Le forze armate
Le forze armate italiane nascono dal processo di accorpamento delle risorse militari degli Stati preunitari con quelle del Regno di Sardegna. Vi contribuiscono, fra l’estate del 1859 e l’inverno del 1861, eserciti e marine, ufficiali, soldati di professione o di leva e molti volontari. Un modenese già combattente in Spagna, Manfredo Fanti, generale dell’esercito sardo dal 1848, è il ministro della Guerra che il 4 maggio 1861 firma l’atto di nascita del nuovo esercito il cui nome, esercito italiano, senza altri aggettivi, gli conferisce quel carattere nazionale che in realtà deve ancora assumere.
Ai militari piemontesi, liguri e sardi si aggiungono quelli lombardi già al servizio dell’Austria; poi, nel marzo del 1860, i soldati dell’esercito della Lega dell’Italia centrale; infine, nel dicembre, quelli dell’esercito borbonico. Sono complessivamente 117.000 uomini, più 20.000 coscritti lombardi, toscani ed emiliani, chiamati a compensare l’alto numero di renitenti, sia lombardi, che sono il 10% dei richiamati, sia meridionali, i quali superano la metà. Almeno 35.000 professionisti rifiutano di cambiare uniforme, mentre altri disertano alla prima occasione. Il loro rifiuto comunque non impedisce di creare nuove unità con personale in prevalenza giovane, già addestrato e sperimentato. Ai 20 reggimenti di fanteria esistenti se ne aggiungono 46, ai 9 di cavalleria altri 10, e 26 battaglioni ai 10 di bersaglieri.
Con loro ci sono anche gli ufficiali dell’esercito della Lega e i meridionali delle Due Sicilie, arruolati questi ultimi dopo una selezione abbastanza equilibrata (gli ammessi sono due su tre). Molto più cauto è l’atteggiamento del governo nei confronti degli ufficiali garibaldini, accettati previo severo scrutinio che, dopo averne subito eliminati più di metà, ne allontana successivamente un altro terzo. Quelli che lo superano, e restano, sono immessi nei ranghi per ultimi e soltanto nel marzo del 1862. Si registra, pertanto, uno squilibrio nella formazione professionale e anche nella provenienza regionale tra i vecchi membri sabaudi e i nuovi arrivati, e poi anche fra questi ultimi. Ai 18.000 lombardi già asburgici, ammessi nel 1859, si contrappongono nel 1861 i 2.300 delle Due Sicilie e l’anno dopo i 2.000 garibaldini, di varia provenienza e, soprattutto, formatisi sul campo e non con corsi accelerati. Verso questi ultimi si nutre diffidenza poiché si ritiene che siano animati da pericolosi ideali politici, essendo una mescolanza di rivoluzionari divenuti uomini di guerra e di giovani patrioti disposti ad abbracciare il mestiere delle armi. Non deve stupire che il loro numero si riduca negli anni seguenti, a cominciare dal 1862, al momento della spedizione di Garibaldi bloccata sull’Aspromonte. Alcuni, costretti a scegliere tra la fedeltà allo Stato e quella al loro passato, scelgono quest’ultima. La maggior parte, però, continua a obbedire agli ordini, anche, come allora accade, se impongono di fermare Garibaldi. Non sembra invece che la propria origine danneggi le carriere degli ex borbonici, bene inseriti nelle strutture organizzative e di comando, benché a processo ultimato metà degli ufficiali – in tutto 16.000, 13.000 dei quali di arma combattente – provenga dal Piemonte. Tra questi vi è infatti qualche migliaio di sottufficiali, promossi secondo le norme consuete, ma anche in via straordinaria, allo scopo di inquadrare tante nuove unità. Ancora più numerosa è la componente piemontese tra i 174 generali, destinata a dominare a lungo ma, al momento, soltanto dal punto di vista quantitativo.
Il processo di selezione dei vertici militari in atto dal 1848 favorisce i percorsi, all’inizio di natura essenzialmente politica e in qualche caso rivoluzionaria, di alcune figure di spicco, investite di comandi importanti, a cominciare dai modenesi Manfredo Fanti, Enrico Cialdini, Domenico Cucchiari, dai piemontesi fratelli Durando, tutti formatisi all’estero, in Spagna e Portogallo, per giungere dieci anni dopo ai più noti dei dodici generali di provenienza garibaldina: Giacomo Medici, Giuseppe Sirtori, Nino Bixio ed Enrico Cosenz.
L’esercito italiano si forma secondo la tradizione sabauda per la quale l’arruolamento non è espressione di un diritto-dovere del cittadino verso lo Stato, ma servizio dovuto dai sudditi al re. Essendone generosamente esentata la maggioranza dei soggetti, il soldato rimane isolato e non riesce a percepire il suo nuovo status nazionale. Non sarebbe così se l’esercito inquadrasse i soldati più motivati allora esistenti, le camicie rosse, tenute lontano per timore che diffondano nei ranghi il radicalismo democratico e per respingere la proposta di Garibaldi. Questi vorrebbe affiancare a quello regolare un esercito «popolare» di volontari, composto da cinque divisioni, proposta valida soltanto nei limiti temporali molto stretti di impiego in un’altra guerra contro l’Austria, non certo come modello del futuro esercito dello Stato italiano. Battuto in Parlamento nell’aprile del 1861 questo tentativo di salvataggio dell’esercito meridionale, ha successo invece la controproposta del governo: ai garibaldini viene offerta la possibilità di un volontariato a ferma biennale nei reparti regolari, dove dovrebbero integrare, paradossalmente, la componente professionale della truppa ancora superiore ai 100.000 uomini. Lo scopo è raggiunto: 30.000 richieste di congedo, incentivate sia dall’assenza di prospettive sia dal versamento di sei mesi di paga invece dei tre già previsti.
La discussione delle proposte di Garibaldi crea, al di là del merito delle scelte compiute, il modello delle future relazioni tra militari e politici. La competenza parlamentare a discutere sul tema viene contenuta in un quadro di riferimento nel quale nessuno dei protagonisti – Corona, alti gradi, ministri e Parlamento – è più forte, anche se due di essi, la Corona e gli alti gradi, sono meno deboli degli altri. Ma di fatto deboli sono tutti. Lo sono perché scontano l’effetto degli errori militari compiuti nelle campagne precedenti (errori che, fra l’altro, si ripeteranno), nonché delle scelte politiche e costituzionali contrarie a un equilibrio politico-militare più dinamico di quello che poi si realizza, bloccato a tutto favore della proclamata autonomia del re e dei militari nei confronti del legislativo: autonomia successivamente ridimensionata, ma non contraddetta, nel corso degli anni Settanta dell’Ottocento.
In questo contesto prende forma il sistema militare italiano, secondo il quale l’arruolamento degli ufficiali avviene sia attraverso l’accademia e le scuole, sia a domanda. Per i soldati e i marinai la chiamata alle armi prevede una lunga ferma: nell’esercito è di sette anni per la cavalleria, sei per artiglieria e bersaglieri, cinque per la massa della fanteria; in marina è di quattro. Una volta sottratti gli esentati e i riformati – che sono la maggioranza, 120.000 sui 200.000 del contingente annuale – la leva coinvolge solo la metà dei rimanenti, a causa dei costi insostenibili, determinata anno per anno per legge e selezionata mediante sorteggio nonché – iniquità ancora più grande proprio perché riguarda qualche migliaio di privilegiati – grazie a varie forme di esonero a pagamento.
Ferme così lunghe servono a tenere alle armi un esercito sempre più efficiente grazie alla formazione delle reclute che non si limita al solo addestramento, ma si estende a una «educazione militare» volta a imporre l’assimilazione dei valori della disciplina e dell’obbedienza, assimilazione favorita dalla durata nel tempo della ferma e, più tardi, da interventi di tipo pedagogico. La leva costituisce, dunque, un primo momento di incontro tra esercito e cittadini, nel quale si rivela l’atteggiamento dei secondi verso il primo, differente da luogo a luogo.
Nel 1863 è chiamata alle armi la prima classe su tutto il territorio nazionale. La percentuale dei renitenti raggiunge il 25%, nel 1864 scende all’11 e nel 1866 a un 10 scarso. Nei dieci anni seguiti al 1859 si sottraggono al servizio 138.000 uomini dei quali 78.000 sono ancora latitanti nel settembre 1871. Se non vi è renitenza nelle circoscrizioni piemontesi ed emiliane, il rifiuto del servizio militare raggiunge il 57% in quella di Napoli. Fasce di renitenza intermedie confermano che la linea di divisione marca zone abituate alla coscrizione e zone che non lo sono.
I coscritti recepiscono lentamente i valori prepolitici della ferma: dimostrazione di piena idoneità fisica, momento di emancipazione dalla famiglia, sfida alla sorte. Assai più lentamente ne recepiscono i valori politici. Dove questi sono rifiutati, vengono imposti con crescente efficacia dagli organi incaricati di far rispettare la legge, come i tribunali militari, che non processano solo i renitenti, ma anche i disertori. In tre anni, fra il 1861 e il 1863, dunque prima della leva generalizzata, si contano complessivamente 16.700 casi. Nel 1865 in tutta Italia sono condannati 2.462 militari (6 gli ufficiali). In occasione della guerra del 1866 i soldati in fuga triplicano, sono 12.200, spinti non dalla sola paura della guerra, ma dall’opportunità, offerta dal movimento dei reparti sul campo, di sfuggire a una condizione di vita evidentemente mal tollerata.
Altrettanto grave di quello individuale, anche se meno diffuso, è un secondo fenomeno di fuga: quello di gruppo, che tuttavia è legale. Si mostra infatti refrattaria al servizio militare un’intera classe sociale, quella borghesia affatto disposta a vedere i propri figli danneggiati nei loro interessi economici o di studio e inseriti in un ambiente ritenuto non consono al loro status. La renitenza dei borghesi si concretizza nella «liberazione» dal servizio, ottenuto versando allo Stato la notevole somma di 3.200 lire; nella «surrogazione», che consente la scelta a pagamento di un sostituto; in uno scambio di numero con chi si ritrova nella categoria destinata soltanto a un breve periodo di servizio. Nel 1863 i tre sistemi vengono adoperati dal 10% del contingente di prima categoria, che è quello effettivamente arruolato e addestrato, dunque da circa 4.500 giovani, soprattutto meridionali, campani e calabresi in particolare. Ma anche più a nord il fenomeno è diffuso, soprattutto a Livorno e, a distanza, ma con valori sempre superiori alla media nazionale, a Milano.
Ad attutire lo sconcerto che suscita la condotta «antinazionale» di questo gruppo sociale, contribuisce una considerazione: è lo stesso ceto da cui proviene la maggioranza degli ufficiali e che dovrebbe alimentare la partecipazione, politica e militare insieme, all’attività di un corpo al fianco all’esercito come strumento di difesa dello Stato liberale. Si tratta della Guardia nazionale, introdotta nell’ordinamento italiano ovviamente non utilizzando il modello proposto da Garibaldi, che ancora una volta intende rilanciare un «secondo esercito» popolare da affiancare a quello regolare. La nuova legge ricalca quella del 1848: addestramento degli uomini della Guardia per un mese l’anno; possibilità di richiamo per un massimo di tre; ma apertura dei ranghi non solo alla borghesia e al ceto medio, se nel 1864 gli iscritti nei ruoli sono quasi 2 milioni, vale a dire quattro volte gli aventi diritto al voto politico e più del doppio di coloro che hanno accesso al voto amministrativo. L’arruolamento è infatti regolato sulla base non del censo, ma della posizione sociale delle persone, valutata, comune per comune, con criteri difformi e molto larghi. Questa forza armata ausiliaria locale è destinata al mantenimento dell’ordine pubblico ed è subito messa alla prova nelle regioni del Mezzogiorno – con risultati discontinui e diversi da zona a zona – nelle operazioni contro il brigantaggio.
Completati così inquadramento e formazione dell’esercito e della Guardia, si potrebbe giudicare pletorico il primo, che arriva a 250.000 uomini, se non fosse una forza soltanto formalmente di pace. In realtà deve fronteggiare due conflitti: uno, potenziale e forse imminente, esterno, e uno, in atto, interno. E non risulta pletorica neanche la marina.
Ministro nel 1861 è lo stesso Cavour che dell’ammiraglio Carlo Pellion di Persano si serve con successo per sollecitare l’adesione alla causa unitaria dei marinai delle Due Sicilie, ottenuta per gli ufficiali ma non per gli equipaggi. Così, risultano semplici e rapidi sia il cambio di bandiera e di nome delle navi borboniche, a vela e a vapore, sia il loro comando, ma difficile l’impiego, sebbene alcune unità siano subito impegnate nelle operazioni condotte all’inizio del 1861 al largo di Gaeta e di Messina. Già nel novembre del 1860 gli ufficiali di marina borbonici transitano a domanda nella marina italiana senza la selezione a cui sono sottoposti i loro colleghi dell’esercito. Il loro numero e la conseguente alterazione delle prospettive di carriera genererà per anni malumore fra gli ufficiali provenienti dalla marina sarda, ragione del perdurare di contrasti e inimicizie personali, soprattutto al vertice. Una dozzina di ammiragli tra i circa 600 ufficiali, 12.000 marinai e 3.000 fanti di marina costituiscono il personale di una forza armata di medie dimensioni che non riesce a realizzare un vero amalgama delle sue componenti principali – sarda e delle Due Sicilie – e risente, inoltre, della ridotta disponibilità di stanziamenti in un momento delicato dell’evoluzione del naviglio.
Il sistema militare italiano ha un costo che il bilancio dello Stato registra segnalando un periodo di spese eccezionali che assorbono quasi il 50% delle entrate nel 1863, salite all’83% nel 1866 a causa della guerra. L’enormità del prelievo è dimostrata dalla drastica riduzione dell’incidenza negli anni seguenti, quando oscilla tra un minimo pari al 16,5% e un massimo del 22. Se si cercano conferme dal lato della spesa, la media quinquennale 1862-66 denuncia un 40% della spesa pubblica assorbita dalle esigenze militari, con un 8% circa di pertinenza della marina.
Le spese militari, oltre all’addestramento e al mantenimento della forza alle armi, devono provvedere alla provvista di armamenti e navi, ma non ancora alle fortificazioni, anche se nel gennaio 1862 è istituita una Commissione permanente per la difesa dello Stato. Tra il 1864 e il 1866, la Commissione propone le opere fortificate per la difesa della Lombardia e dell’Emilia e delle comunicazioni con la Toscana, a beneficio di un esercito operante sul basso Po, in un quadro strategico che muta però con l’annessione del Veneto e fa perdere valore alle soluzioni trovate.
L’ammodernamento, scelto perché meno costoso rispetto alla sostituzione, dei fucili ad anima liscia modello 1844, ritirati e lavorati per dotarli di rigatura e alzo, aumentandone gittata e precisione, prosegue per tutto il periodo con una certa celerità, riuscendo a coprire con 470.000 pezzi i fabbisogni iniziali al momento della guerra del 1866. Un costoso processo di sostituzione delle artiglierie antiquate viene invece avviato e realizzato costruendo in tempo utile più di 700 pezzi da 8 e 16 libbre sui mille previsti, con relativo munizionamento.
Questi lavori sono svolti dagli arsenali dello Stato che occupano oltre 6.000 operai metallurgici e meccanici, non pochi nel quadro della ancora aurorale struttura industriale italiana. È diversa la situazione nei cantieri navali dello Stato, impreparati a introdurre le ultime innovazioni. In quel periodo, infatti, si è da poco avviata la trasformazione delle navi da guerra solo in parte già dotate di motori a elica oltre che a ruote, trasformazione complicata dalla corazzatura delle navi di linea costruite ancora in legno e dall’impiego di cannoni rigati al posto di quelli ad anima liscia.
Cavour prima, e i suoi successori poi, ordinano la costruzione a cantieri francesi e americani delle prime quattro unità corazzate, seguite da altre quattro grandi navi in legno e poi da altre quattro corazzate, commissionate, queste, nel 1862, a cantieri francesi e inglesi dall’ammiraglio Persano, primo ministro della Marina proveniente dalla forza armata. Persano decide tuttavia di affidare la costruzione di quel tipo di unità anche ai cantieri di Genova e Castellammare di Stabia, presenze essenziali nel quadro del primo piano organico di modernizzazione della flotta. La sua componente corazzata avrebbe dovuto contare, per fronteggiare la minaccia delle flotte austriaca e spagnola riunite, ben 46 unità di cui 34 da battaglia, soltanto 12 delle quali saranno in squadra a Lissa sotto il suo comando.
Tutto quanto precede va di pari passo con la prima e impegnativa missione che le forze armate dello Stato unitario – l’esercito innanzi tutto, ma anche la marina cui si chiede il controllo delle costa adriatica – si trovano a svolgere: pacificare mediante l’uso delle armi ampie zone e singole località del Mezzogiorno continentale in rivolta. Mentre in Sicilia il problema principale è rappresentato da una diffusa renitenza, contrastata con ripetute, massicce operazioni di rastrellamento, e dalla criminalità comune attiva nell’interno e sulle coste, pattugliate da unità della marina per prevenire e reprimere atti di pirateria.
Già dal 1860, ma con maggiore intensità dal 1861 al 1864, oltre 1.000 centri abitati, anche di medie dimensioni, insieme alle campagne e alle montagne dell’Appennino meridionale sono coinvolti e sconvolti dalla presenza di migliaia di ribelli e dalla repressione operata dai reparti dell’esercito, che in qualche episodio comprende la rappresaglia nei confronti della popolazione civile.
Ciò avviene quando nuclei, anche grandi, di forze legittimiste regolari e irregolari, poi di bande composte da un numero sempre più ridotto di ex militari borbonici e crescente di malviventi e contadini disperati, di renitenti e disertori, assumono un controllo del territorio intermittente ma non per questo meno radicato e pericoloso per la tenuta dello Stato. Soprattutto nella prima fase, quasi insurrezionale, sono impegnati nelle operazioni di polizia e di controguerriglia circa un terzo dei reggimenti di fanteria e dei battaglioni di bersaglieri disponibili fra il 1861 e il 1864, arrivando a schierare contro un complesso di forze ribelli non noto, ma stimabile tra le 25.000 e le 30.000 unità, fino a 116.000 soldati e un numero non precisabile, ma elevato, di guardie nazionali. Gli uni e le altre impiegano tattiche via via più adatte al frammentato contesto geografico, politico e sociale nel quale operano con un’autonomia che li mette spesso in contrasto con magistrati e prefetti.
A favore di questi ultimi, vale a dire del ripristino dell’autorità politica che rappresentano, deve intervenire nell’agosto 1866 il presidente del Consiglio Bettino Ricasoli. Fino a quel momento e anche oltre – soltanto nel gennaio 1870 sono abolite le zone militari, «dominio» dei comandi locali di medio livello – la repressione rimane saldamente nelle mani dei militari.
Tutto ciò avviene in un quadro giuridico nel quale trovano posto la dichiarazione dello stato d’assedio dell’agosto-novembre del 1862 e, a seguito dei risultati di un’inchiesta parlamentare che porta nel 1863 la Commissione a visitare le principali aree del brigantaggio per tentare una diagnosi delle sue cause, la promulgazione di una legge speciale che sottrae all’arbitrio dei comandanti locali la punizione dei colpevoli o dei presunti tali. Approvata in forma di stralcio proposto dal deputato Giuseppe Pica a metà agosto, la legge antibrigantaggio si traduce in una media di 13 processi al mese davanti a tribunali militari, celebrati per più di due anni a carico di oltre 10.000 imputati. Rimasta in vigore sino al dicembre 1865, si dimostra capace di stroncare il grande brigantaggio, ma non i suoi residui e l’endemico banditismo, contro i quali continuano infatti a operare a pieno ritmo per almeno altri cinque anni la magistratura ordinaria e le autorità militari, nell’ambito della legge Peruzzi che ristabilisce il diritto alla difesa degli imputati.
A quale prezzo si ottiene questo risultato? È ragionevole ipotizzare che 10.000 morti, distribuiti in quattro-cinque anni, sia una stima accettabile delle vittime tra briganti e popolazione, cui se ne devono aggiungere altre per le malattie e le difficili condizioni di vita, compresi i soldati, dei quali non si conosce il numero dei caduti nel corso delle operazioni. Tanto costa la «vittoria» militare dello Stato unitario contro le pulsioni disgregatrici espresse dal Mezzogiorno continentale, in qualcosa che somiglia a una guerra civile soprattutto considerando il livello di violenza raggiunto dall’azione delle bande e replicato dall’esercito.
Quale «ultimo atto di una storia di rivoluzioni, controrivoluzioni e guerre civili, cominciata nel 1799 e indissolubilmente intrecciata con il processo di creazione di istituzioni liberali e di uno Stato nazionale» (Lupo 2002, p. 495), il brigantaggio alimenta certamente una lotta tra appartenenti, che ne siano coscienti o meno, a un’unica nazionalità italiana e a un unico Stato, esistente sul piano giuridico ma non ancora su quello culturale e sociale. La contrapposizione e l’ostilità sono sicuramente inquinate dall’intreccio con intenti criminali e con rivendicazioni locali nei confronti di quei ceti meridionali «propensi a ricercare nel nuovo Stato un sostegno istituzionale sensibile alle loro dinamiche di arricchimento e mobilità sociale» (Pezzino 1994, p. 60).
In questa circostanza risalta l’importanza della Guardia nazionale, anzi, dei singoli ufficiali e militi oscillanti tra partecipazione alla lotta – in ossequio al dettato politico e patriottico, oppure in difesa dei propri interessi immediati – e, in qualche caso, connivenza con i briganti. Ogni episodio nel quale la Guardia interviene contro persone o comunità della stessa zona nella quale è arruolata è, questo sì, tipico di una guerra civile, ma di ambito municipale e non nazionale.
Se non si tratta di una guerra civile in senso pieno, è innegabile però che le forze armate combattano nel Mezzogiorno una guerra tra italiani, non diversa da quella dei volontari garibaldini e poi dell’esercito regio contro le forze regolari del Regno delle Due Sicilie e dello Stato pontificio. Sono tali inoltre lo scontro tra bersaglieri e garibaldini in Aspromonte nel 1862 e, quattro anni dopo, la ferma e cruenta repressione militare dei moti di Palermo nel 1866. Questi cicli di operazioni e queste insorgenze armate, di portata e natura molto diverse fra loro, hanno uno stesso significato: riducono vecchie fratture e producono nel contempo nuove lacerazioni del tessuto connettivo di uno Stato nazionale in costruzione, forse inevitabili, ma comunque gravi. E soprattutto sono lentamente sanabili nella loro componente non tanto politica, di più rapida guarigione, quanto in quella civica e identitaria, affidata a processi di recupero più lenti.
Se tali lacerazioni si saneranno grazie al trascorrere del tempo, e al sopravvenire di successive esperienze, ciò si deve anche al giudizio netto che si forma sul risultato conseguito dalle forze «nazionali», le forze armate, che vincono sul campo la contesa a favore dello Stato unitario, mentre ancora non è completato il loro processo di formazione, né è ben definito il loro rapporto con la nazione.
La repressione del brigantaggio è un altro significativo momento, per la sua precocità rispetto al raggiungimento del pieno assetto politico-amministrativo del nuovo Regno, per la sua ampia estensione geografica, per il coinvolgimento di tanti uomini e reparti, per il rapporto che si stabilisce tra esercito e paese. Secondo soltanto al momento fondante che è quello, malgrado i suoi limiti, del servizio militare, e alla pari con l’episodio pur breve, ma dalle conseguenze di lunga durata, della prima guerra italiana contro il tradizionale nemico asburgico.
Nel Mezzogiorno si stabilisce un rapporto difficile, essendo l’esercito strumento di una guerra ingloriosa, combattuta sia contro soldati ormai senza uniforme, sia contro civili in armi (donne comprese, a volte) e i loro fiancheggiatori («manutengoli» è la definizione dell’epoca), nonché contro intere comunità ritenute complici dei briganti.
Tra gli ufficiali impiegati nelle operazioni, molti, pur riconoscendone la necessità, detestano quella missione e cominciano a sviluppare un’inattesa, deludente percezione del proprio status e del proprio ruolo «nazionale» di costruttori di una patria comune attraverso l’educazione militare dei cittadini reclutati, proiettato – come sarebbe logico attendersi – verso la difesa e l’affermazione della nazione nei confronti di un nemico esterno. Invece comandano soldati i quali finiscono con l’assumere nel territorio ove operano comportamenti tipici di una forza di occupazione, del tutto estranea alla popolazione locale che non di rado ricambia assumendo atteggiamenti di chiusura, quando non dichiaratamente ostili. Si incrina così l’immagine dell’ufficiale e si mette in dubbio il suo ruolo di quadro nazionale, sostituito da uno di tipo burocratico.
Questa prima esperienza contribuisce a porre su basi problematiche tra il 1861 e il 1866 la professione militare in Italia, il cui obiettivo è assicurare il «bene inseparabile del Re e della Patria». Un impegno che gli uomini in uniforme assumono dal 1848 con il giuramento e riescono a mantenere sicuramente con il sovrano, contemporaneamente re e comandante supremo sia in tempo di pace sia purtroppo, dati gli esiti, in caso di guerra. Difficile è raggiungere quell’obiettivo nei confronti del paese.
L’ufficiale accoglie, addestra, inquadra e comanda, in piazza d’armi e sul campo, le giovani reclute anno dopo anno. È suo dovere trasformare giovani per oltre il 60% analfabeti in soldati bravi e disciplinati, restituendoli anni dopo alla società come adulti dotati di quei valori di obbedienza e capacità di sacrificio appresi durante il servizio. È sua la responsabilità dell’educazione militare dell’individuo giunto alle armi in stato di miseria, sovente di trascuratezza, sicuramente di incultura, e congedato dopo aver appreso l’importanza del comportamento corretto e dell’igiene personale, utile per la futura e assai modesta vita di lavoro del buon suddito del re e cittadino del Regno. Ancora privo del diritto di voto, è vero, ma cosciente dell’appartenenza a una sola nazione italiana e a un solo Stato. Il luogo dove tutto questo avviene è quanto mai adatto: l’esercito è l’unica organizzazione di massa esistente.
In quelle condizioni e in quel momento l’esercito chiede quasi un miracolo agli ufficiali che vivono a contatto con i soldati, favoriti dal percorso individuale e di gruppo che li porta a indossare tutti l’uniforme blu e azzurra del vecchio Piemonte. Essi stessi e quei soldati sono la prova del riscatto da un passato di divisioni, della rigenerazione morale e, in prospettiva, fisica (uno su tre dei giovani chiamati a visita medica viene riformato) della popolazione italiana.
Un altro contributo alla definizione negativa della professione militare, e terzo momento di incontro tra esercito e paese, deriva dalla prima guerra combattuta dall’esercito e dalla marina italiani contro le forze dell’Impero asburgico, terminata dopo un mese di operazioni con un serio insuccesso militare dopo le due sconfitte sulla terraferma e sul mare.
Centrale, e non positivo, è l’operato di Alfonso La Marmora, per il ruolo politico e militare che ha e assume. In primo luogo, quello di presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri ben attento a depotenziare l’alleanza con la Prussia respingendo l’opportunità del coordinamento dell’azione militare, giudicato troppo vincolante per la modulazione assai prudente da imporre all’azione militare italiana. La decisione prefigura una sorta di guerra parallela ante litteram adatta a un teatro secondario, combattuta con forze doppie rispetto all’avversario, sapendo che per vie diplomatiche aperte e vigilate dalla Francia il Veneto è comunque assicurato. Lasciati presidenza ed Esteri, La Marmora diviene ministro al campo, il cui unico incarico è quello di coprire costituzionalmente l’irresponsabilità regia nell’esercizio, che non è solo formale, del comando militare che con il re egli condivide quale capo di stato maggiore. La carica in tempo di pace non esiste e La Marmora l’assume controvoglia, essendo più interessato a un terzo e cruciale incarico, quello di comandante della più grossa delle due armate nelle quali è frazionato l’esercito, essendo l’altra affidata al generale Cialdini con il quale non si intende tranne che su un punto: l’ingombro rappresentato dalla persona del re che «crede proprio di essere un gran capitano», come gli scrive Cialdini, ma «assolutamente non capisce nulla e può rovinare ogni cosa» (Montanari 1996, p. 666).
Alte responsabilità politiche e militari confluiscono dunque in La Marmora ma questi, «cattivo politico, era di conseguenza anche cattivo stratega» (Pieri 1962b, p. 751). Non tenta infatti neppure di coordinare le operazioni tra l’armata del Po di Cialdini e la propria, quella del Mincio, violando «i principi della massa, dell’economia delle forze e della sorpresa» (Stefani 1984, p. 193), poiché rinunzia al vantaggio dell’iniziativa nonostante il carattere offensivo della guerra.
Infatti, in presenza di una superiorità italiana di forze (malgrado la permanenza di ingenti presidi nel Mezzogiorno) che vede la fanteria dell’esercito austriaco non arrivare alla metà di quella italiana, mentre la cavalleria è appena un terzo e i cannoni poco più di un quarto, due sono i disegni strategici e due le fasi nelle quali entrambi i comandanti prevalgono alternativamente l’uno sull’altro: quello di una guerra di attesa combattuta oltre il Mincio fino a Verona e quello, più tardo, di una decisa penetrazione dal basso Po verso l’Isonzo, essendo il Trentino lasciato all’iniziativa di Garibaldi e ai suoi volontari.
Per quanto riguarda la flotta, Persano sostiene che non è pronta. Le cause sono l’incompleto allestimento delle navi e la scarsa preparazione degli equipaggi, che egli denuncia mentre nulla dice dell’inesistente intesa tra lui e gli ammiragli in sottordine, e della mancata stima nei suoi confronti e fra loro dei comandanti di unità.
A confronto con questa linea di condotta, negativa ma ben definita, sta l’incertezza sulle direttive da seguire che permane invece nell’esercito anche dopo l’infelice giornata del 24 giugno a Custoza, dove ha luogo una battaglia d’incontro, composta di nove combattimenti isolati affrontati da metà delle forze disponibili, anche perché i comandanti di divisione ignorano, per disposizione del comando, timoroso di fughe di notizie, posizione e mete di quelli vicini. Custoza si trasforma in sconfitta strategica poiché è seguita da una precipitosa ritirata generale dal corso del Mincio e, addirittura, del Po, dove a otto divisioni italiane si oppongono soltanto tre battaglioni e quattro squadroni austriaci.
Spinto da ripetute sollecitazioni da parte del governo e addirittura minacciato di destituzione in caso di ulteriore protratta inattività, il 16 luglio Persano si decide a sfidare la flotta austriaca. Non può non farlo anche perché entra finalmente in squadra l’atteso ariete corazzato Affondatore, unità d’avanguardia costruita in Inghilterra e consegnata appena un mese prima. L’azione è preceduta, sempre su ordine del ministro della Marina Agostino Depretis, da un attacco, in quel momento strategicamente azzardato e tatticamente oneroso, alle fortificazioni costiere dell’isola di Lissa, valido punto di approdo protetto della flotta nemica in Adriatico. L’attacco dura tre giorni, sino all’atteso arrivo da Pola della flotta del contrammiraglio austriaco Wilhelm von Tegetthoff.
All’ostinata determinazione a non muoversi mostrata in precedenza, Persano sostituisce una reazione precipitosa. Va incontro al nemico senza attendere la riunione di tutte le sue navi, corazzate e non, alcune delle quali ancora impegnate nelle operazioni di sbarco sull’isola. Due corazzate e tutte le navi in legno restano lontano dalla battaglia con il risultato di combattere in condizioni di decisa inferiorità numerica, aggravata dalla perdita di due unità nella mischia che segue.
Dopo un’ora e mezzo di combattimento, riordinate le formazioni in colonne di squadre, le due flotte rompono il contatto, non trovando i due comandanti ragioni sufficienti per prolungare lo scontro: scelta ovvia per Tegetthoff che ha raggiunto l’obiettivo – soccorrere Lissa e respingere la flotta italiana –, incomprensibile per Persano che dovrebbe cercare di nuovo il nemico una volta ristabilita la superiorità numerica, ma non lo fa. Va così incontro al suo destino: il processo celebrato in Senato e concluso nell’aprile del 1867 con una condanna per negligenza, imperizia e disobbedienza, punite con la perdita del grado, dello status militare e persino della pensione.
Tanta severità serve a punire il responsabile della sconfitta sul mare in modo clamoroso, quasi fosse l’unico ad avere colpe, a beneficio dell’opinione pubblica, assolvendo il governo dalle sue responsabilità di pessima condotta politica della guerra. Il rischio di coinvolgere il re nell’esame delle responsabilità della dissennata azione di comando del 24 giugno spiega perché non vi siano inchieste e processi per La Marmora, Cialdini o altri generali, e l’eco delle sconfitte non cessi di risuonare più forte per la marina che per l’esercito. E comunque tanto a lungo per entrambi che uno storico inglese vi ha visto la manifestazione «di una propensione quasi britannica all’autolesionismo» (Whittam 1979, p. 147).
Le operazioni contro il brigantaggio e la sconfitta del 1866 mettono in crisi l’autostima degli ufficiali e li obbligano, insieme alle gerarchie, a una rimodulazione della loro funzione nazionale, sottraendola alla variabilità dell’apporto individuale per inserirla tra gli obiettivi di un rinnovamento del sistema militare. Il compito di educazione civile oltre che militare delle reclute deve diventare istituzionale, anche se qualche voce dissonante teme la contaminazione dei compiti primari della forza armata, cioè prepararsi alla guerra e, nel caso la si combatta, vincerla. Preoccupazione, questa, che non impedisce il successo della formula dell’esercito-scuola, slegato dall’esito della verifica della sua applicazione. La formula ha infatti un valore insostituibile in un ambito nel quale si cerca di rimediare mediante una riforma laica, cioè politica, del sistema militare al suo peccato originale: la mancata formazione di una eroica comunità di combattenti.
L’efficacia dell’esercito quale diffusore dello spirito nazionale dovrebbe essere legata al successo in guerra e, se questo non c’è, al combattimento comunque memorabile che è il luogo dove meglio si può incontrare e riconoscere una comunità nazionale. Custoza e Lissa sono invece i primi fra i luoghi della memoria negativa che sostanzia per mezzo secolo il rapporto tormentato tra il paese e il suo valore militare, origine di un amaro antimito che dimostra la difficoltà per l’Italia di radicare la nazionalizzazione su una guerra vinta e su guerrieri vittoriosi.
L’effetto morale delle sconfitte è devastante sul piano identitario: «Ci è impossibile pensare di noi quello che avevamo pensato finora» nota Pasquale Villari, (cit. in Mondini 2008, p. 617) e se questo vale per tutta la classe dirigente, per quella militare vale quanto scriverà molti anni dopo Carlo Corsi e cioè che disgusto e apatia si diffondono per anni nell’esercito, cominciando a creare e alimentare quella corrente di opinione che reagisce dichiarandosi favorevole ad affrontare in un futuro non lontano una prova militare d’appello per rifondare il prestigio delle forze armate e dell’Italia, sia all’interno che all’estero.
Espressione letteraria, portata all’eccesso, del disagio che circonda le istituzioni militari nella società è quella di cui è autore un giovane ufficiale, Iginio Ugo Tarchetti, che lascia l’uniforme e si fa scrittore. Complice una guerra ormai lontana, la Crimea, condanna la stessa condizione militare in un romanzo d’appendice del 1867, Una nobile follia. Risponde immediatamente alla sfida di Tarchetti un altro giovane ufficiale dedicatosi al giornalismo e alla scrittura, Edmondo De Amicis, con una raccolta di racconti del 1868, La vita militare. La necessità di superare le conseguenze della dolorosa sconfitta in battaglia, oltre che l’urgenza di respingere l’attacco di Tarchetti, alimenta con buon successo il suo messaggio pedagogico e politico a sostegno dell’istituzione militare.
Tuttavia è operazione lunga, oltre che difficile, portare a compimento la missione di educazione della popolazione maschile ai valori patriottici della nazione tramite l’addestramento dei coscritti e il governo dei soldati. È più facile con questo mezzo chiedere alle forze armate, all’esercito soprattutto, un contributo allo state-building, che queste riescono a fornire, che non al nation-building, processo molto più complesso che non va identificato col precedente. A innescarlo, ricercando gloria militare spendibile a tal fine, non può servire Garibaldi, essendogli tra l’altro negata a più riprese la prosecuzione della fortunata epopea del 1860, del resto costantemente alternativa alla linea politica del governo anche quando sembra aderirvi. Non serve neanche la diffusione delle prose di De Amicis perché «è più facile parlare bene o male della vita militare che inventarsi una nazione sui campi di battaglia» (Madrignani 2008, p. 716). Ci si deve affidare invece a una rifondazione effettiva e credibile delle basi della forza militare, cercata nell’apporto dei cittadini dai quali si pretende un dovere civico di partecipazione personale al rafforzamento dello Stato per via militare.
Per alcuni ufficiali il contributo si estende al di là dei compiti professionali con una scelta di partecipazione alla politica attiva nelle file della maggioranza o dell’opposizione. Nel 1861 si registra l’elezione alla Camera di 49 ufficiali in servizio, il numero più alto fra quelli di tutte le legislature dell’età liberale, presenza mantenuta, con una quarantina di eletti, sino alle elezioni del 1874 quando il loro numero prevale ancora su quello dei generali che siedono in Senato, rendendo i deputati protagonisti di un interessante sforzo di partecipazione politica destinata a durare in media per ognuno di loro un paio di legislature e a rivelare, quindi, un costante ricambio di personalità e di impegno politico e civile, espresso però a titolo individuale.
Con la politica gli ufficiali hanno relazioni caratterizzate dalla distanza, la stessa che li separa dalla società. Alla base della piramide gerarchica, molti provengono dai sottufficiali. Riconoscenti per il cambiamento di status, devoti alle istituzioni, vale a dire al re e all’esercito, sanno che non è loro concesso di progredire nella carriera e dunque di beneficiare di una vera ascesa sul piano sociale. Ma le difficoltà dell’innesto nella società civile di soggetti di non troppo lontana estrazione popolare in un corpo già elitario, nel quale sono ora dominanti le borghesie – proprietaria, delle professioni e di Stato – sono le stesse che incontrano tutti gli ufficiali, eccetto in parte quelli di estrazione aristocratica, ormai una minoranza. Ne sono causa le condizioni nelle quali si svolge il servizio, le norme che regolano il loro status e le consuetudini del tempo. A causa del continuo spostamento dei reggimenti da un luogo all’altro l’ufficiale non ha il tempo di diventare parte integrante del ceto locale, vive dunque lontano sia dall’ambito regionale di origine che da quello nel quale è di volta in volta inserito. Inoltre, la considerazione sociale di cui gode, singolarmente e come categoria, è mediocre. Escluso il Piemonte, la cui tradizione e «vocazione» militare facilita i contatti, nelle città di provincia come nelle grandi, i ceti che contano mostrano nei loro confronti un atteggiamento assai cauto, che separa la considerazione doverosa per la funzione svolta dall’apprezzamento negativo del loro peso economico e sociale.
Conseguenza e, al tempo stesso, dimostrazione di questo stato di separazione dalla società e di difficoltà individuali e di gruppo sono i problemi che gli ufficiali incontrano al momento di contrarre matrimonio. La norma obbliga infatti gli ufficiali a scegliere una moglie che abbia requisiti accertati non limitati alla rispettabilità, della persona e dei suoi familiari, ma estesi a condizioni patrimoniali più che buone. Il regio assenso è subordinato alla disponibilità di una dote, vincolata sino al termine della carriera e sostituibile con una rendita di 1.200 lire l’anno assicurata da un capitale di 24.000 lire, in beni immobili o investito in titoli di Stato, destinato a crescere fino a 40.000 nel 1871, quando la rendita resta invariata per gli ufficiali superiori, ma sale per i subalterni e per i capitani, gradi rivestiti dalla maggioranza di coloro che richiedono l’autorizzazione per il matrimonio.
Queste norme tese a garantire agli ufficiali ammogliati un livello di vita che non sfiguri davanti a quello della borghesia condanna la stragrande maggioranza di loro al celibato forzato oppure – cosa peggiore per l’istituzione e la famiglia che talvolta, nonostante tutto, si costituisce, in violazione della legge e del regolamento di disciplina – al matrimonio clandestino, celebrato con il solo rito religioso. Sono già più di 800 i casi nel 1871. Non pochi a confronto dei 2.000 ufficiali ufficialmente ammogliati nel 1861, che supereranno di poco i 3.000 un quarto di secolo dopo, cifra da sommare però a una nuova coorte di clandestini. Tutti gli altri ufficiali, poco meno di 10.000, sono e restano un esercito di celibi più per necessità che per scelta.
Stando così le cose sembra quasi una contraddizione la gara all’accaparramento degli insediamenti militari che impegna i comuni italiani, spesso in concorrenza tra loro quando sono vicini. Invece non lo è, date alcune conseguenze molto vantaggiose. Le amministrazioni tentano la conquista di una guarnigione militare, il più possibile numerosa, utilizzando i contatti istituzionali e politici: prefetto, deputato, personalità locali bene introdotte nella capitale o al ministero della Guerra. Si mobilitano e spesso si indebitano per trasformare conventi e chiese in caserme, magazzini, depositi e stalle, e i risultati, data l’urgenza di trovare rapidamente un tetto a migliaia di uomini e di cavalli, talvolta per necessità comune, non sono sempre ottimali. Fortunatamente, i conventi e le chiese sono tanti, soprattutto dopo la liquidazione dell’asse ecclesiastico, sebbene ne servirebbero molti di più perché la condizione indispensabile per il loro riutilizzo non è tanto la struttura, quanto la collocazione di questi edifici nel centro urbano o comunque entro la cinta daziaria. I comuni, infatti, non guadagnano dall’affitto loro corrisposto, sempre molto basso, per gli stabili occupati dall’esercito, ma dall’incremento dei consumi locali che la presenza concentrata di qualche migliaio di uomini e animali produce, facendo aumentare le entrate grazie ai proventi del dazio. Inoltre, vanno calcolati tra gli incentivi anche i benefici diretti e indiretti derivanti dall’aumentato giro di affari del commercio locale.
Non il successo dunque, non la gloria militare – l’oscuro lavoro contro i briganti non ne produce – ma la sconfitta in due battaglie pone le basi di un nuovo corso nella vita delle forze armate italiane, con le difficoltà che sempre genera il peso di un passato negativo, ma con le prospettive di cambiamento positivo che questo impone.
Come i vertici militari, anche il governo avverte con preoccupazione l’esigenza di una trasformazione «nazionale» dell’esercito, ritenuta possibile riformandone prima l’arruolamento e poi l’ordinamento e l’armamento, con l’abbandono del modello semiprofessionale lamarmoriano adottato dieci anni prima, per uno ispirato a quello prussiano di leva, dimostratosi vincente. Quest’ultimo però rende indispensabile instaurare un altro rapporto tra l’istituzione e la società, già maldisposta verso un servizio militare che utilizza normalmente soltanto un giovane su cinque e dunque presumibilmente ostile a un servizio militare generalizzato che lasci fuori soltanto gli inabili e qualche categoria di esenti.
Diverso dal precedente deve essere anche il rapporto con la classe politica, tra cui si fa strada la preoccupazione della Destra per i rischi connessi a un indiscriminato addestramento militare del popolo, nonché per i costi del sistema in discussione, con le inevitabili ricadute sul bilancio dello Stato e sul prelievo fiscale. Parte della Sinistra vede invece con preoccupazione la formula della nazione armata dei volontari e dei patrioti trasformata in qualcosa che si può definire la nazione armata di Stato dei coscritti e degli ufficiali di carriera. Tra gli opposti partiti sta la maggioranza dei due schieramenti e stanno i governi della Destra che si attivano per avviare a soluzione il problema. Con una difficoltà aggiuntiva: la riduzione drastica degli stanziamenti per le forze armate fa scendere al 18,5% del totale le spese militari effettive tra 1867 (quando l’esercito spende la somma più bassa dall’Unità) e 1871 (anno nel quale toccano il minimo le spese della marina).
Prima, però, esercito e marina devono affrontare un improvviso ritorno al passato nell’episodio della rivolta di Palermo del 1866, di breve durata, ma non per questo politicamente meno grave, perché contigua alla fine delle operazioni di guerra al Nord e caratterizzata da un alto tasso di violenza. Ma soprattutto in ragione della non chiara lettura delle sue cause, insieme antistatali, localistiche, rivoluzionarie e sociali.
Incaricato della missione di ristabilire l’ordine e restaurare l’autorità dello Stato è il generale Raffaele Cadorna, giunto il giorno dopo che unità della marina e dell’esercito hanno ripreso il controllo della città dopo cinque giorni di combattimenti strada per strada, subendo forti perdite e facendo numerose vittime. Potrebbero soldati, fanti di marina e marinai di leva a ferma più breve, come quella che si impone per avere più riserve addestrate, effettuare interventi di questo tipo, contro civili armati o per il controllo dell’ordine pubblico? Tre anni dopo, Cadorna, ormai specializzato in stati di emergenza, non reprime ancora in Emilia con molti morti e feriti tra la popolazione, i moti suscitati dalla tassa sul macinato?
Il primo è uno dei quesiti che si pone una commissione ministeriale, nominata a guerra appena finita dal ministro, generale Efisio Cugia, che lavora tra gennaio e marzo del 1867 con lo scopo di ridare efficienza al sistema. A questo fine, mentre i tagli al bilancio portano alla soppressione di reparti e comandi operativi, è significativo che si trovino risorse per creare una Scuola di guerra, accademia aperta in base al merito ogni anno a poco più di 60 ufficiali di ogni arma, desiderosi di accelerare e qualificare la propria carriera seguendo un corso di durata triennale, superato in media dai due terzi dei frequentanti. Dal 1870 l’esercito disporrà così di quadri direttivi di formazione avanzata e omogenea.
Alle conclusioni della Commissione ministeriale si ispira il progetto presentato al Parlamento nel marzo del 1867, il primo dei quattro che cinque ministri riproporranno negli anni seguenti. Esclusa la formazione dei reparti su base regionale per motivi legati alla ancora relativa saldezza politica e sociale della nazione, i governi ripropongono, tranne in un caso, alcune misure comuni: aumentare il numero dei coscritti riducendo la durata della ferma; combattere la renitenza borghese; disporre di un esercito di prima linea di oltre 400.000 uomini in tempo di guerra e di oltre 140.000 in tempo di pace.
La crisi ministeriale del dicembre 1869 genera quella della riforma perché il ministro, generale Giuseppe Govone si propone di far rientrare la dimensione dell’esercito di pace nei limiti che Quintino Sella impone alla spesa pubblica, vale a dire di ridurlo a 100.000 soldati. L’opposizione e l’ostilità sia dei lamarmoriani, sia dei riformisti, sia del re, sono unanimi. Di fatto Govone è solo e la sua partita è perduta, anche perché una nuova emergenza dimostrerà la necessità di tenere pronto un esercito di più ampie dimensioni.
Terzo ammiraglio a diventare ministro è, nel febbraio del 1868, Augusto Antonio Riboty, intenzionato a sollevare le sorti compromesse della forza armata. Tuttavia, sono utilizzabili appena sette corazzate, più l’Affondatore, recuperato dopo un imbarazzante naufragio in porto a seguito dei danneggiamenti subiti a Lissa, e la squadra del Mediterraneo non si esercita perché ha tre unità corazzate su cinque fisse nelle acque di Palermo, di Alessandria d’Egitto e del Pireo a tutela degli interessi italiani nel Mediterraneo. Troppo poco se paragonato alle missioni da compiere.
La prima è prepararsi alla guerra sul mare. Strategicamente debole in Adriatico, non più forte nel Tirreno, la marina guarda senza speranze a una rotta che va verso sud, attraverso il canale di Sicilia, in direzione delle coste tunisine e di Suez. Altre missioni sono: portare la bandiera nazionale in aree geografiche lontane; provvedere alla difesa delle basi navali; fare i conti con il controllo e la difesa di migliaia di chilometri di costa e di tante e importanti città, minacciate le une e le altre da possibili operazioni di sbarco o di bombardamento. Non vi sono ovviamente navi e costruzioni navali che possano bastare perché la condizione strategica dell’Italia è totalmente cambiata con la caduta dell’Impero francese. La minaccia non è più rappresentata dalla sola flotta austro-ungarica in Adriatico, ma anche da quella francese nel Tirreno.
La guerra tra Prussia e Francia crea l’opportunità di completare, ancora una volta per via militare, il processo di unificazione. Per la preparazione della «conquista» di Roma servono alla marina l’affrettato riarmo di una squadra navale di sole navi corazzate (la cui presenza a largo di Civitavecchia induce alla resa la piazzaforte il 16 settembre) e all’esercito il richiamo di tre classi di riservisti e l’acquisto di ben 12.000 cavalli. Al solito Cadorna – prendere a cannonate il papa è un affare delicato – va il comando del corpo che entra nel Lazio il 12 settembre e termina rapidamente le operazioni davanti alle mura di Roma il 20.
Il 1870, che dimostra per la seconda volta all’Europa l’efficienza del sistema militare prussiano, in Italia non consente di utilizzare la presa di Roma, impresa di fatto simbolica, per raccogliere i frutti di una grande vittoria militare della quale si avverte ancora la mancanza. Mentre la marina continua a rimanere in secondo piano.
Riboty propone un piano di rilancio della flotta che soltanto due anni dopo la presentazione, ripetuta dopo il suo ritorno al ministero nel 1871, riesce a trasformare in disegno di legge. Tra il primo e il secondo mandato ministeriale di Riboty va segnalata l’assunzione della responsabilità politica della forza armata, in totale continuità con la linea seguita dal suo predecessore e successore, da parte dell’ammiraglio Guglielmo Acton, da ricordare per essere stato il primo ufficiale proveniente dalle forze armate borboniche ad assumere responsabilità di governo. Il fabbisogno della flotta, fissato da Riboty in 73 unità, comprende 12 navi di linea e 22 da crociera, parte esistenti, parte in costruzione. Tuttavia, il vero obiettivo è quello di avere entro dieci anni 20 navi di linea, che servirebbero per ottenere superiorità in un’azione strategica di contrasto sulla flotta avversaria, ma anche per raggiungere, in avvenire, un potere marittimo capace di proteggere gli interessi della nazione esercitando un’opportuna influenza nella politica europea. Tutto questo urta, però, con la politica di bilancio che nel 1870 assegna al ministero della Marina la metà della somma ricevuta nel 1867, accrescendola di poco nei quattro anni seguenti.
Per progettare le nuove navi il ministero può però contare su un ingegnere navale di grande capacità, Benedetto Brin. Le sue corazzate, Dandolo e Duilio, impostate a La Spezia e Castellammare di Stabia nel 1873, hanno lo scafo costruito per la prima volta in ferro. Abbandonate le vele, rappresentano una evoluzione anche per le artiglierie (ancora ad avancarica), collocate in due torri girevoli, e per la protezione. Non è ancora possibile però costruire in Italia motori, artiglierie, corazze e macchine utensili, che vengono importati da Francia e Gran Bretagna.
Costruire e mantenere nuove e costose unità acuisce l’esigenza di eliminare navi ritenute militarmente non più utili dalla nuova amministrazione affidata all’ammiraglio Simone Pacoret de Saint-Bon. Questi programma la vendita di 25 navi, poi salite a 33, per un introito stimato in 60 milioni di lire in cinque anni, con i quali intende finanziare altri progetti di Brin, tra cui una seconda classe di corazzate adatte anche al trasporto di unità dell’esercito, più veloci, con maggiore autonomia, con artiglierie a retrocarica, con scafo in acciaio, ma meno protette. Nel 1875 l’Italia viene affidata ai cantieri di Castellammare, nel 1876 la Lepanto ai cantieri Orlando di Livorno.
L’esercito sembra avere minori problemi, forse perché si affaccia al governo la persona giusta. Il successore di Govone, che isolato e malato si dimette dal governo e dall’esercito, è Cesare Ricotti Magnani, altro giovane generale proveniente dal ristretto gruppo degli ufficiali emergenti degli anni Cinquanta. Egli sa sfruttare una condizione di vantaggio sui suoi predecessori: la nuova consapevolezza, non solo tra i vertici dell’esercito ma anche nella classe politica e nell’opinione pubblica, della superiorità del modello prussiano, sia pure variamente interpretata.
Il ministro comincia a preparare il terreno con cinque provvedimenti amministrativi che incidono sull’ordinamento. In particolare, quarantacinque distretti militari sono destinati a sollevare i reggimenti dalle operazioni di arruolamento, equipaggiamento, primo addestramento e mobilitazione. Al progetto di legge, approdato in prima lettura al Senato, Ricotti affida invece le disposizioni sul servizio di leva. Anticipata la chiamata al ventesimo anno d’età, con una ferma più breve, di quattro e sei anni per fanteria e cavalleria, egli intende ottenere un esercito attivo di 420.000 uomini e uno di pace di 158.000, inclusi i giovani borghesi, per ragioni di credibilità di fronte alla sfida che rappresenta la costruzione di un sistema militare finalmente «nazionale». Privati della possibilità di acquistare legalmente l’esonero, i borghesi possono però ancora scegliere di procurarsi a pagamento o un passaggio dalla prima alla seconda categoria, destinata a un servizio di cinque mesi al massimo, oppure l’accesso al volontariato «senza soldo», che significa essere vestiti, mantenuti e, se di cavalleria, montati a proprie spese con la prospettiva di conquistare entro un anno il passaggio, a metà prezzo, alla seconda categoria oppure, dopo nove mesi, l’idoneità al grado di ufficiale di una milizia provinciale ancora inesistente.
L’esame del provvedimento in commissione mette in evidenza, nella relazione di minoranza firmata dal generale Luigi Mezzacapo, esponente della Sinistra, la possibilità di un meccanismo di arruolamento alternativo che abolisce la divisione del contingente in categorie. Se la riduzione degli stanziamenti impone di sacrificare il principio dell’obbligo del servizio alla politica di bilancio, meglio non fissare confini e lasciare libero il contingente di crescere, quando saranno disponibili le risorse finanziarie, fino a farlo coincidere con il gettito della leva che, a regime, avrebbe prodotto un esercito di pace di circa 300.000 uomini. In questo modo Mezzacapo ottiene un risultato politicamente importante: presentare la riforma di Ricotti, ministro ed esponente di punta della Destra, come il primo passo verso il sistema che i democratici vogliono, come l’inizio di una rivoluzione militare.
Alla Camera l’opposizione è rappresentata da La Marmora, colpito non tanto dalle innovazioni di Ricotti ma proprio dalla lettura che ne dà Mezzacapo. Ricotti riesce a impedire ulteriori modifiche in cambio dell’impegno, gradito ai moderati di entrambi gli schieramenti, a presentare un progetto di riduzione a tre anni della ferma. Intanto, sei mesi dopo, presenta un provvedimento che sottopone l’ordinamento dell’esercito, già regolato per decreto, al giudizio del Parlamento. La novità è la creazione, a partire dal settembre del 1873, di una milizia mobile come parte integrante dell’esercito, dotata sulla carta di una forza di poco inferiore a questo e di quadri di complemento di varia provenienza (ufficiali dimissionari, volontari «borghesi», ex sottufficiali). La milizia toglie spazio alla Guardia nazionale, tanto che Ricotti, presentato a novembre dello stesso anno un progetto complessivo di armonizzazione delle leggi vigenti sul servizio militare, chiede entro l’anno seguente l’abolizione della Guardia sostituendola con una milizia territoriale. È il segnale della fine di una stagione politica cominciata nel 1848, quella della partecipazione civica alla tutela militare dei valori e degli assetti costituzionali, ora assunti totalmente dall’esercito. L’opposizione della Sinistra infatti è tanto forte, e non certo per motivi di carattere tecnico-militare, che riesce a bloccare l’esame del provvedimento.
Il progetto del 1873 è rilevante soprattutto perché, dopo un iter parlamentare lungo e tormentato, sancisce, a partire dal giugno 1875, il principio dell’obbligo generale personale dei cittadini italiani al servizio di leva. La durata, come promesso al Parlamento due anni prima, è fissata in tre anni per la fanteria e in cinque per la cavalleria sino al trentanovesimo anno di età per tutti gli idonei, esentati compresi. Il principio è molto diverso dunque dall’obbligo di servizio per i soli arruolati introdotto da La Marmora venti anni prima ed è quanto Mezzacapo ha chiesto in Senato.
Mentre l’esercito di La Marmora, malgrado il ricorso alla leva, è una «istituzione separante e separata» (Del Negro 1979, p. 198) rispetto alla società civile e soprattutto politica, quello di Ricotti intende rappresentare la cittadinanza armata in difesa delle istituzioni. Per questo servono sì disciplina e obbedienza, ma obbedienza il più possibile consapevole della missione da compiere. Più facile a ottenersi, se i soldati sono messi in grado di alfabetizzarsi: compito, questo, che l’esercito coerentemente si assume, con esiti incerti, dal 1871.
Il privilegio residuo è quello di studenti, «capi di impresa» e apprendisti che possono arruolarsi volontari per un anno – atto che costa alle loro famiglie tra 1.500 e 2.000 lire – usufruendo di un arruolamento differito sino al ventiseiesimo anno di età e soprattutto procurando l’esonero ai fratelli. Vantaggio di rilievo, visto che i figli unici sono esentati. Sia fra il 1871 e il 1875 che negli anni seguenti, tuttavia, i volontari rimarranno in media 1.500 l’anno, pur essendo abolito il cambio di categoria sfruttato fino ad allora da 2.000 giovani. Il che fa supporre per la maggioranza di coloro che potrebbero sfruttare questa opportunità, stimati attorno a 5.000 unità, o l’accettazione della leva triennale o il suo rifiuto coperto con mezzi illegali.
Tuttavia a livello popolare il nuovo sistema non spaventa quanto il precedente nei primi anni Sessanta dell’Ottocento. La riduzione della durata della leva contribuisce di certo al calo dell’indice di renitenza, che negli anni Settanta scende sotto la soglia del 4%, scontando anche gli effetti dell’emigrazione. Certo le province di Genova, Napoli, Palermo e Messina, in ordine decrescente, presentano ancora tassi di renitenza da quattro a tre volte la media nazionale. In particolare Napoli, le province siciliane, oltre al triangolo Salerno-Cosenza-Potenza sono gli ultimi ridotti del «gran rifiuto meridionale» (ivi, p. 204) dell’esercito e dello Stato.
I costi del sistema sono tenuti bassi congedando con un anno di anticipo 12.000 uomini del contingente di prima categoria, portato a 65.000, il che consente a Ricotti di avere a disposizione una forza annua media di 160.000 soldati con un bilancio che da 250 milioni è sceso dal 1867 a 160.
Il complesso della straordinaria attività riformatrice di Ricotti si completa con altre misure. Nuove disposizioni per la mobilitazione sono impartite nel 1873, fondate sull’ampliamento della rete dei distretti, divenuti 62 l’anno precedente, e sull’impiego delle linee ferroviarie che prevede la specializzazione di due compagnie del genio. Altre quindici compagnie di fanteria alpina, a reclutamento locale, devono provvedere alla difesa avanzata dei passi montani per guadagnare tempo utile a completare la mobilitazione e lo schieramento. Il ministro procede, infine, al rinnovo dell’armamento individuale e delle artiglierie.
Scelto un moderno fucile a retrocarica di modello svizzero, ma in versione monocolpo per evitare lo spreco di munizioni, il ministero riceve dal Parlamento in due riprese, nel 1872 e nel 1875, fondi per costruirne 446.000, sufficienti per l’esercito di prima linea. Nel campo delle artiglierie per la prima volta l’approvvigionamento deve avvenire all’estero, in Germania, quando l’acciaio sostituisce il bronzo nei pezzi da campagna da 87 millimetri. Agli arsenali di Stato è ancora riservata la produzione dei grossi calibri, una sessantina di pezzi in ghisa cerchiata.
Spese ben maggiori annuncia la costruzione di un sistema di fortificazioni che, dopo nove anni di studio, la Commissione permanente per la difesa dello Stato propone al ministro nell’agosto del 1871. In questo ambito la questione tecnica sconfina nella questione politica perché la collocazione delle fortificazioni, condizionata evidentemente dalle caratteristiche del terreno, non è indifferente alla soluzione del problema strategico e di quello di un bilancio insufficiente.
I piani redatti sono infatti due: uno per 97 opere dal costo di 306 milioni, l’altro «ridotto», per 77 opere dal costo di 146 milioni. Entrambi prevedono l’impiego delle fortificazioni in una difesa sistematica del territorio nell’Italia continentale appoggiata a tre linee – le Alpi, il Po e gli Appennini, gravitante sul campo trincerato di Bologna – e in una «a capisaldo» per quella peninsulare, affidata ai campi trincerati di Roma e Capua e a numerose piazze, molte delle quali costiere.
Tanto impegno tecnico e finanziario nella difesa, reso pubblico e dibattuto con attenzione e vivacità sulla stampa periodica, rivela quello che non è certo un segreto militare, l’orientamento strategico che guida da anni i responsabili del sistema militare del paese, Ricotti per ultimo, ma con maggior consapevolezza e determinazione degli altri: la difensiva. A questo serve l’esercito, a questo servono le fortificazioni, a questo serve la flotta. La minaccia del resto non proviene da una, ma da due potenze: il vecchio Impero austro-ungarico e la nuova Repubblica francese. E nei confronti di quest’ultima la vulnerabilità strategica dell’Italia è talmente alta che nel 1867 e poi nel 1873 fa addirittura temere sbarchi in prossimità dei centri principali della costa tirrenica, Roma inclusa.
La commissione della Camera presieduta da Depretis procede lentamente nell’esame del provvedimento, proposto da Ricotti nel dicembre del 1871 nella versione ridotta. La ragione sta nel fatto che elabora e propone nel giugno del 1873 un proprio piano, una sorta di argine fortificato che, fallita la guerra di movimento tra lo sbocco delle valli e la pianura, va da Genova a Venezia per Piacenza e Mantova, e superato il quale Bologna diventa il centro principale di resistenza lungo l’Appennino. La Spezia, Roma e Capua devono essere messe in grado di resistere a lungo.
In questa occasione il modello di relazioni fra legislativo ed esecutivo cambia rispetto a dieci anni prima. Il Parlamento è vigile e impegnato in attente valutazioni di ordine tecnico-militare oltre che politico. Con una doppia conseguenza: ritarda il processo di realizzazione delle opere e trasforma la minaccia e la catastrofe militare da ipotesi di studio e base della preparazione di piani di difesa in qualcosa di politicamente imbarazzante. La discussione pubblica sembra ridurre il prestigio delle forze armate e minare la fiducia nella loro capacità di produrre sicurezza, tanto più quando le risorse a disposizione dell’esecutivo sono limitate. Ricotti lo percepisce e ne tiene conto. Se sulla «Rivista Militare» trova spazio l’affermazione politicamente corretta dell’opportunità dell’esame in Parlamento, punto per punto, delle fortificazioni in ragione della loro funzione e del loro costo, nella riproposizione nel novembre 1873 del provvedimento, egli sopprime le indicazioni relative alla localizzazione delle opere. È comunque noto che sono state eliminate numerose località costiere e tutte le fortezze destinate alla valle del Po, per cui il costo del piano si riduce a 79 milioni. Ma il ministro potrà scegliere luoghi e modalità della spesa.
Anche in questo secondo passaggio parlamentare, tuttavia, la commissione propone due soluzioni, quella del ministro e una propria che suggerisce il ripristino delle opere per la valle padana, al momento non finanziabili. A marzo del 1874 la legge è approvata. Tra i lavori importanti vi sono anche le fortificazioni di Roma, capitale e unico nodo ferroviario di collegamento con il Sud. Sono però di ridotta entità: devono garantire appena quindici giorni di resistenza.
La spesa si rivela comunque elevata, se un calo non previsto delle entrate costringe il governo a rinviarla, ritirando il provvedimento già in discussione al Senato. La priorità dell’equilibrio finanziario sulle spese straordinarie non è in discussione. E forse non è un male, se non sembra esserlo al nume tedesco della guerra Helmuth von Moltke, il cui consiglio ha il valore di un oracolo nell’ambiente militare e politico italiano. Suggerisce infatti al presidente del Consiglio Marco Minghetti di non spendere troppo denaro per moltiplicare piazze e campi trincerati, ma di rafforzare l’esercito di manovra.
Tuttavia Ricotti ripresenta un provvedimento analogo nel gennaio del 1875 chiedendo 20 milioni in cinque anni per le fortificazioni, riservandosi anche questa volta di scegliere le località, mentre la commissione parlamentare ritiene di doverne individuare tredici, escludendo però Roma. La responsabilità politica e operativa della preparazione strategica è fermamente rivendicata all’autorità di governo da Ricotti, ma richiede anche una elaborazione tecnica che un comitato consultivo di stato maggiore generale si sforza di dare con sistematicità. Nel piano di lavoro del comitato ogni ipotesi di guerra produce uno studio delle operazioni possibili. Ma sono esercitazioni teoriche piuttosto che piani quelle preparate tagliando ogni necessario collegamento tra ipotesi operative e indirizzi politici dettati dal governo. L’unico punto di riferimento sicuro rimane allora la politica di bilancio che fa registrare una riconferma sostanziale dell’incidenza delle spese militari su quelle generali fra il 1872 e il 1876, con un innalzamento delle spese per l’esercito a partire dal 1874 e per la marina dall’anno seguente.
Nel marzo del 1876 gli indirizzi di politica militare mutano non per un semplice cambio di governo, ma per quello della maggioranza politica che lo esprime. L’avvento della Sinistra rovescia la linea seguita dal 1870 proposta e realizzata – fortificazioni escluse – con coerenza e tenacia da un grande ministro riformatore come Ricotti. Non sembra mutare invece l’orientamento che guida lo sviluppo della marina. Quell’anno la nomina del ministro della Marina del governo Depretis è una scelta che rompe con la tradizione dei ministri-ammiragli: non è un ufficiale di vascello infatti a succedere a Saint-Bon, ma un ufficiale del genio navale, l’ingegner Brin, il progettista della nuova flotta italiana.
È durante il primo anno del suo ministero che assiste al varo della Duilio, mentre nel secondo vede scendere in mare la Dandolo, completate però, rispettivamente, nel 1880 e nel 1882. Italia e Lepanto lo saranno molti anni dopo: nel 1885 e nel 1887. Un’attesa che va da cinque a undici anni per avere in squadra una corazzata impone di incrementare la capacità delle industrie sia nella costruzione degli scafi, sia nella loro corazzatura, sia nella dotazione di artiglierie. Serve dunque in Italia un impianto di siderurgia bellica la cui localizzazione il ministero definisce nel 1876, scegliendo Terni per motivi di sicurezza e di abbondanza di energia idraulica. A fianco della Regia fabbrica d’armi sorgerà dunque col tempo un’impresa privata, sollecitata dalla prospettiva delle future commesse e di congrui anticipi sui pagamenti.
L’arretratezza della cantieristica italiana, che già interessa Brin come progettista, lo coinvolge ora, e forse di più, come ministro. Anche perché, nel febbraio del 1877, egli presenta un altro piano organico, il terzo dopo quelli di Persano e di Riboty, che prevede 72 unità di cui 16 navi da battaglia corazzate, soltanto due delle quali da costruire, insieme a 10 incrociatori. Il tempo di allestimento è realisticamente stimato in dieci anni con una spesa complessiva di 146 milioni.
Fa pensare a una sostanziale continuità di indirizzo tra le due amministrazioni il generale Mezzacapo, politico meridionale fondatore venti anni prima, col fratello Carlo, della «Rivista Militare», primo ministro della Guerra formatosi in gioventù nell’esercito delle Due Sicilie. È autore infatti di un rafforzamento delle norme introdotte da Ricotti. Riprende e conduce in porto la creazione della milizia territoriale che comporta l’abolizione della Guardia nazionale, in precedenza bloccata proprio dall’opposizione. Riordina minutamente in un testo unico e in un regolamento esecutivo le disposizioni delle ultime tre leggi sul reclutamento. Porta a 87 i distretti, ma poi procede in coerenza con quanto sostenuto in Parlamento e sulla stampa.
Rinuncia, infatti, all’istruzione della seconda categoria per tenere in servizio i 12.000 soldati destinati al congedo anticipato e mantenere un esercito attivo più numeroso. Mentre Ricotti puntava ad accumulare riservisti per una seconda linea che doveva raggiungere più del 60% delle forze mobilitate in caso di guerra, ritenendo sufficienti per la prima 300.000 uomini, Mezzacapo mira all’obiettivo contrario: rafforzare la prima linea a scapito della seconda, riequilibrando quella proporzione e schierando un esercito da 400.000 uomini, suscettibili di salire in futuro a 600.000. Da qui la necessità di avere a disposizione un maggior numero di fucili a retrocarica da destinare alla più numerosa prima linea e di portare l’esercito di pace a 215.000 uomini, guidati da quadri più giovani e selezionati per merito, misura davvero rivoluzionaria per le tradizioni dell’esercito italiano.
Inoltre per Mezzacapo la seconda linea conta meno perché i compiti di copertura della mobilitazione e dello schieramento dell’esercito possono e devono ricadere non solo sugli uomini, più utili in prima linea, ma principalmente sulle fortificazioni. Da qui la decisione di costruire fortificazioni a Roma, ben più robuste di quelle progettate e già escluse, stornando 5 milioni di lire dai 13 stanziati per i valichi alpini. Modifica di sistema e non scelta obbligata, come viene presentata a causa di una supposta minaccia di guerra (e di sbarco) da parte francese. Il tipo di opere e i tempi lunghi di costruzione vietano infatti di stabilire un legame diretto tra pericolo e decisione. Inoltre non vi sono reazioni di questo tenore per altri centri a proposito di una presunta minaccia austro-ungarica avvertita quando Mezzacapo non è più ministro e che gli offre però l’occasione per definire il programma di politica militare della Sinistra.
La diversa soluzione della Sinistra militare e politica che Mezzacapo rappresenta, rispetto alla Destra di Ricotti, non è dottrinaria, non è una questione di diversa scuola di pensiero che divide i generali, ma appunto una questione politica, dichiarata dalla nuova strategia verso la quale si orientano ora ministero e governo. L’obiettivo è uscire dall’isolamento politico in Europa e riguadagnare considerazione internazionale in primo luogo sul piano militare, fondamento di qualunque alleanza si voglia stringere. Occorre pensare prima alla sicurezza e poi all’equilibrio finanziario. Serve dunque un programma di spese straordinarie – un miliardo di lire la spesa stimata – di durata triennale, ma concesso tutto in una volta con facoltà per il ministro di disporne senza vincolo di spesa.
Più soldati alle armi e nella prima linea servono a Mezzacapo e alla Sinistra per condurre un’eventuale guerra puntando non sulla difensiva, come da quindici anni a quella parte avviene, ma sull’offensiva strategica verso la quale si orientano e si muovono sul piano dei provvedimenti concreti dopo il 1878, l’anno nel quale Mezzacapo conclude la sua esperienza ministeriale, ma non la sua battaglia politica che ha pieno e duraturo successo.
I ministri da lui influenzati – almeno sei, uno dei quali, Bernardino Milon, già segretario generale del Ministero, è il primo generale giunto al governo tra gli ufficiali transitati dall’esercito delle Due Sicilie nel 1860 – non sono politici esperti ma generali scelti o, come si usa dire, «comandati» dal nuovo re. Forse non è un caso che nel 1879, ministro Gustavo Mazè de La Roche, ricompare dopo diciotto anni l’aggettivo «regio» nella denominazione ufficiale dell’esercito italiano. Il ritorno all’applicazione della prerogativa reale che intende sottrarre la politica militare al controllo della Sinistra, in particolare della componente più progressista guidata da Benedetto Cairoli, finisce per favorire il disegno della stessa Sinistra che rivoluziona gli orientamenti strategici.
Pensare all’offensiva strategica significa infatti progettare un ruolo dell’Italia nella politica internazionale che metta a frutto la conclusione della seconda fase (dopo la prima della formazione e dello sviluppo di esercito e marina nel corso degli anni Sessanta): quella della loro trasformazione secondo gli standard europei. La terza fase che ora si apre, e dura almeno un decennio, vede un governo e forze armate lanciati, in assenza degli obiettivi ambiziosi ma ben definiti degli anni 1860-76, verso una dinamica ma ancora incerta espansione dell’influenza italiana in Europa e nel mondo. Il capo della divisione di stato maggiore del ministero, colonnello Luigi Pelloux, nel 1879 dichiara che l’ideale della nazione armata raggiunto per via statale grazie alla politica riformatrice di Mezzacapo (e di Ricotti) non va considerato come punto di arrivo, ma come presupposto per procedere oltre e pensare a strategie offensive per le quali l’esercito non è ancora preparato.
Occorre infatti un esercito in grado di varcare le frontiere e colpire al cuore il nemico. Sostiene esplicitamente questa tesi in un articolo pubblicato un anno dopo sull’autorevole «Nuova Antologia», e non sulla «Rivista Militare» della quale è direttore, e dunque, prudentemente, a titolo personale, un tenente colonnello di stato maggiore che proviene dal Trentino e dai garibaldini, il cui nome è Oreste Baratieri.
Le suggestioni che suscitano sia la proposta sia il nome del suo autore confermano, ove ve ne sia bisogno, il passaggio ormai avvenuto a un diverso tempo della storia delle forze armate italiane, il cui ordinamento farà un salto di qualità nel 1882 con la costituzione di altre 4 divisioni di fanteria e con la creazione di un vero organo di comando, lo stato maggiore dell’esercito, affidato al generale Cosenz. Se non è la premessa, è di certo il preludio della adesione alla Triplice alleanza.
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