti nei quali è ragionevole coniugare la produzione di moneta alla sfera delle attività commerciali (Lombardo 1997). Naturalmente è fuori luogo ogni tipo di generalizzazione: ancora a lungo dopo l'introduzione della moneta, e fino ad epoca ellenistica, sono infatti coesistite nel mondo greco città in cui l'uso della moneta era familiare e diffuso tra gli abitanti per attività economiche di vario genere, anche di mercato cittadino (come ad Atene, dove è ben documentato da numerose testimonianze letterarie a partire dall'età di Pericle) e situazioni in cui non è attestata in alcun modo un'economia monetaria (i casi estremi più noti sono quelli di Sparta e di Locri). Con lo sviluppo delle funzioni del mezzo monetario ebbero origine nel mondo greco le operazioni di cambio (significativa la documentazione della "stele del porto" di Taso dove si fa menzione di un arguramoibeion situato nell'area degli edifici pubblici) e le prime forme di contratti di prestito o di deposito che sfociarono allo scorcio del V e soprattutto nel IV sec. a.C. nell'istituzione di banche private e nell'uso di lettere di credito che permettevano pagamenti in regioni lontane (vari esempi nelle orazioni attiche di IV sec. a.C., specie in Demostene). Elementi indicativi delle attività economiche cui la moneta è funzionale in uno Stato greco di età arcaica e classica ‒ nella quasi totale assenza a tale proposito, fino al IV secolo, di fonti letterarie o documentarie dirette ‒ sono da una parte il peso e il tipo di nominale adottati per le emissioni monetali, insieme con il ritmo e la durata delle emissioni, dall'altra la definizione dei modi e delle forme di mobilità delle monete desumibili attraverso lo studio della composizione e della distribuzione dei ripostigli monetali, nonché dall'attestazione di riconiazioni su monete estere, utilizzate a corso legale dopo l'apposizione del tipo accreditato nell'area in cui venivano immesse in circolazione. Per quanto riguarda l'aspetto ponderale, va ricordato che la coniazione di pezzi di grosso taglio presuppone in genere pagamenti di vario tipo ed esazioni di notevole entità o forme di accumulo, mentre un'abbondante produzione di frazioni denota situazioni di circolazione e di scambi più estesi e differenziati, tipiche di società articolate in diversi livelli economici e sociali. In taluni ambienti ‒ come lungo tutto il Tirreno, dallo Stretto di Sicilia a Massalia ed Emporion ‒ l'uso diffuso di moneta spicciola è ben documentato e predominante fin dall'inizio della pratica monetaria, tra la fine del VI e i primi decenni del V sec. a.C.; anche ad Egina, assai attiva nei traffici sul mare come le colonie focee e calcidesi in Occidente, vennero emesse abbondanti serie frazionarie idonee a intermediazioni al dettaglio. Atene, poi, disponeva accanto ai grossi nominali (i tetradrammi) di un rilevante numero di frazioni in argento. Nelle città "emporiche", dove avvenivano scambi e affluivano merci, un cospicuo reddito derivava dai prelievi fiscali attraverso tasse portuali ed esazioni di pedaggio, secondo consuetudini fiscali ampiamente attestate in età classica, ma documentate in ambiente greco-orientale fin dal VI sec. a.C. (Ampolo 1994). I pagamenti prima dell'introduzione della moneta avvenivano in metallo non coniato scambiato a peso, o con una percentuale di beni trasportati, ma laddove le condizioni politiche avevano determinato l'uso dello strumento monetario, fu questo il mezzo adoperato per le esazioni fiscali. Non va sottovalutato, inoltre, che un'economia basata sullo sfruttamento delle attività portuali è strettamente connessa ad una spiccata articolazione in diversi livelli sociali e categorie lavorative; vale a dire la tipica condizione in cui vige un sistema di rapporti sociali caratterizzati dallo scambio di servizi di differenti valori, che richiede uno strumento intermediario ad essi proporzionale, come era d'altronde già chiaro ad Aristotele (Eth. Nicom., V, 5, 1133 a-b). Dalla seconda metà del V sec. a.C., dapprima in Sicilia e in Magna Grecia poi in rapida progressione in tutto il mondo greco, si diffuse la monetazione divisionaria in bronzo. Per la natura del metallo utilizzato, la moneta di bronzo fu adatta a esprimere valori ridotti, ampliando in tal modo le funzioni in precedenza rivestite dai nominali frazionari minori in argento; ma il salto qualitativo rappresentato dall'introduzione della moneta enea è ancora più significativo in quanto essa ‒ circolando a corso legale, secondo una stima nominale più elevata di quella intrinseca ‒ appare direttamente correlata ad una concezione del valore convenzionale, quale primo sintomo del concetto di valuta fiduciaria che giungerà a maturazione soltanto in seguito, in epoca imperiale romana. La moneta in bronzo, dunque, priva di valore reale è per eccellenza la "moneta locale", l'espressione più compiuta dell'estensione della funzione della moneta quale strumento astratto di ogni forma dello scambio, anche ai livelli più bassi, tra le varie categorie dei cittadini. Non a caso risalgono al IV secolo avanzato le prime testimonianze letterarie dalle quali si ricavano riflessioni e speculazioni sulla funzione della moneta quale strumento adatto a rendere più facili gli scambi (Xen., Vect., III, 2, e Arist., Pol., I, 9, 1257 a-b) e soprattutto sulla necessità di utilizzare moneta di buona qualità nelle relazioni con l'estero, riservando l'uso della moneta in bronzo per i bisogni interni delle comunità (Plat., Leg., 742). Il collegamento tra moneta e scambio commerciale finì col diventare così tanto pregnante da far riportare la sua stessa "invenzione" all'incremento di attività commerciali (Ephor., FGrHist, 70, 176; Hdt., I, 94). Per quanto riguarda il ruolo che la moneta assunse nella sfera dei traffici commerciali "internazionali", resta una fonte documentaria di primo piano lo studio della circolazione monetaria, nonostante i forti dubbi e le riserve espresse di recente da più studiosi sui limiti di un'analisi fondata soltanto sull'evidenza dei ripostigli monetali (Lombardo 1979; Howgego 1990). Da esso si evince la generale tendenza per le città greche, in età arcaica e classica, a non esportare moneta e a determinare aree di circolazione regionale chiusa (Kraay 1964). Significativa in proposito è la pratica dell'istituzione di un monopolio monetario all'interno della polis (o concordato tra più poleis), nota da documenti epigrafici databili tra V e IV sec. a.C. (decreto ateniese di Callia, trattato tra Focea e Mitilene, legge monetaria di Olbia). Il monopolio della coniazione che una polis aveva all'interno della propria chora, pur facilitando forme di controllo politico ed economico dello Stato in materia monetaria (consentendo, ad es., contingenti manovre finanziarie) di fatto escludeva la possibilità ai detentori di moneta straniera di utilizzarla come oggetto di scambio. Ad eccezione di situazioni particolari come quelle di Atene, di Egina, di Corinto, di Cizico, le cui monetazioni ben conosciute e apprezzate venivano normalmente accettate per il cambio, nel resto dei casi, se si intendeva utilizzare la moneta come merce di scambio in commerci interstatali, poiché essa non aveva valore legale al di fuori dell'area di emissione, era necessario ricorrere ai cambiavalute (i trapezites ben noti dai testi), i quali apponevano tassi di cambio che rendevano in genere poco conveniente l'uso del mezzo monetario. Ma il rapido evolversi delle funzionalità della moneta quale strumento dello scambio fu l'elemento motore di una progressiva semplificazione dei sistemi monetari, che troverà terreno fertile con l'affermarsi, dall'età ellenistica, degli Stati "imperialisti".
C.M. Kraay, Hoards, Small Change and the Origin of Coins, in JHS, 84 (1964), pp. 76-91; L. Breglia, La circolazione monetaria greca nel suo duplice aspetto statico e dinamico: fonti e metodologia, in Numismatica antica. Storia e metodologia, Milano 1967, pp. 185-220; M. Lombardo, Elementi per una discussione sulle origini e funzioni della moneta coniata, in AnnIstItNum, 27 (1979), pp. 75-121; D. Musti, L'economia in Grecia, Roma - Bari 1981, pp. 95-123; N.F. Parise, Unità ponderali orientali in Occidente. Osservazioni e postille intorno alle "Antiche rotte del Mediterraneo", in Il commercio greco nel Tirreno in età arcaica. Atti del Seminario in memoria di Mario Napoli, Salerno 1981, pp. 97-110; Id., Valuta "calcidese" e valuta "fenicia". Un rapporto di cambio dimenticato, in RItNum, 90 (1988), pp. 15-18; C.J. Howgego, Why Did Ancient States Strike Coins?, in NumChron, 150 (1990), pp. 1-25; C. Ampolo, Tra empòria ed emporìa: note sul commercio greco in età arcaica e classica, in B. d'Agostino - D. Ridgway (edd.), Apoikia. Scritti in onore di Giorgio Buchner, Napoli 1994, pp. 29-36; N.F. Parise, Le prime monete. Significato e funzione, in S. Settis (ed.), I Greci. Storia Cultura Arte Società, II, 1, Torino 1996, pp. 715-34 (con bibl. prec.); Id., Metrologia numismatica massaliota, in L. Breglia Pulci Doria (ed.), L'incidenza dell'antico. Studi in memoria di Ettore Lepore, 2, Napoli 1996, pp. 313-18; M. Lombardo, Circolazione monetaria e attività commerciali tra VI e IV secolo, in S. Settis (ed.), I Greci. Storia Cultura Arte Società, II, 2, Torino 1997, pp. 681-706.
di Lorenza-Ilia Manfredi
Le monete delle città della Fenicia compaiono nei ripostigli vicino-orientali a partire dalla metà del V sec. a.C., ma ancora nel IV sec. a.C. sono tesaurizzate come massa metallica all'interno di un sistema di scambio basato prevalentemente sul metallo a peso. Il dato sottolinea la particolare natura dell'economia della regione, ove, accanto ad un sistema monetario compiuto, frazionario e con nominali in bronzo, proiettato verso un commercio internazionale e statale, si mantengono, probabilmente per uso interno, antichi sistemi di scambio in cui la moneta è una merce. Biblo è la prima città fenicia a coniare moneta nel 460 a.C. circa e l'unica ad avere una produzione monetale esclusivamente in argento. Dominante nella monetazione di Biblo, così come in quella di Tiro, è l'ispirazione egiziana. Tuttavia, i temi della sfinge egiziana, del grifone e, in particolare, del fiore di loto, sono rielaborati secondo schemi locali di tradizione siriana. Il periodo di prosperità che la città vive durante la seconda metà del V sec. a.C., quando riesce ad armare una propria flotta da guerra, determina il distacco dalla tradizione egittizzante. La nuova situazione si traduce nell'introduzione nelle emissioni cittadine di temi legati alla potenza militare navale e di ispirazione vicino-orientale, tra cui in particolare, il leone e la scena di lotta tra leone e toro, che trova riscontro nelle coeve serie fenicio-cipriote di Kition. La prima serie gublita con leggenda risale al 440 a.C., ma l'uso diventa sistematico con la fine del V sec. a.C. quando compare la notazione del nome e del titolo del re e, soltanto nel IV sec. a.C., è introdotto il sistema delle abbreviazioni, presenti quasi sempre al dritto e associate con la leggenda compiuta al rovescio. Tiro inizia a battere moneta verso la metà del V sec. a.C. e produce, a partire dall'inizio del IV sec. a.C., anche serie in bronzo. Le monete della città, insieme a quelle di Sidone, sono quelle maggiormente rappresentate nei ripostigli del Vicino e Medio Oriente. La tipologia principale delle emissioni di Tiro è il gufo con flagello e scettro di ispirazione egiziana, ma che nella resa si avvicina al modello ateniese. Assente la tipologia della nave da guerra: il dato contrasta con quelli storici che sottolineano il possesso, in epoca persiana, da parte della città della più potente flotta fenicia. Tuttavia, allusivi al mondo marino sono i tipi del delfino, del murex e della divinità marina, che caratterizzano le diverse fasi della monetazione di Tiro. Sono state infatti definite "del delfino" la prima fase della coniazione della città e "della divinità marina" quella di transizione che, con un progressivo abbassamento ponderale, porta nel secondo quarto del IV sec. a.C. all'adeguamento con il piede attico di 4,36 g. Le monete di Tiro presentano leggende complesse e variegate fin dalla prima coniazione del 450 a.C. All'inizio del IV sec. a.C. diventano anepigrafi, fino al secondo quarto del IV sec. a.C., quando ricompaiono le abbreviazioni intese come formule di datazione dei regni. L'assenza di monete di Sidone nei ripostigli più antichi con esemplari di Biblo e di Tiro ha fatto fissare l'inizio della produzione monetale della città intorno al 435 a.C.: a quest'epoca risale la serie nave da guerra con vela serrata triangolare/arciere in area incusa. Le serie sidonie, ponderalmente molto pesanti, sono le più forti nel mercato vicino-orientale e per questo caratterizzate dall'assenza di contromarche di controllo, ben attestate sulle emissioni di Tiro e Arado. L'iconografia del dritto delle serie cittadine presenta costantemente la nave da guerra, ad eccezione della serie del 362/1 a.C. in cui compare la testa barbata con tiara, ma che porta il tema navale al rovescio. Di particolare interesse la serie che presenta al dritto sullo sfondo della nave da guerra le fortificazioni della città. Le iconografie dell'arciere inginocchiato e del personaggio barbato, presenti sul rovescio delle serie e interpretate correntemente come dovute all'influsso culturale persiano, trovano in realtà riscontro in schemi iconografici assiri rielaborati dalla tradizione fenicia. Le leggende compaiono soltanto con la fine del V sec. a.C. e si presentano sotto forma di abbreviazioni e numeri che si riferiscono al re e all'anno di regno. Con il 375 a.C. inizia la produzione di bronzi a Sidone, contemporaneamente ad Arado, dovuta probabilmente alle difficoltà finanziarie imputabili agli impegni bellici e alle sconfitte subite, con le inevitabili ripercussioni sull'economia delle città e il conseguente crescente malcontento contro il dominio persiano. L'introduzione del bronzo, infatti, corrisponde all'abbassamento ponderale delle emissioni in argento di Sidone, Tiro e Arado e alla pratica della riconiazione attestata a Sidone e a Tiro. Arado è l'ultima città fenicia a battere moneta intorno al 430 a.C. con una produzione in argento e bronzo. Le monete del centro hanno una notevole diffusione nel Vicino e Medio Oriente e sono le uniche ad essere state rinvenute in Attica e nell'Arabia orientale. Tali emissioni non risultano, tuttavia, essere predominanti nei ripostigli e riescono a raggiungere un ruolo trainante soltanto nella Fenicia settentrionale e nell'immediato entroterra della città. Rielaborazione locale di temi di origine assira sembra essere la divinità marina maschile riprodotta sul dritto della serie, che subisce una progressiva ellenizzazione a partire dal VI sec. a.C. L'influsso greco diventa dominante nella monetazione di Arado a partire dal 420 a.C. con l'introduzione sul dritto della testa barbata e laureata. La tipologia principale sul rovescio rimane, ad eccezione di alcuni nominali minori, costantemente quella della nave da guerra. Le monete di Arado, insieme a quelle di Tiro, sono le uniche monete che presentano una leggenda fin dalle prime coniazioni del 430 a.C., formata costantemente da abbreviazioni. La produzione monetale nell'Occidente fenicio trova le sue prime manifestazioni in Sicilia nelle città autonome di Solunto, Mozia e Panormo, che cominciano a coniare monete a leggenda punica o punico-greca alla fine del V sec. a.C. e dimostrano subito l'alto livello di integrazione raggiunto all'interno del sistema monetario ed economico greco dell'isola. Eloquente indizio in tal senso è l'assunzione, caratteristica di Panormo e, in minor misura, di Solunto e di Mozia, di tipologie ispirate a quelle coeve delle più importanti città siciliane. Dallo studio comparato delle tipologie e della presenza nei rinvenimenti monetali isolani risulta particolarmente esteso il raggio d'azione e di scambio attribuibile a Panormo, tanto da far ipotizzare per il centro un ruolo egemone rispetto alle altre città fenicie e l'importanza raggiunta dalla città a livello regionale. I tetradrammi in argento a leggenda ṣyṣ quadriga/testa di Kore coniati per tutto il IV sec. a.C. sono, infatti, tesaurizzati su tutto il territorio siciliano. Le emissioni di Mozia, datate tra il 480 a.C. e il 397 a.C., nelle serie più antiche presentano un evidente legame con le emissioni siciliane di Selinunte e Imera e con quelle etrusche di Populonia. L'attestazione di iconografie "tirreniche" sembra sottolineare l'apertura di Mozia, rispetto a Panormo e Solunto, verso un contesto mediterraneo più ampio e volto anche agli Etruschi. Con la metà del IV sec. a.C. nel circuito monetale siciliano si impongono le serie a leggenda ršmlqrt che, come emerge dall'esame dei ripostigli siciliani dell'epoca, diventano le monete a leggenda fenicia maggiormente diffuse nell'isola. Le prime testimonianze numismatiche siciliane riferibili alla presenza di Cartagine nell'isola sono le emissioni in argento del 410 a.C. a leggenda qrtḥdšt, qrtḥdšt/mḥnt per le quali è ancora aperto il dibattito sulla zecca di emissione. Tra il 300 e il 289 a.C. alla scomparsa delle emissioni a leggenda ṣyṣ e ršmlqrt corrisponde un graduale passaggio dai tetradrammi legati agli eventi bellici a leggenda 'mhmḥnt ("il popolo del campo"), a quelli a leggenda mḥšbm ("i controllori"), esito della progressiva normalizzazione dell'amministrazione punica in Sicilia. Sulla stessa linea evolutiva, che sembra indicare un graduale, ma deciso controllo di Cartagine nell'isola, si pongono le monete in elettro e argento, datate al 264/260 a.C., con al dritto testa di Kore e al rovescio Pegaso in volo e leggenda b'rṣt ("nei territori"), da intendersi come la registrazione dell'appartenenza al "territorio" cartaginese, ormai un distretto "regionale" dello Stato punico. La Sardegna entra a far parte del territorio di Cartagine alla metà del IV sec. a.C. Con il 300 a.C., accanto alle monete di zecca cartaginese antica, compare l'emissione, coniata nell'isola, Kore/protome per la quale si è ipotizzata una pluralità di zecche emittenti, in Sardegna certamente, ma anche in Nord Africa e in Sicilia. La situazione politica della Sardegna muta a partire dal 264 a.C. Il dato si riflette in modo evidente sulla circolazione delle serie della prima guerra punica (Kore/protome di modulo maggiore, Kore/cavallo stante; Kore/cavallo retrospiciente; Kore/cavallo dietro palma) che presentano un circuito diverso e più limitato rispetto alle emissioni precedenti. Il 241 a.C. rappresenta, infatti, un momento di grande importanza per la storia punica, sia dal punto di vista militare sia per le ripercussioni sulla politica monetale cartaginese. La data segna, infatti, l'inizio della rivolta dei mercenari nel Nord Africa: il progetto egemonico di Cartagine subisce nel Nord Africa il primo violento e traumatico arresto, segnando l'inizio del declino della potenza cartaginese. In Sardegna con il 241 a.C. si ha la ripresa di una circolazione a respiro regionale con una rinnovata e forte presenza, intorno ai centri punici principali, delle serie Kore/tre spighe e Kore/toro, coniate fino al 237 a.C., quando l'isola diventa dominio romano. Se da un lato tale data segna la fine del possesso cartaginese sulla Sardegna, dall'altro rappresenta l'inizio del progetto egemonico della famiglia dei Barcidi nella Penisola Iberica e la probabile scelta di Cartagena, centro delle operazioni militari durante la seconda guerra punica, come zecca delle serie cartaginesi della penisola fino al 206 a.C. In Spagna, Cartagine sembra seguire schemi già collaudati in Sicilia e successivamente in Italia, cercando di contrastare Roma con una produzione monetale omogenea a quelle del territorio in cui opera. Le serie barcidi nella penisola sono prevalentemente anepigrafi e con tipologie analoghe a quelle utilizzate nella penisola italica, che per altro sono numericamente poco consistenti e con notevoli problemi di interpretazione. Uno dei più importanti è quello relativo al rapporto delle emissioni puniche con le coeve monetazioni dei centri italici. La difficoltà maggiore sta nella definizione dei criteri di distinzione tra le monetazioni dei centri italici alleati di Annibale e quelli a lui ostili. Da qui, ad esempio, l'incertezza di attribuzione delle monete in elettro con al dritto Giano bifronte e al rovescio Giove con Nike su quadriga, battute su piede microasiatico già diffuso nell'Italia meridionale prima del periodo annibalico, che pur mantenendo le caratteristiche della monetazione locale, sono probabilmente riferibili all'autorità cartaginese. Nella Penisola Iberica dalla fine del III sec. a.C. si sviluppano monetazioni cittadine autonome a Gades, Sexi (Almuñécar), Abdera, Malaga, Ebusus che adottano iconografie e leggende, portatrici di valori religiosi, economici e sociali di tradizione fenicia. Tradizione che si riscontra ancora in epoca romana nelle emissioni cosiddette "libio-fenicie" pertinenti all'area tartessica. Il fenomeno delle monetazioni neopuniche che si sviluppano dopo la caduta di Cartagine del 146 a.C., interessa non soltanto la Penisola Iberica, ma tutto il bacino del Mediterraneo occidentale e in particolare le coste del Nord Africa. Le città autonome e i regni nati dalla sconfitta della metropoli, danno origine a produzioni monetali originali e complesse in cui la tradizione fenicia viene scomposta e rielaborata in chiave locale fino all'epoca romano-imperiale.
Sulle monete della Fenicia:
L. Sole, Le emissioni monetali della Fenicia prima di Alessandro, in StEgAntPun, 16 (1997), pp. 75-125; Ead., Le emissioni monetali della Fenicia, II, ibid., 18 (1998), pp. 81-148.
Sulle emissioni fenicie d'Occidente:
F. Chaves Tristán, Los hallazgos numismáticos y el desarrollo de la segunda guerra púnica en el sur de la Península Ibérica, in Latomus, 49 (1990), pp. 613-22; E. Acquaro - L.-I. Manfredi - A. Tusa Cutroni, Le monete puniche in Italia, Roma 1991; Numismática hispano-púnica. Estado actual de la investigación. VII jornadas de arqueología fenicio-púnica (Ibiza, 1992), Ibiza 1993; L.-I. Manfredi, Repertorio epigrafico e numismatico delle leggende puniche, Roma 1995; Ead., Carthaginian Policy through Coins, in G. Pisano (ed.), Phoenicians and Carthaginians in the Western Mediterranean, Roma 1999, pp. 69-78.
di Maria Cristina Molinari
Notevoli divergenze esistono tra gli studiosi in relazione alla cronologia e alla struttura delle prime emissioni romane, le cosiddette "romano-campane". Mentre la coniazione più antica in bronzo è stata collocata per ragioni tipologiche e di legenda nell'ambito dei rapporti politici intercorsi tra Roma e Neapolis, dopo la stipulazione del trattato del 326 a.C. o in seno alle relazioni tra Roma e i Campani di Capua divenuti cives sine suffragio nel 338-334 a.C. o ancora nel 280 a.C., la seconda produzione è stata attribuita con notevole certezza a Neapolis e datata alla fine del IV sec. a.C. Le serie monetarie successive risultano essere articolate in quattro elementi: monete d'argento e di bronzo coniato, pezzi fusi di forma rotonda, ovvero l'aes grave, e barre rettangolari fuse, il cosiddetto aes signatum. Per M.H. Crawford (1974) esisterebbero relazioni cronologiche e metrologiche tra queste diverse forme monetali che sarebbero state prodotte in un'unica zecca in momenti diversi. Al contrario, secondo A. Burnett (Burnett - Hook 1993), la prima emissione in argento, come le serie parallele in bronzo, sarebbe da attribuire ad una zecca diversa da quella di Roma, che avrebbe fabbricato il solo aes signatum; successivamente nella zecca urbana sarebbero state prodotte, in maniera separata e non coordinata, almeno fino al 250 a.C., tutte le serie fuse e coniate nei due metalli, destinate, però, ad una circolazione differente all'interno della penisola italica (il bronzo nel Latium Vetus, l'argento nel Meridione). Tutte queste emissioni sarebbero state prodotte in epoche diverse, secondo quanto attestato dai ripostigli, dall'abbassamento del peso e della quantità di fino contenuta nella monetazione d'argento. Inoltre la data del 269 a.C., tradizionalmente riportata dalle fonti, sarebbe da riferire alla prima distribuzione d'argento, piuttosto che alla prima emissione in quel metallo coniata a Roma. Per Burnett alla metà del III sec. a.C. la moneta romana venne riformata con l'abbandono dell'aes signatum, l'adozione di una moneta d'argento contenente una quantità di fino migliore e con un nuovo standard ponderale e l'attuazione di un collegamento metrologico tra le serie in bronzo coniato e fuso e l'argento. Diversamente per P. Marchetti (1993) tutte le serie romano- campane sarebbero state prodotte in differenti zecche, in un ampio territorio compreso tra la Campania, l'Apulia, l'Etruria e il Piceno; soltanto i quadrigati, assieme al bronzo con il tipo della prua, avrebbero costituito le prime coniazioni della zecca di Roma del 269 a.C. Queste, secondo lo studioso, sarebbero le monete da mettere in relazione con la notizia riportata da Plinio: "argentum signatum anno urbis CCCCLXXXV, Q. Ogulnio C. Fabio cos. quinque annis ante primum Punicum bellum" (Nat. hist., XXXIII, 43). Tale ricostruzione è basata sul rinvenimento di due ripostigli contenenti quadrigati scoperti a Selinunte, la cui popolazione venne deportata nel 250 a.C. dai Cartaginesi. In realtà poiché ritrovamenti di epoca immediatamente successiva a quella data documenterebbero una continua frequentazione del sito in questione, il dato di Selinunte non risulterebbe determinante ai fini della ricostruzione cronologica della monetazione romana. L'adozione dello strumento monetario da parte dei Romani sarebbe una conseguenza dell'espansione dell'Urbe che, secondo F. Cassola (1962), avrebbe impiegato la lingua greca sulla prima monetazione al fine di soddisfare anche ambizioni di carattere mercantile. Più genericamente, per Burnett le prime emissioni di tipologia, fattura e peso greco non avrebbero avuto alcuna natura militare o commerciale, ma sarebbero da interpretare come un episodio sporadico, determinato dai rapporti con le città della Magna Grecia. In modo più sistematico e analitico, sulla base dei risultati ottenuti dallo studio dei rinvenimenti, M. Taliercio Mensitieri (1998) propone una diversa interpretazione della prima produzione bronzea, là dove le monete a leggenda ROMANO sarebbero legate ad occasioni specifiche. Così ad esempio i bronzi con il leone, ritrovati soprattutto nei santuari, sarebbero da mettere in relazione con le necessità di carattere militare e con il pagamento dello stipendium dei soldati a causa della proletarizzazione dell'esercito durante la guerra pirrica. Una maggiore unanimità sembra essere stata attualmente raggiunta dagli studiosi in relazione alla creazione del denario, sulla base dei cospicui rinvenimenti di Serra d'Orlando, l'antica Morgantina. Poiché i denari, i quinari e le monete auree ad essi metrologicamente collegate, rinvenuti nella località siciliana in contesti di distruzione, presentavano un ottimo stato di conservazione e numerosi legami di conio, evidenziando in tal modo una circolazione assai limitata, si è potuto attribuire tutto il materiale numismatico in questione ad un momento di poco precedente alla sua perdita, databile al 214 o al 212 a.C. Queste serie sarebbero dunque state coniate durante la seconda guerra punica e, secondo M. Caccamo Catalbiano (1998), nel caso dell'oro marziale, la produzione del medesimo andrebbe attribuita totalmente a zecche siciliane. Così l'apposizione del segno di valore sull'oro e sull'argento del sistema denariale sarebbe da interpretare come un agile espediente per istituire un rapporto tra la valuta siciliana e quella romana e, nell'ambito di quest'ultima, tra la nuova monetazione e quella immediatamente precedente costituita dai quadrigati e dall'oro cosiddetto "del giuramento". Il nuovo sistema monetario così creato vedeva una moneta argentea da 10 assi in bronzo, il denario e i suoi sottomultipli da 5 e da 2 e 1/2, ovvero il quinario e il sesterzio. Accanto a queste denominazioni veniva prodotta la moneta di bronzo, l'asse e i suoi sottomultipli (il semisse corrispondente alla metà, il triente ad 1/4, il quadrante ad 1/3, il sestante ad 1/6 e l'oncia ad 1/12) che assumevano un ruolo fiduciario, essendo il loro peso immediatamente diminuito dopo una fase in cui l'asse era di valore sestantale (equivalente a 1/6 di una libbra di 327 g ca.). Oltre al denario e ai suoi sottomultipli venne prodotto il vittoriato, privo di segno di valore, ma dal contenuto argenteo inferiore, pari all'80%. Nel corso del II sec. a.C. la moneta romana si impose in Italia e in Sicilia, mentre in altre aree provinciali continuarono ad essere emesse produzioni locali in bronzo e in argento, poste in relazione con le emissioni centralizzate tramite cambi stabili. Nel corso dell'età repubblicana rare furono le emissioni in oro e soltanto dall'età di Cesare si procedette ad una regolare produzione di aurei (secondo il peso di 1/40 di libbra). Questa circostanza deve, secondo C. Howgego (1992), essere messa in relazione con la contemporanea cessazione delle emissione in oro della Macedonia, di Cartagine, dell'Egitto tolemaico e della Gallia. Il sistema monetario romano venne parzialmente modificato da Augusto che volle garantire una sua maggiore flessibilità tramite la creazione di numerose denominazioni, messe in relazione tra loro secondo un rapporto fisso così concepito:
La novità maggiore consisteva nella coniazione di sesterzi e dupondi in oricalco (una lega simile all'ottone) e di assi e quadranti di rame che andavano a sostituire i vecchi nominali di bronzo repubblicani contenenti un'alta percentuale di piombo. I denari e gli aurei, coniati rispettivamente a 1/84 e a 1/42 di libbra, che assolvevano alla funzione di mezzo di pagamento dell'esercito, venivano prodotti (almeno fino all'età di Tiberio e forse anche oltre) nella zecca di Lugdunum, cioè in una provincia del princeps. Il numerario bronzeo, coniato a Roma e destinato ai bisogni quotidiani della gente, era prelevato dalle casse del populus, ovvero dell'aerarium. Per E. Lo Cascio (1991) tale divisione rispecchiava l'onere assunto dall'imperatore di garantire l'ordine all'interno dell'Impero, avendo l'obbligo di finanziare con i fondi da lui controllati la compagine imperiale. Il sistema monetario così strutturato, a cui si affiancavano le coniazioni delle zecche provinciali di carattere locale e quelle emesse in Egitto ove persisteva un'area monetaria chiusa, dovette sostanzialmente rimanere pressoché inalterato nei due secoli successivi se non per alcuni cambiamenti legati allo standard ponderale dei nominali in metallo nobile verificatesi nell'età di Nerone (con aurei coniati a 1/45 di libbra e denari a 1/96) e per alterazioni nel peso e nel fino della moneta argentea nel corso dell'epoca flavia e nel secolo successivo. Si sarebbe dunque verificato un lentissimo processo di "inflazione secolare" piuttosto contenuta che avrebbe determinato la cessazione della coniazione dei nominali più piccoli in bronzo. Resta più difficile comprendere come funzionasse il sistema monetario nel suo complesso e per quali ragioni di volta in volta venisse emessa la moneta. A questo proposito diverse interpretazioni sono state avanzate dagli studiosi nel tentativo di ricostruire l'economia romana, il sistema degli scambi, la funzione della moneta e la sua circolazione. In generale due sono state le posizioni storiografiche predominanti nel corso dell'ultimo secolo: la "visione modernista", sostenuta a partire da M. Rostovzev (1926), e quella "primitivista" che ha avuto nella seconda metà del Novecento il più accanito sostenitore in M. Finley (1977²) e proseliti nella scuola anglosassone. Nel primo caso si propone un'immagine dell'economia romana, in particolare di quella imperiale, di tipo espansionistico con un forte sviluppo dei commerci e della manifattura; nel secondo si ipotizza una visione statica della produzione dei beni, ridimensionando il diffondersi delle relazioni mercantili-monetarie in un'economia che comunque rimane "duale" dove persistono, accanto ad un settore monetarizzato e commercializzato, prevalenti forme di autoconsumo. Comunque i due modelli ricostruttivi implicano anche un diverso modo di spiegare le motivazioni della produzione di metallo coniato, attribuendone il merito ora ad una sorta di "empirica politica monetaria" dell'autorità imperiale, ora ad una semplice esigenza di procurarsi i mezzi adeguati per far fronte alle proprie spese. Parimenti si verifica una diversa interpretazione delle riforme monetarie o ancor più delle manipolazioni del metallo coniato praticate a partire dal I sec. d.C., nonché dei modelli di circolazione e di diffusione della moneta nei territori dell'Impero (significativo in questo senso il contributo sostanziale, ma molto discusso di K. Hopkins [1980] sulle tax-producing regions, ovvero i territori provinciali dove venivano prodotti i beni, e le tax-consuming regions, le aree dove stazionavano le forze militari che costituivano la più consistente e significativa spesa pubblica). Così le diverse vicende che, soprattutto a partire dalla fine del II sec. d.C., subì il denario, particolarmente in relazione alle numerose riduzioni del contenuto argenteo, sono state spiegate da un lato come un semplice espediente adottato dall'autorità emittente per continuare ad aumentare la spesa dello Stato, alimentando una negativa congiuntura inflazionistica, dall'altro disconoscendo questo automatismo e verificando l'esistenza di fenomeni molto più complessi presenti all'interno della compagine imperiale. In particolare, secondo l'opinione di alcuni studiosi, la "svalutazione" del numerario poteva costituire una valida alternativa all'inasprimento della pressione fiscale da parte di un'autorità statale costretta a mantenere un potente esercito. Una medesima divisione interpretativa si riscontra nell'analisi delle due più consistenti riforme monetarie del III sec. d.C.: la prima fu effettuata da Caracalla nel 215 d.C., che diminuì lo standard ponderale della moneta aurea a 1/50 di libbra e ideò l'antoninianus di peso pari ad una volta e mezzo il denario; l'altra fu attuata da Aureliano nel 274 con l'emissione di una nuova moneta recante un probabile segno di valore (XX.I o XX o KA). Alcuni studiosi hanno ritenuto che la nuova moneta del 215 dovesse equivalere a due denari, pur avendo il peso di una volta e mezzo il denario, cosicché si sarebbe trattato di una nuova svalutazione con caratteristiche dissimili dalle precedenti. Diversamente, secondo un altro punto di vista, la moneta caracalliana sarebbe stata equivalente a un denario e mezzo o a un denario e un quarto nel tentativo di procedere ad un consolidamento del sistema monetario ristabilendone la fiducia con la creazione di un nominale meno sopravvalutato del denario, soprattutto in relazione al suo contenuto di fino. Fino al secondo quarto del III sec. d.C. si susseguì una serie di riduzioni della quantità di argento contenuto negli antoniniani, inframmezzate da alcuni aumenti del tutto sporadici; si ebbe anche l'abbandono della moneta di bronzo, assieme ad una discesa del peso degli aurei, nel tentativo di mantenere in vita un sistema bimetallico. Con Aureliano, infine, si produrrà una moneta più pesante con un maggiore contenuto di fino, recante sul rovescio un probabile segno di valore e un aureo che riprenderà lo standard caracalliano. Anche in questo caso esistono differenti interpretazioni riguardo al segno riportato sulla moneta (allusione all'equivalenza del pezzo rispetto agli altri nominali, come gli assi, sesterzi, antoniniani, oppure menzione del valore intrinseco dell'esemplare), nonché in relazione alla spiegazione da attribuire al repentino aumento dei prezzi, attestato dai papiri egiziani della stessa epoca della riforma. La notevole massa monetaria di antoniniani e aureliani messa in circolazione nel corso del III sec. d.C. non venne più unicamente prodotta soltanto dalla zecca di Roma, bensì da numerose zecche dell'Impero poste soprattutto lungo le frontiere dello stesso; nel medesimo tempo, in modo progressivo, si provvide a terminare la produzione delle monete cosiddette "provinciali" in Oriente. Un riordino dell'organizzazione monetaria e delle zecche si ebbe con Diocleziano, la cui politica economica è nota dai documenti epigrafici e papiracei. Proprio l'analisi di queste ultime fonti, condotta alla luce del pressoché certo e completo ricongiungimento monetario dell'Egitto al resto dell'Impero, ha permesso di gettare nuova luce sull'incidenza tra le riforme monetarie e l'aumento dei prezzi nel corso del IV sec. d.C. Il primo provvedimento del 296 d.C. vide la produzione di una moneta d'oro a 1/60 di libbra, il solidus, come viene designata nell'Editto sui prezzi del 301, un nuovo nominale d'argento di 1/96 di libbra e tre moduli di biglione (il nummus e le sue frazioni). Si trattava di un tentativo volto a mantenere in vita un sistema plurimetallistico destinato ancora una volta a fallire; in seguito, infatti, l'argento puro cessò di essere coniato per un lungo periodo, mentre il nummus verrà sottoposto ad una serie di riduzioni del peso e del contenuto argenteo. In particolare con Costantino la moneta di rame argentato non fu più difesa dall'autorità nel suo rapporto di valore con la moneta aurea, battuta a 1/72 di libbra e divenuta il vero cardine della nuova organizzazione monetaria. Secondo J.M. Carrié (1993) dopo il 324 si sarebbe attestato un doppio circuito monetario ove il prezzo delle derrate veniva stabilito indipendentemente a seconda che la transazione fosse regolata in moneta forte o vile. L'immissione di una grande quantità d'oro prelevata dagli edifici templari pagani, assieme allo sfruttamento nel corso del IV secolo di nuovi giacimenti situati nell'Illirico, permise la circolazione regolare di questa massa monetaria e la costituzione di un nuovo sistema fiscale legato al metallo aureo. Inizialmente la qualità dell'oro non era particolarmente elevata, essendo presente una percentuale d'argento del 5%. Questa particolarità fu forse la causa dell'aumento delle falsificazioni che, peraltro, confluivano nelle casse imperiali con i tributi. Per ovviare a questo problema tra il 365 e il 368 si stabilì che tutti i solidi raccolti dovessero essere trasportati nella residenza dell'imperatore (il comitatus) per essere immediatamente fusi. Questo passaggio segnò il legame pressoché assoluto tra la presenza dell'imperatore e il luogo di emissione della moneta aurea (mentre la moneta ormai di solo bronzo ‒ Moneta Publica ‒ veniva prodotta in luoghi separati). Nel 395 d.C., alla morte di Teodosio I, l'Impero venne diviso in due parti e, almeno formalmente, tale divisione si riscontrò nella tipologia monetale; nonostante ciò poteva accadere che una zecca orientale emettesse moneta anche a nome di un imperatore regnante in Occidente. Accanto al solido venne intrapresa la coniazione dal 387 del suo terzo, il tremisse, che nel corso del V secolo giocò un ruolo di volta in volta più importante. Per quanto concerne il bronzo si continuò a produrre esemplari sempre più ridotti nel volume delle emissioni, nel diametro e nel peso, il cui rapporto con la moneta aurea, a differenza di quanto avvenuto in precedenza, dovette però permanere pressoché stabile. Con la caduta dell'Impero d'Occidente si ebbe finalmente una svolta riformistica nella produzione del bronzo sia nel regno africano dei Vandali (con grossi pezzi da XLII, XXI e XII nummi) che in Italia in quello di Odoacre (con due denominazioni marcate XL e XX nummi). Tali emissioni, ispirate dal ritrovamento di un enorme ripostiglio di assi e sesterzi di Vespasiano, come testimoniano molti esemplari originali contromarcati con LXXXXIII e XLII, furono la probabile fonte per la riforma bizantina di Anastasio I.
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di Daniele Castrizio
Il sistema monetario bizantino, che convenzionalmente viene fatto iniziare dal 498, in coincidenza con una riforma dell'epoca di Anastasio I (491-518), lungi dal rimanere immutabile, attraversò varie riforme nel corso del millennio successivo fino alla caduta della Nuova Roma il 29 maggio 1453, adeguandosi alle mutate situazioni politiche ed economiche che man mano venivano a delinearsi nell'impero. La convenzionalità della data d'inizio proposta dagli studiosi appare con tutta la sua evidenza quando si consideri come la riforma di Anastasio interessò solo il rame, mentre la moneta principale, cardine di tutto il sistema, rimase il nomisma aureo di 4,5 g circa, con i suoi divisionali semisse (metà) e tremisse (terzo), oltre che con qualche multiplo coniato raramente e per lo più per motivi commemorativi. In quest'ottica, il primo imperatore "bizantino" deve essere considerato Costantino I, che nel 309 abbassò il peso dell'aureus da 1/60 ad 1/72 di libbra (4,4 g), con un provvedimento che, forse oltre le sue reali intenzioni, consacrò il solidus quale vera e propria "moneta internazionale" rimasta inalterata per vari secoli. Solidi bizantini, insieme ai più tardi dīnār arabi sostanziarono quell'area mediterranea di circolazione dell'oro monetato (con punte di penetrazione fino alla Russia e alla Scandinavia), indice dei grandi traffici di seta, spezie e generi di lusso, che ci appare in netta contrapposizione con l'area dell'argento dell'Europa occidentale. Anche l'argento era stato oggetto di varie riforme: alla morte di Costantino I le zecche imperiali battevano due nominali, la siliqua tagliata a 1/96 di libbra ‒ come ai tempi della riforma di Diocleziano ‒ e il miliarensis (nome probabilmente solo convenzionale) ad 1/72 di libbra. Sotto i suoi successori si arrivò a monetare ben 5 nominali in argento, non tutti in uso nello stesso periodo di tempo e nello stesso spazio geografico, anche se sotto Anastasio solo la siliqua continuava ad essere ancora battuta. Il rame, che dopo Costantino aveva attraversato varie riforme tendenti a stabilizzare il sistema di utilizzo di 3 metalli vigente nell'impero, dal 498 venne monetato avendo come base di conto il nummus ‒ piccola moneta del tardo Impero romano difficilmente spendibile a causa delle sue ridotte dimensioni ‒ con nominali contraddistinti da M (= 40 nummi), K (= 20), I (= 10) ed E (= 5), chiamati rispettivamente follis, mezzo follis, decanummo e pentanummo. Mentre i primi due nominali si possono considerare monete con un certo potere d'acquisto, gli ultimi due erano moneta spicciola. I vecchi nummi, in ogni modo, continuarono ad essere coniati, almeno fino al regno di Giustiniano I (527-565). Alla fine del V secolo, il sistema monetale bizantino sembra essersi stabilizzato: un solidus aureo valeva 24 siliquae d'argento (keratia), ognuna delle quali era equivalente a 12 folles di rame. Accanto ai solidi di peso pieno (24 siliquae), tra il 538/9, sotto Giustiniano I, e il primo regno di Giustiniano II (685-695), le zecche imperiali emisero anche monete auree di peso ridotto (20, 22 o 23 siliquae), di cui non si riesce a spiegare la motivazione reale (forse legata ad esigenze di commercio estero o a modifiche della ratio tra oro, argento e rame), ma che in ogni modo sono ben distinguibili dalle serie di peso pieno mediante i segni di valore posti in esergo. L'immissione in circolazione delle monete avveniva attraverso più zecche imperiali, non tutte abilitate alla coniazione delle diverse specie monetate. L'oro e l'argento, fino alla conquista giustinianea dell'Italia, erano appannaggio della zecca di Costantinopoli, mentre i nominali in rame erano battuti anche da Tessalonica, Nicomedia, Cizico, Antiochia. La zecca di Alessandria d'Egitto, invece, batteva moneta di rame con uno standard locale, con monete da 6 e 12 nummi. Le conquiste nell'Occidente determinarono l'apertura di nuove zecche imperiali, oltre a piccole coniazioni locali da parte di officine militari itineranti o zecche d'emergenza. Già durante il regno di Giustiniano I furono aperte Cartagine, Roma e Ravenna, abilitate a coniare nei tre metalli, più Costantina in Numidia ed una zecca siciliana anonima, che batterono saltuariamente moneta divisionale. Per quanto riguarda l'argento, occorre notare come non furono effettuate coniazioni rilevanti in questo metallo nelle zecche orientali, mentre in Occidente, dove Vandali e Ostrogoti lo avevano coniato intensamente, Cartagine, Roma e Ravenna continuarono a battere moneta secondo il precedente standard. Il quadro che emerge da queste poche considerazioni è di una struttura molto flessibile, capace di adattarsi alle specifiche esigenze delle varie province, che sembrano unificate monetariamente solo dal solidus aureo. Un aspetto che non è stato sufficientemente rilevato riguarda l'attenzione prestata dai governatori locali alle necessità di circolante sul mercato, con l'apertura di zecche minori per far affluire con regolarità nominali di piccolo taglio, come dimostra, ad esempio, la creazione della zecca di Catania sotto Maurizio Tiberio (582-602), che batté fino ad Eraclio pentanummi e decanummi. Nel 615 o nel 622, sotto la pressione delle guerre contro gli Avari e i Persiani, l'imperatore Eraclio (610-641) introdusse una nuova moneta d'argento, l'hexagramma, battuta in quantità abbondanti per essere utilizzata in tutto l'impero. I nuovi rapporti tra le varie monete erano quindi tali che un nomisma aureo (con Eraclio il greco era divenuto lingua ufficiale dell'impero) equivaleva a 12 hexagrammata, ciascuno dei quali valeva 24 folles. Il regno di Eraclio vide anche l'apertura di una zecca militare in Sicilia, accanto a quella di Catania, destinata a riconiare folles mediante l'apposizione di grandi contromarche, in un momento di grave crisi finanziaria dovuta alla guerra persiana che aveva interrotto l'afflusso regolare di bronzi pesanti orientali in Sicilia. Contromarche con il solo monogramma di Eraclio furono apposte su folles, probabilmente per operazioni di riconvalida del numerario a Cipro o in Siria. Sotto Costante II si assisté al processo inverso, con la concentrazione di tutte le coniazioni imperiali in due zecche principali, Costantinopoli e Siracusa, officina di nuova apertura abilitata a battere in oro e rame. Sotto Costante II e Costantino IV la perdita della Siria e della Palestina, divenute arabe, portò alla nascita di monete di rame dei califfi che imitavano i tipi dei folles costantinopolitani e siracusani, la cui circolazione arriva fino all'area dello Stretto di Messina. Con l'andare del tempo il peso dei folles, che nel VI secolo era stato alquanto regolare, si fissò definitivamente su valori molto bassi. La situazione causò la progressiva scomparsa dei nominali inferiori: fin da Costante II (641-668) il mezzo follis fu il solo divisionale battuto, mentre fin dal secondo regno di Giustiniano II (705-711) la zecca di Siracusa coniò, in bronzo, solo folles. Il fallimento di tutti i precedenti tentativi indusse Leone III (717-741) ad una riforma, che, come quella di Eraclio, era imperniata sull'argento. Fu creata una nuova moneta, il miliaresion, completamente aniconica, battuta a nome dell'imperatore e di suo figlio Costantino V (associato al trono dal 720), i cui nomi erano scritti su una leggenda che occupava tutto il diritto. La moneta era chiaramente ispirata al dirhām arabo, al punto che i primi miliaresia sono riconiati su monete arabe. Fino al regno di Teofilo (829-842) i miliaresia furono coniati sempre e solo a nome di coppie imperiali, padre e figlio o madre e figlio. Dopo il regno di Leone III divennero rari, per poi scomparire del tutto, i semisia e i tremisia aurei, che erano divenute monete cerimoniali. In base ad una nuova riforma i rapporti tra le monete vennero così fissati: un nomisma aureo valeva 12 miliaresia argentei, ognuno dei quali era equiparato a 2 keratia (moneta di conto), mentre un keration era equivalente a 12 folles. Non tutto ci è completamente chiaro, dato che, inequivocabilmente, da alcune fonti apprendiamo che un nomisma si scambiava con 14 miliaresia. Interessanti considerazioni vengono dall'esame della circolazione monetale nella Sicilia e nella Calabria meridionale durante il periodo bizantino, che ci consente di apprezzare la flessibilità di un sistema monetale, sempre pronto a adattarsi agli eventi storici ed economici. In un primo periodo, dopo la riconquista imperiale, l'afflusso di moneta aurea in queste aree, per pagare gli stipendi all'esercito e ai funzionari, era garantito dalle zecche di Costantinopoli, Roma e Ravenna, mentre i grossi nominali di rame provenivano da Cartagine e dalle zecche orientali, soprattutto Antiochia, Nicomedia e Cizico, oltre che da Costantinopoli stessa. La mancanza di monete divisionali sotto Maurizio Tiberio obbligò l'amministrazione, in progresso di tempo, ad aprire una zecca a Catania, con il compito di rifornire il mercato di pentanummi e decanummi. In seguito, sotto Eraclio, Siracusa cominciò a riconiare folles, per fronteggiare la penuria di circolante, dovuta alla crisi economica delle province orientali provate dalla guerra persiana, che impediva un regolare afflusso di monete in Occidente. Da Costante II fino a Basilio I, per più di duecento anni, Siracusa approvvigionò tutta la Sicilia e la Calabria meridionale di numerario aureo ed eneo, fino alla caduta della città in mano araba: la zecca siciliana sembra essere stata la più importante, dopo quella di Costantinopoli, per più di due secoli. La circolazione a vasto raggio delle sue monete auree ‒ e su scala più ristretta di quelle in rame ‒ mostra un'area di diffusione che comprende anche l'Italia del Nord, la Francia, la Germania, i Paesi Bassi e l'Inghilterra. Solo la perdita della Sicilia costrinse il governo romeo, dopo una breve parentesi dell'apertura di una zecca imperiale a Reggio, a far affluire tutto il circolante dalla zecca di Costantinopoli, fino alla conquista normanna del meridione d'Italia. Sotto il regno di Basilio II e Costantino VIII (963-1025) fu introdotto, accanto al tradizionale nomisma histamenon, un nominale aureo più leggero, il nomisma tetarteron, di cui non si conosce bene il valore nominale. La moneta, prima indistinguibile da quella più pesante, sarà resa facilmente riconoscibile sotto il regno del solo Costantino VIII (1025-1028). Dal regno di Giovanni I (969-976), per alcuni decenni, i folles non portarono più come tipo il ritratto dell'imperatore e il suo nome non comparve nemmeno nelle leggende. Tutto il campo del diritto è occupato da Cristo e dalla Vergine, mentre sul rovescio sono presenti leggende religiose (Gesù Cristo Re dei Re; Gesù Cristo vince e simili). Il fenomeno dei folles anonimi si protrasse fino a Costantino X (1059-1067), che rimise il proprio ritratto sulle monete. Fino al regno di Michele IV (1034-1041) la lega dei nomismata, che si era mantenuta stabile tra i 22 e i 24 carati, cominciò ad oscillare con punte di 19,5 carati, segno di un voluto abbassamento del tenore di metallo prezioso. In capo a pochi decenni il titolo scese fino agli 8 carati di Niceforo III (1078-1081). Il processo, da cui non rimasero immuni nemmeno le coniazioni in argento, interessò sia il nomisma histamenon che quello tetarteron. Sempre da Michele IV il tondello del nomisma histamenon divenne convesso, dando origine ai nomismata trachea delle fonti, in latino scifati. Il sistema monetale, basato su emissioni in oro a 8 carati, in argento di lega molto bassa ed in rame ancora di un peso accettabile, crollò durante il regno di Alessio I Comneno (1081- 1118) dando origine ad una importante riforma imperiale. Quattro erano gli elementi del nuovo sistema, con zecche operative a Costantinopoli e Tessalonica: un nomisma aureo con una lega di 20,5 carati; una moneta di elettro con 5 o 6 carati d'oro; una moneta di mistura con 6 o il 7% di argento; una moneta di rame con un divisionale che vale la metà. Un nomisma hyperpyron ("perpero" nelle fonti occidentali) aureo valeva 24 keratia di conto e quindi 3 (poi 4) nomismata aspra trachea (o "manuelati") di elettro, ognuno dei quali era equivalente a 16 nomismata trachea stamena di mistura, o a 8 keratia. Uno stamenon, infine era pari a mezzo keration di conto e a 12 o 18 tetartera di rame. Il XII secolo rappresentò un periodo di relativa stabilità, anche se, a causa dell'abbassamento della quantità di argento nella lega, lo stamenon perse nel cambio con l'hyperpyron. Nella riforma di Alessio 48 stamena valevano un hyperpyron, ma nel 1199 il cambio era quasi quadruplicato, con 184 stamena contro un perpero. Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1204, nell'ambito della quarta crociata, lo sfascio dell'impero portò ad un moltiplicarsi di soggetti emittenti moneta, tutti con la pretesa di farsi eredi del sistema monetario di Alessio I. In linea generale, per quanto riguarda l'oro, le coniazioni si succedevano a ritmo incalzante, ognuna con un abbassamento del titolo aureo più o meno rilevante. Da questo punto di vista, la ripresa della capitale da parte dell'imperatore Michele VIII nel 1261 non portò decisivi influssi sulle coniazioni, anche se nel corso del regno di Andronico II Paleologo (1282- 1328), la riforma alessiade venne a trovarsi praticamente svuotata di ogni contenuto. Verso il 1308 il titolo dei "perperi nuovi nuovi" era sceso a 11 carati. Insieme alla perdita di oro, che fece venire meno una fiducia quasi millenaria nei nomismata dell'impero, è da notare come la coniazione delle monete auree si fece sempre più scarsa a partire dal breve regno congiunto di Andronico II e Andronico III (1325-1328), fino a cessare quasi del tutto. In breve tempo l'hyperpyron divenne una mera moneta di conto. Le monete in argento e in mistura, battute non in modo regolare durante l'impero di Nicea ed ancora meno sotto Michele VIII e i primi anni di Andronico II, furono sostituite, durante il regno congiunto dello stesso Andronico e di Michele IX, da un pezzo in argento, chiamato basilikon, del peso equivalente a quello del grosso veneziano. Questa non fu l'unica moneta d'argento del periodo, essendo coniato anche un nominale pesante all'incirca la metà del basilikon, ma con una lega peggiore, chiamato politikon e giudicato equivalente per peso e mistura ai tornesi angioini di Acaia. Completavano il sistema dei Paleologhi due monete di rame, il trachion "stamino" e il tetarteron o assarion. Il nuovo sistema avallava, di fatto, una situazione economica e militare in cui la valuta occidentale in argento era padrona del mercato. Di più, il nuovo sistema veniva incontro alle esigenze dei mercenari, abituati ad essere pagati in grossi e tornesi. Prima della fine dell'impero ci fu spazio per una ulteriore riforma (soggetta anch'essa ad ulteriori diminuzioni ponderali e di titolo di fino), compiuta verso il 1350 da Giovanni V, con l'introduzione di tre nuove monete di buon argento, chiamate stavraton (o "stavrato"), "intermedio" (nome convenzionale, non essendo nota la vera denominazione dalle fonti) e doukatopoulon (o "duchatello"). Insieme a queste monete furono coniati due nominali in rame, noti come "tornese" e "folaro".
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di Richard Hodges
Quello della monetazione è un fenomeno cruciale nello sviluppo di qualsiasi civiltà. Le monete rappresentano infatti un canale diretto verso la conoscenza dei meccanismi che presiedono ai sistemi di scambio, specialmente se è noto il contesto del loro uso sotto il profilo archeologico. È peraltro ormai rigettata l'idea che le monete trovino impiego solo nell'ambito del "mercato". Dal momento in cui il numismatico Ph. Grierson ha avanzato l'ipotesi che le monete venissero usate anche come primitivi oggetti di valore, richiamando a sostegno della sua tesi il noto studio di M. Mauss sullo scambio dei doni, la monetazione di ambito tardoromano e quella medievale europea sono state al centro di più di un dibattito. Molti archeologi, storici e numismatici contemporanei sosterrebbero oggi la realizzazione di una semplice tassonomia della produzione e dell'uso della moneta. Le monete intese come oggetti di valore ricadono infatti entro processi relativi a transazioni di carattere non commerciale, nell'ambito dei corredi funerari, delle doti nuziali e dei compensi pagati per eventuali alleanze in guerra. La "moneta" in tali sistemi più arcaici veniva usata allo stesso modo del sale o delle conchiglie di Cypraea nelle società premonetali, cioè come mezzo di scambio limitato, a mercati periferici come, ad esempio nel contesto di fiere annuali, e comunque regolato da una autorità centrale quale un re o un autocrate regionale. Le prime forme di moneta intesa propriamente come denaro corrente sono il prodotto di primitive forme statali in cui la moneta veniva usata per il pagamento di tasse o imposizioni, come nell'ordinario scambio di mercato. Di norma le prime forme di monetazione, intesa sia nel senso di insieme di oggetti di valore, sia di moneta primitiva, avevano un uso ristretto, mentre le prime forme di denaro vero e proprio servivano a più scopi; queste avevano necessariamente una diffusione più vasta, laddove le monete impiegate in senso non commerciale erano confinate in aree specifiche. I ripostigli monetali offrono una ulteriore fonte di informazione in tal senso, in quanto i tesoretti, se databili con precisione, consentono spesso di conoscere i diversi rapporti tra valori e forniscono utili informazioni circa le forme di circolazione monetaria. Lo studio della monetazione tardoromana e altomedievale è progredito negli ultimi cinquant'anni in virtù di due fattori specifici. Il primo è costituito dallo sviluppo dell'archeologia medievale, che assieme al concomitante interesse verso i livelli archeologici tardoromani o del periodo delle migrazioni, ha condotto alla scoperta di molti tipi monetali nuovi, nonché alla comprensione della natura contestuale dell'uso della moneta in tali epoche. Due esempi cogenti ci sono offerti, per i primi anni dell'VIII secolo, da località situate alle opposte estremità dell'Europa. Fino alle scoperte, risalenti agli ultimi decenni del Novecento, relative alle stratigrafie di Ribe (Danimarca), non veniva considerata percorribile l'ipotesi che i Danesi potessero aver battuto moneta in argento già nell'VIII secolo. Oggi è invece accertato che una zecca danese del primo VIII secolo esemplasse le sue emissioni su quelle della Frisia, stabilendo attivamente rapporti commerciali che prevedevano, sia pure in forma primitiva, l'uso di moneta. Allo stesso modo, fino alla scoperta di nummi rettangolari di bronzo provenienti dai livelli pluristratificati della Crypta Balbi nel Campo Marzio di Roma, si riteneva che Roma avesse abbandonato l'uso della moneta dopo la rottura delle relazioni tra i papi e Bisanzio intorno al 730 d.C. L'alto numero di monete rinvenute, quasi esclusivamente riconducibili a Roma, testimonia del loro uso come forme primitive di valore o di moneta da parte di comunità sia secolari che ecclesiastiche che costituivano una sorta di nicchia attiva nell'altrimenti depresso panorama delle condizioni economiche della città. La seconda considerazione riguarda l'uso intenso dei metal detectors nell'Europa nord-occidentale, che ha sensibilmente incrementato il volume e la varietà dei rinvenimenti monetali per il periodo in considerazione. Monete come gli sceatta d'argento della metà dell'VIII secolo del re dell'East Anglia Beonna rimasero sconosciute fino ai primi pionieristici rinvenimenti effettuati col metal detector e al loro riconoscimento negli estesi scavi di recupero effettuati nel sito dell'emporio di Ipswich (Gipeswic). La storia della produzione monetale durante questo periodo rispecchia la complessità della formazione dell'Europa medievale stessa; è tuttavia possibile delinearne una breve linea di sviluppo. L'impero bizantino continuò a emettere solidi aurei tra il 400 e il 1000, ma la quantità dei solidi stessi scese drasticamente dopo la metà del VII secolo, mentre successivamente a tale periodo il contenuto d'oro decrebbe costantemente. È raro imbattersi in emissioni argentee bizantine in questo periodo, benché monete di bronzo di basso valore venissero battute quasi senza interruzioni, mentre il volume di monete prodotte diminuì in modo repentino quando l'economia dell'impero conobbe una forte recessione tra la metà del VII secolo e il X secolo. Per contro, la produzione di monete nel mondo cristiano latino seguì due direttive fondamentali prima della riforma monetaria di Carlo Magno del 793-794. Le zecche della penisola italiana ricaddero sotto l'influenza di Bisanzio fino a quando, nel primo VIII secolo, il papa e i Longobardi ruppero i contatti con Costantinopoli. Successivamente queste autorità produssero versioni locali di scarsa qualità dei nummi bizantini di bronzo e, nel caso del ducato longobardo di Benevento, emisero alcune particolari serie in oro e argento che terminarono solo con l'instaurarsi nella regione di una condizione di anarchia nel tardo IX secolo. Per contro, le zecche del regno franco, che comprendeva buona parte della moderna Francia, la Germania occidentale (la Renania) e i Paesi Bassi, adottarono nel tardo VI secolo una serie d'oro (basata sugli standard di misura bizantini), i cui nominali sono noti come tremissi; tali emissioni conobbero una costante svalutazione fino ad essere soppiantate nell'ultimo quarto del VII secolo dai pennies d'argento (basati su una misura germanica), noti comunemente come "denari" o "sceatta". Né i regni anglosassoni dell'Inghilterra sud-orientale, né i re danesi coniarono moneta d'oro, benché le classi elitarie possedessero piccole quantità di tremissi franchi. Il sovrano dell'East Anglia deposto nella nave-sepoltura di Sutton Hoo nel 625 circa, ad esempio, possedeva una dote di monete d'oro franche. D'altra parte diversi regni anglosassoni (East Anglia, Kent, Mercia e Wessex) già alla fine del VII secolo iniziarono a coniare pennies d'argento che imitavano le emissioni franche e frisoni, note come "sceatta primari". Ribe, il centro commerciale degli Juti, forse sotto la guida del re Ongendus, iniziò a coniare pennies d'argento, con la tipica immagine del cosiddetto "mostro di Wodan" sul dritto, a partire dall'inizio dell'VIII secolo. Il padre di Carlo Magno, Pipino III, attuò una riforma della monetazione franca intorno alla metà dell'VIII secolo. Nel suo tentativo di aumentare il quantitativo d'argento impiegato nelle monete, è quasi certamente possibile leggere la volontà di centralizzare l'emissione delle monete. La grande quantità di sceatta anglosassoni e franchi appartenenti al periodo compreso tra il 675 e il 750 d.C., relativi in particolare alle città commerciali di Dorestad, Hamwic, Ipswich, Londra e Ribe, non solo illustrano il volume di monete prodotto in questo periodo per soddisfare il mercato periferico, ma (considerata la varietà delle zecche oggi conosciute) sottolineano anche la mancanza di un controllo centralizzato. Le riforme di Pipino prepararono la strada per le promulgazioni del 793- 794 d.C. emesse da Carlo Magno al Concilio di Francoforte. Carlo Magno emise un tipo più pesante di denaro d'argento. Si ritiene comunemente che tale nuova unità di peso rappresenti un passaggio dal riferimento all'antico chicco d'orzo romano (0,65 g) al riferimento al chicco di grano (0,52 g): il vecchio denaro infatti era equivalente a 20 chicchi d'orzo, mentre il nuovo equivaleva a 32 chicchi di grano. Inoltre, per la prima volta dall'età romana, la coniazione delle monete perseguiva una certa uniformità nell'iconografia, benché fino all'812 la raffigurazione del busto di Carlo Magno non fosse una caratteristica iconografica costante. Era nelle intenzioni del sovrano franco controllare la produzione delle zecche e contemporaneamente incoraggiare l'uso della moneta come mezzo di scambio. L'impatto della riforma fu pressoché immediato. Il grande re anglosassone Offa emise un penny più pesante esemplato sul nuovo denaro franco. Anch'egli sembra intendesse instaurare un più rigoroso processo di controllo delle emissioni monetali da parte delle zecche; ne risultò che, verso la metà del IX sec. d.C., le poche zecche inglesi produssero, è stato calcolato, diversi milioni di esemplari con un alto contenuto di argento. L'esempio fu seguito sia dalle zecche meridionali, come quella di Napoli, sia da quelle nordiche, come quella di Haithabu (Schleswig), rispettivamente sotto l'egemonia del regno di Benevento e dei Danesi. I pennies della riforma, tuttavia, fatta eccezione per i copiosi rinvenimenti di singoli pezzi in Aquitania, non rappresentano un rinvenimento frequente negli scavi archeologici (contrariamente agli antichi sceatta); gli esemplari noti provengono in larga parte da ripostigli occultati nel periodo delle incursioni arabe, per il Sud Europa, o Vichinghe, per il Nord Europa. In Italia, nonostante la rarità dei ritrovamenti di monete di IX secolo in aree come la Sabina, presso Roma, il registro degli statuti della grande abbazia benedettina di Farfa fa frequenti riferimenti ai rapporti tra diversi valori monetali; ciò implica che, così come era nelle intenzioni di Carlo Magno, l'esistenza di una valuta comune poteva fornire misure teoriche utili e favorevoli nei confronti delle transazioni economiche. Il denaro carolingio divenne dunque un modello per la produzione monetale del mondo cristiano latino tra la fine del IX e il X secolo. Per quanto riguarda le monete anglosassoni, si assiste all'emissione di varianti regionali, strettamente regolate dai sovrani sassoni occidentali che si succedettero dopo il 900, con un alto contenuto di argento rispetto, ad esempio, all'oscillante quantità di questo metallo presente nelle monete coniate nella Francia del Nord. L'emissione delle monete inglesi è in stretta relazione con la nascita di nuove città e con lo sviluppo controllato delle attività artigianali. A York, ad esempio, i re della Northumbria furono costretti ad emettere versioni di bronzo dei pennies dopo l'850 circa. I ritrovamenti di queste monete ribassate, note come stycas, sono limitati ad alcune località della Northumbria. Con la conquista danese, l'antico emporio di VIII-IX secolo di Eoforwic venne abbandonato a favore della sicurezza rappresentata dalle fortificazioni dell'antica città romana, che prese il nome danese di Jorvik. I conquistatori danesi emisero pennies ad alto contenuto d'argento, esemplati sui tipi franchi, già nell'890, contemporaneamente alla creazione di nuove strade affiancate da botteghe. Gli scavi archeologici condotti presso una di queste strade, Coppergate, hanno portato alla luce alcune strutture pertinenti alle botteghe dei bottai e a quelle dei fabbri o dei fonditori di metallo, una delle quali ha restituito i coni per la produzione delle nuove monete in corso a York. I pennies anglosassoni di X secolo, come i denari ottoniani coniati in Renania, sono stati identificati con i bullions, d'argento, del secondo periodo vichingo della fine dello stesso secolo. Un'ingente quantità di tali monete fu tesaurizzata dalle comunità del Baltico occidentale, insieme a gioielli d'argento. L'esame di questi ripostigli evidenzia che i Vichinghi calcolavano il bullion secondo un rapporto di valore locale e che ne effettuavano la scheggiatura del bordo per controllarne il contenuto d'argento. Nella seconda decade dell'XI secolo i monetieri anglosassoni battevano moneta nelle più importanti città danesi, fornendo una sorta di primitiva valuta circolante anche ai Vichinghi occidentali. Le monete e i ripostigli sono stati a lungo interpretati come un'importante indicatore dell'esistenza di attività commerciali. In particolare i ripostigli sono divenuti uno strumento chiave per documentare alcune forme dello sviluppo economico; ad esempio due ripostigli, entrambi databili al 620, forniscono dati preziosi riguardo all'uso regionale della moneta e della coniazione. Il primo è rappresentato dall'insieme dei solidi aurei bizantini recuperati dal relitto della nave da carico di Yassi Ada, affondata nelle acque della Turchia occidentale. Questo materiale dimostra la continuità delle pratiche commerciali tardoromane in età più tarda: le monete vengono infatti utilizzate come bullions dal capitano rodio della nave. Il secondo caso è rappresentato dalla "borsa" di 37 tremissi franchi rinvenuta nella nave funeraria di Sutton Hoo, nell'Inghilterra orientale; ciascun esemplare è stato coniato da una zecca differente e l'insieme rappresenta uno straordinario esempio di come le monete d'oro potessero essere intese come primitivo bene di pregio, forse destinato a pagare l'equipaggio della nave nel suo viaggio verso l'aldilà. L'insieme di Sutton Hoo fa parte di una serie di ripostigli databili tra la fine del VI e la metà del VII secolo: quello di St. Martin a Canterbury del 580; quello di Escharen del 600 circa; quello di Chissey-en-Morvan del 631 circa; quello di St. Aubin del 640 circa e quello di Crondall del 650 circa. Questi ripostigli consentono di seguire l'andamento della diminuzione dell'oro nella monetazione franca e la concomitante emergenza di uno standard argenteo nel mondo latino cristiano. Allo steso modo, uno studio sui ripostigli europei di IX secolo (Apremont, dell'822 ca.; Belvezet dell'820 ca.) dimostra che dopo l'820 i denari argentei coniati nelle zecche italiane come Milano, Pavia e Venezia venivano largamente preferiti in virtù del loro alto contenuto d'argento rispetto alle monete coniate a nord delle Alpi. Dopo il repentino declino nell'emissione di monete d'oro avvenuto durante il VII secolo, la questione che riguarda l'origine dell'argento con cui furono coniati milioni di denari nel periodo compreso tra l'VIII e il IX secolo è un argomento che ha impegnato storici ed archeologi. I numismatici ritengono che il marchio di zecca Ex Novo Metallo, che compare sui denari di IX secolo, indichi la scoperta di nuove vene d'argento in Europa occidentale. Un'ipotesi alternativa sostiene invece che l'argento provenisse dagli Abbasidi, insieme alla seta ed alle spezie, e che venne introdotto in Italia da mercanti arabi oppure attraverso la Russia occidentale e il Mar Baltico, dove i mercanti franchi acquistavano i metalli dai Vichinghi in centri come Birka (Svezia) o Haithabu (Germania). Peraltro i dīnār arabi sono rari in Europa occidentale: la concentrazione maggiore è quella attestata nel ripostiglio proveniente dal fiume Reno presso Bologna, che conteneva anche 23 solidi bizantini e 5 beneventani.
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di Maria Giovanna Stasolla
In età postclassica la monetazione era diffusa nel mondo mediterraneo e iranico. Ai tempi del profeta Muhammad (VIVII sec. d.C.) in Higiaz non esisteva una monetazione locale e la massa monetaria era costituita dalle monete raccolte dalle rendite commerciali o dai proventi del pellegrinaggio. Vi si trovavano monete bizantine d'oro e di rame, monete sasanidi d'argento ed un insieme composto da altre monete rimaste in circolazione molto tempo dopo che gli Stati che le avevano emesse avevano cessato di esistere. Comunque sia, l'espansione rapidissima dell'Islam (VII-VIII sec. d.C.) provocò l'afflusso di grandi quantità di monete bizantine e sasanidi che alimentarono l'economia dei territori appena conquistati. Zecche bizantine a Gerusalemme e ad Alessandria erano attive all'inizio del VII secolo. Poiché gli Arabi non avevano un proprio sistema monetario e le popolazioni dei Paesi conquistati appartenevano a due imperi dotati di sistemi monetari differenti, vennero adottati pragmaticamente i due sistemi per evitare di destabilizzare le economie locali e di provocare rivalità fra i nuovi sudditi. Le più antiche monete islamiche databili sono i dirhām d'argento recanti il nome e l'immagine dell'ultimo sovrano sasanide, Yazdgird III (632-651), con la leggenda bism Allāh in margine del recto e al verso il marchio della zecca e la data del 20, suo ultimo anno di regno, corrispondente al 31 dell'egira. Il nome e il ritratto di Yazdgird furono in seguito sostituiti da quelli di Khusraw II (590-628) e questo modello divenne quello delle serie arabo-sasanidi posteriori. Fuori dal territorio sasanide il problema è meno chiaro: di fatto si ignora quando cominciò la monetazione islamica in territorio bizantino perché nessuna moneta in circolazione in quest'area recava una datazione. In ogni caso, gli Arabi cominciarono a battere dei fals di rame in officine siriane e palestinesi in disuso da molto tempo, con figurazioni basate su prototipi bizantini e spesso con il nome della città espresso in latino e in arabo. A volte la formula bism Allāh conferiva loro un carattere propriamente islamico. Si sa con certezza che l'idea di emissione di moneta come prerogativa del potere califfale era assente nei primi tempi della comunità islamica. La situazione mutò radicalmente allorché il califfo della dinastia omayyade Abd al-Malik ibn Marwan, vittorioso sull'opposizione interna, poté concentrarsi sulla creazione, sentita ormai come esigenza prioritaria, di istituzioni che servissero alle necessità della nazione islamica e al rafforzamento del potere omayyade centralizzato sull'intero territorio. Si adottò allora un sistema monetario basato sul bimetallismo: dīnār aureo e dirhām d'argento. In contrasto con una prassi in uso da poco per cui si raffigurava sulle monete il califfo, ad imitazione di quanto avveniva nei sistemi sasanide e bizantino, la riforma di Abd al-Malik eliminò dal dīnār figure, nomi e titoli sostituendoli con citazioni coraniche: questo criterio fu applicato al dīnār nel 698/9. Salvo rare eccezioni, dalla fine del VII secolo le monete islamiche presentano esclusivamente caratteri epigrafici. Unico nome proprio ad apparire nelle leggende fu Muhammad: ciò indica che, esattamente come nella frequente eulogia al-mulk li-llāh ("la sovranità appartiene a Dio"), il diritto di sikka, cioè di imprimere il proprio nome sulle monete, era affidato alle mani di Dio e del suo Messaggero. Questa indicazione era applicata sempre all'oro e all'argento e solo sporadicamente alla monetazione di rame, dove il nome di un califfo o di un governatore figurava talora per designare l'autorità locale responsabile dell'emissione. Quest'uso non deve essere confuso con il diritto di sikka propriamente detto, ma costituiva semplicemente un modo di rendere un governatore locale responsabile della moneta emessa nella sua giurisdizione. Il sistema monetario adottato facilitava la circolazione di persone e di merci in un'area estesa dalla Penisola Iberica all'India del Nord, con conseguenze assolutamente positive a livello economico e produttivo. Gli Abbasidi, fondando la legittimità del loro califfato sulla parentela con il Profeta, sostituirono la citazione coranica, usata dagli Omayyadi in funzione anticristiana, con la formula Muḥammad rasūl Allāh ("Muhammad è l'Inviato di Dio"). Così cambiarono anche il modo di citare il califfo: mentre gli Omayyadi erano conosciuti con il nome personale e con il patronimico seguito dal titolo di ῾amīr al-mu'minīn ("principe dei Credenti"), gli Abbasidi avevano nomi e appellativi più complessi e citarono se stessi in modi differenti, concedendo il privilegio della sikka ai loro figli, o all'erede designato, o ai loro governatori. Poteva accadere allora che in uno stesso periodo fosse emessa una grande varietà di monete. Talora, inoltre, la monetazione è fonte preziosa per gli storici perché i nomi dei governatori forniscono una cronologia che altrimenti sarebbe rimasta ignota. Mentre il diritto di sikka emanava teoricamente da Dio e discendeva attraverso il Profeta fino al califfo, suo vicario, poi al vassallo, all'alleato e finanche all'erede di quest'ultimo o ad un governatore importante, dal X secolo la dinamica si invertì. L'uomo forte che controllava localmente la moneta, definiva la sua posizione politica, ed anche religiosa, riconoscendo come sovrani solo coloro che gli erano utili, o anche scegliendo le leggende, coraniche o meno, che definivano la sua alleanza nei conflitti in atto. Il sistema monetario conservò, comunque, la sua tipologia fondamentale, pur con le differenze dovute alle peculiarità regionali, per cui continuarono a circolare ovunque dīnār, dirhām e fals. Per quanto riguarda il dīnār arabo l'esempio più antico, non datato, ma che si può far risalire all'incirca all'anno 72 dell'egira (691/2 d.C.), fu probabilmente emesso a Damasco; imitava il solidus di Eraclio e dei suoi due figli, previa esclusione di ogni simbologia cristiana e con l'aggiunta di una leggenda religiosa islamica. In Africa del Nord e in Spagna la monetazione aurea ha caratteristiche proprie, legate comunque sempre al passaggio graduale dai modelli bizantini a quello propriamente islamico. Il peso del dīnār antico era, come il solidus, di circa 4,55 g; con la riforma di Abd al-Malik fu ridotto a 4,25 g. L'esattezza di questa cifra è attestata non solo dal peso dei dīnār che si sono conservati in buono stato, ma anche dall'esistenza di pesi egiziani in vetro di dīnār e di loro frazioni risalenti ad un periodo compreso tra la fine del I e la fine del II secolo dell'egira (dalla fine del VII alla fine dell'VIII sec.). Mentre il peso normale del dīnār si mantenne generalmente costante nella maggior parte del mondo musulmano fino al IV secolo dell'egira (X sec. d.C.), in seguito si riscontrano notevoli irregolarità nel peso e nella purezza. Ad ogni modo, il dīnār aveva un corso che corrispondeva al suo peso più che al suo valore nominale, salvo quando i pagamenti si effettuavano per mezzo di sacchetti sigillati contenenti monete di peso e di titolo garantiti. Furono battuti mezzi dīnār (niṣf - semissis) e terzi di dīnār (ṯulṯ - tremissis) in Africa del Nord e in Spagna durante il periodo di transizione fra Omayyadi e Abbasidi e negli ultimi anni dell'VIII secolo, mentre continuavano ad essere emessi pesi in vetro per queste frazioni (2,12 g e 1,41 g) fin quasi alla fine del secolo. Il quarto di dīnār (rub῾ ) fu introdotto in Africa del Nord dagli emiri Aghlabiti nel III secolo dell'egira (IX sec. d.C.) e, in seguito, i Fatimidi ne fecero cospicue emissioni contemporaneamente in Africa del Nord e in Sicilia dove, in seguito, esso divenne il celebre tarì d'oro; lo stesso avvenne in Spagna sotto Abd ar-Rahman III e i suoi successori e sotto alcuni dei Mulūk al-Ṭawā'if (Reyes de Tayfas). Per quanto concerne il titolo, il dīnār originario ne aveva uno eccezionalmente elevato: quello che seguì la riforma omayyade aveva un titolo compreso tra il 96% e il 98% e lo stesso titolo prevalse in epoca abbaside salvo in alcuni periodi segnati da guerre civili, passaggi dinastici (ad es., in Egitto fra Tulunidi e Ikhshiditi), o crisi finanziarie. Durante gli ultimi decenni del califfato a Baghdad l'emissione di dīnār riprese sebbene la moneta fosse svalutata e con un titolo più basso di quello primitivo. Lo sviluppo e la potenza politico-militare e commerciale dell'Egitto fatimide hanno riscontro nell'altissimo titolo del dīnār: il 98% e anche talora il 100% sotto al-Amir; sotto Saladino si scese al 90% per risalire al 98% e 100% sotto i suoi successori, soprattutto al-Kamil. Mancano statistiche degne di fede sul titolo del dīnār nel suo periodo di declino in Oriente (Ghaznavidi, Selgiuchidi, Khwarizmshah, ecc.), ma è evidente, dall'aspetto degli esemplari rinvenuti e dei pochi dati in nostro possesso, che nel Khorasan orientale nei secoli XI e XII la lega era composta di elettro di bassa qualità contenente un'alta percentuale di argento. Frazioni di dīnār di elettro emesse dai Mulūk al-Ṭawā'if sono state rinvenute anche in Spagna. In epoca mongola e postmongola in Iran orientale e Transoxiana è nota l'esistenza di dīnār d'argento e perfino di rame. Nell'aspetto esteriore i dīnār dei califfi e della maggior parte delle dinastie indipendenti presentano pochissime differenze. Il prototipo porta la formula della professione di fede islamica e una parte della sura CXII sul campo, o anche la cosiddetta "missione profetica" (sura IX, 33), e nei margini circolari una formula indicante per esteso la data di emissione. Gli Abbasidi (VIII-XIII sec.) apportarono solo leggere modifiche alle leggende e alla loro presentazione: fino al 170 dell'egira (786/7 d.C.) il dīnār era anonimo, poi cominciarono ad apparire o il nome del funzionario preposto alla monetazione o il nome del califfo; quest'ultimo apparve regolarmente a partire dall'epoca di al-Mutasim. Nel 198 dell'egira (813/4 d.C.) comparve il nome della città dove la moneta era emessa: Miṣr (al-Fustat) capitale dell'Egitto, seguita poi da Madīnat al-Salām (Baghdad), Ṣan῾ā', Dimašq (Damasco), al- Muḥammadiyya (Rayy), Marw (Merv), Surra-man-ra'ā (Samarra). Da allora in poi il nome della città fu sempre citato nella formula indicante la data di emissione. I dīnār emessi dagli anticaliffi fatimidi, stilisticamente simili al prototipo, portavano però leggende sciite e le iscrizioni disposte in cerchi concentrici. Il nome di dīnār scomparve sulle monete nel XII secolo in Occidente, nel XIII in Oriente e in India, nel XIV in Egitto. Come unità di conto il termine fu molto usato durante e anche dopo la sua esistenza come moneta reale. Storici dell'economia, medievisti e orientalisti (H. Pirenne, U. Monneret de Villard, M. Bloch, D. Lombard, Ph. Grierson ed altri) hanno a lungo discusso dell'influenza del dīnār sull'economia europea, del suo ruolo nel commercio internazionale del Medioevo insieme a quello del solidus o nomisma bizantino. Era inevitabile che fosse talora imitato, come lo furono altre celebri valute in epoche diverse: molto importante fu il bisante dei crociati, che imitava le monete fatimidi. Nel Mediterraneo occidentale il dīnār diede origine al mancuso, nome europeo per designare, con differenti qualificativi, molte imitazioni cristiane dell'XI secolo in Spagna. Il primo marabottino di Alfonso VIII di Castiglia era una imitazione del dīnār murābiṭ con leggende cristiane in caratteri arabi. Il dirhām è l'unità d'argento del sistema monetario arabo dall'inizio dell'Islam fino all'epoca mongola. I primi dirhām arabi erano imitazioni delle ultime dracme sasanidi, in special modo di quelle di Khusraw II. L'iconografia sasanide fu in un primo momento conservata, ma si aggiunse in margine un'iscrizione religiosa in caratteri cufici; su poche monete fu riportato il nome del califfo (Muawiya e Abd al-Malik), mentre su quasi tutte il nome del governatore della provincia e il nome abbreviato della sede della zecca con la data dell'egira, dell'era di Yazdgird o posteriore a Yazdgird (il tutto in caratteri pehlevi). Alla fine del VII secolo risalgono i primi cambiamenti dal tipo convenzionale ad un prototipo islamico: uso di un numero maggiore di legende cufiche, innovazioni iconografiche più compatibili con l'Islam. Comunque, fu la riforma monetaria di Abd al-Malik a trasformare completamente lo stile del dirhām: da allora in poi, salvo rare eccezioni, il dirhām, come l'aureo dīnār, presentò una decorazione puramente epigrafica. Il dirhām di Abd al-Malik era anonimo ma fra VIII e IX secolo furono aggiunti i nomi dei governatori, degli eredi presunti, dei califfi; erano sempre presenti il nome della zecca e la data per esteso. I dirhām erano per lo più battuti negli antichi centri amministrativi sasanidi, ma furono anche emessi a Damasco, in Africa del Nord, in Spagna. Sembra che la zecca più fiorente si trovasse, in epoca omayyade, a Wasit, fondata nel 703/4; è possibile che l'emissione delle monete d'argento fosse stata centralizzata in questa città e che qui fossero state eseguite le matrici dei dirhām. Come la moneta aurea, il dirhām subì poche variazioni fino a tutto il X secolo, se si escludono le leggende disposte in cerchi concentrici dei dirhām fatimidi. In seguito ci fu un periodo di penuria di monete d'argento in Oriente; ma, con l'ascesa dei Mongoli a metà del XIII secolo, furono nuovamente emesse enormi quantità di dirhām e di multipli, diversi dal tipo classico. In Occidente, la caduta degli Omayyadi di Spagna provocò un abbassamento di qualità del dirhām, la cui emissione fu comunque continuata dagli Almoravidi, sia pure in una forma un po' alterata. Un cambiamento completo di peso e di aspetto del dirhām si registrò sotto gli Almohadi con l'introduzione del dirhām a sezione quadrata (murabba῾) che fu imitato dai cristiani in Francia (i millares). Quanto al peso, il dirhām arabo-sasanide era più leggero della dracma sasanide (in media fra i 4,11 e i 4,15 g) e pesava circa 3,98 g. La riforma del 698/9 adottò un taglio completamente nuovo: da allora e fino a metà del IX secolo, quando il peso delle monete divenne piuttosto irregolare, il peso più alto raggiunto dal dirhām oscillava normalmente fra 2,91 e 2,95 g. Tenendo conto della perdita di peso, la cifra più corretta, suggerita da G.C. Miles (1977), è di 2,97 g che corrisponderebbe alla cifra teorica tradizionale fondata sulla definizione araba classica secondo la quale il peso del dirhām era di 7/10 di quello del miṯqāl-dīnār (7/10 di 4,25 = 2,97 g). Il tasso di cambio fra dīnār e dirhām variò molto con il tempo e nelle diverse regioni dell'impero: i giuristi parlano di 10 (o 12) dirhām per un dīnār ai tempi del Profeta, ma si hanno molteplici prove che, in seguito, il valore sia sceso ad 1/15, 1/20, 1/30 e anche 1/50 di quello del dīnār. Il dirhām esercitò una notevole influenza su Bisanzio e sull'Occidente sia per l'aspetto che dal punto di vista economico. La grande importanza della moneta d'argento araba nel commercio fra i Paesi del califfato orientale, da una parte, e la Russia, l'Europa orientale, la Scandinavia e le regioni del Baltico dall'altra, è abbondantemente provata dalle immense quantità di dirhām e frammenti di dirhām rinvenuti in queste regioni sotto forma di tesori risalenti a quattro periodi definiti fra il 780 e il 1100. Sebbene in minori quantità, sono stati ritrovati dirhām abbasidi anche in Inghilterra e in Francia. A partire dall'XI secolo, alcune dinastie, (gli ultimi Buyidi, Qarakhanidi, Khwarizmshah) emisero dirhām di bassa qualità o anche di rame. I dirhām grossi e spessi di Artuqidi, Zengidi, Ayyubidi del Vicino Oriente raffiguravano personaggi sullo stile delle monete ellenistiche e, a volte, presentavano un'iconografia islamica originale, costituendo così un fenomeno unico e non ancora esaurientemente studiato. Il fals è la moneta di rame o di bronzo che ebbe corso durante i primi secoli dell'era islamica. Il termine, come dīnār e dirhām, è di origine greca derivando da follis, nome della moneta bizantina di rame, e definiva ogni moneta di rame o di bronzo, quali che fossero il suo volume e il suo peso. Il fatto che gli Arabi abbiano coniato una moneta di rame senza alcuna differenziazione di valore si spiega, come è stato dimostrato da Ph. Grierson, ricordando che, all'epoca in cui gli Arabi occuparono la Siria, era già scomparso il sistema delle denominazioni variabili con cui la moneta bizantina di rame era emessa. Gli Omayyadi adottarono il sistema che trovarono in uso nei territori conquistati e questa prassi si mantenne per tutta la durata del califfato. I pesi in vetro, denominati fals e fabbricati in Egitto durante tutto l'VIII secolo con un valore da 9 a 36 ḫarrūba, possono essere l'indice di una eccezione, ma l'esatto uso di questi pesi in vetro rimane un problema ancora irrisolto. Si usa classificare in tre grandi categorie le monete di rame anteriori alla riforma di Abd al-Malik: arabo-bizantine (particolarmente noto è il tipo cosiddetto del "califfo in piedi" che adotta stilemi bizantini con modifiche arabo-islamiche); arabo- sasanidi (molto rare); bizantino-pehlevi (esistono solo in rame e presentano una combinazione unica di elementi bizantini e sasanidi). Il fals puramente epigrafico della riforma apparve dopo la moneta aurea e argentea: il più antico fu coniato a Damasco nell'87 dell'egira (705/6 d.C.). L'effetto della riforma sulla moneta fu puramente epigrafico, senza alcun aspetto metrologico come nel caso dell'oro e dell'argento. Le monete di rame non erano uniformi né nel formato, né nel peso, né nelle leggende, ma portavano tutte una formula religiosa e a volte la menzione della zecca, la data e i nomi della o delle autorità che le avevano emesse. Diversamente dal sistema bizantino, l'emissione di monete di rame fu nel mondo islamico diversificata e decentralizzata. Nel periodo immediatamente precedente la conquista islamica si conosce l'esistenza di 12 laboratori nell'intero impero bizantino, di cui soltanto tre situati nell'area di Egitto, Siria e Africa del Nord. Durante il califfato omayyade se ne trovano ben 53, di cui 33 nelle antiche province bizantine, che divennero 83 sotto gli Abbasidi, essendo dislocati i nuovi principalmente nella parte orientale dell'impero. Di fatto le monete di rame erano una moneta fiduciaria, emessa per le necessità delle piccole transazioni commerciali e adoperata al pezzo e non a peso. La loro emissione era lasciata alla discrezione dei governatori e delle autorità locali, senza alcun controllo centrale. Di conseguenza, il fals variava considerevolmente in peso, in volume e, probabilmente, in valore da un distretto all'altro nello stesso periodo: per questo motivo la circolazione del fals, contrariamente a quella del dīnār e del dirhām, era limitata ai dintorni del suo luogo di emissione. Tale circostanza potrebbe spiegare perché nelle fonti scritte le piccole somme siano espresse molto raramente in fulūs, ma piuttosto in pesi minimi d'oro e d'argento. Somme come 1/144 o 1/288 di dīnār menzionate nei papiri arabi o la divisione del dirhām in qirāṭ, dāniq o ḥabba non hanno corrispondenti in monete d'oro o d'argento, sono piuttosto delle monete di conto, stabili rispetto al valore sempre fluttuante e diverso del fals, il solo modo per esprimere piccole somme di denaro. La simultanea circolazione di monete d'oro, d'argento e di rame implica l'esistenza fra loro di un tasso di cambio fisso e noto. Mentre abbiamo riferimenti al rapporto stabilito fra dīnār e dirhām e sulle sue variazioni, sul rapporto fra queste monete e il fals abbiamo informazioni piuttosto scarse desumibili da aneddoti e da discussioni giuridiche su problemi di cambio di dirhām e fals e viceversa. Le diverse fonti indicano un rapporto variabile tra 24 e 48 fulūs per 1 dirhām. Nella prima parte del IX secolo la coniazione delle monete di rame cessò improvvisamente in tutto il mondo islamico, e questa mancanza di monete di rame durò per alcuni secoli. L'assenza nelle nostre collezioni di fulūs di questo periodo trova conferma nei risultati degli scavi archeologici condotti in siti islamici importanti come Rayy, Istakhr (Persepoli) e Antiochia: fra il gran numero di monete di rame rinvenute, solo una è posteriore all'822. Unica eccezione a questo fenomeno generale è l'esistenza di laboratori di conio in Transoxiana e, di conseguenza, la serie continua di monete di rame per il IX e X secolo rinvenuta a Bukhara e Samarcanda. L'assenza di monete di rame in Europa occidentale durante quasi tutto il Medioevo è stata attribuita alla natura stessa del sistema feudale, che era autosufficiente, e al volume quasi trascurabile del piccolo commercio, ma questa spiegazione è inaccettabile per il mondo musulmano del IX e X secolo. Alcuni studiosi ritengono che questo fenomeno potrebbe essere messo in relazione con la tendenza inflazionistica creata dall'enorme accrescimento della produzione d'oro e d'argento verificatosi all'epoca e che rese la fabbricazione di monete di rame più onerosa e meno necessaria.
S. Lane-Pole, Catalogue of the Collection of Arabic Coins Preserved in the Khedivial Library at Cairo, London 1897; U.S.L. Welin, s.v. Arabisk mynt, in Kulturhistorisk Leksikon for nordisk middelalder, I-III, København 1958; Ph. Grierson, Monete bizantine in Italia dal VII all'VIII secolo, in Moneta e scambio nell'Alto Medioevo. Atti VIII Settimana CISAM (Spoleto, 21-27 aprile 1960), Spoleto 1961 p. 35 ss.; S.D. Goitein, A Mediterranean Society: the Jewish Communities of the Arab World as Portrayed in the Documents of the Cairo Geniza, Berkeley 1967; G.C. Miles, s.v. Dīnār, in EIslam², II, 1977, pp. 305-307; Id., s.v. Dirhām, ibid., pp. 328-29; A.L. Udovitch, s.v Fals, ibid., pp. 786-88; C. Cahen, The Islamic Middle East 700-1900: Studies in Economic and Social History, Princeton 1981; N. Lowick, Islamic Coins and Trade in the Medieval World, Aldershot 1990; Kh. Ben Romdhane, Le métier de monétaire d'après les sources arabes, in Mélanges offerts à M. Talbi, Tunis 1993; R.E. Darley-Doran, s.v. Sikka, in EIslam², IX (1998), pp. 614-22. I materiali per uno studio approfondito si trovano nelle opere che trattano specificamente di una dinastia o di una regione del mondo islamico e nei cataloghi delle diverse collezioni, particolarmente di quelle del British Museum (S. Lane-Poole, J. Walker), di Berlino (H. Nützel), di Parigi (H. Lavoix), di Istanbul (Ismail Ghalib) e di San Pietroburgo (W. Tiesenhausen).
di Fabrizio Sinisi
Con la conquista della Lidia nel 547 a.C. e la sua inclusione nel nascente impero persiano, l'Iran viene per la prima volta in contatto con il fenomeno della monetazione. Dal 540-530 a.C. in poi i Persiani si avvalsero infatti della zecca di Sardi per la coniazione delle creseidi, monete in oro e argento che riprendevano le precedenti serie lidie in elettro. Fino ad allora come mezzo di pagamento erano state in uso quantità di argento pesato, talvolta preparato in forme come barre, anelli o pani, o anche ricavato tagliandolo da oggetti preziosi come gioielli o piatti (Bivar 1982). La prima monetazione propriamente iranica compare, all'inizio del V sec. a.C., sotto il regno dell'achemenide Dario I (522-486 a.C.). Già intorno al 510 a.C., al momento della ripresa della produzione monetaria dopo un'interruzione durata alcuni anni, la coniazione delle creseidi aveva subito un significativo mutamento quando delle due unità ponderali fin lì impiegate, statere pesante da 10,9 g e leggero da 8,2 g, per le monete d'oro venne mantenuta in uso soltanto l'unità leggera (Carradice 1987). Nei primi anni del V sec. a.C. vengono poi introdotti i nuovi sicli argentei e darici aurei, rispettivamente pesanti 5,6 g e 8,5 g circa, caratterizzati significativamente dall'immagine del sovrano achemenide con l'arco tra le mani. La creazione di una monetazione persiana si inserisce nel quadro di una riforma, che le fonti greche attribuiscono proprio a Dario, dell'intero sistema tributario dell'impero, con la quale alla tagè degli autori greci, ovvero i pagamenti in natura raccolti negli appannaggi reali (Descat 1989), veniva aggiunto il phoros, un tributo annuo sulle terre non direttamente possedute dal re, da pagare in metallo prezioso. La monetizzazione degli scambi rimase comunque un fenomeno fondamentalmente limitato alle aree occidentali dell'impero in contatto con il mondo greco e sostanzialmente indipendente dal dominio persiano. Nelle tavolette cuneiformi delle fortificazioni di Persepoli sono registrati pagamenti delle maestranze ancora in natura. Il siclo stesso circolava soprattutto in Asia Minore, mentre nelle altre zone dell'impero non era più diffuso delle monete greche o egee, e non è un caso che la sua coniazione diminuisse sensibilmente con l'avanzare del IV sec. a.C., quando in quell'area si affermò la cosiddetta monetazione "satrapale" (Carradice 1987). Anche questa, tradizionalmente attribuita ai satrapi che governarono in Asia Minore tra il 380 e il 334 a.C., in realtà non è altro che la continuazione delle emissioni civiche locali, pure sotto l'autorità dei satrapi che rappresentavano il Gran Re, ma che non erano direttamente responsabili della produzione monetaria (Mildenberg 2000). Con ogni probabilità le emissioni di grandi quantità di monete sono quindi da mettere in relazione con necessità particolari da parte dell'impero, soprattutto quelle di pagamento di truppe mercenarie nelle numerose campagne succedutesi dalla rivolta ionica in poi (Carradice 1987). Nel mondo achemenide la monetizzazione del sistema economico rimane così parziale, se non secondaria, e comunque ben lungi dall'eliminare altre forme di transazione. Si assiste all'opposto alla convivenza di più piani dello scambio: da una parte il doppio binario del sistema tributario, affiancato da un ambito di circolazione dei beni come quello dei doni, che ha una valenza meno "economica" e che investe invece la sfera dei rapporti sociali; dall'altra, la permanenza dello scambio mediante metallo pesato e dei pagamenti in natura in alcune aree e la parallela affermazione della monetizzazione in quelle più inserite nel circuito internazionale. Questa sovrapposizione tra i vari livelli in realtà non è sconosciuta neanche in età ellenistica, tanto che si è sottolineato come per molti versi siano i tratti di continuità tra il periodo achemenide e quello seguente a dover essere messi in evidenza, proprio alla luce di quegli innegabili cambiamenti che, se certo intervengono con la conquista macedone, non devono però portare a sottovalutare la dinamicità del sistema achemenide (Briant 1982). L'aspetto più evidente della fase successiva è l'affermazione prepotente della moneta nel quadro degli scambi economici. Il bottino di guerra fatto da Alessandro all'indomani della vittoria includeva enormi quantità di metallo prezioso, che in parte vennero subito convertite in moneta per il pagamento dell'esercito. Una volta avviato, il flusso della coniazione andò aumentando e con esso il numero delle zecche. Gli alessandri, tetradrammi con al dritto la testa di Eracle con la pelle di leone e al rovescio Zeus assiso su trono e la leggenda BASILEOS ALEXANDROY, invasero il mondo ellenistico sostituendo le civette ateniesi, grazie alle quali lo standard attico da 4,3 g per una dracma si era affermato nel Mediterraneo orientale come monetazione internazionale. Dal tormentato periodo delle lotte tra i successori di Alessandro uscì un nuovo assetto che vide la parte orientale dell'impero unita sotto Seleuco I (312-281 a.C.). Come quasi tutti gli altri diadochi, in una prima fase questi continuò semplicemente le serie di Alessandro, sia in oro sia in argento, mentre i bronzi mostrano fin dal principio notevole originalità tipologica. Le prime innovazioni sulla monetazione argentea sono del 306 a.C., quando nella leggenda il nome di Alessandro viene sostituito da quello di Seleuco, ma già nel 301 a.C. coinvolgono anche la tipologia, con l'emissione da parte delle zecche orientali di monete con immagini ispirate ai successi militari del sovrano. Si tratta di serie diverse di tetradrammi, dracme e frazioni, tutte però basate non sullo standard attico ma su quello locale persiano. Questa convivenza tra lo standard attico e quello locale riflette bene le condizioni interne dello Stato che Seleuco andava costruendo, in cui erano comprese realtà anche economicamente differenti, ereditate dal periodo precedente. Nelle zone orientali, meno integrate nella rete che univa il mondo greco e quello del Mediterraneo orientale, l'oggettivo aumento del volume degli scambi (tra regno seleucide e l'esterno e tra zone esterne attraverso il regno seleucide stesso) e la conseguente accelerazione della loro monetizzazione dovettero infatti essere coniugate con le situazioni specifiche delle economie locali (Golenko 1994). L'emissione di moneta basata sullo standard persiano mirava al consolidamento e alla definitiva monetizzazione di un mercato regionale che solo in un secondo tempo sarebbe stato inserito nel più vasto circuito internazionale. Quest'ultimo era dominato dallo standard attico, che di certo i Seleucidi non erano in grado di modificare unilateralmente senza gravi conseguenze finanziarie, ma che proprio per queste sue connessioni non sarebbe stato sostenibile in zone dove la circolazione monetaria era sempre stata limitata. Per comprendere l'importanza dei traffici commerciali e della loro integrazione per i Seleucidi, vanno tenute presenti le implicazioni profonde della politica economica che essi conducevano. La conquista macedone era stata essenzialmente militare, con una sovrapposizione (specialmente nell'Est, futuro nucleo dello Stato seleucide) solo superficiale dei nuovi dominatori al tessuto preesistente. La politica delle colonie e degli insediamenti ricopriva così ruoli molteplici, di presidio militare ma anche, e soprattutto, di radicamento sul territorio, e questo era possibile solo in un ambito urbano che non interferisse troppo negli equilibri della struttura sociale locale, a forte connotazione rurale. A quel punto l'economia mercantile (con la monetizzazione ad essa collegata) diveniva, oltre ad una fonte di ricchezza per lo Stato che si affiancava a quella tradizionale della produzione agricola, l'unico mezzo realmente in grado di garantire la base di consenso alla dinastia: le condizioni materiali da essa create fungevano cioè allo stesso tempo da fattore principale di consolidamento della presenza greca nel regno e della sua posizione privilegiata all'interno della struttura sociale. La misura del successo di questa politica si coglie da una parte nel livello sempre crescente dello sviluppo degli scambi, dall'altra nella capacità di iniziativa autonoma che le poleis mostrarono ripetutamente (e, significativamente, in particolare sotto i Parti) nei rapporti con il potere centrale. Da un punto di vista monetario, il regno del figlio e successore di Seleuco, Antioco I (281-261 a.C.), vide finalmente il ritratto del sovrano rimpiazzare quello di Alessandro sul dritto delle sue monete, come da tempo era avvenuto in Egitto e in Macedonia. Con la comparsa sul rovescio di Apollo, soggetto poi ripreso da molti dei sovrani successivi, si avvia l'uso di raffigurare il sovrano al dritto e un soggetto religioso, di norma una divinità, al rovescio. Questa convenzione conoscerà larga fortuna e sarà alla base degli sviluppi ulteriori delle monetazioni tanto in Iran quanto in India, soprattutto dopo la secessione delle due satrapie orientali di Battriana e Partia alla metà del III sec. a.C. Nell'impostazione della loro monetazione i Greco-battriani rimasero infatti fedeli ai canoni seleucidi: vennero mantenuti lo standard attico, che nel frattempo si era leggermente abbassato di peso (lo statere aureo era passato da 8,6 g a 8,4 g e il tetradramma e la dracma rispettivamente da 17,2 g e 4,3 g a 16,8 g e 4,2 g) e il rapporto oro-argento, anche se la coniazione aurea era limitata ad occasioni isolate, con la formula della rappresentazione del sovrano al dritto e di una divinità al rovescio. Questo uso, che manifestava i legami divini della dinastia, nel caso greco-battriano (data la turbolenta storia di lotte intestine) si tradusse in un continuo avvicendamento di soggetti: come i Diodoti rappresentarono Zeus, gli Eutidemidi scelsero Eracle, mentre Eucratide favorì i Dioscuri, pur tuttavia con numerose varianti. Sulla sola monetazione argentea si trovano così Zeus, Atena, Apollo, Artemide, Eracle, Dioniso, Posidone, Helios e i Dioscuri, mentre i bronzi sono ancora più diversificati, con una doppia immagine religiosa, spesso in forma simbolica o teriomorfica, su dritto e rovescio. L'esito negativo della campagna orientale di Antioco III alla fine del III sec. a.C. significò per i Seleucidi la definitiva rinuncia al dominio diretto sulla Battriana e per i Greco-battriani una chiusura a occidente che canalizzò la loro espansione verso l'India, dove la penetrazione greca si affermò dalla prima metà del II sec. a.C., favorita dalla disgregazione dell'impero Maurya. D'altro canto la pressione dei nomadi da nord aumentava e già aveva strappato l'area settentrionale della Sogdiana al controllo greco. Quando tra il 140 e il 130 a.C. il regno greco-battriano scomparve sotto i colpi di tribù Saka e Yuezhi, il Nord-Ovest dell'India rimase l'ultimo ridotto della presenza greca in Oriente. Negli stessi anni, più ad occidente si afferma la potenza partica. Il tesoro di Bujnurd, nell'Iran nord-orientale, ha restituito le dracme dei primi sovrani (Abgarians - Sellwood 1971). Quelle attribuibili all'iniziatore della dinastia, Arsace I (238- 211 a.C.), mostrano al dritto la testa del sovrano con il bašlik, il tipico berretto iranico, e al rovescio una figura assisa con lo stesso copricapo e un arco tra le mani e la leggenda ARSAKOY AYTOKRATOROS. All'aspetto nettamente differente dalle immagini delle monete seleucidi, in un secondo tempo si aggiungono anche l'inversione della direzione nella quale guarda il busto reale, che rimarrà poi volto a sinistra fino alla fine della dinastia, e la sostituzione del greco AYTOKRATOS con l'equivalente aramaico karen. A quale retaggio volesse ricollegarsi Arsace è evidente quando si consideri che la testa con bašlik richiama fortemente le immagini dei dritti della monetazione satrapale, che l'aramaico era la lingua franca usata dagli Iranici per la comunicazione scritta dai tempi dell'impero persiano e che il titolo di karen, così come la figura stessa dell'arciere, ha antecedenti achemenidi (Brindley 1972). La campagna orientale di Antioco III costrinse il nuovo re Arsace II (211-191 a.C.) a riconoscere la supremazia seleucide e ad interrompere la coniazione. Essa riprese solo sotto Mitridate I (171-138 a.C.), il quale, approfittando della crisi della Siria seguita alla sconfitta di Magnesia contro i Romani nel 189 a.C., diede avvio al periodo di maggiore espansione della storia partica. Le dracme di Mitridate riprendono dapprima lo schema di Arsace I e II, anche se l'arciere ora siede su un omphalos e la leggenda è ARSAKOY BASILEOS; in seguito il ritratto del dritto assume un aspetto ellenizzante, con il sovrano barbato e a capo scoperto cinto da un diadema. Con lo stesso dritto compaiono i primi bronzi, anche in questo caso con rovesci più vari delle serie in argento. Il progressivo aumentare della titolatura riflette le vittorie ulteriori di Mitridate, che diviene Gran Re e Re dei Re quando, verso la fine del suo regno, porta a termine la conquista dell'Elimaide e della Mesopotamia. Con quest'ultima egli si impadronì anche della polis di Seleucia sul Tigri, che da quel momento divenne luogo quasi esclusivo dell'emissione dei nuovi tetradrammi arsacidi. Con le campagne di Mitridate la Partia aveva assunto il ruolo di potenza internazionale e gli Arsacidi si erano impossessati, ai danni dei Seleucidi, della zona più ricca nella rete commerciale del Vicino Oriente, assicurandosi una posizione centrale negli scambi tra il Mediterraneo e l'Oriente. La portata dei successi partici fu chiara da subito, tanto ai vincitori quanto agli sconfitti: i Seleucidi, il cui potere si assottigliava costantemente con il diminuire della loro presenza sulle vie commerciali, cercarono invano, con Demetrio III nel 140 e con Antioco VII nel 130-129 a.C., di riconquistare il terreno perduto. I Greci di Mesopotamia appena assoggettati compresero che con il loro ruolo politico, ora non più fondamentale, di pari passo sarebbe venuto meno anche quello economico, unica vera garanzia di sopravvivenza in uno Stato impegnato attivamente contro ciò che rimaneva del regno greco di Siria, e non esitarono a ribellarsi, sostenendo prima i tentativi seleucidi di riconquista e poi le campagne di Roma. D'altra parte i sovrani partici erano consapevoli sia della fondamentale ostilità delle comunità greche sia dell'importanza che esse rivestivano nell'economia della regione. Della duplice politica che ne risultò, l'appellativo di "filelleni" che compare sulle monete da Mitridate I in poi mostra in realtà l'aspetto più superficiale, mentre ben più concreto fu il costante sforzo intrapreso dai sovrani arsacidi per ridimensionare il ruolo, allo stesso tempo economico e politico, dei loro soggetti greci. Ciò si tradusse, anche se non mancarono occasioni di brutale eliminazione fisica delle comunità greche, soprattutto nella creazione di condizioni che favorissero l'affermazione di un ceto mercantile non più greco ma locale, in particolare semitico. In questo modo i Parti risolvevano il loro problema interno riproponendolo, date le connessioni della rete commerciale attraverso tutto il Vicino Oriente, in termini esattamente opposti al nemico romano, come mostra eloquentemente il ruolo giocato dalle comunità ebraiche in episodi come la campagna partica di Traiano (Neusner 1963). Ovviamente l'apporto di questo elemento orientale non tardò a farsi sentire nell'evoluzione del tessuto economico di tutta l'area: lungo le vie commerciali di terra si affermò il ruolo egemone di Palmira e ricevettero impulso decisivo gli scambi sulla Via della Seta, mentre le nuove rotte marittime tra Mediterraneo e Oriente costituirono la fortuna di entità locali come Caracene e Elimaide, che presto si dotarono di monetazioni proprie. In questo caso, in realtà, considerazioni di ordine politico si sovrappongono a quelle economiche, tanto più che del fenomeno delle monetazioni subarsacidi partecipa anche il Fars, dove i dinasti locali, i Frataraka, già da tempo battevano moneta indipendentemente. Se i commerci a lungo raggio continuavano a basarsi nella sostanza sullo scambio di merci, la diffusione della moneta in Iran era comunque sviluppata al punto da non venire in alcun modo compromessa dalle frequenti crisi politiche, interne ed esterne, dello Stato partico (Sellwood 1980²). La stessa dracma, perno del sistema monetario arsacide, mantenne fondamentalmente costanti le sue caratteristiche di peso e qualità lungo tutto l'arco della dinastia, tanto da rimanere il nominale di riferimento anche nella successiva epoca sasanide; d'altro canto la monetizzazione non era limitata all'ambito commerciale e la tassazione sulla terra, ad esempio, veniva oramai riscossa in denaro oltreché in natura, mentre quella capitale in Mesopotamia era probabilmente calcolata in termini monetari (Lukonin 1983). Questo sistema fu ereditato dai Sasanidi in una complessiva condizione di crisi. Alla fine del II sec. d.C. gli effetti del processo di disgregazione della Cina Han sul commercio della seta, fondamentale per la Partia (Lukonin 1983), erano andati ad aggiungersi ad una situazione di prolungata debolezza politica degli Arsacidi, concorrendo alla creazione di una situazione che di lì a poco spianerà la strada alla ribellione e alla vittoria di Ardashir I (224-241 d.C.). Questi si dedicò ad una non più procrastinabile riorganizzazione dell'impero impostata su un grande sforzo di centralizzazione a tutti i livelli. Restaurazione dell'autorità centrale ed espansione si accompagnarono nei fatti ad una nuova concezione del ruolo statale nell'economia, che prevedeva l'eliminazione di possibili concorrenti al primato dello Stato: il "rinato" impero iranico non poteva permettere l'esistenza al suo interno di entità autonome, economicamente e quindi in qualche modo anche politicamente, dal potere centrale. Anche la monetazione fu rifondata, basandosi sulla dracma da 4 g circa ereditata dagli Arsacidi. Ai bronzi partici, rimasti in quantità sui mercati interni, vennero aggiunti nuovi nominali, in un sistema di cui però sono ancora da definire le caratteristiche, mentre i degradati tetradrammi scomparvero entro la fine del III secolo. A fianco della monetazione argentea, che svolgeva il ruolo principale, fin da Ardashir I ne compare una aurea, sconosciuta in età partica, che aveva però carattere intermittente; che le motivazioni per questa irregolare monetazione aurea fossero soprattutto propagandistiche sembra essere indicato indirettamente dal fatto che, metrologicamente, essa si ispirasse alla coniazione aurea romana, seguendone in qualche modo perfino l'evoluzione. Le novità più appariscenti riguardano comunque la tipologia. Lo schema busto regale al dritto e soggetto religioso al rovescio si mantiene, ma nel primo viene introdotto un nuovo elemento di caratterizzazione nella corona portata dal re, che differirà da sovrano a sovrano, mentre nel secondo si afferma l'immagine dell'altare del fuoco zoroastriano, a simboleggiare inequivocabilmente il ruolo della tradizione religiosa e culturale nazionale nella costruzione del nuovo Stato iranico. Saltuariamente, specialmente in occasione di festività, il rovescio è occupato da raffigurazioni di divinità, come invece è normale nella monetazione del Kushanshahr, ovvero la Battriana ex-Kushana conquistata dai Sasanidi, unico caso di ampia autonomia locale nella compagine statale sasanide. A dispetto del declino dei vecchi centri della regione siro-mesopotamica, i traffici internazionali continuarono a prosperare, tanto più che, grazie alle conquiste, i Sasanidi a lungo controllarono direttamente la parte occidentale dell'Asia Centrale. Similmente, lo Stato venne coinvolto maggiormente nel fruttuoso commercio via mare con l'Oriente, come mostra l'interesse sasanide per aree decentrate come lo Yemen. Anche i mercati e gli scambi interni, spesso in qualche modo collegati con la rete internazionale, erano assai sviluppati ed è significativo che con le riforme di Khusraw I (509-531 d.C.) la tassazione, pure in alcuni casi pagata sia in denaro sia in natura, venisse calcolata sempre su base monetaria (Lukonin 1983; Göbl 1983). Nonostante la monetazione sasanide sia abbondantissima, come in effetti quella arsacide prima di essa, anche in questo caso rimane difficile ricostruire lo schema e il ritmo della produzione monetaria. L'altissimo e variabile numero delle sigle delle zecche, che pure nel suo nucleo più o meno corrisponde a quello delle zecche di epoca partica, sembra indicare che esigenze finanziarie particolari come minimo contribuissero all'andamento della coniazione; fra queste, al primo posto si colloca il finanziamento dell'esercito, come, ad esempio, sotto Shapur II (309-379 d.C.), quando il pagamento delle truppe, regolarmente effettuato in moneta, dovette certamente richiedere un incremento della coniazione (Göbl 1983). Quanto le spese di guerra incidessero direttamente o indirettamente sull'economia sasanide è mostrato chiaramente dalle conseguenze delle campagne contro gli Eftaliti nel V secolo: il disastro subito da Peroz (459-484 d.C.) comportò il pagamento di tributi esorbitanti, che misero quasi in ginocchio l'Iran, ripresosi in definitiva solo con Khusraw I (che pure dovette procedere ad una riforma generale dell'intero apparato statale), dopo un lungo periodo di disordine sociale. Proprio in seguito alla conquista della Battriana e alle vittorie sui Sasanidi gli Eftaliti diedero avvio ad una loro coniazione, che all'inizio riprese fedelmente quella sasanide, discostandosene con il tempo fino alla fine del regno, intorno al 560 d.C., sotto i colpi congiunti di Sasanidi e Turchi. Quando alla metà del VI secolo gli Arabi investono l'Iran trovano un Paese economicamente dissanguato e virtualmente dissestato da decenni di guerra contro Bisanzio, che dopo vari rovesci ha riportato la situazione in suo favore. La dinastia non si riprenderà più dalle decisive sconfitte e l'ultimo sovrano morirà durante la fuga verso oriente. La monetazione gli sopravviverà ancora un poco fino alle riforme della fine del VII secolo, con cui sparirà anche la vecchia dracma di derivazione ellenistica.
J. Neusner, Parthian Political Ideology, in IranAnt, 3 (1963), pp. 40- 59; N. T. Abgarians - D.G. Sellwood, A Hoard of the Early Parthian Drachms, in NumChron, 11 (1971), pp. 103-18; D.G. Sellwood, An Introduction to the Coinage of Parthia, London 1971 (1980²); J.C. Brindley, recensione a D.G. Sellwood, An Introduction to the Coinage of Parthia, in NumChron, 12 (1972), pp. 319-21; A.D.H. Bivar, Bent Bars and Straight Bars: an Appendix to the Mir Zakah Hoard, in StIranica, 11 (1982), pp. 49-60; P. Briant, Des Achéménides aux rois hellénistiques: continuités et ruptures. Bilan et propositions, in P. Briant (ed.), Rois, tributs et paysans, Paris 1982, pp. 291-330; R. Göbl, Sasanian Coins, in E. Yarshater (ed.), The Cambridge History of Iran, III. The Seleucid, Parthian and Sasanian Period, Cambridge 1983, pp. 322-39; V. Lukonin, Political, Social and Administrative Institutions. Taxes and Trade, ibid., pp. 681-746; I. Carradice, The "Regal" Coinage of the Persian Empire, in I. Carradice (ed.), Coinage and Administration in the Athenian and Persian Empires. The Ninth Oxford Symposium on Coinage and Monetary History, Oxford 1987, pp. 73-108; R. Descat, Notes sur la politique tributaire de Darius Ier, in P. Briant - C. Herrenschmidt (edd.), Le tribut dans l'empire perse, Paris 1989, pp. 77-93; V.K. Golenko, Notes on the Coinage and Currency of the Early Seleucid State, in Mesopotamia, 29 (1994), pp. 71-161; L. Mildenberg, On the so-called Satrapal "Coinage", in O. Casabonne (ed.), Mécanismes et innovations monétaires dans l'Anatolie Achéménide. Numismatique et Histoire, Paris 2000, pp. 9-20.
di Fabrizio Sinisi
Fino alla comparsa della prima forma di monetazione, quella delle cosiddette "monete punzonate" (punch-marked coins), il mezzo di pagamento più diffuso nell'India pre-Maurya era costituito da quantità di metallo pesato, alle quali, da un certo momento in poi, venne data la forma di barre ricurve. Date alcune affinità metrologiche non è improbabile che queste barre ricurve siano state ispirate dalle barre metalliche in uso nell'impero persiano (Bivar 1982), in special modo nelle sue zone orientali, di cui il Nord-Ovest indiano faceva parte dalla fine del VI sec. a.C. Tra gli ultimi anni del V e l'inizio del IV sec. a.C., nella stessa area vengono coniate le prime monete punzonate in argento, che di lì si diffondono nella valle del Gange. È il periodo dei janapada e dell'egemonia del Magadha, che porterà alla formazione del regno Maurya (fine IV - inizi II sec. a.C.). A questo primo gruppo di monete punzonate, a circolazione prettamente locale, con i Maurya ne succede un secondo a diffusione molto più larga, "nazionale", nel quale all'argento, coniato, si affianca in modo stabile anche il rame, di norma fuso, apparso solo sporadicamente in precedenza. Nel caso dell'argento sembra si possa parlare di due nominali, unità e sedicesimo, basati su uno standard da 3,4 g. Il dritto presenta impressi cinque simboli radiali, mentre il rovescio, inizialmente piano, con il tempo viene occupato da piccoli marchi accessori. I tipi della monetazione di rame sono più variati e già mostrano immagini stilizzate (Allchin 1995). Un impatto enorme e decisivo fu quello della monetazione greca quando, nella prima metà del II sec. a.C., i Grecobattriani iniziarono la loro penetrazione a sud dell'Hindukush. Essi portarono con sé l'uso, ereditato dai Seleucidi, di raffigurare al dritto il sovrano e al rovescio un soggetto religioso, in genere una divinità, assieme alla leggenda in greco. Una volta stabilizzate le conquiste, i Greci procedettero ad un'integrazione della loro monetazione con quella locale di derivazione Maurya. Se l'aspetto esteriore della moneta rimase inalterato, lo standard attico fu adattato sensibilmente per rendere compatibili le due regioni di circolazione, a nord e a sud dell'Hindukush. Nella monetazione di Apollodoto I si può così seguire l'assunzione dell'emidrammo attico come base per la coniazione di una nuova moneta greca, la dracma di standard "indiano" da 2,4 g, che si rifaceva a quello da 3,4 g, ma con una percentuale di argento del 98% invece che del 70% circa (MacDowall 1987). Anche le leggende subirono mutamenti, divenendo bilingui, con la versione greca al dritto e quella indiana, in pracrito scritto in kharoṣṭhī, al rovescio. I tipi monetali rimasero quelli greci, ai quali successivamente vennero aggiunte nuove immagini di origine locale, anche se da principio solo sporadicamente: una moneta argentea di Agatocle (190-180 a.C. ca.), ad esempio, riproduce divinità di ambito brahmanico su entrambe le facce. Dal canto suo, la monetazione in rame già con Pantaleone (190-185 a.C. ca.) si mostra in una fase di sintesi più avanzata con le formule locali, all'interno di un processo più generale che si accentua ancor di più con il crollo della Battriana, che di fatto restrinse gli orizzonti dei principi greci alle sole regioni a sud dell'Hindukush. Nella stessa Battriana i nuovi conquistatori Yuezhi continuarono per lungo tempo la monetazione greca con estese serie di imitazioni degli ultimi sovrani greco-battriani. Sul Nord-Ovest indiano l'egemonia straniera continuò anche con i successori dei Greci. Proprio le monete per prime documentano il regno del capo Saka Maues e poco più tardi, con ogni probabilità dal 58-57 a.C., dei sovrani della dinastia Saka di Azes. Questi continuarono le serie indo-greche sia in argento sia in rame, anche se con diverse novità: al dritto il busto del sovrano fu rimpiazzato dalla sua figura intera in armatura e a cavallo, mentre al rovescio, a fianco dei tipi usati dagli Indo-greci, ne vennero introdotti di nuovi, generalmente ispirati ad ambiti religiosi diversi da quello greco. Il dato è particolarmente interessante perché, se alcune delle rappresentazioni sembrano rifarsi a canoni iconografici in qualche modo già consolidati, in altri casi si assiste alla prima raffigurazione antropomorfica, spesso proprio per mezzo di iconografie greche, di divinità mai rappresentate in precedenza. Con la fase finale del regno di Azes II, negli anni Venti del I sec. d.C., la monetazione argentea, che nonostante una progressiva degenerazione aveva conservato una discreta quantità di metallo nobile, subì una crisi che ne ridusse drasticamente il contenuto di argento, tramutandola in una monetazione in billone, con l'effetto ulteriore di eliminare l'originaria monetazione in rame. È facilmente comprensibile come in questa fase la frammentazione politica nell'intera regione nord-occidentale non incidesse positivamente sugli scambi. La situazione cambiò poco con gli Indo-parti, una dinastia partica proveniente dall'area sistanica, che agli inizi della nostra era aveva cominciato ad espandersi verso est. La loro monetazione, oramai completamente in rame nonostante il mantenimento dei nominali dell'argento, riprese senza grossi mutamenti quella delle diverse zone conquistate e rimase così strutturata sulle serie di standard indiano circolanti nelle varie regioni. La tipologia monetale vide alcuni cambiamenti soprattutto al dritto, dove, in linea con la più pura tradizione partica, venne introdotto il tema dell'investitura divina del sovrano. Nel frattempo, intorno al 70 a.C., gli Yuezhi avevano varcato l'Hindukush ed eliminato l'indo-greco Ermeo, dando poi inizio a varie serie di imitazioni in rame della sua monetazione. Da queste, circa un secolo dopo, emersero i tetradrammi di Kujula Kadphises con Eracle sul rovescio (Bopearachchi 1997). Kujula unificò i due versanti dell'Hindukush e con essi le tribù Yuezhi nell'impero dei Kushana, ma lasciò la centralizzazione monetaria al successore Vima Taktu, fino a tempi recenti conosciuto solo con il titolo di Soter Megas. Già le monete di Kujula mostrano i mutamenti in corso nella situazione degli scambi internazionali tra il Mediterraneo e l'Oriente: su alcune di esse infatti compare una testa di imperatore romano, segno evidente dell'apprezzamento della monetazione romana in India. Le monete romane vi affluivano in abbondanza, soprattutto dopo che la scoperta del regime dei monsoni aveva permesso un maggiore sfruttamento delle rotte marittime attraverso l'Oceano Indiano, rendendo possibile un incremento enorme dei commerci. I Romani importavano generi di lusso, materie prime e spezie in cambio di metallo prezioso; aurei e denarii infatti venivano valutati non in quanto tali, ma per la loro oggettiva quantità di metallo, con una spiccata preferenza per quelli precedenti la riforma monetaria neroniana. Questi scambi riguardavano in primo luogo le coste del Deccan, come attestato da opere come il Periplo del Mare Eritreo, ma non mancavano di coinvolgere largamente anche il Nord. I Kushana infatti erano riusciti a creare una vasta unità economica che andava dalla Battriana fino all'India centro-settentrionale, con possibilità di intervento sia sulla Via della Seta che attraversava l'Asia Centrale sia, grazie alla loro egemonia politica oltre che alla presenza diretta, sui terminali indiani del commercio con l'Occidente. D'altro canto si comprende facilmente la capacità d'attrazione dell'"area Kushana", quando si tenga presente che in quel periodo nessun altro Stato medio-orientale, e tanto meno indiano, si dotò di una monetazione aurea. L'unificazione monetaria operata da Vima Taktu sulla base di un tetradramma in rame da 8,3 g aveva infatti aperto la strada all'avvio, da parte del successore Vima II Kadphises, della coniazione del dīnāra aureo da 8 g circa e delle sue frazioni, che andarono ad affiancare la monetazione in rame in un nuovo sistema bimetallico. Dato importante sugli scambi e sui loro percorsi è che l'oro Kushana venne ricavato proprio dalla fusione degli aurei romani giunti in India con i commerci. Sotto l'aspetto tipologico Vima Taktu aveva scelto per la sua monetazione generale al dritto un busto radiato, probabilmente divino (Mithra?), e al rovescio un cavaliere. Vima II introdusse nuove rappresentazioni del sovrano, come quella a figura intera che poi dominerà i dritti fino alla fine della dinastia. Con Kanishka, nel II sec. d.C., si produce la grande rivoluzione della monetazione Kushana. I rovesci vengono ora occupati dalle immagini di varie divinità per la prima volta identificate dal nome, prima in greco, poi in battriano, che di lì in poi rimane l'unica lingua delle leggende monetarie. Il sistema dei rovesci, che continua sotto Huvishka per contrarsi con Vasudeva verso la fine del secolo, va probabilmente connesso con un sistema di produzione monetaria di derivazione romana, come indicherebbe anche il repertorio iconografico (Göbl 1960). Consolidatosi il sistema monetario con le emissioni auree, Huvishka poté procedere ad un drastico abbassamento della quantità di metallo nella monetazione in rame, rendendone il corso (garantito dall'oro) puramente fiduciario (MacDowall 1960). L'effetto vivificante dell'incremento del volume degli scambi coinvolse anche altre aree del Subcontinente. Già dal II-I sec. a.C., su stimolo soprattutto greco, una serie di entità politiche dell'India centro-settentrionale, come gli Yaudheya, i Malawa, gli Audumbara, i Kuninda e numerose altre, avevano conosciuto una fase di monetizzazione, in alcuni casi anche in argento oltre che in rame, prova di un livello sviluppato di scambi su scala non strettamente locale; se la metrologia talvolta subisce le influenze della monetazione greca, i tipi si rifanno ad un repertorio figurativo indigeno risalente alle serie delle monete punzonate, che del resto avevano continuato ad essere coniate su base locale in epoca post-Maurya, cioè Shunga e, occasionalmente, anche oltre. A questo stesso retaggio appartiene la monetazione, indiana sotto ogni punto di vista, dei Satavahana dell'Andhra, che appare dominata da una frammentazione certamente dovuta al carattere locale della coniazione, probabile riflesso della struttura scarsamente centralizzata del regno. Una serie di poli, intorno ai quali si concentravano gli scambi gestiti per mezzo di una monetazione "povera" in rame, piombo e leghe, in effetti inadatta a grandi transazioni, costituivano una rete che metteva in collegamento zone diverse all'interno di un impero assai vasto. Con buona probabilità la valuta di qualità necessaria per tale interscambio veniva fornita dall'argento della monetazione punzonata o da quello delle serie degli Kshatrapa, un ramo Saka stabilitosi sulle coste nord-occidentali del Deccan. Proprio alle monete degli Kshatrapa, delle quali si sono rinvenute grandi quantità ribattute dai re Satavahana, si deve l'ispirazione per le emissioni argentee del tardo periodo Satavahana dal secondo quarto del II sec. d.C. in poi. Più a nord, i Kushanshah, ovvero i governatori sasanidi delle regioni strappate intorno al 230 d.C. ai Kushana, danno vita ad una monetazione che fonde le due tradizioni Kushana e sasanide: il sistema sasanide delle corone viene così introdotto su monete, auree e bronzee, che per tipologia sostanzialmente perpetuano le emissioni Kushana. Questo schema verrà ripreso dai Kidariti, mentre la monetazione degli Eftaliti origina direttamente da quella sasanide. La successione delle ondate di invasione, dal IV secolo in poi, è poco chiara, così come la ricostruzione delle emissioni, complicata dall'irregolarità della coniazione. Con il tempo si può leggere comunque un graduale distacco dal modello iniziale sasanide, la cui ispirazione continua nondimeno ad essere visibile anche nelle fasi più tarde, quando, con l'espansione politica verso sud, vanno aumentando gli elementi indianizzanti. Ad ogni modo, in India gli eredi più fedeli della tradizione monetaria Kushana furono certamente i Gupta (dal 320 alla fine del VI sec. d.C.). La loro fu la prima dinastia indiana a coniare serie auree, che non a caso tradiscono l'evidente debito nei confronti della monetazione Kushana: lo standard è, almeno inizialmente, ancora quello dei dīnāra Kushana e gli stessi tipi monetali, ispirati a quelli Kushana al dritto, li riprendono fin nei dettagli al rovescio. Il carattere indiano di questa monetazione è comunque evidente e aumenta con il progredire della dinastia, quando il modello originario si perde quasi del tutto. Da Chandragupta II in poi si accentua la tendenza verso il ritorno ad un ambito ponderale indiano, testimonianza indiretta dell'autonomia dell'India centro-settentrionale e dello spostamento nella sua direzione dell'asse economico indiano, non più incentrato sui commerci con l'Occidente. La permanenza di variazioni ponderali nella monetazione argentea sembra il risultato dell'integrazione di zone di circolazione diverse, oltre che di un'organizzazione dell'economia interna a carattere ancora regionale in un impero come quello Gupta. Ciò comunque non impediva un intenso fiorire degli scambi con l'esterno, ad esempio con aree come il Sud-Est asiatico, e il consolidarsi della monetizzazione anche in ambiti non strettamente economici: un'iscrizione del 412 d.C. ci parla di una somma di denaro offerta da un ufficiale del regno come donazione pia (Bajpai 1991).
R. Göbl, Roman Patterns for Kushana Coins, in JNSI, 22 (1960), pp. 75-95; D.W. MacDowall, The Weight Standards of the Gold and Copper Coinages of the Kushana Dynasty, ibid., pp. 63-74; A.D.H. Bivar, Bent Bars and Straight Bars: an Appendix to the Mir Zakah Hoard, in StIranica, 11 (1982), pp. 49-60; D.W. MacDowall, Impact of Alexander the Great on the Coinages of Afghanistan and North-West India, in P.L. Gupta - A.M. Shastri (edd.), Numismatic Digest, 11 (1987), pp. 5-12; K.D. Bajpai, Trade and Coinage in Ancient Madhya Pradesh, in A.K. Jha (ed.), Coinage, Trade and Economy, Bombay 1991, pp. 145-53; F.R. Allchin, The Mauryan State and Empire, in F.R. Allchin (ed.), The Archaeology of Early Historic South Asia. The Emergence of Cities and States, Cambridge 1995, pp. 187-221; O. Bopearachchi, The Posthumous Coinage of Hermaios and the Conquest of Gandhara by the Kushans, in R. Allchin et al. (edd.), Gandharan Art in Context - East-West Exchanges at the Crossroads of Asia, New Delhi 1997, pp. 189-213.
Il fenomeno della monetazione in Cina, non diversamente da quanto esperito in altre civiltà, è strettamente connesso con aspetti tecnologici e sociali oltre che, evidentemente, economici. Dalle prime forme di premoneta, rappresentate dai cauri marini (Cypraea moneta e Cypraea annulus) di dimensione e peso diversi impiegati nelle forme di scambio, spesso all'interno di sistemi di ridistribuzione politico-rituale, e nei tributi, si assiste alla progressiva affermazione nel periodo Primavere e Autunni (770-476 a.C.), prima nel regno di Zhou (area meridionale dell'odierna Prov. di Henan) e poi nel ducato di Jin (Prov. di Shanxi), di forme metalliche conseguenti anche all'evoluzione tecnica della metallurgia. Tale tendenza sarà più avvertita nel corso dell'epoca Stati Combattenti (475-221 a.C.) con l'emissione da parte dei diversi Stati feudali delle monete in lega di rame fuse in stampi, ad esempio le cosiddette "monete a coltello" o "a vanga", o le monete circolari in rame/bronzo che recano un foro circolare o quadrato al centro, emesse prima dal regno di Zhou e poi dallo Stato di Qin; quest'ultimo tipo resterà sostanzialmente invariato fino al XX secolo. La monetazione estremo-orientale, e cinese in particolare, non può comunque essere disgiunta dal contesto della vita economico-politica dell'area, essendo intimamente legata all'interrelazione dei circuiti dei beni ed alle vie dei contatti. L'insieme delle forme assunte dalla monetazione estremoorientale, e le diverse relazioni tra valori di scambio e la relativa circolazione, peraltro possono essere meglio comprese in relazione alla rete ed ai sistemi stessi dello scambio. Lo stesso criterio si applica necessariamente anche ai sistemi premonetali in uso nel Sud-Est asiatico: questi infatti trovarono espressione nel complesso contesto delle forme di commercio dei beni per tutto il lungo periodo che copre il Neolitico, l'età del Bronzo e l'età del Ferro (ca. 2500 a.C. - ca. 300 d.C.). Tali aspetti sono più estesamente trattati nella precedente sezione di questo medesimo capitolo, a cui dunque si rimanda per una trattazione esauriente. *
Q.Z. Liu, Zhongguo gu qian pu [Raccolta di antiche monete cinesi], Beijing 1989; F. Thierry (ed.), Monnaies de Chine, Paris 1992; I. Iannaccone, s.v. Moneta - Cina, in EAA, II Suppl. 1971-1994, III, 1995, pp. 753-55.
di Samou Camara
Nei mercati dell'Africa occidentale il baratto dominava la maggior parte degli scambi regionali. Nel corso dell'VIII sec. d.C. il Ghana giocò il ruolo di intermediario tra il mondo musulmano e i Paesi dell'Africa occidentale che si approvvigionavano di sale. Ad Awdaghost per un miṯqāl si potevano ottenere almeno dieci montoni. I mercanti musulmani insediati a Kumbi Saleh o ad Awdaghost scambiavano, principalmente a Gao sul fiume Niger, oro contro sale. A sud del Ghana, il carico di sale di Taghaza d'Awlil era venduto a Walata a 8-10 miṯqāl e, nella città di Niani, a 20-30 e a volte a 40 miṯqāl. Il sale era venduto ad alto prezzo nelle regioni meridionali, dove esso veniva suddiviso in piccole parti che servivano da "gettoni" sui mercati stranieri e nelle aree interne del Paese. Un mucchietto di sale veniva scambiato per un mucchietto d'oro. Le noci di cola, raccolte nelle regioni forestali più a sud, servivano anch'esse da moneta presso i mercati dei villaggi. Barre di rame estratto a Takkeda erano vendute a Niani e nelle regioni di foresta in ragione del peso del miṯqāl d'oro. Le barre spesse erano vendute a un miṯqāl d'oro ogni 400, mentre quelle sottili a un miṯqāl ogni 600-700. Esse servivano da moneta anche per acquistare legno, carne, sorgo, burro e grano. Sotto l'impero del Mali (XIII sec. d.C.) l'economia di scambio divenne molto ricca grazie all'oro e dunque le monete che circolavano più frequentemente non erano d'oro, bensì conchiglie cauri, barre di rame o di sale. I cauri erano venduti a Melli (Niani, impero del Mali) e a Gugu (Gao, capitale del Songhay) in ragione di 1150 per un dinaro d'oro. Gli abitanti di Bangala scambiavano i cauri anche per ottenere riso. Sulle coste della Guinea, nella regione occupata dalle popolazioni Tyapi, Dialonké, Landuma, Susu e Temne, si producevano oggetti di ferro (frecce, zagaglie, arponi, asce e daghe) e avorio (braccialetti). Tra i beni commerciati vi erano schiavi, oro e zanne di elefante, oltre a prodotti introdotti dai Portoghesi, quali stagno, perle di vetro e di cornalina, braccialetti, perizomi di colore rosso e cavalli. Venivano ad esempio scambiati 14 schiavi contro un cavallo e uno schiavo contro 6 o 7 braccialetti d'ottone. Stuoie di palma e collane d'avorio venivano barattate con cornaline, pietre gialle e verdi, stagno, oggetti d'ottone e stoffe rosse. Nel corso del XIV sec. d.C. in area Hausa le principali unità monetali erano costituite da nastri di cotone, sale e schiavi. Le conchiglie cauri, introdotte nel XVI sec. d.C., erano utilizzate a Katsina come moneta per l'acquisto di piccoli oggetti e negli scambi dell'oro, a causa del loro peso, contro vari generi di mercanzie. In Africa centrale i prodotti dell'artigianato dell'XI sec. d.C., quali ferro, ceramica, cesteria, tessuti di rafia, manufatti di legno, oltre al sale, alimentavano un importante mercato regionale, dove piccole croci di rame erano impiegate come moneta. Esse vennero utilizzate per la prima volta intorno al 1100 d.C. nella Copper Belt e successivamente introdotte, prima del 1450-1500, nell'area dello Zambesi e del Lualaba. Nel 1483 esisteva in Congo una moneta di conto denominata nzimbu. Intorno al 1500 stuoie di rafia di forma quadrata erano utilizzate come unità di valore nel circuito commerciale della savana meridionale verso l'Atlantico. Il salgemma di Kisama era impiegato agli stessi fini lungo i corsi d'acqua da popolazioni di pescatori che vendevano pesce e ceramica, mentre i gruppi di cacciatori della foresta scambiavano punte di freccia contro sale e banane. Nei territori auriferi dello Zambesi e in Zambia le conchiglie erano scambiate a Sokomera e Kolomo per ottenere oro e avorio. Gli scavi archeologici di un centro di commerci del XVI sec. d.C., Engaruka in Kenya, hanno portato al rinvenimento di conchiglie cauri e di perle di vetro dello stesso tipo di quelle scoperte a Kilwa e in altri villaggi del litorale, che dovettero essere utilizzate come moneta, allo stesso modo della porcellana importata dalla Cina. Sulla costa orientale è stato identificato un altro mezzo di scambio: monete di metallo (bronzo e argento) sono state rinvenute nei grandi centri commerciali quali Kilwa, Kissiwani Malfa, Kiwa, nell'isola di Djawani e nelle isole di Zanzibar e di Pemba. Fabbricate soprattutto a Kilwa (XII sec. d.C.) e a Mogadiscio (XIV sec. d.C.), esse dovevano avere un valore di scambio più elevato di quello dei cauri. Nello Shaba e nelle regioni circostanti, così come nell'altipiano centrale dello Zimbabwe, il rame lavorato era utilizzato per la realizzazione di ornamenti personali femminili, oltre che nei riti funerari. Anche in queste regioni piccole croci di rame o di leghe di rame venivano impiegate come moneta. Alcune sepolture della necropoli di Sanga (nella depressione dell'Upemba a sud-est dello Zaire nei pressi del lago Kisale), datate tra l'VIII e il X sec. d.C., hanno rivelato la presenza di asce di rame, oltre che di cauri che implicano contatti commerciali con la costa orientale. Una grande croce di rame è stata rinvenuta all'interno di una tomba risalente al XIV sec. d.C.; a partire dal XV sec. d.C. altre croci, di dimensioni più piccole, divennero comuni e furono utilizzate come moneta. Nello Shaba il rame iniziò ad essere fuso a partire dal IV sec. d.C.; le croci di rame utilizzate dagli inizi dell'XI sec. d.C. rappresentano la più antica moneta a tutt'oggi conosciuta nella regione. Nel corso del XVI sec. d.C. nel dominio Shona di Uteve (Mozambico) venivano utilizzati per gli stessi scopi tessuti di cotone, ma in linee generali l'area non possedeva una moneta il cui uso fosse comparabile con quello dei cauri dell'Africa occidentale. In queste regioni il trasporto delle mercanzie impose ai commerci severe limitazioni. Generalmente gli scambi erano su scala puramente locale e riguardavano prodotti specifici; essi avevano luogo sia sulle rive dei fiumi, sia in mercati più strutturati. Il commercio era tuttavia facilitato dalla circolazione di una moneta regionale, come le piccole conchiglie importate, in uso nel reame del Congo, e i tessuti di fabbricazione locale, diffusi a est. Scavi archeologici effettuati a Mtambwe Mkuu, sulla costa occidentale dell'isola di Pemba, hanno portato al rinvenimento di monete d'oro e d'argento all'interno di un pozzo del diametro di 80 cm. La fattura delle monete d'oro, che costituiscono imitazioni di quelle fatimidi coniate al Cairo, a Damasco o in Tunisia, attesta che nell'XI sec. d.C. il commercio praticato sulla costa orientale dell'Africa non era esclusivamente destinato ai mercati nell'Oceano Indiano, ma coinvolgeva anche il mondo mediterraneo. Coniate in Africa orientale, le monete recano il nome di sovrani locali di Kilwa, Zanzibar e Pemba che regnarono nella seconda metà dell'XI sec. d.C.
G.E. Zurara (ed.), Chronique de Guinée, Dakar 1960; V. Monteil, Al-Bakri (Cordoue 1068), routier de l'Afrique blanche et noire du Nord-ouest, in BIFAN, 1 (1968); M. Adamu, Les Hawssa et leurs voisins du Soudan central, in JAfr, 1-2 (1982), pp. 293-329; E. Terray, Réflexion sur la formation du prix des esclaves à l'intérieur de l'Afrique de l'ouest précoloniale, ibid, pp. 119-44; D.T. Niane, Le Mali et la deuxième expansion manden, in Histoire générale de l'Afrique, IV, Paris 1985, pp.141-96; J. Vansina, L'Afrique équatoriale et l'Angola les migrations et l'apparition des premiers états, ibid., pp. 601-28; D. Grébénart, Marandet, in Vallées du Niger (Catalogo della mostra), Paris 1993, pp. 375-77.
di Thomas R. Hester
Dopo essere naufragato sulla costa del golfo del Texas nel 1528, Alvar Nuñez Cabeza de Vaca visse per i successivi sette anni presso gruppi di cacciatori-raccoglitori, sia nelle regioni costiere che in quelle interne. Nel corso della sua permanenza presso i gruppi del litorale, egli si dedicò al commercio: sulla costa si approvvigionava di conchiglie marine, di utensili di conchiglia e di una varietà di fagioli dai poteri terapeutici, che trasportava poi nell'entroterra, percorrendo distanze di 60-80 km e oltre, per ottenere in cambio pelli, pietre silicee, ocra rossa (ematite) e pelli di cervo. Da questo eccezionale resoconto etnografico emerge un antico modello di commercio, che implicava relazioni dirette tra un commerciante e numerosi gruppi o bande. Tale scambio "diretto" o "reciproco" aveva probabilmente grande importanza tra i gruppi di cacciatori-raccoglitori, poiché consentiva il trasferimento di merci essenziali, quali materie prime grezze e, in qualche caso, alimenti. Secondo le stesse modalità venivano scambiati anche alcuni beni di prestigio o rituali. In America Settentrionale vi sono numerose evidenze archeologiche su vari modelli di scambio. Nella maggior parte dei casi si sono conservati solo i prodotti non deperibili e dunque sull'importanza degli scambi di alimenti, cesti, piume e altri beni simili si possono solo formulare ipotesi. Dovettero certamente esistere scambi reciproci (diretti) e commerci attraverso gruppi che fungevano da intermediari o per mezzo di mercanti che viaggiavano di gruppo in gruppo, così che i beni si muovevano da un gruppo al successivo. Fu con la "redistribuzione" che si svilupparono i più elaborati sistemi di scambio a lunga distanza, generalmente all'interno di società complesse in cui esisteva una domanda di beni di prestigio. Tuttavia alcune evidenze archeologiche attestano una forma di commercio a lunga distanza che coinvolgeva sia gruppi di cacciatori-raccoglitori, sia gruppi agricoli, come nel caso del commercio dell'ossidiana nel Sud-Ovest e nelle Pianure, datato alle fasi preistoriche recenti (ca. 1200-1450 d.C.). Questo sistema di scambio permetteva il trasferimento di questa materia prima dalle cave di Obsidian Cliff (Yellowstone National Park, Wyoming) e Malad (Idaho) alle Pianure e di lì verso sud, nel Kansas e nell'Oklahoma, fino al Texas centrale e meridionale. I sistemi di scambio negli Stati Uniti orientali risalgono all'Arcaico Recente, quando gruppi di cacciatori-raccoglitori sedentari iniziarono ad ottenere e a redistribuire manufatti e materie prime (selce, rame, conchiglie marine) da fonti di approvvigionamento ubicate a notevole distanza. Tale processo potrebbe essere dovuto all'emergere delle prime forme di stratificazione sociale o alla presenza di individui di rango (big men) all'interno di questi siti. Con lo sviluppo delle culture Woodland, quali Adena e Hopewell, possono essere chiaramente individuate "le sfere d'interazione" entro cui operavano i sistemi di scambio; questi ultimi erano inoltre funzionali alla creazione di relazioni politiche ed economiche con luoghi e gruppi distanti. All'interno della rete di scambio Hopewell circolavano rame, conchiglie, mica, selce e un gran numero di altre materie prime provenienti da fonti di approvvigionamento ampiamente disperse nelle regioni orientali e nel Midwest. Si ritiene che le popolazioni stanziate in queste regioni (ad es., i gruppi che occupavano i territori vicini alle cave di mica dei monti Appalachi) estraessero e producessero ornamenti "esotici" (quali i manufatti realizzati su sottili lastre di mica, molto ricercati), inizialmente esportandoli nella regione Hopewell attraverso reti locali o regionali. A livello regionale il commercio doveva forse essere controllato da big men, che utilizzavano i beni di prestigio non solo per accrescere il proprio status, ma anche per ottenere alimenti e altri prodotti, che potevano successivamente essere redistribuiti ad artigiani e lavoratori. Il sistema di scambio della cultura del Mississippi si espanse intorno al 900 d.C.; la popolazione crebbe, apparvero vasti centri ed élites in competizione per il potere. I maggiori siti, come Cahokia e Moundville, centri di complessi chiefdoms, non solo erano sede del potere, ma controllavano la produzione artigianale e la distribuzione di beni di prestigio. Recenti studi hanno chiarito che nelle fasi iniziali i chiefdoms attestavano il proprio status attraverso la costruzione di grandi tumuli di terra. M.B. Trubitt (2000) ha rilevato che l'aumento del numero dei beni di prestigio iniziò intorno al 1200 d.C., ad indicare una "strategia di leadership sulle reti di commercio" in cui i gruppi dominanti mantenevano il proprio status mediante alleanze con i gruppi dominanti di altri siti. Con l'ascesa delle società complesse del Sud-Ovest, crebbe la domanda di ornamenti, di ceramica decorata e di altri indicatori di ricchezza, fabbricati da artigiani specializzati sia per lo scambio all'interno delle loro comunità, sia per l'esportazione. Vi sono indizi che gli Hohokam e i Mimbres del settore meridionale del Sud-Ovest organizzassero spedizioni commerciali fino al Golfo della California e alla costa occidentale del Messico per ottenere conchiglie e altre materie prime. Tra il 1150 e il 1300 d.C. i pueblos Anasazi del New Mexico settentrionale erano coinvolti in una rete di scambi con la città di Casas Grandes (o Paquimé), ubicata nel Chihuahua settentrionale. Le ricerche degli ultimi anni del XX secolo hanno contribuito a chiarire l'estensione delle reti commerciali da Casas Grandes (centro di commercio o di redistribuzione, con una popolazione di almeno 5000 abitanti) al Sud-Ovest: i beni commerciati comprendevano campanelle e ornamenti di rame, turchesi, ornamenti di conchiglia, piume (e perfino pappagalli) e un particolare tipo di ceramica policroma configurata.
C. Covey, Cabeza de Vaca's Adventures in the Unknown Interior of America, New York 1961; T.G. Baugh - J.E. Ericson (edd.), Prehistoric Exchange Systems in North America, New York 1994; L.S. Cordell, Ancient Pueblo Peoples, Montreal 1994; S.H. Schlanger, The North American Southwest, in B.M. Fagan (ed.), Oxford Companion to Archaeology, Oxford 1996, pp. 521-23; R. Torrence, Prehistoric Trade, ibid., pp. 718-20; M.B. Trubitt, Mound Building and Prestige Goods Exchange: Changing Strategies in the Cahokia Chiefdom, in AmAnt, 4 (2000), pp. 669-90.
di Claude-François Baudez
Gli scavi effettuati in Mesoamerica documentano scambi commerciali tra bassopiani e regioni montuose, tra il litorale e le regioni interne, tra una valle e l'altra. Le vestigia che attestano tali scambi sono costituite da materiali e da oggetti non disponibili in loco e che dovettero dunque essere importati, come l'ossidiana e il basalto rinvenuti nelle basseterre. Rimangono comunque sconosciuti il genere e le quantità delle derrate di consumo corrente, così come quelle di prodotti più rari e ricercati, ma realizzati in materiali deperibili, come i tessuti e le piume. Per quanto i dati forniti dagli scavi siano preziosi, essi sono comunque insufficienti a documentare in forma adeguata i sistemi di scambio; è dunque necessario fare ricorso alle fonti storiche, costituite dalle relazioni dei cronisti spagnoli del XVI sec. d.C. e da alcuni manoscritti indigeni. I dati etnostorici forniscono inoltre modelli che gli scavi riescono talvolta a comprovare. I sistemi di scambio delle alteterre si oppongono a quelli delle basseterre, soprattutto per ciò che riguarda il commercio locale. Le regioni montuose e gli altipiani del Messico centrale presentano una grande varietà ecosistemica, prodotta da differenze di altitudine, pendenza, drenaggio, soleggiamento e precipitazioni. Tale eterogeneità, che si riflette nella presenza di risorse diverse in aree adiacenti, favorì gli scambi diretti tra produttori e consumatori e dunque l'esistenza di mercati. Nel periodo azteco i mercati si tenevano ogni 5, 9 o 20 giorni, all'interno o nelle vicinanze delle città più importanti; il commercio era vietato al di fuori dei mercati, dove confluivano produttori, artigiani e venditori. Le transazioni di beni avvenivano mediante scambi o attraverso derrate o prodotti che servivano da moneta, come tessuti (quachtli), semi di cacao, sonagli o tubi di piume riempiti di polvere d'oro. Tutte le transazioni erano controllate dalle autorità e un tribunale composto di mercanti di alto status era incaricato di sedare i conflitti e punire le infrazioni. I prezzi erano fissati dalle autorità, che percepivano un'imposta pagata collettivamente da tutti gli artigiani di una stessa categoria e dai venditori di ciascun prodotto. Con un decreto i governatori potevano creare nuovi mercati, sopprimerli o spostarne l'ubicazione. Alcuni beni potevano essere venduti esclusivamente in certi mercati, ad esempio gli schiavi ad Azcapotzalco e Iztocan, gli ornamenti personali e le piume a Cholula. La forma azteca dello scambio era dunque un mercato controllato, in opposizione al libero mercato in cui i prodotti vengono liberamente negoziati e dove il loro prezzo è il risultato della domanda e dell'offerta. Al contrario, non sembra che durante il periodo precolombiano siano esistiti mercati nelle basseterre; i tentativi di crearne, operati dalle autorità spagnole nel XVI secolo, furono del resto infruttuosi. Questa differenza con le alteterre può essere spiegata dalla più grande omogeneità ecologica delle basseterre, dove la popolazione locale aveva accesso agli stessi prodotti di largo consumo ed era autosufficiente. Dunque ecosistemi scarsamente diversificati limitavano gli scambi e non stimolavano la creazione di mercati. A questa tendenza generale occorre apportare qualche sfumatura. Accanto alle derrate accessibili a tutti, quali mais, fagioli e zucche, alle piante selvatiche raccolte nella foresta, ai prodotti della caccia e a qualche risorsa minerale (la calce), alcuni prodotti agricoli non crescevano ovunque nelle basseterre: così il cacao richiede molto calore e umidità, mentre il cotone cresce in clima arido. Il sale, il pesce essiccato e altri prodotti marini (utilizzati come ornamenti e nei rituali, quali le conchiglie e le spine di razza) erano esportati dalla costa verso l'interno. Dalle colline della regione Puuc proveniva la selce distribuita nella Penisola dello Yucatán. Regioni o villaggi erano specializzati in determinate produzioni artigianali (ceramica, cesteria, conciatura, tessitura, ecc.). Il commercio locale era gestito da mercanti ambulanti che praticavano lo scambio e utilizzavano di preferenza le vie d'acqua: cabotaggio lungo le coste, navigazione fluviale e lacustre. La circolazione dei beni dipendeva strettamente dal contesto politico di queste regioni, spesso in conflitto tra loro. Le guerre producevano altre forme di circolazione di beni: razzie, saccheggi e soprattutto esazione di tributi, che comprendevano anche corvées. Vanno inoltre ricordati i doni e i controdoni tra capi locali. Nelle basseterre il commercio a lunga distanza dipendeva dal potere del sovrano, che controllava un gruppo di specialisti, reclutati tra la nobiltà, in grado di organizzare lunghe spedizioni. Per trasportare i pesanti carichi di sale, di cacao o di tessuti venivano utilizzati schiavi, che erano venduti insieme alle mercanzie una volta giunti a destinazione. Negli scambi a lunga distanza ci si avvaleva di installazioni commerciali (ports of trade) situate nei territori politicamente deboli, dei quali si poteva prevedere la neutralità; al loro interno si trovavano diverse infrastrutture (depositi, alloggiamenti) e personale di vendita e manutenzione. Tali installazioni erano ubicate soprattutto nel Golfo del Messico (Cimatán, Potonchán, Xicalango) per gli scambi tra il Messico centrale, il Chiapas e lo Yucatán, e nel Golfo dell'Honduras (Nito e Naco) per il commercio tra la Mesoamerica e l'America Centrale; esse erano generalmente localizzate in terreni paludosi, alla confluenza di corsi d'acqua e nelle regioni favorevoli alla coltivazione del cacao. In queste installazioni, dove risiedevano agenti di diversi territori che partecipavano ai traffici commerciali, si parlavano varie lingue. Strutture analoghe esistevano anche in alcuni luoghi di pellegrinaggio, come Chichén Itzá (dove ci si recava per gettare offerte nel Cenote Sacro) o Cozumel (luogo in cui si consultava l'oracolo). I mercanti vendevano i loro prodotti agli agenti, che li distribuivano nelle province. Tra i prodotti più frequentemente commerciati vi erano cacao, mantas di cotone, tinture di origine animale o vegetale, giada e turchesi, ossidiana, ambra, la pietra lavica da cui si fabbricavano gli indispensabili strumenti da macina (metates e manos), incenso e torce di resina, le ricercate piume del quetzal, ma anche quelle di pappagalli e colibrì, pelli di giaguaro e di cervo, conchiglie e oggetti di conchiglia (in particolare grani), oggetti di metallo in forma di sonagli, pendenti o barrette. I mercanti aztechi (pochteca), che utilizzavano anch'essi installazioni commerciali, costituivano un gruppo professionale il cui potere crebbe dopo l'arrivo degli Spagnoli. Molto più indipendenti dei mercanti delle basseterre, essi avevano un'organizzazione interna altamente strutturata, che prevedeva anche riunioni e riti specifici. Il loro potere dipendeva dall'importanza del ruolo politico che essi svolgevano: infatti, dal momento che l'accesso ai mercati stranieri era loro interdetto, essi dovevano nascondere la loro identità per penetrarvi e commerciare, fungendo inoltre da spie per conto del sovrano. I pochteca avevano invece libero accesso ai mercati dei paesi conquistati. Oltre alle proprie mercanzie, essi recavano a volte beni forniti dal sovrano, che erano incaricati di commerciare per suo conto. In alcuni casi il sovrano affidava ai mercanti beni da portare in dono ai capi stranieri, che li ricambiavano. Il commercio a lunga distanza permetteva guadagni più elevati, che i pochteca investivano per la realizzazione di cerimonie e feste attraverso cui incrementavano il proprio status.
P. Carrasco - J. Broda, Economía política e ideología en el México prehispánico, México 1978; I. Fernández Tejedo, Intercambio sin mercados entre los Mayas de las Tierras Bajas, in S. Lombardo - E. Nalda (edd.), Temas mesoamericanos, México 1996; pp. 111-35.
di Marco Curatola Petrocchi
Le società delle Ande Centrali, che tanto impressionarono i conquistadores per l'alto grado di sviluppo sociopolitico e per la loro prosperità economica, non solo non conobbero la moneta, ma, almeno sulla sierra e sull'altopiano del Titicaca, non possedettero neppure veri e propri mercati. Come, dunque, su che basi, attraverso quali meccanismi alternativi alla moneta e al mercato, poterono queste società generare, accumulare e gestire le molteplici e ingenti risorse necessarie per lo sviluppo di grandi formazioni statali, alcune addirittura a carattere imperiale, come il Tahuantinsuyu (impero Inca), che fu senza dubbio il più vasto e meglio organizzato Stato di tutta l'antica America? Di fondamentale importanza in questo campo sono gli studi etnostorici di J.V. Murra (1975, 1978), che per primo ha posto in evidenza come nel mondo andino precolombiano le relazioni socioeconomiche si reggessero sull'articolazione dei principi della reciprocità e della redistribuzione, associati all'ideale (e alla pratica) dell'autosufficienza, ricercata attraverso lo sfruttamento del maggior numero possibile di zone ecologiche, e ad una concezione del lavoro e dell'energia umana come unità di misura e valore di base della produzione e della ricchezza. In un classico studio del 1972, sulla base documentale delle informazioni offerte dai verbali di alcune ispezioni (visitas) amministrative spagnole del primo periodo coloniale, Murra ha mostrato come diverse etnie della sierra e dell'altopiano, quali i Chupaychu e i Lupaca, avessero raggiunto un alto grado di autosufficienza e di stabilità economica mediante l'insediamento di coloni in differenti zone di produzione, anche alquanto lontane dal loro territorio. I Chupaychu, un piccolo gruppo etnico di agricoltori di lingua Quechua stanziati fra i 3000 e i 3200 m nell'alta valle del Huallaga (Perù settentrionale), sul versante orientale della cordigliera, oltre a coltivare mais mediante irrigazione nella parte bassa del loro territorio e tuberi in quella alta, mantenevano in forma stabile nella montaña (i boscosi contrafforti digradanti verso il bassopiano amazzonico), a una distanza di 3-4 giorni di cammino verso il basso, un certo numero di coloni, che assicuravano un costante approvvigionamento di coca, peperoncino, cotone, legname e altre risorse della zona. Allo stesso modo, intorno ai 4000 m, sulla puna, a tre giorni di cammino verso l'alto, si trovavano pastori Chupaychu addetti alla sorveglianza delle greggi di alpaca e lama della collettività, così come un certo numero di loro conterranei incaricati di estrarre sale dal giacimento di Yanacachi. Questi coloni operavano a fianco di pastori e salinai appartenenti ad altri gruppi etnici, alcuni dei quali di valli molto più lontane rispetto a quella dei Chupaychu. Analogo, e forse ancor più illustrativo, è il caso della ricca e potente etnia dei Lupaca (Lupaqa), circa 100.000 individui di lingua Aymara che vivevano a 3800- 4000 m di altitudine sull'altopiano a sud-ovest del Lago Titicaca e che agli inizi del XVI secolo erano organizzati in una sorta di regno diarchico retto dai signori di Chucuito. Fondamentalmente dediti nel loro territorio all'allevamento su grande scala di Camelidi e alla coltivazione di patate, i Lupaca potevano contare sulle risorse di varie altre zone ecologiche, distanti anche 10-15 giorni di cammino dall'altipiano. Le informazioni raccolte nel 1567 dall'ispettore reale (visitador) Garci Diez de San Miguel nella provincia di Chucuito attestano infatti che questa etnia manteneva insediamenti stabili di coloni sia lungo la costa pacifica, dalla valle del Lluta (Arica) a sud a quelle del Sama e del Moquegua a nord (dove coltivavano cotone e mais e si approvvigionavano di guano, pesce e altri prodotti marini), sia lungo le pendici orientali della cordigliera, per eccellenza la zona di produzione di coca e legname. Sulla base di questi e altri casi e del fatto che i primi Spagnoli giunti in Perù apparentemente non riscontrarono tra le popolazioni delle alteterre l'esistenza di empori e di grandi mercati, Murra è giunto alla fondata conclusione che, almeno come regola generale, le formazioni sociopolitiche andine, quali che fossero le loro dimensioni e la loro base economica, usavano acquisire i beni e i prodotti necessari non per mezzo di scambi, bensì mediante lo sfruttamento diretto delle risorse del maggior numero possibile di ambienti naturali. Stabilendo enclaves produttive nei territori di altre etnie, o comunque fuori del proprio territorio "metropolitano", le diverse collettività indigene perseguivano la piena autosufficienza; tale obiettivo poteva essere effettivamente raggiunto anche in virtù della peculiare configurazione dello spazio geografico andino che, per la sua accentuata verticalità, presenta ai diversi livelli zone ecologiche quanto mai distinte, con differenti risorse agricole, faunistiche e minerarie. Lo sfruttamento simultaneo e combinato di una grande varietà di ambienti, assicurando ai gruppi etnici un flusso continuo delle più svariate risorse, non solo rendeva questi autosufficienti, ma riduceva sensibilmente il rischio di crisi derivanti da calamità naturali o da conflitti esterni. Questo modello di organizzazione economico-territoriale spiega, almeno in parte e in termini generali, perché nell'antico Perù non si sentì l'esigenza di adottare qualche forma di moneta come mezzo di scambio. In tale contesto, la produzione, l'accumulazione e la circolazione di beni e prestazioni, tanto a livello delle piccole comunità come dei grandi Stati, si fondarono sui principi-meccanismi della reciprocità e della redistribuzione. I capi etnici (curaca) basavano infatti il loro potere su una vasta rete di relazioni personali improntate alla reciprocità (ancorché asimmetrica), la quale consentiva loro di mobilitare manodopera, organizzare il lavoro e accumulare eccedenze. Ma va precisato che all'origine di tali eccedenze stavano in genere prestazioni di manodopera e non tributi in prodotti e beni, i quali erano generati dai lavori effettuati nelle terre comunitarie o dell'Inca, oppure attraverso la lavorazione di materie prime fornite dallo stesso Stato. L'unico dovere degli hatunruna (gli uomini di età compresa tra 25 e 50 anni) e delle loro famiglie verso i curaca e/o l'Inca era in effetti quello di fornire determinate quantità di forza-lavoro per determinati periodi di tempo. Questo servizio personale periodico era chiamato mita, parola che in lingua Quechua significa appunto "turno, corvée". Nel Tahuantinsuyu esistettero differenti tipi di mita: in agricoltura, nell'esercito, nelle miniere, per la realizzazione e il mantenimento di opere pubbliche, nelle comunicazioni, per la sorveglianza delle greggi dello Stato e per la produzione di tessuti. Questi ultimi furono un bene particolarmente apprezzato e richiesto dai gruppi andini, rappresentando per essi il "dono" per eccellenza, la merce privilegiata attraverso cui si stabilivano e si rafforzavano i vincoli di alleanza e solidarietà tra gli individui, i gruppi di parentela (ayllu), i gruppi sociali e le etnie. L'analisi dell'uso e delle molteplici funzioni del tessuto nel mondo Inca condotta da Murra (1962) ha tra l'altro posto in luce come operavano i principi della reciprocità e della redistribuzione: gli Inca consegnavano annualmente ad ogni nucleo famigliare una certa quantità di fibre, che doveva essere poi restituita allo Stato sotto forma di tessuti e vesti. Nell'istituire la mita tessile, gli Inca non fecero del resto che riprendere e applicare su vasta scala una pratica assai diffusa a livello locale. Infatti i curaca solevano ricevere periodicamente come tributo prodotti tessili, una parte dei quali era trattenuta per il loro uso personale, mentre un'altra era da essi redistribuita in occasione di solenni cerimonie. Analogamente, i sacerdoti locali ricevevano vesti e tessuti sia per usi liturgici, sia come offerte per gli dei. Di fatto, nel mondo andino precolombiano non era concepibile qualsiasi relazione sociale che non fosse sanzionata e confermata dallo scambio di doni, in primo luogo tessuti e vestiti. L'integrazione dell'individuo nell'ayllu, dell'ayllu nel curacazgo (chiefdom, dominio) e del curacazgo in più vaste formazioni sociopolitiche trovò sempre la sua prima espressione in una qualche forma di donazione di prodotti tessili: i diritti e i doveri di ciascuno, dal più umile dei contadini ai piccoli e grandi capi locali fino allo stesso sovrano, erano sanciti e codificati attraverso un complesso gioco di dare e avere, che creava e rinnovava costantemente obblighi reciproci. I "doni", oltre ad attivare e rendere operanti i rapporti sociali di carattere simmetrico (inter pares), servivano infatti a "compensare" le relazioni asimmetriche, in cui lo scambio di prestazioni era qualitativamente e quantitativamente diseguale. Venivano così bilanciati sul piano simbolico, e quindi giustificati, rapporti gerarchici di dominazione. La "generosa" distribuzione, da parte dei curaca e dei governanti, di tessuti e altri beni faceva evidentemente parte della catena di distribuzione dei prodotti, ma soprattutto creava consenso e contribuiva in maniera decisiva a rendere accettabili e legittimi i privilegi di cui godevano le élites. Infatti, nel momento in cui il curaca e/o l'Inca donavano tessuti e altri beni alle persone loro sottoposte, creavano in queste ultime una serie di obblighi e le impegnavano moralmente a contraccambiare, vale a dire a mettere a disposizione la loro forza-lavoro. Ciò si traduceva in un incremento della produzione, in un'accumulazione di beni e in una concentrazione di servizi intorno ai capi. L'autorità e il prestigio dei curaca erano dunque tanto più grandi quanto maggiore era la quantità di beni, e in primo luogo di tessuti, che essi erano in grado di ammassare e redistribuire, ponendosi in tal modo nella condizione di poter manipolare a proprio favore tutta una serie di convenzioni sociali basate sul principio della reciprocità. Parte delle energie umane così mobilitate veniva indirizzata alla produzione di un surplus di prodotti tessili che, una volta convogliati nelle mani dei curaca o dello Stato, venivano nuovamente ripartiti fra i contadini, i soldati, gli operai, i servitori e i bisognosi (orfani, vedove, anziani), sia come ricompensa per determinati servizi, sia come semplice atto di liberalità. Tutto ciò, evidentemente, non faceva che riaffermare i vincoli di dipendenza dei sudditi verso il signore, rafforzando la stabilità dell'assetto sociopolitico, che regolava le relazioni di produzione. Il modello economico fondato sulla reciprocità e la redistribuzione e sul controllo e lo sfruttamento diretto del maggior numero di zone ecologiche fu dominante soprattutto sulle alteterre del Perù e della Bolivia. Fuori da tale area, nelle Ande Settentrionali e lungo la costa del Perù e dell'Ecuador, esso dovette invece coesistere e combinarsi con sistemi di scambio di tipo commerciale. In una relazione dei primi anni della Conquista si fa ad esempio menzione dell'esistenza sulla costa di Esmeraldas (Ecuador) di un grande emporio commerciale chiamato Ciscala, che pare fosse un vero e proprio porto franco gestito da differenti gruppi etnici; in un altro documento si dà notizia di un analogo grande mercato esistente fra i Quijo della montaña ecuadoriana. Inoltre, le fonti storiche sono concordi nel segnalare la presenza nella regione di Quito, nella tarda epoca precolombiana, di un gruppo a carattere semi-ereditario di mercanti chiamati mindalá (mindalaes), i quali erano riuniti in una sorta di corporazione sotto l'egida prima di un signore locale e, più tardi, dell'Inca. A quest'ultimo i mindalá non fornivano come tributo la loro forza-lavoro, bensì parte delle merci che traevano da altre regioni, come tessuti di cotone, oro, coca, peperoncino e sale, mentre la quantità maggiore era venduta alla popolazione locale in un apposito mercato di Quito. Quanto alla costa peruviana, secondo un importante documento della seconda metà del XVI secolo studiato dalla storica peruviana M. Rostworowski, al tempo degli Inca esisteva nella valle di Chincha un gruppo di ben 6000 mercanti il cui raggio d'azione spaziava dall'altopiano del Lago Titicaca, a sud, alla baia di Manta (Ecuador), a nord. Alcuni di questi mercanti si recavano con regolarità al Cuzco e sull'altopiano del Collao (Titicaca), mentre altri raggiungevano Puerto Viejo (Manta) e Quito (costa e sierra dell'Ecuador) per procurarsi grandi quantità di conterie d'oro e smeraldi, che poi rivendevano ai signori di Ica, loro vicini meridionali. Inoltre, pare che la gente di Chincha utilizzasse, almeno in ambito locale, pesi o placche di rame come mezzo di scambio di tipo monetario per l'acquisizione di alimenti, tessuti e capi d'abbigliamento. Il caso dei Chincha, con un'economia basata sul commercio e persino sull'uso di una sorta di moneta, mostra la relatività o comunque la non monoliticità del modello di organizzazione socioeconomica avanzato da Murra, secondo il quale, come si è visto, nell'antico Perù i traffici commerciali ad ampio raggio e su vasta scala sarebbero stati estremamente limitati, se non addirittura inesistenti, in quanto da una parte, tradizionalmente, i differenti gruppi etnici avrebbero cercato la più completa autosufficienza attraverso il controllo e lo sfruttamento diretto e simultaneo di differenti zone ecologiche, e dall'altra, con l'instaurazione del Tahuantinsuyu, si sarebbe pervenuti a un assoluto dominio statale sulla produzione, l'accumulazione e la distribuzione dei prodotti e dei beni eccedenti le necessità di sussistenza delle varie popolazioni locali, con conseguente restringimento, se non soffocamento, di ogni forma di libero scambio che non fosse di livello meramente locale. In realtà anche in epoca Inca dovettero aver luogo intensi commerci su scala panandina non solo fra le diverse società del litorale, ma pure fra queste e quelle di remote regioni montane. Rimane però aperta la questione, certo non di secondaria importanza, se questi commerci, tollerati o incentivati dai signori del Cuzco, non riguardassero esclusivamente taluni articoli di carattere suntuario, marginali e poco rilevanti nel contesto della macroeconomia statale Inca.
J.V. Murra, La función del tejido en varios contextos sociales en el estado Inca, in Actas y Trabajos del Segundo Congreso Nacional de Historia del Perú, II, Lima 1962, pp. 215-40; G. Diez de San Miguel, Visita hecha a la provincia de Chucuito (1567), Lima 1964; M. Rostworowski de Diez Canseco, Mercaderes del valle de Chincha en la época prehispánica: un documento y unos comentarios, in REspAntrAm, 5 (1970), pp. 135-78; R. Hartmann, Mercados y ferias prehispánicos en el área andina, in Boletín de la Academia Nacional de Historia, 118 (1971), pp. 214-35; J.V. Murra, El "control vertical" de un máximo de pisos ecológicos en la economía de las sociedades andinas, in I. Ortiz de Zuñiga, Visita de la provincia de León de Huánuco en 1562, Huánuco 1972, pp. 427-76; Id., Formaciones económicas y políticas del mundo andino, Lima 1975; Id., La organización económica del estado Inca, México 1978; F. Salomon, Los señores étnicos de Quito en la época de los Incas, Quito 1980; O. Dollfus, El reto del espacio andino, Lima 1981; J.V. Murra, The Mit'a Obligations of Ethnic Groups to the Inca State, in G.A. Collier - R.I. Rosaldo - J.D. Wirth (edd.), The Inca and Aztec States, 1400-1800. Anthropology and History, New York - London 1982, pp. 237-62; S. Masuda - I. Shimada - C. Morris (edd.), Andean Ecology and Civilization. An Interdisciplinary Perspective on Andean Ecological Complementarity, Tokyo 1985; W. Espinoza Soriano, Artesanos, transacciones, monedas y formas de pago en el mundo andino. Siglos XV y XVI, Lima 1987; F. Pease, Curacas, reciprocidad y riqueza, Lima 1992; C. Stanish, Ancient Andean Political Economy, Austin 1992; J.V. Murra, ¿Existieron el tributo y los mercados en los Andes antes de la invasión europea?, in R. Varón Gabai - J. Flores Espinoza (edd.), Arqueología, antropología e historia en los Andes. Homenaje a María Rostworowski, Lima 1997, pp. 737-48.
di Gaetano Cofini
La varietà e la complessità dei modelli di interazione tra le società insulari dell'Oceania sono note grazie alle ricerche condotte prevalentemente da etnologi e antropologi. La pubblicazione nel 1922 di The Argonauts of the Western Pacific, il celebre saggio in cui B. Malinowski analizzava il circuito di scambi cerimoniali (Kula ring) osservato in Melanesia occidentale, pose in risalto la centralità di tali studi. Anni dopo, articolati sistemi di scambio sono stati documentati tra la Nuova Guinea e la Nuova Britannia, sulle coste papuane (hiri), nelle Isole di Santa Cruz e nei domini marittimi di Tonga e Yap. Sempre maggiore è stata l'attenzione rivolta dagli archeologi a tali fenomeni, per il ruolo determinante che essi ebbero nei processi di trasformazione socioculturale. Le indagini svolte negli insediamenti delle genti austronesiane Lapita, che tra il XVI e il XII sec. a.C. si spinsero dalle isole del Mare di Bismarck alla Polinesia occidentale, attestano un'intensa circolazione di materie prime (ossidiana, selce) e oggetti (pietre da forno, macine, asce, ornamenti e vasellame). Il loro trasferimento avveniva su distanze variabili in media da 100 a 600 km o anche maggiori, come suggerisce il rinvenimento nelle Figi di ossidiana della Nuova Britannia. È probabile che nelle fasi iniziali comunicazioni regolari collegassero i gruppi stanziati nell'Arcipelago di Bismarck (Far Western Lapita) o lungo l'arco insulare delle Salomone fino alle Isole Reef/Santa Cruz (Western Lapita). La colonizzazione successiva dei nuclei insulari di Figi, Tonga e Samoa (Eastern Lapita) coincise probabilmente con la formazione di un distinto circuito di scambi, a causa dell'enorme distanza tra questi arcipelaghi e le isole occidentali. Analogamente i gruppi Lapita della Nuova Caledonia, dopo un primo periodo di adattamento, parrebbero essere rimasti isolati dalle comunità d'origine, sviluppando peculiari tratti nella cultura materiale (Southern Lapita). Secondo P.V. Kirch, i siti delle Isole Mussau rappresentarono importanti nodi di collegamento per le più antiche comunità stanziate nell'Arcipelago di Bismarck, grazie alla centralità della loro posizione. Nei depositi Mussau si ritrovano ossidiana da Talasea e da Manus, selce e ceramiche provenienti da numerose località e altri prodotti esotici, come asce e pietre da forno. A loro volta, i siti Mussau esportavano ingenti quantità di manufatti di conchiglia, in particolare anelli e dischi di Conus spp. e ami di Trochus spp. Le antiche comunità Lapita delle Isole Mussau mantenevano pertanto una fitta rete di contatti con numerosi gruppi del Mare di Bismarck, avendo così accesso a una vasta gamma di risorse. Nelle fasi successive si assistette a un sensibile calo delle importazioni: un fenomeno osservato sia nell'Arcipelago di Bismarck, sia nelle Isole Reef/Santa Cruz. Si ipotizza a riguardo che l'aumento della popolazione e dello sfruttamento delle risorse locali abbia indotto a limitare la frequenza dei contatti, da cui sarebbero derivati la frammentazione dell'originaria rete di scambi e il progressivo isolamento dei gruppi insulari. Questa ipotesi verrebbe confermata anche dalla paleolinguistica, che rileva la nascita di sottogruppi da un ceppo austronesiano proto-oceanico. Il termine delle fasi Lapita corrisponde con la contrazione dei traffici interinsulari, a cui fece seguito una ridefinizione delle direttrici commerciali. Al 500 d.C. risalgono le prime testimonianze del sistema di scambi osservato dagli etnografi nello Stretto di Vitiaz, tra la Nuova Britannia e le coste di Papua Nuova Guinea. Circa 900 anni fa, a Nissan il vasellame non era più importato da nord (forse dalla Nuova Irlanda), ma da Buka (Salomone), a sud. A partire da questo periodo si osservano modelli d'insediamento e tipologie di materiali presenti in epoche storiche. A Tikopia, dagli inizi del I millennio d.C., i materiali introdotti da isole a nord-ovest (ossidiana, asce metavulcaniche, selce) vennero sostituiti da manufatti, in particolare ceramiche, provenienti da sud e da est. A epoche più vicine (II millennio d.C.) risalgono i circuiti commerciali sviluppatisi lungo le coste meridionali di Papua Nuova Guinea (Port Moresby, Yule, Mailu). Nella tarda preistoria e nelle prime epoche storiche, i contatti interinsulari ebbero un ruolo decisivo nel garantire la coesione politica del chiefdom delle Tonga, gli influssi del quale raggiunsero le lontane isole di Niuatoputapu, Niuafoou e Uvea. Le genti di Tonga avevano inoltre contatti regolari con le comunità figiane e samoane, finalizzati allo scambio di partners matrimoniali e di numerosi prodotti, quali piroghe, vele, ornamenti di piume, stuoie e indumenti di tapa, asce di pietra e ceramiche. Tra gli arcipelaghi della Micronesia occidentale, Yap aveva la rete più estesa di comunicazioni interinsulari (sawei). Questa collegava in epoca storica il chiefdom di Yap con numerosi atolli orientali, i più lontani dei quali distano circa 1200 km. Tra Palau e Yap avevano luogo scambi regolari di vasellame e di grandi dischi di aragonite (rai) dall'alto valore simbolico. Ceramica originaria delle Palau è presente anche nelle Isole Caroline; il suo rinvenimento nell'atollo di Lamotrek testimonia il trasferimento di beni su una distanza di circa 1500 km. Nella Micronesia orientale evidenze di contatti interinsulari sono indicate dai ritrovamenti di terrecotte e di asce. Da segnalare il rinvenimento a Pohnpei di un'ascia formalmente affine agli esemplari foggiati in Polinesia occidentale. In molte regioni dell'Australia le informazioni tratte dalle cronache storiche e dagli studi etnografici descrivono forme rituali di scambio basate sulla reciprocità. Queste pratiche pare siano state finalizzate principalmente a creare sodalizi tra individui o intere comunità, piuttosto che ad accrescerne il prestigio o rifletterne la posizione dominante. Ocra, boomerang, ornamenti di conchiglia, accette, macine e droghe vegetali (pituri) costituivano oggetto di scambio durante i raduni intertribali o attraverso una catena di contatti lungo itinerari stabiliti dalla tradizione. Insieme ad oggetti e materie prime, si diffondevano anche pratiche cerimoniali e religiose, come ad esempio una danza (corroboree) che "percorse" tra il 1893 e il 1918 oltre 1700 km, dal Queensland nord-occidentale al Great Australian Bight. Piccoli gruppi o intere comunità coprivano a piedi distanze ragguardevoli, stimate fino a 200 km circa sulle coste e a 500 km nei territori interni più aridi. In epoca storica i Dieri, stanziati nei pressi del Lago Eyre, compivano annualmente viaggi di 450 km per raccogliere le foglie di Duboisia hopwoodii e ricavarne una droga assunta per celebrare incontri tra anziani o per alleviare il dolore e la fatica. Tra i manufatti che maggiormente si diffusero nel continente australiano vi sono alcuni pendenti ottenuti da conchiglie (Melo diadema) raccolte sulle coste del Golfo di Carpentaria. Questi monili, inseriti in un esteso circuito di scambi, raggiunsero l'Australia meridionale, dove erano esibiti dagli uomini come attestazione di status. Ornamenti pregiati di madreperla, alcuni decorati con incisioni, erano lavorati sulle coste dell'Australia nord-occidentale (Kimberley); la distribuzione spaziale dei reperti indica la loro trasmissione, di mano in mano, attraverso i territori di almeno otto gruppi tribali e su distanze di centinaia di chilometri. Dagli inizi del XIX sec. d.C. si sviluppò sulle coste dell'Australia settentrionale il fiorente commercio di trepang, o cetriolo di mare, della classe degli Oloturoidi, da cui si otteneva una zuppa assai apprezzata in Cina per le sue presunte proprietà afrodisiache. Il traffico, controllato dai mercanti cinesi residenti principalmente a Macassar, si estendeva dal Borneo alle Isole Aru fino all'Australia.
R.L. Vanderwal, Exchange in Prehistoric Coastal Papua, in Mankind, 11, 3 (1978), pp. 416-28; D. Frankel - J.W. Rhoads (edd.), Archaeology of a Coastal Exchange System: Sites and Ceramics of the Papuan Gulf, Canberra 1994; P.V. Kirch, The Lapita Peoples, Oxford 1997; H. Lourandos, Continent of Hunter-Gatherers, Cambridge 1997; M.I. Weisler (ed.), Prehistoric Long-Distance Interaction in Oceania: an Interdisciplinary Approach, Auckland 1997; M. Spriggs, The Island Melanesians, Oxford 1997; D.J. Mulvaney - J. Kamminga, Prehistory of Australia, Sydney 1999.