Le frontiere navali
Il diaframma Italia-Tunisia divide il Mediterraneo in due parti diseguali, di cui quella orientale un tempo infinitamente più importante e ricca - è a sua volta percorsa per buona parte dell'asse verticale dalla lunga strada dell'Adriatico.
Al suo vertice, appena alla periferia del mondo tedesco, Venezia; dall'altro capo le acque calde dell'Egeo: fra essi, e oltre, un ininterrotto cordone ombelicale fatto di città, porti, fondaci con i quali la Repubblica, nel XV secolo, riuscì a congiungere l'Europa alla via delle spezie.
Parlare di questa impresa, che almeno per tutta l'età moderna rappresentò lo spartiacque tra due civiltà, due religioni, due circuiti economici diversi e spesso contrapposti, significa occuparsi prevalentemente di quel mare su cui essa sorse e da cui trasse vita, la qual cosa altri han fatto benissimo nel volume Il Mare di quest'opera.
Alle riflessioni degli studiosi che mi hanno preceduto, dunque, vorrei richiamarmi, per ricordare preliminarmente, a rischio di incorrere nell'ovvio, che l'acqua sarà una presenza assidua e sempre condizionante, ancorché spesso sottesa, negli avvenimenti che incontreremo. La mercatura, i rapporti politici, le guerre: i collegamenti insomma, e le operazioni di qualsiasi tipo condotte sul mare, per l'epoca in esame, comportavano costi e difficoltà quasi sempre superiori - e di gran lunga - ad analoghe realtà terrestri.
Ma come rendere il senso di questa valenza ulteriore?
Braudel e il suo pensiero sono stati seppelliti in fretta; non mi dispiace mica: egli insegnò soprattutto un metodo, e i metodi mi intristiscono.
Però fu uomo di grandi intuizioni, di cui una seppe esprimere con straordinaria efficacia proprio in apertura del suo libro più famoso, rinunciando - dopo aver tanto meditato sulle civiltà mediterranee - a narrarne le vicende tout court: "Io penso che il mare [scriveva> così come si può amarlo e vederlo, sia il più grande documento esistente sulla sua vita passata [...>. Inutile volerne scrivere la semplice storia [...>; inutile voler dire, a suo riguardo, le cose alla buona, come sono avvenute [...> " (1).
Questa sorta di ammissione di resa poiché di ciò, in fondo, si tratta - mi si presentò alla mente durante la lettura di un manoscritto che descrive la battaglia avvenuta al largo di Modone il 7 ottobre 1403 fra i Genovesi guidati dal maresciallo francese Jean Le Meingre, signore di Boucicaut, ed i Veneziani di Carlo Zeno.
Assalito da tre galere avversarie e ridotto a mal partito, costui - narra la fonte - fece improvvisamente spostare tutti i suoi uomini su un lato della nave, "dal qual movimento, e dal peso sopravvenuto alla sinistra, tanto si innalzò il fianco destro della sua galera, che gli inimici che la combattevano da quella parte non vedevano più le genti di Carlo, et il corpo di quel fianco tanto sollevato come uno scudo impediva che potessero esser feriti". Nel corso del combattimento lo Zeno rifece il giochino più volte, con varianti: da ultimo, accostatasi un'altra galera genovese, ordinò che si ritirassero i remi, quindi, sbilanciata nuovamente la propria nave, li fece risospingere fuori ordinando nel contempo all'equipaggio di buttarsi sul lato opposto, con l'effetto che la fila dei remi si abbatté sui marinai del Boucicaut come la percossa disastrosa di un maglio (2).
Carlo Zeno era quello che era, e dunque da un par suo bisogna aspettarsi di tutto; pure la vicenda fa impressione: che scontri, che uomini erano questi? Anche a voler far la tara al presumibile intento apologetico che sottende la narrazione, è evidente che siamo di fronte ad un'interpretazione del tutto personale e disinvolta della battaglia, fatta di intuizione, esperienza, decisionismo supportati dalla sicurezza di una tempestiva esecuzione, dalla garanzia di una ferrea disciplina. Realizzare una manovra come quella attuata dai Veneziani costituirebbe ardua impresa anche in assenza di ostacoli, figuriamoci tra il sibilo delle frecce e dei verrettoni, frammezzo al fuoco, allo strepito, all'incalzare di nemici che possiamo immaginare nient'affatto sprovveduti, anzi del pari abili e coraggiosi...
Che uomini erano questi, dunque?
E allora, nel momento in cui si raccolgono le idee e ci si accinge a scrivere, mi ritrovo a sperare - tardo e malaccorto echeggiatore di Braudel - che il superamento dei limiti di una semplice esposizione possa forse essere affidato alla suggestione di un'immagine: quella, per esempio, di un'onda lunga che lambisce coste lontane tra loro eppur sempre uguali, l'onda di un mare solcato da un'infinità di vele e percosso incessantemente da remi sui quali si affaticano uomini provati dal vento e dal sole.
Alcuni di essi hanno un nome e li ritroveremo nelle pagine che seguiranno, ma la maggior parte non ha lasciato traccia di sé.
Eppure credo che, per il periodo di cui ci occupiamo, quanti navigarono - di propria volontà o perché costretti siano stati in qualche misura, in qualche modo, degli eroi; perché sfidarono il pericolo delle flotte nemiche, dei pirati, dei naufragi, dell'imprevisto e perché conobbero tutti la privazione e la sofferenza.
Vi sono momenti, nella storia, in cui il sommarsi di eventi imprevedibili modifica d'un tratto il quadro, gli stessi parametri della politica di uno o più stati, talora di intere regioni; vi sono circostanze, insomma, nelle quali il fluire degli eventi sembra voler accelerare la sua corsa.
L'anno 1402 rappresentò, per Venezia, uno di questi snodi: nell'aprile la peste si portò via Giangaleazzo Visconti, signore di Milano, e qualche mese dopo, il 28 luglio, ad Ankara i Mongoli di Timùr lo Zoppo (Tamerlano) annientavano l'esercito turco, il cui sultano, Bayezid I, avrebbe finito i suoi giorni in una gabbia di ferro che il barbaro vincitore portava sempre con sé.
È noto che tale duplice felice circostanza consentì al Comune Veneciarum di procedere, da un lato, alla conquista della vicina Terraferma, dall'altro, all'annessione della Dalmazia, ma soprattutto significò per i Veneziani l'aprirsi di una stagione destinata a durare almeno un quarto di secolo - in cui la loro potenza si sarebbe dispiegata trionfante in tutto l'Egeo e la rete dei traffici avrebbe toccato nuove dimensioni e raggiunto profitti inimmaginabili.
A dire il vero, l'espansionismo veneziano nel basso Adriatico e nella Romània s'era manifestato già all'indomani della conclusione della guerra di Chioggia, sotto le usuali ed, in concreto, equivalenti forme della conquista, dell'acquisto, della dedizione.
Qualche dato: nel 1386 Venezia si assicura Corfù, nel 1388 Nauplia (Morea), nel '91 Tine e Mikonos (Egeo), nel '92 Durazzo e Alessio (Albania), nel '94 Argo e Malvasia (Morea), nel '96 Scutari (Albania), nel '97 Drivasto (Albania), nel 1406 Antivari e Dulcigno (Albania), l'anno dopo Lepanto (Grecia), nel 1408 Patrasso (Grecia), nel 1409 - come si è detto - la Dalmazia, nel 1410 Navarino (Morea) e, nel '23, Tessalonica o Salonicco che dir si voglia. Si aggiungano a queste le terre già veneziane, quali Modone e Corone, Candia, Negroponte, e le isole dell'Egeo rette da dinasti feudali appartenenti al patriziato lagunare, come i Barozzi a Santorino, i Giustinian a Sérifos, i Michiel a Kea, i Navagero a Lemno, i Querini a Stampalia, i Sanudo a Nasso e ad Amorgo, gli Zen ad Andros...
Questa catena di porti e scali era ovviamente in gran parte funzionale all'esercizio della mercatura: in questo torno di anni tutte le mude sono attive (nel 1402 viene istituita anche quella di Aigues-Mortes), e dopo il trattato del 1403 con cui il sultano turco Suleyman (lo Zalabi delle cronache veneziane) accorda ai cristiani intera libertà di commercio nei territori ottomani, anche il viaggio della Tana assume cadenza regolare (3). Annota il Nani, a proposito del periodo compreso fra il 1 381 ed il 1408:
L'ampliazione del credito era giunta a tanto grado di estimazione e di onore, che qualunque nazione averebbe affidati tutti li suoi capitali, tutti i suoi fondi, tutte le sue sostanze ai mercanti veneziani, [al punto che gli immancabili naufragi, gli assalti dei pirati, le ritorsioni di Genovesi, Aragonesi, Turchi> non si consideravano che come una tenue pensione di un vastissimo commerzio, che arrecava smisurato beneficio di guadagno generale (4).
Del resto, basta scorrere i registri delle deliberazioni senatorie presso l'Archivio di Stato di Venezia, per accorgersi come gli incanti delle galere e l'organizzazione delle mude assorbano la maggior parte della documentazione, relegando in spazi assai ristretti la materia più propriamente politica (5).
Questo quadro tanto roseo non era tuttavia destinato a durare in eterno, e dunque vien da chiedersi se Venezia sul piano politico abbia allora agito per il meglio: in altri termini, se non avesse potuto operare con maggior preveggenza.
Nella sua opera ormai classica, Thiriet l'accusa di miopia: galvanizzato dalla repentina, ma provvisoria eclisse del pericolo ottomano, il Comune Veneciarum non pensò affatto ad eliminarne per sempre la minacciosa presenza nella Romània, ma approfittò della favorevole congiuntura per regolare i conti con i tradizionali avversari Genovesi e Ungheresi, ignorando i ripetuti appelli (1416 e 1420) dell'imperatore Manuele II alla lotta contro un infedele che, diversamente dagli altri, non accettava di convivere con i cristiani (6).
Miopia politica.
Certo, in Levante Venezia perse probabilmente una straordinaria occasione, ma non possiamo meravigliarcene più di tanto, né rimproverarle di non aver praticato una strategia maggiormente accorta, dal momento che in realtà essa non ne ebbe mai una; nella fattispecie, il Comune seguì il tradizionale empirismo cui s'ispirava la sua prassi politica, sfruttando le circostanze più favorevoli e convenienti nell'immediato, specie riguardo alle implicazioni economiche: d'altronde, con suggestiva immagine, il senato non è stato paragonato al consiglio d'amministrazione d'una delle nostre banche?
Il governo veneziano dunque approfittò del miglioramento dei rapporti con le popolazioni greche verificatosi negli ultimi decenni del '300, soprattutto in conseguenza della battaglia di Kossovo, per sostituire la bandiera di San Marco a quella dei molti e debolissimi signori che si dividevano il dominio del Levante, mediante le annessioni delle quali poc'anzi si è fornito un rapido ed incompleto elenco.
Queste, di regola, si concludevano con l'approvazione di "capitoli" destinati a regolare i rapporti tra Dominante e comunità locale, sotto forma di privilegi accordati dal senato (7), ma ciò non significa che la penetrazione politica dei Veneziani nella Romània non prevedesse come del resto si è accennato tutta una gamma di procedure e operazioni diverse, i cui casi limite possono essere rappresentati dalle modalità con cui avvennero la conquista di Lepanto (1407) e di Salonicco (1423).
Lepanto aveva conosciuto il dominio veneziano già nel 1393, ma s'era trattato di una breve stagione e ben presto la città era tornata alla famiglia albanese dei Bua Spatas, imparentata con quella veneziana dei Foscari; ora, paventando che il despota la consegnasse ai Turchi per averli alleati nella controversia che lo opponeva a Carlo Tocco, signore di Cefalonia, il 27 maggio 1407 il senato incaricava il capitano in Golfo, Fantino Michiel, di allestire cinque galere e di assicurarsi quel castello per accordo o per denari.
Ascoltiamo dal Lazzarini, sulla scorta di una relazione stesa da Filippo Foscari, un nipote del doge che accampava titoli sul luogo, lo svolgersi degli avvenimenti:
[...> arrivato colà il [Michiel> ad un'ora circa avanti il giorno, fece mettere in terra gli uomini [...> con l'ordine di correre al castello e di danneggiarlo in tutti i modi, con ferro e con fuoco; i veneziani al primo assalto cacciarono fuoco nel borgo. Il signore trovavasi fuori alla caccia, e vedendo dalla campagna il fumo dell'incendio [...>, tosto si presentò in sulle mura con molta gente, e con bombarde e verrettoni e sassi ributtò i veneziani [...>. Per la pronta e vigorosa difesa e perché il castello era inespugnabile, i veneziani furono obbligati a ritirarsi, chiedendo poi per segni di venire a parlamento col signore di Lepanto [...>.
Paulo Spatas aderì [...> domandando per sua sicurezza un salvocondotto: ottenutolo [...> si recò alla presenza di ser Fantino Michiel, il quale, sentite nuovamente le sue lagnanze, gli rispose alle corte che quello aveva fatto era perché voleva il castello di Lepanto per la signoria di Venezia.
Inutili furono le pur legittime proteste del despota [alle quali il Michiel rispose> con dura faccia, talché al signore di Lepanto [prosegue il racconto> non rimase che pregare il capitano delle galee veneziane che almeno la moglie e la sorella sua, e le sue robe fossero rispettate e salve. Fantino Michiel rispose che così volentieri avrebbe fatto e che gli voleva dare ducati 1.500 per acquisto del luogo. Paulo Spatas non voleva cedere per prezzo il patrimonio della sua signoria, tanto più ch'egli ne ritraeva più che 1.500 ducati di rendita annuale; ma alla fine gli convenne subire la ragione della forza e lasciarsi condurre con le sue donne a Patrasso. Di là lo Spatas, giovane allora ventenne, si trasferì in Morea presso il suocero Teodoro Paleologo, despota di Morea, dove non passarono due anni ch'egli morì (8).
Nessuna prevaricazione invece, bandito l'uso della forza, nell'acquisto di Salonicco, verificatosi il 24 settembre 1423 fra il plauso della popolazione greca; l'iniziativa, anzi, era partita dal despota della città, Andronico, ormai incapace di difendere dalla minaccia ottomana la seconda città dell'Impero. Quanto a Venezia, l'azione venne compiuta nel modo più sommesso e discreto, senza trionfalismi, senza ostentazione: a prendere possesso del luogo si inviarono due provveditori, scortati da sei galere, mentre veniva affidato a due ambasciatori, Sante Venier e Nicolò Zorzi, il compito di spiegare al sultano Murad che la Signoria si era accinta ad un tal passo "quia sentiebat quod dictus dominus despotus, si dictam civitatem non accepissemus, illam volebat in manibus aliorum christianorum ponere" (9).
Ben altro impegno e tempi assai più lunghi richiese l'imposizione (o meglio, il ripristino) dell'autorità veneziana sul litorale dalmata, essenziale tanto per la sicurezza della navigazione quanto per la difesa stessa del Comune.
Ma ascoltiamo in proposito lo storico croato Tadić:
Questa regione [egli scrive> fu sempre il settore più importante dell'Adriatico [poiché> abbonda di isole e di canali che proteggono la navigazione dalle intemperie e dispone di numerosi buoni porti, che offrono ottimo rifugio. Le cime dei monti e delle colline di terraferma e delle isole sono servite da punti di riferimento ai navigatori di tutti i tempi, ma soprattutto quando la marineria non disponeva di strumenti tecnici. La sponda italiana al contrario, è per lo più bassa [...>, e dispone soltanto di due o tre notevoli porti naturali, mentre gli estesi bassifondi la rendono per il rimanente difficilmente accessibile.
Tutti e tre i venti dell'Adriatico (lo scirocco, la bora ed il maestrale) consentono una navigazione più agevole lungo la costa dalmata, che lungo quella italiana, in particolare sulle rotte per il Levante [...>. A causa di queste condizioni naturali, già in tempi preistorici l'uomo preferì navigare lungo la costa orientale, anziché seguire quella occidentale; ed è proprio per questa circostanza che molti popoli e molti stati cercarono di impossessarsi della costa dalmata [...>. D'altro canto, è interessante notare come i popoli e gli stati che dominarono la costa orientale non fecero mai alcun serio sforzo per impossessarsi della costa occidentale, quella italiana (10).
A queste considerazioni occorre aggiungerne almeno un'altra, e cioè che la Dalmazia rappresentò sempre per Venezia un insostituibile serbatoio di vogatori e di uomini pratici del mare: una parte almeno delle difficoltà incontrate dal Comune nell'armare la flotta per tutto il trentennio successivo alla guerra di Chioggia - e la conseguente politica della lesina attuata in proposito (nel 1410 il senato rifiuterà di costituire una squadra specifica per l'Egeo, nonostante le pressanti richieste avanzate in tal senso da quelle popolazioni) - credo siano senz'altro da attribuirsi alla perdita della regione, un paese, ricorda in proposito il Nani, nel quale "abitano molte popolose communità dedite al navigare, amanti del traffico, et oltre ogni credere toleranti ne' disagi, instancabili ne' viaggi di mare, e valorose ne' conflitti".
Il reclutamento degli equipaggi, tenuto conto delle durissime condizioni di vita alle quali erano sottoposti, era infatti un problema assai grave prima del ricorso alla navigazione a vela, come prova la proposta a dir poco sorprendente avanzata dal senato veneto nel maggio 1417 nel corso delle lunghe trattative con gli Ottomani conseguenti allo scontro di Gallipoli, che cioè si addivenisse alla pace senza che questa prevedesse la reciproca restituzione dei prigionieri; allora era infatti interesse di Venezia sottrarre ai Turchi, ancora relativamente inesperti di armamenti navali, circa 1.500 marinai.
Così, persa la Dalmazia in seguito alla pace di Torino del 1381, Venezia non cessò di attendere il momento propizio per ristabilire il suo controllo sulla regione.
Questo si presentò allorché, in seguito ad una sollevazione, nel 1399 il re d'Ungheria (e futuro imperatore) Sigismondo venne deposto e fu chiamato a succedergli Ladislao d'Angiò, del ramo durazzesco, che proprio della Dalmazia fece il nucleo eminente della sua effimera avventura balcanica; sennonché Sigismondo, tornato sul trono ungherese, riuscì ben presto a strappare al rivale la maggior parte dei suoi nuovi dominii, per cui, nel luglio 1408, Ladislao rivolse al governo ducale l'ennesimo invito ad un'alleanza contro la corona magiara, stavolta però accompagnandolo con l'offerta della cessione del litorale dalmatico per 300.000 ducati, somma che avrebbe recato non esiguo conforto alle dissestate finanze napoletane.
Il Comune Veneciarum attraversava allora una duplice felice congiuntura economica e politica, grazie anche alle contese che in Levante opponevano Suleyman ai fratelli Musà e Mehmed, per cui non si trovava assillato da particolari impegni, che non fossero quelli di garantire sul piano diplomatico le sue recenti conquiste in Terraferma e dar loro un regolare assetto amministrativo.
La proposta di Ladislao pertanto trovò orecchie ben disposte: oddio, di alleanza contro l'Ungheria manco parlarne, si poteva semmai discutere di ducati, beninteso partendo dal presupposto che l'angioino vendeva territori che ormai quasi più non gli appartenevano, che giorno dopo giorno gli venivano sottratti dal rivale Sigismondo se già non l'aveva preceduto la riottosa e violenta nobiltà locale.
Le trattative si trascinarono per quasi un anno e si conclusero il 9 luglio 1409: Ladislao cedeva al Comune le poche città e territori che ancora restavano in suo possesso (Zara con Cherso e Ossero, Arbe, Pago, Laurana, Novigrado), ma soprattutto tutti i suoi diritti sulla regione, ottenendo in cambio 100.000 ducati d'oro.
Ad essere precisi, Venezia quelle terre le strapagava, e per di più il senato non ignorava quali e quante implicazioni politico-militari l'atto testé concluso avrebbe comportato, a cominciare dal problema dell'attuazione di un effettivo controllo su una regione dominata da una nobiltà gelosa dei propri privilegi, per finire con l'inevitabile conflitto che - quale erede di Ladislao - l'avrebbe opposta a Sigismondo.
Pure, Zara rivestiva un'importanza eccezionale dal punto di vista strategico e psicologico, ed il possesso dei diritti sulla Dalmazia consentiva a Venezia di realizzare la continuità del suo dominio dall'Istria all'Albania e, con esso, di assicurarsi il controllo dell'Adriatico.
Per questo l'"emptio Dalmatie" fu perseguita con decisione: il senato deliberò subito l'invio di quattro provveditori a Zara, nelle persone di Antonio Contarini, Francesco Corner, Fantino Michiel e Leonardo Mocenigo, col compito di ottenere la dedizione dei nuovi sudditi. Le otto galere e le numerose truppe che scortavano i Veneziani facilitarono ovviamente, e di gran lunga, la loro missione, che conseguì buoni risultati a Traù ed a Sebenico (grazie soprattutto a tale Giovanni Misich il quale - così riferirono i provveditori - s'acquistò gran merito come "principalis persona qui nobis dedit turres de Sibinico"), ma Zara oppose resistenza e soltanto a fine luglio fu possibile averne ragione.
Tuttavia la partita era ancora ben lungi dall'essere risolta, dal momento che la nobiltà locale (appoggiata quanto basta da Sigismondo) non era affatto disposta a rinunciare alle sue tradizionali prerogative a vantaggio dei rettori veneti:
L'aspirazione dei nobili [ha osservato con l'abituale finezza Gaetano Cozzi> era non solo quella di conservare i loro statuti e le loro consuetudini, ma di vedersi assicurare una partecipazione effettiva alla gestione della vita cittadina, in particolare del settore più delicato, quello della giustizia. Essi volevano, a tal proposito, che il rettore preposto da Venezia alla loro città - comes, o conte, veniva chiamato, per antica consuetudine - non disponesse di una preminenza assoluta, ma fosse affiancato da giudici eletti dal consiglio cittadino [...>. Non ottenevano nulla, ai giudici locali era riservato un ruolo meramente consultivo, eccezion fatta per i crimini più gravi, dove non avevano neppur quello. Non avevano ottenuto di più i nobili spalatini, che, ultimi a cadere, si erano provati a domandare alla Signoria che gli fossero mantenute le libertà che avevano avuto in perpetuo dal re d'Ungheria, tra cui il privilegio di eleggere essi stessi il loro conte. Privilegio che non si confaceva all'onore del Dominio veneto, gli si era risposto (11).
La guerra fu inevitabile e scoppiò due anni più tardi: così, mentre Sigismondo tentava invano di invadere l'Italia dalla parte del Friuli, Zara e le principali città del litorale insorgevano contro Venezia.
Nel settore nord, la minaccia ungherese - in realtà poco più che un bluff, come sembrerebbe provare l'incursione notturna effettuata 1'11 giugno 1412 a San Nicolò di Lido - venne liquidata con la battaglia della Motta del successivo 24 agosto; quanto alla Dalmazia, il Comune non aveva perso tempo a organizzare valide strutture difensive che ebbero ben presto ragione dei ribelli: ricorda il Nani che Zara era stata addirittura "ridotta in isola", separandola dalla terraferma mediante un fossato largo oltre 17 metri e profondo 3 e mezzo, scavato in un terreno durissimo, onde "fu d'uopo superare le crode colle mine di fuoco, e collo scalpello" (12).
Restava tuttavia il problema di fondo dell'ostilità nobiliare, per risolvere il quale Venezia adottò una tattica ancipite, quella - per intendersi del bastone e della carota: nel settembre 1411, infatti, 29 delle primarie famiglie zaratine vennero obbligate a trasferirsi a Venezia. Contemporaneamente, il savio del consiglio Antonio Contarini (quello stesso che come provveditore abbiamo visto prendere possesso della Dalmazia) si faceva autore di una proposta di ampio respiro, peraltro destinata a non essere accolta: egli partiva dalla constatazione secondo cui gli Zaratini detestavano Venezia "quia sub aliis dominis, sub quibus fuerunt, soliti erant habere honores et alia commoda multa, que sub nostro dominio cessant"; donde la sua idea di coinvolgerli in qualche modo nell'apparato militare ed amministrativo del Comune, assoldando dieci dei loro nobili nell'esercito operante in Terraferma ed affidando ad altri diciotto il governo di altrettante città del Dogado, dell'Istria, della stessa Dalmazia (13).
Ci si affidò invece soprattutto alla repressione, culminata nella capitolazione di Sebenico (21 luglio 1412), ad opera delle truppe del capitano in Golfo, Pietro Loredana quindi si giunse ad una tregua quinquennale (17 aprile 1413) con Sigismondo, divenuto nel frattempo imperatore. Tregua, non pace: la contesa che lo contrappose a Venezia fu infatti lunga e difficile per entrambi, né il senato ignorava che il possesso della Dalmazia avrebbe potuto ritenersi sicuro solo con la sua definitiva soluzione.
Per questo il consiglio dei dieci non esitò a ricorrere al consueto tentativo di avvelenamento (3 luglio 1415), e sempre per la stessa ragione allo scadere della tregua la guerra riprese su due fronti, in Friuli e nella Dalmazia. L'aveva preceduta l'alleanza stipulata in funzione antiimperiale tra Venezia e Napoli (27 luglio 1416), e la pace con Maometto I, firmata ad Adrianopoli il 6 novembre ' 19; quindi, approfittando anche delle difficoltà che la rivolta degli Ussiti provocava a Sigismondo, la Repubblica procedette all'annessione del Friuli patriarcale: Udine aprì le porte ai Veneziani il 19 giugno 1420, Aquileia il 5 di agosto.
La soluzione del problema al confine nord-orientale comportò pure quella del settore adriatico: sfruttando un incidente causato da alcuni corsari di Traù, nell'aprile del 1420 la squadra del Loredan mosse da Sebenico contro la città "colpevole", di cui ottenne la resa il 27 giugno, presto seguita dalla dedizione di Spalato; così, nel giro di pochi mesi, entro settembre, Venezia si impadronì di Cattaro, Curzola, Brazza, Lesina e insomma dell'intera Dalmazia, completando l'operazione iniziata undici anni prima con l'acquisto della "testa di ponte" rappresentata da Zara e Sebenico.
Da allora, e sino al 1797, la regione avrebbe fatto parte integrante della Serenissima; nel corso di quasi quattro secoli certo non sarebbero mancate guerre, devastazioni, temporanee perdite e successivi riacquisti di città e territori, ma la volontà ed il buon diritto veneziano al possesso della Dalmazia non sarebbero più stati messi in discussione. L'unione tra la sponda orientale dell'Adriatico e la città delle lagune sarebbe anzi divenuta così intensa e profonda da sfociare addirittura in una specie di simbiosi, fatta di reciproci apporti quasi sempre avvertiti come spontanei e naturali: la Dalmazia assorbì la cultura veneta assai più di quanto non abbiano fatto molte località lombarde e friulane che pure conobbero la dominazione della Repubblica per non inferiore lasso di tempo, e l'Adriatico, per secoli, fu davvero il "Golfo", un mare che univa popoli, religioni, costumi diversi, così come oggi sembra purtroppo dividerli.
All'aprirsi del XV secolo il Mediterraneo orientale era ripartito fra molti stati in perenne evoluzione e dai confini sempre mutevoli: ad Adrianopoli aveva la sua corte il sultano degli Ottomani, al Cairo quello d'Egitto (o di Babilonia, come usava intitolarsi, dal momento che i suoi dominii si estendevano alla Siria ed all'Arabia), a Costantinopoli sussisteva ancora il vecchio Impero romano d'Oriente, a nord, nell'alto Adriatico, il Comune Veneciarum. Frammezzo a queste coordinate principali, un mosaico di città e territori retti da dinastie poggianti su precari equilibri e spesso di breve durata: despoti greci, signorie slave, feudatari franchi, ordini cavallereschi, e poi ancora insediamenti, colonie, protettorati di Genovesi, Pisani, Fiorentini, Napoletani, Catalani, Francesi...
Le isole dell'Arcipelago e le coste dell'Africa derivavano la loro importanza dalla posizione geografica, ma quanto a risorse economiche erano povere, specie di grani. Donde l'abituale, quasi fisiologico ricorso alla pirateria (magari nella meno censurabile versione della guerra di corsa) da parte dei loro abitanti, che nelle navi mercantili cariche di ricchezze che solcavano quelle acque trovavano la più facile e rapida risposta ai problemi che li assillavano:
Questo mondo è tale [ha scritto Tenenti> per cui ognuno, se non proprio pirata, conviene chesecondo le circostanze si faccia corsaro [...>. A Rodi lo spirito crociato - senza il quale l'Ordine stesso dei Cavalieri che vi risiedono mal si concepirebbe - interviene quasi naturalmente a stimolare la ῾corsa' contro l'Infedele. In Catalogna, in Sicilia ed in Provenza i sovrani - aragonese ed angioino (poi francese) - percepiscono legalmente una quota non irrilevante delle prede (14).
Da questo mondo Venezia si autoescluse ben presto, nel senso che il fenomeno della pirateria o della guerra di corsa (nel XV secolo le due realtà quasi coincidevano) venne praticato solo eccezionalmente da parte dei suoi cittadini, che le ricchezze sapevano come procurarsele altrimenti, tanto più che lo stato aveva avocato a sé, alla flotta militare, il diritto-dovere di rivalsa, o ritorsione, sugli stranieri. Naturalmente questo generò una prassi che prevedeva ampi poteri d'azione ai comandanti delle navi venete: per solito - ricorda ancora il Tenenti -si usava raccomandare del riguardo, ove possibile, ma se tali cautele avessero potuto ingenerare remore o limitazioni nell'esercizio della rappresaglia, allora sarebbe stato miglior partito quello di bruciare, saccheggiare, affondare i legni intercettati, "quia [così una delibera senatoria del 6 maggio 1406> in ista magna damnificatione stat multum amplificacio fame nostre et diminucio sue" (15).
Pirateria e guerra di corsa occupavano dunque largo spazio nel settore marittimo; tutte le cronache del tempo riferiscono con dovizia di particolari le imprese dei loro protagonisti ed i timori che essi suscitavano, ma purtroppo nessuna di esse ne ha raccolto partitamente l'attività, ed è forse per questa ragione che siamo tuttora privi di una storia organica ed esclusiva di una guerra per propria natura anomala, la quale mai venne dichiarata e mai fu conclusa, ma che pure esistette e che condizionò a lungo, e pesantemente, la vita delle popolazioni mediterranee.
Per far fronte all'intensificarsi del fenomeno, a partire dai primi anni del '400 si fece ricorso alle cocche, unità mercantili ad un tempo agili e robuste: nel 1406 ne vennero armate due, ognuna dotata di quattro bombarde, dieci balestre e cento armati, col compito di pattugliare le acque tra Rodi e la Morea; altre furono allestite nel '17, nel '20, nel '23, ma il loro impiego - o, in alternativa, quello di navi di diversa struttura - è documentato sino alla fine del secolo, fino a quando, cioè, lo smisurato dilatarsi degli Imperi ottomano e spagnolo giunse a modificare in parte i termini della questione (16).
Più di tutte dannose per la loro frequenza e pericolosità, secondo le fonti veneziane seguite dal Nani, le molestie dei pirati e/o corsari genovesi, attivi soprattutto nella zona nevralgica di Costantinopoli; nel 1409, tuttavia, il capitano in Golfo, Nicolò Foscolo, deve armare tutte le sue dieci galere per reprimere l'attività di legni nominalmente turchi, anche se in realtà formati da equipaggi di diversa provenienza, riuscendo infine a catturarne tre; quattro anni dopo tocca a Bertuccio Diedo far fronte ad una pericolosa congiunzione di Biscaglini e Genovesi; tra il 1410 ed il 1420 la navigazione nell'Egeo è resa aleatoria dalla presenza del catalano Nicola Sampier; nel '22 Venezia deve affidare a Giacomo Trevisan una grossa squadra (diciotto galere e quattro navi) per combattere il genovese Gian Ambrogio Spinola, che dalla Puglia si rifugia a Gaeta, il cui porto viene sbarrato con una grossa catena; nel '30 Dario Malipiero è al comando di una nave capace di ben 400 armati nell'ennesimo tentativo di por fine alle "perpetue" insidie dei Catalani e dei Genovesi (17).
In realtà non poteva esserci una vera pace tra questi ultimi ed i Veneziani, perché fra due repubbliche marinare non avrebbero potuto sussistere presupposti di buon vicinato fintantoché fosse risultato abbastanza agevole giungere alle ricchezze del Levante; per tale motivo un'endemica conflittualità, uno stato di guerra più o meno palese, strisciante per così dire, continuò a manifestarsi tra Genova e Venezia ancora molto tempo dopo la pace di Torino, non appena la disfatta turca di Ankara pose termine alla loro effimera solidarietà: e questo nonostante le ricorrenti, rituali composizioni di vecchie e nuove vertenze, come quelle del 28 giugno 1406 o del 30 dicembre 1411.
Sotto un certo aspetto, anzi, la progressiva perdita di prestigio cui i Liguri andarono incontro dopo la guerra di Chioggia si tradusse in un beneficio abbastanza modesto per Venezia, perché se è vero che da allora venne meno il pericolo che flotte genovesi osassero inoltrarsi nell'Adriatico, pure è altrettanto certo che queste ultime non disparvero, anzi divennero strumento al servizio di potenze essenzialmente continentali, ma non per questo aliene dal perseguire una politica di ingerenza marittima, o comunque antiveneziana, si trattasse dei Francesi del Boucicaut o dei Milanesi del Visconti.
Così, se ancora nel 1420 il Comune Veneciarum rifiutava di aiutare Giacomo I, re di Cipro, a recuperare Famagosta occupata dai Genovesi, pago del fatto che le mude di Beirut e di Alessandria continuavano regolarmente i loro viaggi indipendentemente da chi comandasse nell'isola (18), undici anni più tardi, allorché Filippo Maria Visconti teneva ormai da tempo la signoria di Genova, i Veneziani tentarono (ma, come vedremo, la spedizione si risolse in un insuccesso) di strappar loro il possesso di Chio, importante base a nord di Rodi. Non erano ambizioni espansionistiche a muoverli: non ne avevano avute un tempo verso Cipro, non ne provavano ora nei confronti della più piccola e povera isola di Chio; la mossa era in qualche modo rivolta contro il Visconti, di cui Genova aveva ereditato la rivalità con lo stato marciano, rinnovando forzatamente il duello con quest'ultimo anche quando la logica della contesa diretta sui mari era ormai venuta meno (19).
Le replicate sconfitte sul Po e sul Garda patite dalle flotte veneziane ad opera di quelle milanesi, nel corso del terzo e quarto decennio del secolo, si spiegano in parte, dunque, proprio col fatto che allora Filippo Maria poteva disporre di Genova, sia in termini di risorse tecniche ed umane da impiegare nella Padania, sia come deterrente sul teatro marittimo: all'aprirsi del primo conflitto antivisconteo, nel '25, Venezia decise di allestire cinque grandi navi, due di 2.000 botti, le altre rispettivamente di 1.100 e 900, "per combattere i genovesi", non certo sul Po (20).
Non è affatto vero che per Venezia i musulmani fossero necessariamente nemici peggiori dei cristiani: con gli Arabi, in primis Tunisini ed Egiziani, i rapporti non furono sempre idilliaci, com'è ovvio, ma neppure improntati a conflittualità permanente.
Lo si evince ex argumento silentii, ossia dal fatto che le cronache se ne occupano solo di tanto in tanto: il 4 settembre 1410 il savio agli ordini Lorenzo Cappello (21) è incaricato di una missione presso il sultano d'Egitto per tutelare gli interessi dei mercanti veneziani, rimasti vittime di vessazioni e violenze; la situazione torna quindi alla normalità, ed il 15 novembre 1415 lo stesso Cappello ed il collega Sante Venier ottengono dal sultano Al-Mu'ayyad Shaykh il rinnovo degli antichi patti, assieme ad ampie garanzie su una più efficace repressione ctegil abusi doganali, ed inoltre l'apertura di un consolato veneziano a Gerusalemme (22). Sei anni dopo, tuttavia, il nuovo sultano Tatar sopprime i tradizionali privilegi dei quali godeva la nazione veneta, proibendo ai mercanti di soggiornare più di quattro mesi nei suoi dominii ("di animo ingordo e sanguinario" -così il Nani - strappò il trattato alla presenza del console di Alessandria, Marco Morosini); fu necessario pertanto spedire nuovamente al Cairo un'ambasceria (formata da Barnabò Loredan e dal solito Cappello, il quale ad una ormai consolidata esperienza del paese univa la perfetta conoscenza della lingua araba), che grazie a ricchi doni dispensati con scaltra generosità ed alla provvida ascesa al trono del nuovo sultano Al-Ashraf Barsbay, il 23 aprile 1422 riuscì ad ottenere la stipulazione di accordi tali da consentire una regolare ripresa dei traffici.
A conferma delle buone relazioni instauratesi allora tra la Signoria (a partire dagli anni '20 il termine tende a sostituire con sempre maggior frequenza l'antica denominazione di Comune) e gli Arabi, possiamo ricordare la concessione pontificia - solennemente accordata il 9 dicembre '25 da Martino V ai Veneziani - di commerciare con Alessandria e con tutti i paesi del sultano di Babilonia, e, due anni dopo (1427), la liberazione ottenuta a suon di denari, sempre da parte della Signoria, di Giano re di Cipro ch'era stato fatto prigioniero dagli Egiziani; ancora, nello stesso '27, fu rinnovato il trattato commerciale col signore di Tunisi, Abu Faris Abd el-Aziz (23).
Ben diversi, come è noto, furono i rapporti con i Turchi, quasi sempre improntati ad antagonismo, segnati - come ha acutamente osservato Tenenti - da una "insuperabile barriera". "Ma non si trattava [egli precisa> di quella sorta di odio eterno o di avversione strutturale che si rinveniva fra popoli cristiani confinanti, come Francesi e Tedeschi o Polacchi e Russi. Dopo essersi insediati su una terra da tempo, questi la difendevano come la loro patria ed il proprio legittimo patrimonio. Tanto i Veneziani quanto i Turchi erano invece degli occupanti e si contendevano terre o acque che non erano loro. Era un conflitto fra due imperialismi, sia pur di natura quanto mai diseguale: i Greci o gli Slavi vi erano coinvolti in maniera assai passiva o in forme generalmente indirette" (24).
Comunque, almeno fino al terzo decennio del XV secolo la monarchia ottomana non sembra costituire per il Comune Veneciarum una minaccia particolarmente grave: non diversa comunque da quelle che potevano essere rappresentate da altri organismi statali, come gli Ungheresi, i Genovesi, i Catalani. Per quanto riguarda quest'epoca, infatti, ho l'impressione che si tenda ad esagerare l'effettiva dimensione del metus Turchorum, forse perché condizionati da quanto avvenne dopo, dalla caduta di Costantinopoli, dall'inarrestabile marcia nei Balcani, dallo spiegarsi della potenza di Solimano il Magnifico...
Non dobbiamo, insomma, pensare post res perditas, almeno - ripeto - per il periodo in esame, nel corso del quale certamente a Venezia si è consapevoli del pericolo turco, soprattutto del suo costante progredire, ma dove esso convive accanto a numerosi altri di non minore importanza, come dimostrano le cronache e le deliberazioni senatorie (e a questo proposito sarebbe qui opportuno far la tara anche a talune deliberate enfatizzazioni miranti ad agitare lo spauracchio ottomano per inseguire un immediato tornaconto, per aver mano libera nell'azione espansionistica o per raccogliere consensi ed alleanze; la conquista di Lepanto del 1407, ad esempio, venne giustificata dal senato di fronte agli stati cristiani come necessaria azione preventiva: "ne vadat ad manus Turchorum", per anticipare cioè una possibile ingerenza turca nella zona).
Del resto, il disastro di Ankara del 1402 e, qualche anno dopo (1408), la guerra civile tra Suleyman e Musà non stavano forse a dimostrare quanto poco solida e durevole, quanto precaria fosse questa presunta potenza ottomana? Al punto che, tra la fine del 1412 e l'inizio del '13, Venezia penserà addirittura di stipulare un'alleanza proprio con i Turchi, per cercare di risolvere una buona volta la contesa che l'opponeva a Sigismondo in Dalmazia; anzi, poiché non si sapeva ancora chi avrebbe avuto il sopravvento nella guerra in corso fra Musà e Mehmed (l'altro fratello, Suleyman, nel frattempo era morto), nelle discussioni che si tennero in senato il sultano venne indicato genericamente come "ille qui dominatur a parte Gretie", colui che sarà signore nei dominii ottomani situati in Europa (25).
La definizione è doppiamente significativa: vi si può cogliere, oltre alla sostanziale indifferenza per le questioni interne alla corte ottomana, anche un'attenzione mirata ai problemi della difesa marittima, alla situazione politica concernente le coste dell'Egeo di prevalente interesse veneziano.
Donde, a mo' di corollario, un'ovvia distinzione: lo stato marciano, sprovvisto com'era di esercito ed alieno da velleità puramente espansionistiche, ispirò la propria condotta a notevole moderazione nei confronti dei Turchi, allorché si trattava di questioni concernenti l'Anatolia o l'interno dei territori balcanici; ben diverso fu invece il suo atteggiamento quando il confronto si spostava su isole o litorali controllabili soprattutto attraverso il mare, settore nel quale la Repubblica aveva coscienza della propria superiorità.
Ecco dunque che nel 1406, in seguito ad un'incursione turca nel territorio di Scutari, il Comune si affrettò ad inviare ad Adrianopoli un ambasciatore, Francesco Giustinian, con l'incarico di assicurare il sultano che le città albanesi da poco pervenute sotto il dominio veneziano (oltre a Scutari, Drivasto e Dulcigno) avrebbero continuato a pagare il tributo che versavano al "casnà", al tesoro ottomano, prima di entrare a far parte dello stato marciano. La cosa si ripeté nel 1409, stavolta per ottenere l'assenso di Suleyman alla "protezione" accordata da Venezia a Patrasso - grazie ai buoni uffici del signore di Andros, l'abile Pietro Zeno -, ed ancora una volta il Giustinian accettò che il suo governo si accollasse il versamento del tributo solito darsi da parte di quella comunità, nella misura di 1.600 ducati all'anno.
Esemplare, al fine della dimostrazione del diverso peso accordato da Venezia alle questioni marittime rispetto a quelle della terraferma, la condotta tenuta dalla Repubblica il 12 agosto 1411, in una congiuntura cioè a lei estremamente favorevole, quando la guerra in atto tra i pretendenti al trono di Adrianopoli sembrava essersi conclusa con la vittoria di Musà. Nella circostanza, l'ambasciatore inviato presso il nuovo sultano, Giacomo Trevisan, rinnovò il trattato alle stesse condizioni previste in quello stipulato nel 1406, ossia con l'obbligo del pagamento degli ordinari tributi, con in più, tuttavia, l'assicurazione che i Turchi non avrebbero tenuto navi da guerra a sud di Tenedo e che la flotta veneta avrebbe avuto mano libera contro i pirati o quanti avessero osato violare tale limite (26).
Era una clausola severa, sin troppo agli occhi del nuovo sultano Mehmed, o Maometto I (1413-1421), che due anni più tardi riuscì a por fine all'anarchia delle guerre fratricide, riunendo il potere nelle sue mani e riprendendo un'attiva politica espansionistica. Inutili si sarebbero rivelate le misure preventive subito poste in atto dai Veneziani, quali l'appoggio da essi accordato al despotato greco di Morea, la pace conclusa con Alì Bey, signore di Palacia (presso Smirne), il 17 ottobre 1414, lo stesso trattato stipulato col nuovo sultano nell'estate del '15, ad opera dell'inviato Francesco Foscarini: appena pochi mesi dopo, nel dicembre 1415, gli Ottomani assalivano Negroponte, quale ritorsione per alcune violenze commesse nei loro confronti dal signore di Andros, quel Pietro Zeno che agiva nell'Arcipelago come una sorta di longa manus veneziana.
Nella circostanza il sultano non aveva affatto pensato di rivolgere rimostranze ufficiali, che in qualche modo sarebbero state soddisfatte, ma aveva raccolto un'armata di 42 legni con cui aveva devastato le coste dell'isola, catturando oltre 1.500 prigionieri. Nel Levante si sparse il terrore: scrive il Manfroni, sulla scorta della cronaca Morosini, che lo spavento fra i mercanti veneziani fu tale che per quell'anno non si trovò alcuno che volesse appaltare, neppure per tenue somma, le galere di Tana, Romània e Trebisonda, per le quali mude ordinariamente si pagavano sino a 2.000 ducati (27).
Il Comune dovette armare ed affidò una flotta di dieci galere al capitano in Golfo Pietro Loredan, col compito di scortare sino a Gallipoli Delfino Venier, che doveva recarsi come ambasciatore presso Mehmed per ottenere soddisfazione dei danni causati a Negroponte, a cominciare dalla restituzione dei prigionieri, e firmare un nuovo trattato di pace.
In realtà il senato operava su un duplice fronte: da un lato tendeva la mano agli Ottomani, inviando loro appunto un ambasciatore, ma dall'altro ipotizzava una soluzione alternativa, prevista nelle stesse commissioni affidate al Venier il 2 aprile 1416, e consistente nell'avviare le pratiche di un'alleanza con il principe di Caramania (pressappoco la regione dell'attuale Turchia le cui coste si affacciano su Cipro, tra Qonia, Alaja ed Alessandretta) e con il voivoda della Valacchia, Mircea, che contro la politica espansionistica di Mehmed appoggiava il pretendente di turno (non ne mancavan mai), dal trito nome di Mustafà (28). Quanto al Loredan, se dopo l'assalto a Negroponte i Turchi avessero continuato nelle ostilità, avrebbe dovuto a sua volta procedere nei loro confronti, catturandone le navi e danneggiando i loro possedimenti; nessun cenno, però, nelle istruzioni rilasciategli, all'eventualità di uno scontro con la flotta nemica: nel complesso, dunque, questa missione doveva soprattutto avere, nelle intenzioni del senato, la funzione di una sorta di pressione militare, in appoggio al negoziato politico.
Le cose, invece, non andarono così: il 27 maggio 1416 la squadra del Loredan giunse a Gallipoli, penetrando nello stretto, ma senza dar luogo ad atti di ostilità; l'indomani le si schierarono contro 32 legni turchi, tra i quali 8 galere. Non è possibile affermare con certezza a quale dei due antagonisti si debba attribuire la responsabilità dello scontro: su di esso possediamo, è vero, la relazione stesane dal comandante veneziano, secondo la quale egli ci fu tirato dentro per i capelli, ma siccome abbiam detto che gli ordini del senato non prevedevano che si giungesse a dar battaglia, occorre valutare il documento con un poco di prudenza.
Di sicuro il Loredan dapprima si allontanò dalla costa, poi tornò a farsi sotto in assetto di combattimento la mattina del 29, "per fare acqua" disse: c'è da presumere per rifornirsene.
A questo punto i Turchi attaccarono. Data la loro manifesta inferiorità (erano ancora a tal punto inesperti del mare, che la maggior parte dei loro vogatori era costituita - come poi si seppe - da volontari cristiani), vien da chiedersi perché l'abbiano fatto, anziché agire con un poco più di prudenza.
Probabilmente il loro comandante, Cialassi Beg, temeva che il Loredan avrebbe fatto sbarcare un corpo di spedizione agli ordini di Mustafà, piuttosto che un semplice ambasciatore, donde l'ordine di attaccare.
Per gli Ottomani fu una disfatta totale: il loro comandante rimase ucciso, furono catturate sei galere e otto galeotte, vennero presi oltre mille prigionieri, "dei quali [scrive il Manfroni> furono senza misericordia messi a morte tutti i ponentini e i sudditi veneziani, che formavano le maestranze e gli stati maggiori. V'erano alcuni corriti spagnoli, altri siciliani, genovesi, provenzali e candiotti e fra gli altri il famoso Giorgio Calergi, che tanta parte aveva avuto nell'ultima ribellione di Creta, e che il Loredan fece ammazzare" (29).
A Venezia la notizia della vittoria, abilmente enfatizzata dal comandante trionfatore in una lettera spedita da Tenedo, con l'annuncio famoso per cui per molto tempo una flotta turca non avrebbe rappresentato alcun pericolo, generò entusiasmo: in fondo era la prima battaglia navale vinta contro i Turchi, e sarebbe rimasta l'unica sino alla caduta di Costantinopoli (30).
La pace, tuttavia, si sarebbe rivelata assai meno facile da ottenere: una prima ipotesi, elaborata il 31 luglio (il sultano non ricevette subito l'ambasciatore veneziano), non ebbe la ratifica del senato, che anzi al ritorno in patria pose il Venier sotto processo, accusandolo di aver troppo concesso ai Turchi; nel'17 Mehmed si trattenne a lungo nell'Asia Minore, per cui soltanto il 6 novembre 1419 il nuovo bailo, Bertuccio Diedo, poté concludere un trattato che ripeteva sostanzialmente quello dell'11, con qualche limatura circa l'importare del tributo pagato dai Veneziani per i possessi albanesi e greci.
Paga del successo riportato a Gallipoli, Venezia guardava allora al Friuli, dove stava chiudendo felicemente la sua partita con Sigismondo: voleva dunque mani libere in Levante.
Lì i traffici prosperano, né esiste più una flotta turca in grado di minacciarli, proprio come aveva scritto il Loredan (niente più che una dimostrazione militare l'incursione veneziana a Lampsaco, negli Stretti, effettuata nel '20 per difendere le ragioni del duca dell'Arcipelago, e conclusasi con un massacro di Turchi: " [...> e pareva veder attorno l'isola del Tenedo [ricorda il Nani> forche come vigne, e quelli da legni pendenti come uve dalli rami" (31)); quanto alla terraferma, la Repubblica cerca di rafforzare in funzione antiturca il despotato di Teodoro Paleologo in Morea, di fronte al sempre più manifesto collasso del Principato di Acaia, in mano ai genovesi Zaccaria. Per questo, nell'estate '22, invia nella Morea il riabilitato Delfino Venier, che conferma ai Bizantini il possesso di Patrasso (riconsegnata loro nel '19) e l'appoggio veneziano per il rafforzamento dell'Examilion, il muraglione lungo sei miglia, fatto costruire sull'istmo di Corinto dal Paleologo fra il '14, ed il '15, ottenendo in cambio alcune importanti basi sulla costa, tra cui Zonchio (Navarino), a poche miglia da Modone.
Per qualche tempo questa politica ha successo, si rivela la migliore, data la favorevole situazione creatasi dopo Gallipoli.
Nel '21, tuttavia, scompare il sultano e gli succede il figlio, Murad II, che regnerà sugli Ottomani per un trentennio.
Non è un uomo geniale, Murad, ma è sorretto da robusta fede e persegue con lineare coerenza la tradizionale politica di penetrazione militare tanto in Asia quanto in Europa, di cui non tardano a manifestarsi le prime avvisaglie non appena egli si libera dai rivali alla successione. Rivelatosi prematuro il suo tentativo di abbattere quanto restava dell'Impero bizantino, ingloriosamente fallito dinanzi alle mura di Costantinopoli il 24 agosto 1422 (32), qualche mese più tardi, nell'inverno del '22-'23, egli invade il Peloponneso, quindi effettua delle incursioni nell'Albania.
Toccata nei suoi interessi vitali, Venezia deve reagire. La sua mancata partecipazione alla difesa di Costantinopoli e l'aiuto accordato invece ai Bizantini in Morea, nel '22, avevano forse costituito un segnale, un gesto di buona volontà rivolto al nuovo sultano, quasi a marcare una sorta di arretramento della propria linea di influenza: se queste erano state le speranze del Comune, la condotta di Murad ne aveva però inequivocabilmente rivelato l'infondatezza.
S'imponeva dunque un mutamento di tattica, anche per saggiare la reazione dell'avversario: contro le sue manovre in Albania, nella primavera del 1423 il capitano in Golfo, Francesco Bembo (33), otteneva la sottomissione del Pastrovici, presto seguita (12 agosto) dall'acquisto di Scutari, ceduta dal duca di Rascia, Stefano Czernojevic; quindi (24 settembre) era la volta di Salonicco, nella costa macedone, in un settore, cioè, di ben altro significato.
L'annessione - come si è accennato sopra - avvenne senza particolari ostentazioni di forza, quasi in sordina, giustificandola con la necessità di rispondere all'invito del despota Andronico Paleologo, che, incapace di difendere la città dall'assedio dei Turchi, aveva bensì chiesto aiuto ai Veneziani, con l'intenzione però di rivolgersi ad altre potenze cristiane se il suo appello fosse stato ignorato. L'intenzione della Signoria era, insomma, quella di far capire a Murad che il proprio agire era niente più che una doverosa risposta alla sua politica aggressiva, ma nel contempo che essa non sarebbe andata oltre, anzi - come provava l'invio di un ambasciatore alla corte di Adrianopoli - desiderava stabilire col nuovo signore rapporti di solida e duratura amicizia.
La risposta del Turco fu l'arresto dell'inviato veneziano, Nicolò Zorzi, la qual cosa segnò l'inizio di un conflitto destinato a prolungarsi per ben sette anni, sino a quando, cioè, Salonicco - la seconda città dell'Impero bizantino, che aveva ormai in misura notevole sostituito Costantinopoli nella funzione di emporio per i traffici col mar Nero - non sarebbe caduta nelle sue mani.
Venezia questa guerra la subì, adottando una strategia temporeggiatrice, volta a convincere Murad di quanto fosse controproducente perdere il tributo ch'essa si dichiarava disposta a versargli per il pacifico possesso della città, esponendosi nel contempo alle ritorsioni che la flotta avversaria era in grado di provocare, unitamente ad un indefinito logoramento delle truppe.
Perciò l'armata che ad ogni primavera la Signoria inviò in Levante fu più adatta alla difesa che ad offendere, e venne puntualmente accompagnata da un ambasciatore col compito di trattare con gli Ottomani; ancora, contro questi ultimi le iniziative interessarono quasi esclusivamente Gallipoli, ossia l'unico arsenale di cui disponevano, la cerniera che sugli Stretti univa i loro possedimenti (e gli eserciti) europei a quelli asiatici.
Per sette anni Venezia minacciò, tentando di lavorare ai fianchi l'Impero turco, di esaurirne la volontà espansionistica svuotando il valore degli obiettivi ch'esso si prefiggeva: per sette anni cercò di imporre la sua logica, affrontando sacrifici e spese che, a detta delle cronache, oscillarono tra i 500 ed i 700.000 ducati d'oro. Lo sforzo tuttavia doveva rivelarsi inutile, e la vittoria finale sarebbe toccata agli avversari, che poterono in tal modo cancellare il ricordo dell'umiliazione patita nel '16.
Strana guerra fu questa, che non ebbe neppure una vera e propria dichiarazione: se vogliamo darle un inizio, possiamo assumere come tale la data dell'11aprile 1424, allorché il senato ordinava di spedire la flotta - accresciuta di tre galere - in Levante, come ritorsione per l'arresto dello Zorzi.
A capo di essa veniva posto Pietro Loredan, il trionfatore di Gallipoli, ma con compiti ispirati alla maggior prudenza: in un latino assai poco latino non gli si ordinava di soccorrere Salonicco, qualora l'avesse trovata assediata, ma di recarsi a danneggiare gli Stretti. E siccome il comandante turco non avrebbe mancato di chiedergli ragione di tale condotta, allora "debeatis respondere quod hoc facitis quia dominus suus vel gentes sue sunt contra Salonichum", ma subito precisando il vivo desiderio del suo governo di "amicabiliter vivere et vicinare" col sultano (34). Dunque, una semplice dimostrazione ed anche a termine: entro novembre, infatti, il Loredan avrebbe dovuto disarmare, lasciando tutt'al più una galera alla difesa di Salonicco.
Così avvenne, senza beninteso che Murad sembrasse accorgersi di nulla: neanche uno straccio di risposta.
Pertanto, nella primavera del '25 Venezia allestì una flotta quale mai s'era vista dai tempi della guerra di Chioggia: venti galere, poste agli ordini del nuovo capitano da Mar, Fantino Michiel; ma per il resto, nulla era innovato: solita strategia, accompagnata però dalla facoltà di promettere al sultano un tributo annuo che poteva giungere sino a 200.000 aspri (il doppio di quanto gli passava Andronico), irrobustito da altri 150.000 aspri che il Michiel avrebbe potuto distribuire fra il visir e gli altri dignitari ottomani, a titolo di manzaria, secondo una prassi non sempre vincente, ma comunque in gran voga presso la corte di Adrianopoli.
Nonostante queste premesse ispirate più alla diplomazia che al confronto militare, la campagna del Michiel fece registrare un notevole successo proprio sul fronte delle operazioni belliche, con la conquista di alcune fortezze nella penisola calcidica, quali Cassandria e Platamona, e della città di Cristopoli, l'odierna Kavalla; dopo di che, secondo istruzioni, in agosto si recò a devastare Gallipoli e, nelle more dell'evento, ad avviare trattative di pace, per mezzo di un certo notaio Bonisio che fu regolarmente incarcerato ad Adrianopoli.
Neppure stavolta, dunque, ci fu la pace, e intanto, oltre alle spese della guerra, Venezia doveva pure provvedere al rifornimento della città assediata, mediante scorte di grano fatte arrivare da Candia.
Non si ebbe la pace. Ammesso pure che Murad fosse stato disposto ad accettarla, la guerra - da tempo nell'aria e finalmente scoppiata nel '26 - tra Venezia e Milano e, sembra, alcune assicurazioni fornite al sultano proprio dal Visconti (che, non si dimentichi, disponeva pure della flotta genovese), vanificarono gli sforzi della Repubblica. Taluni autori (tra cui il Babinger) affermano che un trattato per la composizione della vertenza su Salonicco venne stipulato, tra la Signoria e gli Ottomani, il 20 aprile 1426; in realtà la reticenza di altri studiosi ed il silenzio delle cronache fanno supporre che si tratti semplicemente dei preliminari condotti dal Bonisio, che Murad tuttavia non ratificò o, se lo fece, ben si guardò dall'osservare.
Nel '26, dunque, Venezia inviò nuovamente una squadra in Levante, ma dimezzata: dieci galere in tutto, visto che il grosso della flotta doveva operare sul Po contro i Lombardi. In compenso si cambiò nuovamente il capitano generale, che fu Andrea Mocenigo; la partenza avvenne tardi, in luglio, e la campagna risultò fiacca: qualche nave catturata, assicurati i rifornimenti a Salonicco e Cassandria, protetta con adeguata scorta la muda di Romània che, nonostante tutto, riuscì ad effettuare regolarmente il proprio viaggio. Unica novità di rilievo, nel corso dell'inverno '26-'27 solo quattro galere vennero disarmate, mentre le altre sei rimasero in Levante, "eundo [così le istruzioni inviate al Mocenigo il 10 settembre> intra strictum Galipolis ad damnum Turchi locorum et subditorum suorum, et extra strictum prout vobis melius videbitur, pro possendo melius damnificare loca et subditos Turchi predicti" (35): premuto in Italia da un conflitto che tutto lasciava prevedere lungo e difficile, stretto dalla penuria di equipaggi e uomini da remo, il senato sperava forse in tal modo di indurre il sultano alla pace.
Con sei galere? Era, quella veneziana, la logica di sempre: evitare di sferrare un colpo decisivo con una grossa armata, giacché la battaglia di Gallipoli del '16 aveva dimostrato che questo non avrebbe portato necessariamente alla pace, e quindi persuadere l'avversario a por fine al contrasto senza umiliarlo con clamorosi eventi, ma sconcertandolo con impreviste novità, costringendolo cioè ad una spossante vigilanza: raddoppiando dunque o riducendo la flotta, modificandone i compiti, bloccando la navigazione anche nella stagione invernale.
Murad rispose continuando ad assediare Salonicco e lasciando mano libera ai suoi corsari, che saccheggiarono le coste della Morea.
La campagna del '27 ricalcò esattamente le precedenti: la flotta venne affidata a Vido Canal, che salpò in luglio in compagnia dell'ennesimo ambasciatore, Benedetto Emo, dalla cui abilità nulla peraltro si riuscì a cavare, se non "buone parole".
Neppure nel '28 Venezia modificò la propria condotta, neppure dopo il clamoroso successo di Maclodio (11 ottobre 1427) e la conseguente, ancorché precaria, pace con il Visconti (19 aprile 1428), che la liberava dall'impegno sul fronte padano.
Sostituì il Canal con quell'Andrea Mocenigo che aveva tenuto il comando due anni prima, ma costui non lasciò il Lido prima del 3 settembre, dopo aver emanato le disposizioni per l'armata (36), c'è da pensare che la Repubblica fosse troppo provata sul piano militare e finanziario per pensare ad una condotta finalmente aggressiva, oppure che, forse, sperasse in un temperamento dell'intransigenza dell'avversario, il quale ora la sapeva vittoriosa in Italia.
Per questa ragione la Signoria rinunciò a vendicare l'assalto portato dai Turchi alla muda di Romània nelle acque di Gallipoli e conclusosi con la cattura di due navi cariche di mercanzie (luglio 1428), inviando anzi un nuovo ambasciatore, Giacomo Dandolo (o Dondulo?), ad Adrianopoli.
Il tentativo sarebbe forse riuscito, se nel febbraio del '29 non fosse intervenuto un armistizio triennale (favorito, a quanto pare, dalla diplomazia viscontea) fra l'imperatore Sigismondo e Murad II; un accordo che spianava al sultano la via per la conquista di Salonicco. Allora, quando fu evidente che i Turchi non avrebbero posato le armi se non a patto della cessione della città (il qual rifiuto costò all'infelice Dandolo l'arresto e la morte in carcere), solo allora Venezia decise di rilasciare al Mocenigo istruzioni meno ispirate alla prudenza.
Nel maggio del '29 il senato infatti gli ordinava di bloccare Gallipoli e tentare il recupero delle navi che i Turchi avevano catturato l'anno prima e vi tenevano alla fonda. Il Mocenigo disponeva di una buona armata, ma i Turchi avevano munito la città di numerosa artiglieria e rinforzato le difese del porto con una palizzata.
Il capitano da Mar decise di attaccare il primo luglio, nonostante il parere avverso di molti comandanti delle galere, che ritenevano l'impresa di dubbia realizzazione, per essere il luogo troppo munito.
Li comandava però un uomo "de grandissimo anemo" (come riferisce un anonimo testimone oculare dell'avvenimento), che decise di tentare ugualmente l'impresa, da lui studiata sin nei dettagli: aveva fatto costruire due torri su di una cocca, che avrebbe dovuto essere trascinata sotto le difese nemiche; bersagliati dai balestrieri, i Turchi non sarebbero stati in grado di impedire ad una squadra di otto galere di forzare la palizzata, penetrare nel porto e impadronirsi delle navi.
All'alba del giorno stabilito, il Mocenigo diede il segnale d'attacco e si lanciò per primo contro le difese ottomane, sfondandole sino ad entrare nel porto, ma solo due galere lo seguirono; per cui, di fronte alla reazione del nemico, dovette ritirarsi e rinunciare all'impresa.
Naturalmente egli fece incarcerare i cinque sopracomiti disobbedienti, che furono poi regolarmente processati nel gennaio 1430, ma tre di essi vennero assolti e gli altri due, Vittore Duodo e Bertuccio Civran, se la cavarono con un anno di carcere ed un'ammenda pecuniaria. La mitezza del senato non può non stupire, e risulta sconcertante se commisurata al metro adottato per altri consimili processi istruiti in quegli anni: persino il Civran, di cui gli avogadori dimostrarono con abbondanza di particolari il pertinace rifiuto di portar soccorso al suo comandante ("continuo stabat longe et luntanus et sluntanabat se ab auxilio praedicto") fu condannato con soli 79 voti su 155.
Non resta dunque che concludere che il Mocenigo intendesse ripetere il colpo di mano che tredici anni prima aveva fruttato tanta gloria al Loredan, oltrepassando gli ordini ricevuti, i quali prevedevano il blocco di Gallipoli e magari il recupero delle navi mercantili predate dai Turchi, il tutto però senza porre a repentaglio l'armata: e su questo punto la difesa dei suoi indisciplinati ufficiali ebbe buon gioco.
Sul fronte internazionale, tuttavia, la situazione pareva intanto evolversi in senso favorevole a Venezia, che per sua fortuna non era l'unica potenza ad aver conti in sospeso con Murad; e così, tra l'agosto e l'ottobre del '29, la Signoria poté concludere un'alleanza con il principe di Caramania, che già aveva aperto le ostilità con gli Ottomani, e col re d'Ungheria, il quale ora sembrava disposto ad una lega contro i temibili avversari.
Solo alla luce di questa realtà si spiega forse l'energico discorso tenuto in senato dal savio agli ordini Andrea Surian, nel gennaio 1430, in cui stigmatizzava l'assurda conduzione di una guerra che aveva comportato una spesa per l'erario superiore ai 60.000 ducati annui, senza che si fosse conseguito alcun apprezzabile risultato, e suggeriva un radicale mutamento strategico: spendere molto ed in un sol colpo, compiere finalmente qualcosa di grande, sferrare ai Turchi un colpo decisivo.
La proposta fu respinta perché troppo costosa, e intanto Salonicco cadeva, il 29 marzo 1430, assalita da forze soverchianti, troppo debolmente difesa dalle tre galere comandate da Antonio Diedo.
La flotta veneziana, preso il mare il 5 marzo sotto il comando del nuovo comandante Silvestro Morosini, vendicò in qualche modo la sconfitta distruggendo con le grosse bombarde che imbarcava l'Anatoli Hisary, il castello che i Turchi avevan posto alla guardia dei Dardanelli. Questo avvenne tra il 6 ed il 16 giugno; poi fu la pace, resa agevole dall'esser venuto meno, nei fatti, l'oggetto del contendere.
Condusse le trattative lo stesso Morosini e Murad firmò il trattato ad Adrianopoli, il 4 settembre 1430.
Si dice che Bonifacio VIII, forse per stornare le critiche che venivano rivolte a talune sue scelte di politica economica, definisse i mercanti fiorentini il quinto elemento della natura, dopo la terra, l'acqua, l'aria ed il fuoco. Probabilmente pensava alla situazione dell'Europa occidentale, ché se avesse badato al Mediterraneo non si sarebbe dimenticato dei Veneziani i quali oltretutto, in prosieguo di tempo, vi aumentarono il loro peso specifico.
Non tocca a me parlare di economia, né tanto meno di mercatura, nell'ambito del presente lavoro, ma siccome mi sono soffermato quasi esclusivamente sugli avvenimenti politico-militari che interessarono Venezia ed il Levante nei primi decenni del XV secolo, vorrei solo aggiungere, a costo di rischiare l'accusa di eccessiva pignoleria o di ovvietà, che tutto ciò che si è detto presuppone ed è sotteso dal rigoglio di una congiuntura economica che fu eccezionalmente favorevole agli abitanti delle lagune.
Son cose note, e bastino per tutte le belle pagine dedicate all'argomento dal Thiriet (37); quello che ora - ripeto - vorrei sottolineare è il forte condizionamento, per non dire asservimento, operato nel settore marittimo dalle ragioni dell'economia su quelle della politica. A tal fine un esempio convincente mi sembra di ritrovare nelle notizie dedicate dal Nani, o meglio dalle cronache da lui seguite, al commercio nel Mediterraneo.
È importante l'ottica con cui queste fonti riferiscono gli avvenimenti, secondo una sensibilità che talora può sembrare antitetica alla valutazione politica: ad esempio, la vittoria di Tamerlano sui Turchi venne soprattutto avvertita dai Veneziani, nel 1402, sulla base dei contraccolpi che risentirono i loro traffici in Siria, dal momento che i Mongoli giunsero sino a Damasco, e fu gran ventura che una provvida carestia li fermasse alle soglie dell'Egitto.
C'è da stupirsene, se proprio in quegli anni, in quello stesso 1405 che vedeva il Comune impegnato a fondo nella conquista di Padova, furono inviate sei cocche cariche di mercanzie in Siria, più altre tre a Beirut ed altrettante ad Alessandria? E se il 13 aprile dell'anno seguente la muda di Fiandra partì da Venezia con un carico del valore di oltre 350.000 ducati?
Ecco allora che certe nostre perplessità circa la prudente condotta veneziana nel corso della guerra per Salonicco, i dubbi propensi alla stigmatizzazione per l'inspiegabile renitenza a rinnovare il trionfo di Gallipoli possono trovar risposta nella ritorsione operata dai Turchi, due anni dopo la sconfitta, sulla Tana, in Crimea:
poiché [scrive il Nani> preso a forza d'armi quell'emporio e tutto saccheggiato e posto a ferro, et a fuoco, riceverono i veneti la più grave jattura, che da qualunque altra sconfitta risentire potessero. Così che in quel fatale avvenimento le mercanzie preziose e gli effetti tutti di sommo valore furono rapiti, e tutti i veneti indifferentemente tagliati a pezzi; per il che si scemarono grandemente li fondi delle venete ricchezze, e perderono miseramente la vita moltissimi onorati cittadini (38).
Nella valutazione veneziana il disastro patito in Crimea aveva un duplice risvolto, presente e futuro: l'annichilimento dei suoi traffici avrebbe probabilmente finito per risultare a vantaggio dei mercanti genovesi, o di altre nazioni, pronti a subentrare ai tradizionali concorrenti; forse non è casuale, nella narrazione del Nani, la ripetizione dell'aggettivo veneto per ben tre volte nell'arco di otto righe.
La gloria colta dal Loredan a Gallipoli... Ecco perché lo stesso comandante, dopo la vittoria, non sapeva come i compatrioti ne avrebbero accolto l'annuncio: si trattava di un evento dal costo non prevedibile né tantomeno quantificabile.
Per un popolo di mercanti la pace era il bene supremo; in margine alla rievocazione delle ultime fasi della guerra per Salonicco, il Nani allarga lo sguardo ad altre calamità (naufragi dovuti a tempeste, scorrerie di pirati) che in quel momento infierivano sui Veneziani, quindi conclude: "In mezzo però a tanti avvenimenti venne a consolare gl'animi la pace decorosa, et avvantaggiosa, segnata con li turchi".
Decorosa e vantaggiosa, dove il secondo termine dà ragione del primo.
Era la stessa logica ufficialmente interpretata, in quegli anni, dal doge Mocenigo, per cui "guerreggiare" era "il mestiere del diavolo", odioso a Dio. "Quante città grandi [egli aveva scritto nel suo presunto testamento> sono diventate vili per le guerre? e per la pace si sono fatte grandi, con moltiplicare la generazione, palagi, oro, argento, gioje, mestieri [...>?" (39).
L'impero dunque, quello marittimo, doveva garantire la pace e favorire i traffici: per questo Venezia - è stato osservato - dopo la conquista di Costantinopoli del 1204 aveva concentrato sulla funzionalità dell'emporio realtino tutta la sua organizzazione economica e sociale (40); una sfida coraggiosa ed infine vincente, ma tale da comportare una serie di opzioni materiali e culturali valide ancora due secoli dopo.
Venezia dunque aveva dato vita ad un Arsenale che all'inizio del '400 poteva essere considerato la massima industria europea; era - come hanno scritto di recente Gaetano Cozzi e Michael Knapton in una bella e chiara sintesi una grande impresa statale per la costruzione di navi militari e mercantili, dove il lavoro, sistematicamente organizzato, aveva raggiunto livelli di straordinaria produttività, con rese di alta efficienza sul piano qualitativo e quantitativo.
Esso - affiancato in città dagli squeri e nello stato da Mar da altre consimili strutture minori - consentiva la costruzione sia delle navi rotonde mercantili (cocche), sia delle basse e sottili galere da guerra, mosse quasi sempre da remi, con equipaggi di 150 uomini e anche più, che agli inizi del secolo giunsero ad imbarcare cinquanta soldati ed una trentina di balestrieri. Il loro compito consisteva nel proteggere i convogli mercantili e dar la caccia ai pirati.
Il nucleo della flotta era poi costituito dalla squadra del Golfo, originariamente di tre sole unità, ma giunta sino a dieci, nell'epoca di cui ci occupiamo, data la necessità di controllare anche l'Egeo. Qui essa veniva coadiuvata da alcune galere (poche per la verità) che si armavano soprattutto a Candia, o a Negroponte, i cui arsenali tuttavia non raggiunsero quasi mai l'autosufficienza, continuando sempre a dipendere da quello veneziano per il rifornimento di materiali, apparecchiature, maestranze. Durante le guerre di Gallipoli e di Salonicco, l'armata veneziana, ossia la flotta del Golfo e le galere destinate all'Egeo, non superò mai le 20-30 unità, cifra destinata a raddoppiare ed anche triplicare nella seconda metà del secolo (41).
Tra la fine del XIV secolo ed i primi decenni del XV, questa struttura funzionò benissimo: la pirateria venne repressa, i Genovesi posti in condizioni di perenne inferiorità, i Turchi costretti ad accettare la supremazia marittima veneziana.
In tutti i trattati da essi stipulati con il Comune dovettero rinunciare a tenere una flotta da guerra nell'Egeo, ossia a sud di Tenedo, e persino la pace del 4 settembre 1430 ribadiva - a questo proposito - la validità della usanza vecchia; come ha sottolineato il Thiriet, in questi anni l'egemonia navale dello stato marciano si esplica da Tenedo a Negroponte e da Negroponte a Karpathos, fra Candia e Rodi: all'interno di questo triangolo, non v'è nulla che non sia veneziano (42).
In un mosaico di stati, protettorati, colonie, nulla che non fosse controllato da Venezia, sul piano politico ed economico.
La caduta di Salonicco significò un decennio ed oltre di pace tra Venezia ed i Turchi: sembra che per tutto il '31 ed anche il '32 Murad non si sia mosso da Adrianopoli, impegnato com'era a soddisfare i piaceri materiali, nessuno dei quali gli era ignoto, e, fra le pieghe di tali priorità, forse a badare un poco anche alla famiglia, giacché il 30 marzo 1432 gli nacque il terzogenito, Mehmed Celebi, il futuro Maometto II; in seguito, sarebbe tornato ad occuparsi della guerra, riprendendo la sua marcia di penetrazione nei Balcani.
Quanto ai Veneziani, nel corso degli anni '30 si disinteressarono della caduta dell'Epiro, e successivamente della Serbia, in mani turche, o quantomeno seppero essere paghi della prosperità dei loro commerci e del controllo dell'Egeo; c'è da dire, però, che la ripresa del conflitto in Italia costituì per loro un impegno di eccezionale gravità.
L'effimera pace di Ferrara del '28 non risultò infatti niente più che una tregua: confortata dalla cessazione delle ostilità in Levante e dall'ascesa al soglio pontificio del concittadino Angelo Condulmer, papa col nome di Eugenio IV (3 marzo 1431), il 13 aprile '31 il senato ordinava al Carmagnola di passare l'Adda per muovere alla distruzione del Ducato milanese; contemporaneamente un attacco della flotta sulle coste liguri, spalleggiato dai fuorusciti genovesi, avrebbe dovuto "liberare" l'antica rivale dalla sudditanza viscontea.
Gli esiti della guerra, come è noto, non sarebbero stati esattamente quelli auspicati dalla Signoria, come apparve chiaro sin dalle prime battute della campagna del '31: il fallimento dell'espugnazione di Soncino servì di pretesto al Carmagnola per non muovere più un passo, ed il 22 giugno Nicolò Trevisan riuscì a farsi battere da Giovanni Grimaldi sul Po, presso Cremona, con la perdita di quasi tutte le sue galere e di 6.000 uomini.
Fra tante afflizioni, le uniche note positive per le armi della Repubblica risultarono l'arresto in Friuli, peraltro con difficoltà, della intrapresa invasione ungara (Sigismondo s'era alleato con Filippo Maria Visconti) nell'ottobre dello stesso 1431, preceduta dalla vittoria riportata sui Genovesi a Rapallo dalla squadra comandata dall'eroe di Gallipoli ed ora procuratore di San Marco, Pietro Loredan.
Sui mari, l'azione veneziana era stata inserita in un quadro articolato, che per singolare combinazione risultava tutto affidato ad esponenti della famiglia Loredan: Andrea (nessuna parentela diretta con Pietro) doveva portarsi nel mar Nero con alcune galere per scoraggiare eventuali aggressioni genovesi alla Tana, sul cui mercato i Veneziani erano tornati ad affacciarsi da alcuni anni; le istruzioni che gli vennero affidate non prevedevano iniziative contro i possedimenti genovesi, se non in caso di rappresaglia: allora avrebbe dovuto attaccare Caffa, la principale stazione commerciale dei Liguri in Crimea.
Un'altra piccola squadra di tre galere, di provenienza cretese e corfiota, era affidata a Giorgio Loredan (fratello minore di Pietro), col compito di difendere il Golfo, incrociando sul basso Adriatico. Il grosso dell'armata (16 galere, alle quali se ne aggiunsero altre 5 dell'alleata Firenze, sotto il comando di Paolo Rucellai) era posta agli ordini del capitano da Mar e spedita nel Tirreno, nella speranza di chiudere la partita con Genova (43). Naturalmente i Liguri non erano rimasti a guardare ed avevano allestito a loro volta una grossa flotta di venticinque galere, affidata all'esperto Francesco Spinola, decorato per l'occasione del titolo di ammiraglio, che da oltre mezzo secolo più non s'usava. In agosto l'armata del Loredan si concentrò a Livorno, donde si mosse verso Portofino per ricongiungersi con le navi dei fuoriusciti genovesi, guidati da Giacomo Adorno ed Antonio Fieschi; la mattina del 27 le galere di Tommaso Duodo e Dario Malipiero, inviate in avanscoperta, avvistarono la flotta nemica, rinforzata da una grossa nave di 1.200 botti che trasportava 400 armati.
Lo scontro avvenne nei pressi di Santa Margherita, sul golfo di Rapallo. Eccone la dinamica in base alla relazione stesa dallo stesso Loredan e così riportata dal Nani:
Il mar era un poco grosso, ma avanti che noi venissimo a battaglia, Dio ci fece grazia ché si calmò alquanto [...>. Erano ore due e mezza di giorno; e perché le galee dei Genovesi erano messe tutte sotto la nave e accostate a quella, noi si allargassimo in mare da loro per lo spazio di un miglio e mezzo; e perché la nave non aveva vento favorevole, essendo bonaccia e quasi vento contrario, si ordinò alla galera grossa de' Fiorentini che andasse a investir la galera del capitano dei Genovesi, e così fece. Feci poi comandamento che tutte le galee con le balestre cariche avessero a ferir nelli nemici, e così tutti eseguirono. Fu combattuto crudelmente, e dopo lunga battaglia che durò per lo spazio di due ore, con laude d'Iddio noi restassimo vittoriosi (44).
La stringatezza della relazione non pone forse nel dovuto rilievo tutto il merito della galera fiorentina che eseguì il non facilissimo compito di investire l'ammiraglia genovese, tanto più che sembra che il comandante toscano, Ramondo Mannelli, avesse convinto il suo timoniere ad eseguire l'ordine del Loredan con l'ausilio di un'accetta che tenne sospesa sul suo capo fino allo speronamento della nave avversaria: ancorché procuratore, il veneziano era uomo di mare, e quindi incline più all'azione che ad indulgere a minuzie letterarie, mettiamola così.
Fu comunque un bel successo, oltretutto coronato dalla cattura dello Spinola ad opera del Mannelli, che appare dunque il principale artefice della vittoria, nonostante le reticenze del Loredan, il quale rimase tenacemente sordo alle rivendicazioni dell'alleato. Su questo punto non dovrebbero esserci dubbi, stante anche una lettera del senato al capitano da Mar, riportata dal Cappellini, nella quale gli si ordinava di impedire a chiunque di parlare o scrivere intorno alla battaglia, sotto pena di 500 ducati.
L'avvenimento riuscì in qualche modo a risollevare le sorti dell'infelice campagna, ma non certo a compensare l'inazione del Carmagnola sull'Adda; la manovra ideata dal senato, consistente in una duplice pressione sul Tirreno e in Lombardia, veniva così a fallire e questo vanificò la progettata insurrezione antiviscontea di Genova, tramontata fra l'impossibilità del Loredan di assalire - privo di truppe da sbarco com'era - una città rimasta fedele ai suoi reggitori, e le incomprensioni sorte ben presto tra il governo marciano ed i fuoriusciti liguri.
Mancato dunque il suggestivo oggetto di risolvere d'un colpo le pendenze con l'antica rivale, Venezia cercò quantomeno di colpirne gli interessi economici in Levante, a vantaggio dei propri.
S'è visto come essa, all'inizio della campagna del '31, avesse provveduto ad inviare nel mar Nero una piccola squadra agli ordini di Andrea Loredan, soprattutto nell'intento di proteggere i mercanti che operavano alla Tana; naturalmente i Genovesi non avevano assistito inerti alle iniziative dei rivali e si erano preoccupati di trovare degli alleati, a cominciare dai Turchi, e poi nell'imperatore di Bisanzio, istigandolo ad intraprendere un'azione contro Corone e Modone in favore dei Paleologo di Morea.
Per la diplomazia genovese fu un duplice fallimento: Murad approfittò della crisi in atto tra le due repubbliche marinare per impadronirsi di Giannina, nell'Epiro, mentre l'imperatore Giovanni VIII rimase fedele alla tregua quinquennale puntualmente rinnovata coi Veneziani il 26 maggio '31. A questo punto, costoro decisero di aumentare la loro pressione antigenovese anche nel Levante, ed il 23 agosto dello stesso anno affidarono una squadra di 14 galere e 10 navi da carico, sulle quali erano imbarcate truppe e materiali, ad Andrea Mocenigo, nominato luogotenente dell'armata navale, cui vennero affiancati i comandanti delle navi Vido Canal e Delfino Venier (quello stesso che nove anni prima aveva trattato con i despoti moreoti), con l'incarico di muovere contro l'isola di Chio, dove sin dal 1346 i Genovesi sfruttavano la produzione del mastice, concesso in monopolio alla famiglia Giustiniani.
Con questi mezzi il Mocenigo giunse nell'isola e riuscì a penetrare nel porto, spezzando la catena che lo serrava, ma non ebbe la fortezza al primo assalto, come aveva sperato. Dovette quindi por mano all'assedio: nonostante disponesse degli strumenti necessari la cosa si rivelò tutt'altro che facile, trattandosi del più vasto e ricco possedimento genovese in Levante; infatti dopo due mesi non aveva conseguito alcun progresso significativo. Risolse pertanto di abbandonare l'impresa, limitandosi a devastare scrupolosamente le coste di Chio, e si recò a svernare a Modone, dopo di che tornò a Venezia.
Nella primavera dell'anno seguente fu Genova ad assumere l'iniziativa, nonostante il Loredan continuasse ad operare nel Tirreno, fra Pisa e l'Elba; questa prudenza da parte del senato può forse spiegarsi col fatto che la sua attenzione venne assorbita soprattutto dalla gestione dell'esito dello scontro di Rapallo: non sembrava il caso, infatti, di irritare i Genovesi con un colpo di mano nelle loro colonie proprio quando i fuoriusciti speravano di rovesciare la collocazione politica della loro città.
Avvenne così che una grossa flotta ligure entrò nell'Egeo e, visto che non trovò modo di menare le mani in un conflitto aperto, risolse anzitutto di bruciare il borgo di Corfù (luglio '32), e poi di saccheggiare i possedimenti veneziani di Nasso, Andros, Negroponte e quel che capitava (45).
Pari e patta, dunque, e questa fu praticamente la fine del secolare duello tra le due repubbliche marinare, dal momento che di lì a poco la seconda pace di Ferrara (26 aprile 1433), seguita due anni più tardi dall'insurrezione antiviscontea di Genova, venivano a far mancare molte ragioni del contendere.
Si è visto come i Veneziani, nell'imminenza del loro attacco alle coste liguri, pensassero a tutelare i loro interessi nel mar Nero da possibili ritorsioni genovesi; questo perché, dopo il saccheggio patito nel '18, essi erano riusciti a riattivarvi un loro mercato.
Scrive in proposito il Nani:
Erano già corsi diciotto anni, che si era intermessa la navigazione al Mar maggiore et all'emporio della Tana per le sopravvenienze de' turchi, e per le straggi, incendj e saccheggi che vi avevano fatto, con rovina grande del veneto traffico: ora dopo sì lungo corso di tempo col favor della pace, stabilirono ripristinar quei negozi, e spedire nuovamente li legni mercantili a quei porti, tanto più che per le relazioni che si avevano, erano ripieni di molte e ricche merci; perciò si diede tosto la spedizione a quattro galere, cioè una al viaggio di Romania, una alla Tana, una a Trebisonda, et una a Marcastro (46).
La presenza veneziana al di là degli Stretti ebbe sempre carattere di precarietà, né mai essa riuscì ad emanciparsi dall'indiscussa supremazia che vi esercitarono i Genovesi; come mai dunque questo nuovo tentativo, dopo il disastro subito nel'18? Ufficialmente, in seguito alle sollecitazioni rivolte al bailo a Costantinopoli dal signore di Moncastro (o Marcastro o Maurocastro va' a capirlo, insomma l'attuale Cetatea Alba, a nord del delta del Danubio), il 27 aprile 1435 il senato decideva di includere la località moldava nell'itinerario della muda di Romània e l'anno seguente vi nominava addirittura un vice console: in tutti i casi, nel '36 la Tana risultava ben frequentata dai Veneziani e nel '37 Giosafat Barbaro partiva da qui in compagnia di altri sette mercanti veneziani e 120 uomini, muovendo all'esplorazione dell'Ucraina e dei paesi attorno al mar Nero (47).
In realtà, a persuadere il senato a scommettere nuovamente sulla Tana erano state le difficoltà incontrate nei paesi del Vicino Oriente e del Nord Africa nel corso degli anni '30: annota il Nani che il sultano d'Egitto espulse "barbaramente" i mercanti veneziani da Alessandria, Tripoli del Libano, Beirut e Damasco, confiscandone per di più i beni e causando loro un danno superiore ai 235.000 ducati; lo stesso fece di lì a poco il Bey di Tunisi, ordinando l'arresto del console Bianco Dolfin, a motivo di una controversia col mercante Girolamo Canal.
Gli Arabi giocavano al rialzo: volevano guadagnare di più sui Veneziani, aumentando i dazi e magari facendosi "offrire" qualche cospicuo donativo. Era una prassi ricorrente da parte loro, ma stavolta avevano esagerato: di qui la ritorsione della Repubblica, consistente nell'abbandono (temporaneo) di quegli scali e l'adozione di nuovi itinerari.
La verifica che si trattava dell'ennesimo braccio di ferro, ossia di una sorta di incidente di percorso e non di una crisi insanabile, si ebbe una manciata d'anni dopo, nel '42. Il console alla Tana, Marco Duodo, inviò infatti a Venezia la "miserabile nuova" che un incendio aveva pressoché distrutto i depositi di merci, causando la morte di oltre 400 persone. Di conseguenza il governo marciano riallacciò prontamente i contatti col sultano, inviando in Egitto Andrea Donà (48) con regali per un valore di 3.000 ducati e l'ordine di rimuovere il console in Siria, Pietro Marcello, la cui "esiziale condotta", a detta del Nani, "aveva reso sommamente odioso il nome veneto" presso quei popoli.
In tal modo, nell'ottobre 1442 fu possibile il rinnovo del trattato commerciale tra la Repubblica ed il principale stato arabo; un patto che venne riconfermato sette anni più tardi, il 22 maggio '49.
Queste ricorrenti tensioni presuppongono, in fondo, un'economia mercantile in buona salute. E così era, infatti: persino alla vigilia della caduta di Costantinopoli, nel '51, tutte le mude veneziane effettuarono i loro viaggi; con quale spirito, poi, operassero questi imprenditori possiamo ricavarlo dall'esempio offerto da quel Giosafat Barbaro che s'è nominato poc'anzi: nel '37 partì dalla Tana alla volta dell'Ucraina, assieme ad altri sette mercanti veneziani, non già per gusto d'avventura o per sete di conoscenza, ma molto più semplicemente per scavare un tumulo - uno dei tanti, detti kurgan, dei quali è cosparsa la regione - che si diceva pieno d'oro.
Ma la prosperità dei traffici, si è visto, alimentava la pirateria, addossando alla Repubblica un ininterrotto defatigante compito di vigilanza.
Particolarmente attivi, nel racconto del Nani, quelli aragonesi, in grado di sfruttare il vuoto di potere determinatosi nel Meridione in seguito alla difficile successione al trono di Giovanna II di Napoli: nel '36 i Catalani si impadroniscono della nave di Benedetto Vitturi, che si recava in Fiandra carica di vini, costringendo la Signoria ad armare due grosse navi con la spesa (che appare francamente eccessiva) di 25.000 ducati e ad inviare Andrea Zulian al re d'Aragona, per ottenere il dovuto risarcimento; l'anno dopo alle bevande si sommarono i commestibili, per completezza: ecco infatti che "un'altra veneta galera carica di formenti, farina e formaggi [...> fu combattuta per cinque ore da due galere catalane, e presa finalmente fu condotta a Gaeta, dove era il re, al quale tosto fu spedito ambasciatore Nicolò Memmo per riaverla".
Quando però agli Aragonesi si aggiunsero pure i cavalieri di Rodi (pare istigati proprio dai primi), che nel '43, dopo aver attaccato i mori a Beirut, con atto di perfetta imparzialità durante il viaggio di ritorno presero due navi cristiane adibite al trasporto di Genovesi e Veneziani, la Repubblica fu costretta ad armare, affidando una piccola squadra di tre navi ed una galera grossa prima al capitano in Golfo Antonio Diedo (49), quindi a Filippo Canal. Le rappresaglie aumentarono allora d'intensità, divenendo - scrive sempre il Nani - "una guerra aperta, e feroce": contro i pirati che operavano nel mar Nero, taglieggiando i commerci con la Tana, nel '44 fu inviato Arsenio Duodo, con quattro navi scortate da una galera; nel '48 si sfiorò addirittura un conflitto con Alfonso d'Aragona, che aveva definitivamente unito alla sua corona il Napoletano: due famosi corsari, il biscaglino Belinzier e Vitale Corso, avevano catturato tre navi veneziane nelle acque di Candia; pertanto si allestì una squadra di cinque galere e tre navi, posta sotto il comando di Alvise Bembo e Lorenzo Loredan, che riuscirono a catturare e ad impiccare i rei. Siccome però costoro agivano con la copertura aragonese, Alfonso fece arrestare i mercanti veneziani che si trovavano nei suoi stati, la restituzione dei quali venne ottenuta non senza fatica dal segretario Giovanni Gonella, che dovette minacciare guerra.
Questa però era ormai nell'aria, poiché la logica delle cose l'imponeva.
Infatti l'Aragonese, una volta esteso il suo dominio a tutta l'Italia meridionale (1442), non aveva tardato a manifestare l'intenzione d'installarsi nell'Epiro, secondo la direttrice ch'era stata dei sovrani normanni tre secoli prima, appoggiando la lotta che Scanderbeg conduceva contro il Turco e (almeno sino all'ottobre '48) contro la veneziana Scutari; ancora, dopo la morte di Filippo Maria Visconti (13 agosto 1447), aveva avanzato pretese sul Ducato di Milano, di cui aveva anche cercato di impadronirsi con un colpo di mano; l'impresa era fallita, ma non per questo lo spregiudicato monarca aveva smesso di aspirare al possesso del prestigioso stato padano.
Il contrasto degli interessi tra Venezia e Napoli diede così origine ad una serie di reciproci attacchi navali nella zona di mare compresa tra Corfù e la Puglia, a partire dal '47, sinché la crisi non sfociò in una guerra vera e propria, che fu dichiarata da Alfonso 1'8 luglio 1449.
Il casus belli venne determinato, nell'ottica aragonese, dal tentativo veneziano di impadronirsi delle isole Ionie (Cefalonia, Santa Maura, Zante) sottoposte alla dinastia dei Tocco.
Con tale mossa la Signoria intendeva rafforzare la sua presenza nel basso Adriatico, per meglio controllare ad un tempo Scanderbeg, i Turchi ed i Napoletani; a tal fine, il 26 aprile '49 aveva ordinato a Vettore Cappello, capitano in Golfo (50), di procedere all'annessione delle isole. Sennonché, dai colloqui tenutisi a Corfù tra il Cappello e Giacomo Rosso, governatore del Ducato di Leucade e rappresentante dei Tocco, apparve chiaro che la Repubblica avrebbe potuto insignorirsi di quei territori solo con la violenza, essendo del pari risultate vane tanto le lusinghe (l'8 luglio il senato promise al Rosso una rendita annua di 500 ducati, se si fosse arreso senza combattere), quanto le minacce (un mese più tardi, 1'8 agosto, la Signoria notificava al vescovo di Cefalonia la propria disponibilità a difendere quei territori dai Turchi solo nel caso in cui avesse potuto esercitarvi un effettivo protettorato) (51).
La dichiarazione di guerra mossa da Alfonso alla Repubblica vanificò quindi il tentativo da essa perseguito nello Ionio, inducendola ad accontentarsi delle assicurazioni, prontamente fornite (11 settembre) da Leonardo Tocco, di uno stretto allineamento alla sua politica.
Il conflitto con Napoli durò un anno. Nell'agosto '49 il Cappello fu incaricato di sorvegliare il Golfo, nelle pieghe dei suoi colloqui corciresi, impedendo eventuali incursioni di una squadra catalana ch'era giunta a Taranto; né questi interpretò il suo compito in termini riduttivi, giacché inseguì sino ad Ortona una fusta aragonese che aveva depredato una nave mercantile veneziana, dopo di che sbarcò in città, devastando l'arsenale.
Lo sforzo decisivo della campagna era però affidato al capitano da Mar, Alvise Loredan, che sul finire dell'estate, forte di una flotta di 35 galere, effettuò un'incursione a Messina, dove - a detta del Nani (52) - diede alle fiamme quattordici navi, tra cui una di ben 2.000 botti di stazza. Donde passò a Reggio, quindi ancora in Sicilia, "cagionando indicibili danni ovunque", ma senza poter incrociare l'armata nemica.
Pensò allora di sfidare l'avversario nei suoi dominii iberici, anche nell'intento di ripulire quei mari dai troppi corsari che li infestavano, progettando un colpo di mano a Saragozza, dove si trovavano alcune navi veneziane e genovesi che coloro avevano catturato. Il porto era ben munito, sbarrato da una catena, difeso da una palizzata e parzialmente ostruito da un legno che vi era stato affondato non appena s'era avuto sentore delle intenzioni del Loredan; inoltre i Catalani avevano legato tra loro le navi alla fonda,
et avevano posti molti ponti [così il Nani> che dalle navi comunicavano fino alle mura della terra, onde potersi in questo modo non solo aiutarsi reciprocamente fra loro, ma esser anche agevolmente soccorsi da quei della piazza.
Un primo attacco venne dunque respinto, per cui i Veneziani
raccolti a consiglio, si determinarono prendere una nave, e sopra di essa porvi trenta uomini de' più coraggiosi, e riempirla di polvere, zolfo e fassine, e col favore del vento di garbino spingerla a vele piene dentro del porto con la conserva di una galera, che sempre li stasse dietro. Lo stratagemma riuscì felicemente, poiché la nave con grande impeto urtando la catena la spezzò, ruppe la pallata, e dopo aver dato in quella nave, ch'era affondata, e da essa sbarazzatasi entrò con la galera dentro in porto.
Quando li nemici videro così vicina a loro la nave, affollatisi attorno in gran numero con varie armi, e gettandovi molti uncini e ramponi, credevano averla presa. Ma li trenta uomini allora posto il fuoco alla polvere, et al zolfo, accese le fassine, tagliarono la gomena e le vele, e montati sopra la galera di seguito si ritirarono, lasciando la veneta nave immobile in mezzo alle nemiche, alle quali tramandando un fuoco grandissimo che andava rapidamente serpendo, cagionò un orrido incendio. Li nemici scappar volendo da tanto orrore salivano in molto numero sopra li ponti per salvarsi nella terra; ma per la gran calca rottisi questi, si affogarono parte degl'uomini nelle acque, mentre altro numero di essi restò abbrugiato con le navi. Con quest'arte il Loredano incenerì e distrusse più di quaranta navi incatenate assieme, ch'erano in questo porto.
Il grave scacco fu in parte controbilanciato dal rapido evolversi della situazione politica (a Venezia aumentavano i timori per la sempre più marcata ostilità fiorentina, rinvigorita dall'ascesa al Ducato milanese di Francesco Sforza, il 26 marzo 1450), e questo indusse i due contendenti alla pace, che venne sancita il 2 luglio 1450 con la mediazione del cognato del re d'Aragona, Lionello d'Este.
Neppure due anni dopo, in sintonia col frequente mutamento delle alleanze che contrassegnava la politica italiana del tempo, Veneziani e Napoletani si trovavano uniti contro i Milanesi ed i Fiorentini.
L'infelice esito del conflitto per Salonicco - ha giustamente osservato il Thiriet (53) - convinse i Veneziani che da allora in avanti sarebbe stato per loro impossibile affrontare i Turchi con le sole forze di cui disponevano; di qui una politica di estrema prudenza nei confronti del temibile avversario, consistente nel lasciargli mano libera nei Balcani, e financo all'interno della Grecia, ribadendo nel contempo la propria supremazia nell'Arcipelago.
Lo stato ottomano era infatti relativamente giovane, quello veneto aveva invece alle spalle una storia secolare, una vasta esperienza politica, una lunga tradizione di scaltrezza diplomatica, in qualche modo ereditata dai Bizantini; nel giocare la sua partita contro i Turchi poteva dunque ragionevolmente confidare che il trascorrere del tempo avrebbe finito per offrirgli almeno una di queste due occasioni favorevoli: una crisi interna all'avversario o una lega di forti principi cristiani timorosi della sua potenza. In entrambi i casi, bastava solo attendere e saper capire quando fosse giunto il momento di assumere l'iniziativa.
Ora, questa linea di condotta risultò valida suppergiù sino alla caduta di Costantinopoli, ma in seguito, allorché sull'onda dell'espansionismo vittorioso di Maometto il Conquistatore nel giro di pochi anni scomparve la maggior parte dei despotati greci e delle superstiti dinastie franche, i dominii veneziani finirono per trovarsi a ridosso di quelli ottomani; in questo modo, venendo a mancare la funzione di filtro così egregiamente espletata dalla miriade di signorie che un cinquantennio prima costellava la Romània, si esaurivano per il governo marciano i margini di manovra sui quali sino allora aveva potuto giocare, onde evitare di far giungere alle estreme conseguenze le inevitabili frizioni con il potente vicino.
Due imperialismi venivano infine a contatto.
Per Venezia, per l'Europa sarebbe stata una tragedia che la Signoria aveva lucidamente previsto e che con ogni mezzo aveva cercato, se non di evitare, perlomeno di procrastinare.
Vediamone allora le tappe principali.
Si è osservato, all'inizio di questo capitolo, che Venezia non mosse dito quando, nel corso degli anni '30, Murad si impadronì dell'Epiro e della Serbia; assorbita dalle guerre in Italia, la sua reazione (ma forse sarebbe più giusto parlare di iniziative parallele) fu indiretta.
Però una qualche azione ci fu: non si dimentichi che la civiltà e la potenza veneziane erano allora impersonate dal più grande doge che la Repubblica abbia mai avuto, quel Francesco Foscari che seppe imprimere alla politica del suo stato respiro mondiale, collegando gli sviluppi militari alle istanze economiche, gli interessi dei territori del Levante all'organizzazione delle nuove provincie acquisite nella vicina
Terraferma: c'è da rimanere stupiti - a leggere l'attività espletata dal senato nel corso dei decenni dei quali stiamo occupandoci - della rapidità, della competenza, dell'efficienza con cui, nell'arco della stessa giornata, nel giro di poche ore, si passava dai problemi del Bergamasco a quelli di Cattaro o di Nauplia, dalla finanza alla politica religiosa, dalla condotta della guerra ai rapporti diplomatici con le potenze d'Oltralpe.
C'è da stupirsi. A volte si trae l'impressione che questi uomini fossero realmente dei giganti.
Venezia, dicevo, per tutto il quarto decennio del secolo si disinteressò dei Turchi, badando a rafforzare la sua presenza nell'Egeo, nel tentativo di escluderne nuovi concorrenti (come i Fiorentini, che dopo l'acquisto di Porto Pisano e di Livorno non avevano tardato ad affacciarsi in Levante, attivando nel '36 regolari servizi di navigazione con Alessandria e Costantinopoli, causa non ultima del deterioramento cui andarono incontro i rapporti tra i due stati, in precedenza tradizionalmente alleati), o di eliminarvi i vecchi (si è parlato del tentato assalto contro i Genovesi di Chio); ancora, quando nel '37 il duca dell'Arcipelago, Giacomo Crispo, cercò di annettersi l'isola di Andros, in seguito alla morte dell'ultimo signore Andrea Zeno, Venezia ne bloccò l'iniziativa minacciando guerra in caso di resistenza, e finì per disporre di quel possedimento come di cosa propria, affidandolo tre anni dopo a Crusino Sommariva; qualcosa del genere si ripeté ad Egina, che nel '51 venne incorporata nei dominii della Serenissima (54).
Se nell'Egeo Venezia si muoveva come in casa propria, altrove - specie quando in qualche modo potevano esservi implicati gli Ottomani - la sua politica si faceva più meditata e scaltra.
Così nei rapporti con Bisanzio.
Essa cercò anzitutto di favorire la riconciliazione tra le due Chiese ortodossa e latina, che avrebbe tolto molti ostacoli ad un eventuale intervento dell'Occidente in favore di quanto restava dell'esausto Impero romano d'Oriente; sapeva bene che contro i Turchi il suo primo, naturale alleato non poteva non essere il pontefice: per questo, nel '17, aveva rifiutato la dedizione di Ancona, che pure costituiva un'antagonista nell'Adriatico, proprio per non inimicarsi la Santa Sede.
Venezia dunque fornì navi e denaro per il viaggio in Italia di Giovanni Paleologo, che intendeva partecipare al concilio indetto da Eugenio IV a Ferrara (e spostato poi a Firenze), al fine di procedere alla riunificazione tra le due Chiese; l'imperatore giunse a Venezia 1'8 febbraio 1438, accompagnato dal patriarca di Costantinopoli, splendidamente accolto dal doge che si recò a prelevarlo al Lido col Bucintoro, i cui vogatori - ricorda Cozzi (55) - "recavano sui berretti, oltre al leone di San Marco, l'insegna imperiale dell'aquila bicipite".
Ma in precedenza (9 giugno '37), allorché il papa meditava di far svolgere ad Udine i lavori conciliari, il senato aveva manifestato la sua opposizione, per non provocare Murad ospitando l'assise in una città sottoposta al suo dominio: la cosa insomma poteva e doveva procedere, ma non a scapito della Repubblica (56).
Il senato infatti non ignorava che se i Turchi l'avessero assalita nelle più difficili congiunture del suo sforzo militare nella Padania (dove - non si dimentichi -erano impegnate buona parte delle navi e degli equipaggi, non di rado con esiti infausti), avrebbero potuto infliggerle danni irreparabili nei possedimenti dell'Egeo e dell'Albania.
Da tanta doverosa prudenza Venezia si sarebbe allontanata tuttavia (ma solo parzialmente) all'inizio del quinto decennio del secolo, di fronte ad un mutato contesto politico.
Nel '41, allorché la pace di Cavriana fissava l'ennesima tregua nel duello che opponeva al Visconti una Repubblica finanziariamente prostrata, nei Balcani le brillanti vittorie riportate sugli Ottomani da Giovanni Hunyadi, voivoda di Transilvania, andavano rapidamente suscitando un clima di entusiasmo politico e religioso, che vedeva nella "crociata" lo strumento per una riscossa nazionale, dopo l'umiliazione patita a Semendria (Smederevo) il 18 agosto 1439, in seguito alla quale quasi tutta la Serbia era caduta in mano turca.
La felice collaborazione tra l'Hunyadi ed il giovane re d'Ungheria e Polonia, Ladislao III, l'adesione convinta di Eugenio IV alla guerra santa, la forte pressione alla quale erano sottoposti i dominii asiatici di Murad ad opera del "Gran Caramano" Ibrahim Beg, creavano i postulati internazionali perché trovassero finalmente seguito gli incessanti appelli del basileus costantinopolitano alla solidarietà degli stati cristiani, onde realizzare il grande sogno della cacciata dell'Islam dall'Europa.
Per tutto il '42 Venezia praticò un rigoroso attendismo, rispondendo con le eleganze dei suoi umanisti alle accorate insistenze del papa concittadino: troppe volte pesanti sacrifici non avevano trovato la promessa collaborazione, e spesso gli effettivi beneficiari erano risultati altri. Ora voleva garanzie ineludibili.
L'uscita dallo stato di neutralità fu graduale: in seguito alle prese di posizione in favore della crociata di Alfonso d'Aragona e del duca di Borgogna, Filippo il Buono, il 3 maggio 1443 il senato promise a Teodoro Carastino, ambasciatore dell'imperatore Giovanni VIII, l'armo di dieci galere per portar soccorso al fratello Costantino, bloccato dai Turchi a Lemno. Poteva essere una prima mossa significativa (neppure un anno prima, il 17 agosto '42, i Veneziani avevano rifiutato l'invio di tre galere per difendere Costantinopoli), ma non se ne fece nulla e le navi furono invece spedite nelle acque di Cipro, dove si temeva uno sbarco dei Mamelucchi di Siria (57).
Ci volle la campagna dei Polacchi e degli Ungheresi sull'Emo, sino a Sofia, nell'autunno-inverno del 1443 per abbattere le residue perplessità e riserve.
Fu necessaria l'epica impresa di Ladislao e dell'Hunyadi, accompagnati dal cardinal legato Giuliano Cesarini, alla testa di un esercito di 12.000 uomini, cui solo i rigori dell'inverno impedirono di giungere ad Adrianopoli, per convincere il senato ch'era giunta l'occasione tanto attesa di recuperare Salonicco, conquistare Gallipoli e chiudere definitivamente la partita con Murad. Il 6 marzo del '44 venne inviato a Buda presso Ladislao il segretario Giovanni de' Riguardati, con l'incarico di congratularsi "de excellenti et gloriosa victoria contra perfidos teucros ", e concertare l'imminente campagna, assicurando che la flotta veneta avrebbe operato sugli Stretti, "ut infidelibus teucris impediretur omnino transitus de Asia in Europam, et converso" (58).
In realtà sembra che invece Ladislao stesse trattando con Murad, ma poi, il 4 agosto, proclamò solennemente guerra agli Ottomani; a quella data la flotta cristiana s'era già mossa: la comandava il nipote del papa, il cardinale Francesco Condulmer, anche se le decisioni effettive venivano prese dal capitano da Mar Alvise Loredan, responsabile della squadra veneta.
Questi ricevette le istruzioni il 17 giugno: secondo gli accordi, doveva impedire a Murad di passare gli Stretti con l'esercito, che stava per muovere contro il Caramano. Ai Dardanelli, però, giunse troppo tardi, quando ormai le truppe ottomane avevano raggiunto la costa asiatica (12 luglio).
Di qui un cambiamento strategico, consistente nel bloccare Murad in Anatolia, mentre l'esercito crociato avrebbe potuto aver buon gioco delle scarse milizie (pare non superiori agli 8.000 uomini) rimaste ad Adrianopoli al comando del dodicenne principe ereditario, Mehmed Celebi.
Sennonché gli Ungheresi non si mossero prima di agosto, ripetendo l'errore dell'anno prima di penetrare nella Tracia con la cattiva stagione; di fronte alle perplessità che una tale condotta non poteva non sollevare, il 9 settembre la prudente diplomazia veneziana impartì al Loredan nuove disposizioni, che prevedevano la possibilità di trattare la pace col sultano, naturalmente rigettando ogni colpa sul pontefice e su Ladislao: in fondo non erano stati proprio gli Ungheresi, pochi anni prima, a contendere tanto tenacemente la Dalmazia al Comune?
Venezia non giunse a tanto, ma certo la sua flotta non riuscì ad impedire all'esercito di Murad di ripassare in Europa, nella seconda metà di ottobre.
Ibrahim Beg era stato liquidato con insperata facilità, nell'arco di tre mesi, ed il transito in Europa della potente armata ottomana (circa 40.000 uomini) doveva tramutarsi in un nuovo scacco per la squadra del Loredan; probabilmente il passaggio avvenne sul Bosforo, a nord di Costantinopoli, e di notte: le fonti lo spiegano con la solita burrasca che bloccò la flotta cristiana, ma sembra che compiacenti mercanti veneziani e genovesi abbiano dato una mano ai Turchi, traghettandoli sulla riva occidentale in cambio di un ducato d'oro a testa.
Così si giunse alla disfatta di Varna, sulla costa del mar Nero, l'11 novembre 1444, senza che la flotta cristiana avesse il tempo d'intervenire. Ladislao perdette la vita sul campo, del cardinale Cesarini non si ebbe più notizia: la catastrofe, scrisse il Babinger, "va annoverata fra gli avvenimenti più decisivi tanto della storia ottomana quanto di tutto l'Occidente" (59).
La pace tra Venezia ed il sultano, tuttavia, non fu immediata; anzitutto venne ostacolata dall'abdicazione di Murad in favore del figlio Maometto II, seguita poi dalla riassunzione al trono del vecchio monarca, il che finì per prolungare i tempi delle trattative, quindi anche dalle incomprensioni veneto-pontificie, alimentate da reciproche accuse.
Per tutto il '45 la squadra del Loredan rimase nell'Egeo, nell'intento di proteggere le isole - e particolarmente Negroponte - dai saccheggi dei pirati turchi; 1'11maggio il senato gli ordinava anzi di fermarsi negli Stretti sino alla conclusione della pace, come ulteriore forma di pressione. I negoziati infatti erano condotti dal bailo a Costantinopoli, Andrea Foscolo, ma procedevano a rilento, bloccati soprattutto dalla disonorante clausola del tributo per le città albanesi, che il senato avrebbe voluto rimuovere.
Questo invece rimase in vigore, ed il trattato di Adrianopoli del 23 febbraio 1446, firmato da Aldobrandino Giusti per conto del bailo Foscolo, confermava pressoché alla lettera i patti stipulati con Murad il 4 settembre 1430.
Libera dal gravoso impegno in Levante, Venezia poteva ora volgersi alla Terraferma, rinnovando l'assurdo duello con Milano: in settembre le sue truppe muovevano contro quelle viscontee.
Ottenuta una pace che le assicurava la libertà dei commerci, per molto tempo Venezia si guardò bene dal provocare gli Ottomani in qualsiasi escogitabile modo, fidando semmai in possibili contrasti dinastici tra Murad, tornato al potere nel settembre '46, ed il figlio, e badando a difendere le sue posizioni albanesi dalle minacce di Scanderbeg o di Alfonso d'Aragona.
Per questa ragione essa assistette senza intervenire alla terribile incursione condotta da Murad II, verso la fine del '46, contro il Peloponneso, la quale si concluse con la distruzione dell'Examilion, che Costantino e Tommaso Paleologo avevano fatto ricostruire e rinforzare; l'annientamento dell'ultimo baluardo della grecità comportò la riduzione al rango di vassalli dell'Impero ottomano del despotato di Mistrà e del Ducato di Atene: o meglio, di quel che ne restava dopo il saccheggio e le violenze perpetrate dai giannizzeri.
Analogo disinteresse la Repubblica manifesterà un anno più tardi (1° maggio '47) verso le profferte d'alleanza avanzate dall'Hunyadi, dal '46 reggente d'Ungheria e smanioso di vendicare la sconfitta di Varna; l'unico indiretto contributo da essa fornito alla causa cristiana fu rappresentato dalla pace conclusa sotto le mura di Alessio, il 4 ottobre 1448, con il Castriota, la qual cosa avrebbe potuto consentire al valoroso albanese di accorrere in aiuto dell'Hunyadi, se appena qualche giorno dopo (19 ottobre) costui non fosse stato definitivamente sconfitto nel tristemente famoso campo di battaglia di Kossovo, ad opera delle truppe di Murad.
Ovviamente più fermo l'atteggiamento della Signoria contro qualche disperato colpo di coda dei Greci, sintomo piuttosto di debolezza che di vitalità, come ebbe a verificarsi allorché nell'ottobre 1450 Costantino Paleologo, assunto al trono di Bisanzio col nome di Costantino XII, confermò tutti i tradizionali privilegi dei quali godevano i mercanti veneziani, annullando in tal modo una precedente disposizione che ne aumentava i contributi da versare al fisco imperiale. La "novità" era stata introdotta nel tentativo di reperire i mezzi necessari al rafforzamento delle difese di una città ormai praticamente assediata, ma nella circostanza i Veneziani non si sentirono affatto solidali con l'antico alleato, così come, il 27 luglio '51, non esitarono ad inviare Bernardo Civran dal despota di Mistrà, Tommaso, minacciando guerra se non avesse rapidamente posto fine alle contese che opponevano i suoi sudditi a quelli veneti (60).
Così, allorquando il 10 settembre 1451 Venezia rinnova il trattato di pace quinquennale con Maometto II, definitivamente salito al trono di Adrianopoli dopo la morte del padre (3 febbraio '51), il giovane sultano si trova le mani libere per dare l'ultimo assalto alla capitale dell'Impero romano d'Oriente.
"L'inverno in Tracia si stava già avvicinando [scrive il Babinger (61)> quando Mehmed II emanò in tutte le province dell'impero ottomano l'ordine di mandargli mille muratori e un numero proporzionato di spegnitori di calce e di operai. Egli ordinò inoltre che si tenessero pronte le materie prime necessarie affinché all'inizio della primavera egli potesse costruire una fortezza sul Bosforo sotto Costantinopoli".
Questa fortezza sarebbe stata l'attuale Rumeli Hisary, poderosa e munitissima struttura posta nel punto più angusto dello stretto, laddove l'Asia dista dall'Europa solo 660 metri e le acque scorrono impetuose. La sua costruzione venne compiuta dal 15 aprile al 31 agosto 1452, e da allora nessuna nave poté transitare dal mar Nero all'Egeo senza il permesso dei Turchi.
Invano i Bizantini supplicarono Maometto II di desistere dall'impresa, invano chiesero aiuto all'Occidente: il 14 febbraio '52 il senato rispondeva in termini amichevoli, ma in sostanza interlocutori, ad un'ambasceria inviatagli da Costantino XII.
È chiaro che Venezia non intendeva affatto annullare i vantaggi che derivavano ai suoi mercanti dal trattato stipulato con Maometto II appena pochi mesi prima, tanto più che stava per riaprirsi il conflitto in Lombardia, stavolta contro Francesco Sforza, e l'esperienza dimostrava che un anno di guerra comportava per l'erario una spesa valutabile attorno ai 6-700.000 ducati d'oro. Per questa ragione si limitò a fornire al papa alcune galere che trasportassero a Costantinopoli l'arcivescovo Isidoro di Kiev, dove avrebbe solennemente celebrato la conciliazione delle due Chiese: la cerimonia ebbe luogo a Santa Sofia il 13 dicembre, senza alcun entusiasmo, né da parte del popolo né del clero greco.
A partire dal novembre '52, tuttavia, avvennero fatti tanto gravi che indussero la Signoria a modificare il proprio atteggiamento; successe infatti che il Rumeli Hisary prese a funzionare, e a farne le spese nella circostanza furono proprio alcune navi veneziane cariche di cereali, i cui equipaggi vennero sterminati.
Questo significava la fine dei traffici col mar Nero, il collasso degli interessi veneti a Bisanzio; nel tentativo di parare il colpo, il 19 febbraio '53 il senato decideva di armare quindici galere e due grosse navi, imponendo un contributo straordinario di 16.000 ducati ai propri mercanti che operavano nel Levante. Nel contempo si sollecitava l'intervento pontificio ed il 2 marzo fu decisa l'elezione di un capitano da Mar, che venne scelto nella persona di Giacomo Loredan; le commissioni tuttavia gli imponevano prudenza: avrebbe dovuto portarsi a Costantinopoli entro la fine di maggio col dichiarato compito di soccorrere i Veneti bloccati nella città e nel porto, e non di combattere i Turchi, al cui sultano accompagnava invece Bartolomeo Marcello in qualità di ambasciatore, nell'infondata speranza di indurre Maometto a riconciliarsi coi Bizantini.
Solo nel caso in cui il sultano avesse rifiutato la mediazione ed avesse continuato a impedire la navigazione sugli Stretti, il Loredan avrebbe dovuto fermarsi a Costantinopoli e contribuire alla difesa della città.
La Signoria aveva dunque in animo di difendere quanto restava dell'Impero romano d'Oriente, ma non da sola, e comunque probabilmente sottovalutò la determinazione e la forza di Maometto II, forse inconsapevolmente sperando che l'evento, tante volte minacciato, neppure in questa circostanza avrebbe trovato attuazione.
Di fatto il contributo recato da Venezia alla difesa di Costantinopoli si può scindere in due diversi momenti: quello pubblico, che nella prassi risultò inesistente (il Loredan sostò a lungo a Negroponte, per attendere i promessi rinforzi pontifici, e lì ebbe notizia della caduta di Bisanzio), e quello privato, improntato a grande ardimento, posto in atto dai Veneziani che si trovavano nella città, a cominciare dal bailo Girolamo Minotto.
L'assedio alla metropoli - preceduto dalla diversione di un assalto in Morea, ad opera di un esercito condotto da Turachan Beg, per impedire ai despoti Demetrio e Tommaso di accorrere in aiuto del fratello imperatore - ebbe inizio il 6 aprile e si concluse cinquantatré giorni dopo, con l'eccidio del 29 maggio 1453. L'avvenimento è ben noto, e poi non è questa la sede per raccontarlo.
Uno stuolo di 80.000 uomini, coadiuvato dal poderoso parco d'artiglieria allestito per l'occasione da Maometto II, che diresse personalmente tutte le fasi della guerra, ebbe ragione delle secolari fortificazioni, difese da 5.000 soldati, tra Greci e Latini.
Il bailo Minotto ebbe assegnata la difesa del palazzo imperiale delle Blacherne, Zaccaria Grioni e Gabriele Trevisan quella dell'Acropoli, Alvise Diedo (62), capitano delle galere della muda di Romània, il porto, coadiuvato da altri 32 patrizi veneziani. Accanto a loro si segnalarono i comandanti di alcune navi mercantili, tra i quali Giacomo Cocco (63), ideatore ed esecutore di un piano per incendiare col fuoco greco le 72 barche che, con epica impresa, Maometto aveva fatto calare nel Corno d'oro, valicando le colline a nord di Pera. L'animoso progetto fallì tuttavia la notte del 28 aprile, poiché le artiglierie dei Turchi colarono a picco la nave del veneziano prima ancora che giungesse accanto alle loro, "in quanto che sarìa a dir diexe paternostri".
La notizia della caduta di Costantinopoli giunse a Venezia un mese dopo, il 29 giugno, e vi generò universale costernazione.
Di per sé, l'avvenimento non doveva produrre alcun radicale cambiamento nell'assetto politico del Levante, ma era destinato tuttavia a costituire una svolta psicologica determinante in gran parte dell'Europa; per Venezia, in particolare, dopo di allora nulla fu più come prima, ed il senato prese a modificare lentamente, ma con progressiva determinazione, la propria condotta politica nei confronti di Maometto II.
Cercò anzitutto di raggiungere due principali obiettivi: rafforzare il suo dispositivo militare nel Levante e far la pace con i Turchi. A questo proposito, sin dal luglio '53 fornì nuove istruzioni a Bartolomeo Marcello, perché ottenesse da Maometto un nuovo trattato; contemporaneamente ordinava al Loredan di fermarsi a Negroponte con 18 galere e di occupare le Sporadi del nord, ossia le tre isole di Skyros, Skiatos e Skopelos, che fanno corona all'Eubea.
Sin qui, nulla di eccezionale: siamo di fronte alla logica reazione ad uno scacco subito; sennonché queste prime misure furono solo l'inizio di un'opzione politica di ampio respiro, di una decennale preparazione alla rivincita della sfida lanciata da Maometto.
Un primo avviso si ebbe l'anno dopo: il 9 aprile 1454, con la pace di Lodi, la Repubblica liquidava definitivamente i suoi progetti padani e appena qualche giorno più tardi (18 aprile) stipulava il trattato con Maometto. Il disarmo degli eserciti nella penisola significava la possibilità di inviare più navi, più uomini, più denaro nello stato da Mar, ed infatti si pose subito mano al miglioramento delle fortificazioni a Modone, a Candia, a Negroponte; la pace con Maometto consentiva la ripresa commerciale: il trattato ricalcava infatti abbastanza da vicino quello del '51, riconoscendo validità giuridica alla colonia veneziana di Costantino-poli ed al suo governatore, il bailo (che il senato elesse nella persona del negoziatore stesso, Marcello), ma con l'aggravante del comerchio, ossia un'imposta - fissata nella misura del 2% sugli affari conclusi - che d'ora in avanti i sudditi della Repubblica avrebbero dovuto versare all'erario ottomano.
Su questa base, la Repubblica cercò di imprimere maggior dinamismo alla sua presenza nella Romània, ove si rendeva necessario "serrare le fila" dinanzi alle iniziative turche. Tra il '55 ed il '56, Maometto fece costruire a Gallipoli una flotta di 25 galere e riuscì ad imporre la propria sovranità o addirittura ad annettere ai suoi dominii gran parte delle isole dell'Egeo settentrionale: praticamente tutte quelle controllate dai Genovesi, dai Gattilusio di Mitilene (= Lesbo) alla maona (= compagnia commerciale) di Chio, o Scio che dir si voglia, con le loro dipendenze sulle coste della Tracia e dell'Asia Minore, così da giungere a contatto con i possedimenti dei cavalieri dell'Ordine di San Giovanni di Rodi, dei quali pure tentò la sottomissione, ma senza riuscirvi.
Le contromisure veneziane si concretizzarono nel rafforzamento delle fortificazioni di Candia e Negroponte, come si è accennato, e nell'acquisto di alcuni castelli in Morea, presso Nauplia, o Napoli di Romània come spesso riportano le fonti.
Era appunto la Morea a costituire il problema fondamentale: sul mare la Repubblica poteva infatti ragionevolmente confidare nella propria superiorità, ma per terra era un'altra musica; il Peloponneso era ancora retto dai fratelli dell'ultimo imperatore, Demetrio e Tommaso, sennonché l'odio tra i due era insanabile, e questo, assieme alle persistenti tensioni con la popolazione di origine albanese, era un elemento di debolezza: quanto avrebbe potuto reggere 1'Examilion ad un attacco turco?
Per questo, sin dal 21 giugno '54 il senato inviò presso i despoti moreoti quel Vettore Cappello che cinque anni prima, in qualità di capitano in Golfo, aveva cercato di assicurare alla Signoria la sottomissione delle isole Ionie: il suo compito era quello di ottenere che tra i due si addivenisse ad una riconciliazione. Fu un fallimento : il più deciso, Tommaso, prospettò addirittura alla Repubblica la cessione della maggior parte dei suoi dominii, travagliati dai conflitti etnici; di fronte all'ovvio rifiuto veneziano, si rivolse a Maometto, che in ottobre gli liquidò la resistenza albanese.
Il sultano presentò il conto di lì a qualche anno, dopo essersi assicurato parte dell'Egeo - come si è detto - ed aver riaffermato il suo dominio nei Balcani, gravemente scosso dalla splendida vittoria riportata a Belgrado dall'Hunyadi il 21 luglio 1456.
Nell'aprile del '58, Maometto II lasciò Adrianopoli alla testa di un potente esercito, e percorse tutta la Grecia. Il 6 agosto, dopo un duro assedio, entrava a Corinto per dettarvi agli inquieti despoti le condizioni di pace, la sostanza delle quali era ch'egli si annetteva le provincie settentrionali del Peloponneso. Dopo di che volle visitare Atene e persino la veneziana Negroponte (2 settembre), accolto dagli spaventati abitanti con rami di palme, dopo che il bailo Paolo Barbarigo ebbe fatto approntare un ponte sull'Euripo (lo stretto braccio di mare che separa l'isola dalla Grecia) per consentire il passaggio al sultano ed ai suoi cavalieri.
L'assoggettamento della Morea all'Impero ottomano fu completato nel corso di una seconda campagna, nei mesi di aprile e maggio del 1460.
Quanto ai despoti, Demetrio accondiscese a dare in moglie al vincitore la propria bellissima figlia, Elena, e finì i suoi giorni alla corte di Costantinopoli; l'altro, Tommaso, riparò dapprima a Corfù e poi a Roma, dove morì il 12 maggio 1465: sette anni dopo, sua figlia Zoe sposava lo zar di Russia Ivan III, trasferendo così nella capitale moscovita i diritti alla corona imperiale bizantina (64).
Così, sette anni dopo la caduta di Costantinopoli, i dominii di Maometto II venivano dovunque a contatto con quelli della Repubblica.
Oramai non esistevano più strumenti atti ad evitare lo scontro diretto; inutile anche la prudenza alla quale s'erano attenuti i rappresentanti della Signoria, nel corso della dieta mantovana convocata da Pio II. Sinceramente preoccupato per le sorti della cristianità, il pontefice aveva sollecitato un'azione comune dei principi, ed egli stesso era giunto nella città dei Gonzaga il 27 maggio 1459. Mancavano i rappresentanti della Serenissima, ossia proprio dello stato più direttamente minacciato dal Turco, e Pio II, con la tenacia che gli era propria, scrisse al doge.
Nel riportare il testo della lettera, così commenta il Malipiero, una delle fonti più attendibili per la storia veneziana del secondo '400:
È stà fatto Pregadi su questa materia molti dì continui, dubiosi de quel che se doveva far, perché la terra è in pase con Turchi, e no par che sia ben mandar ambassadori a Mantoa, per no restar soli su 'l fatto [il corsivo è mio>: e finalmente è stà deliberà de mandarli, e a 12 de luglio è stà fatto Orsato Zustinian Kr. e Alvise Foscarini dottor.
I due giunsero però alla dieta soltanto alla fine di settembre, dopo ulteriori pressioni pontificie, e con un mandato ben preciso:
La sustanzia della commission [annota ancora il Malipiero> è, che i prometta nel convento, che sempre che i Principi christiani farà espedicion contra Turchi, la Signoria sarà pronta de far la so parte (65).
Era un dialogo tra sordi, destinato al fallimento: il papa era animato da ottime intenzioni, ma incapace di superare il particolarismo dei principi, per cui non ebbe modo di tradurre in una concreta azione politica quelle che rimasero mere velleità; quanto a Venezia, rammentava bene la sparagnina politica attuata proprio dalla Santa Sede in occasione della precedente crociata del '44, così come il disinteresse delle potenze cristiane di fronte all'assedio di Costantinopoli ed ai disperati appelli dei Bizantini. In una parola, i responsabili del governo marciano diffidavano: volevano decisioni concrete e non semplici promesse, per no restar soli su 'l fatto, come già troppe volte era successo.
Venezia sapeva bene quale formidabile e tenace avversario fosse Maometto, perciò non poteva lasciarsi trascinare in una pericolosa avventura dalle chimere di un umanista circondato da letterati piuttosto che da generali: non di generose utopie necessitava la difesa dello stato da Mar, ma di una preparazione attenta, condotta senza risparmio di tempo, senza timore di sacrifici, e confortata da una attenta valutazione delle forze in campo.
A questo essa già si accingeva a prepararsi per conto suo, e un giorno gli alleati li avrebbe trovati in uomini che ben conoscevano i Turchi, quali il re d'Ungheria Mattia Corvino, figlio del valoroso Hunyadi, e Giorgio Castriota, l'" atleta di Cristo" Scanderbeg.
All'inizio degli anni '60, le mude viaggiavano regolarmente ed i traffici prosperavano ch'era un piacere; per questo, dopo che nell'agosto 1461 Maometto s'impadronì pure di Trebisonda, non fu difficile per i provveditori al sal - la più ricca magistratura veneziana - decidere di accantonare un fondo di 6.000 ducati al mese in vista di una guerra contro i Turchi.
Questa poi non tardò molto a scoppiare, preceduta da un'infinità di provocazioni e pretesti tutti pesantemente oltraggiosi, a detta delle cronache, e gravemente lesivi dell'onore veneto e/o turco: in realtà questi intollerabili soprusi consistettero in qualche ulteriore ritocco apportato dagli Ottomani alla politica delle annessioni da essi perseguita nei confronti dei possedimenti greci nell'Egeo, e nell'avidità di un funzionario veneziano a Modone, Girolamo Vallaresso, che dietro adeguato compenso si rifiutò di restituire ai Turchi uno schiavo albanese scappato via... (66)
Motivazioni prive di alcuno spessore, non più valide del raccontino sulla tassa del tè o del bollo con cui si è soliti accompagnare la spiegazione dello scoppio della guerra d'indipendenza americana, quasi che la maggior parte di quei fieri coloni trascorresse i giorni indulgendo a grandi bevute di tè (e io che credevo amassero il whisky!), interrotte solo per stendere prolisse scritture su carta bollata.
Il fatto è che Venezia si mosse quando i Turchi presero Argo, in Morea (3 aprile '63), e un mese dopo conquistarono il Regno di Bosnia, superando abbastanza facilmente le deboli difese del re Stefano Tomaseviè.
A questo punto si rendeva indispensabile dare a Maometto II una chiara dimostrazione di forza, ci voleva una risposta in termini militari, non l'ennesimo inconcludente appello alla crociata. In senato, per la prima volta dopo tanto tempo, il partito della guerra prese il sopravvento su quello dei fautori del compromesso a tutti i costi, nelle questioni relative al Levante.
Il più prestigioso esponente di una decisa presa di posizione contro l'espansionismo ottomano si dimostrò Vettore Cappello, che nel dicembre '62 aveva deposto il grado di capitano da Mar, e che quindi ben conosceva il quadro dei rapporti di forza creatisi nell'Egeo; egli denunciò in senato - cito dalla "voce" curata dal Giannasi nel Dizionario Biografico degli Italiani "l'inutilità di un'azione diplomatica presso il sultano che avrebbe anzi evidenziato incapacità e debolezza e avrebbe provocato, con il rimandare la guerra, la perdita dei possedimenti di Morea e di Negroponte. Chiarì che la guerra con i Turchi era necessaria per la salvaguardia del commercio; sottolineò la necessità di inviare forze di terra e di mare nel Peloponneso e di fomentarvi la ribellione, di allearsi con il papa e gli Ungheresi per stringere militarmente il nemico da nord e da sud".
Queste ragioni - unite a quelle derivanti dall'incoercibile tendenza alla pinguedine ed alla gotta dell'ancor giovane Maometto, che quasi gli avevano impedito di prender parte alla campagna nei Balcani ebbero infine la meglio su tutte le altre, anche sul fatto che, in fondo, sinora egli aveva favorito i mercanti veneziani (a cominciare dal famoso e potentissimo Girolamo Michiel, il quale alla sua corte era di casa), e prevalsero anche sui forti contrasti proprio allora insorti con i Triestini a proposito di dazi e questioni viarie: in realtà la tensione era con gli Arciducali, e di lì a poco sarebbe sfociata in una guerra durata dal febbraio al novembre 1463, conclusasi con la capitolazione di Trieste, ma a prezzo di una grave emorragia di uomini e mezzi da parte veneziana.
Con tutto ciò, perché la Signoria dopo tanto temporeggiare si sia improvvisamente indotta a mutare atteggiamento contro il Turco ed a dichiarargli guerra il 28 luglio 1463, prima ancora di aver acquisito il conforto di una qualche alleanza, senza neppure uno straccio di benedizione pontificia, resta in parte da spiegare.
Vinse la suggestione, prospettata dal Cappello, della guerra-lampo, di un'azione rapida e improvvisa.
L'oggetto della campagna, ossia il teatro delle operazioni, fu scelto nella Morea da poco sottomessa al dominio ottomano e dunque ad esso insofferente; a capo delle truppe fu posto Bertoldo d'Este, non ancora trentenne, ma forte e coraggioso: infine tutta la preparazione della campagna fu accurata e la spedizione avvenne con dovizia di mezzi, che risultarono persino superiori a quelli inizialmente previsti.
Dal 28 maggio alla fine di agosto il nuovo capitano da Mar, Alvise Loredan, sbarcò a Modone ed a Nauplia circa 5.000 fanti ed 800 cavalli, che furono stranamente accolti dai Greci con favore, addirittura con entusiasmo.
Il piano elaborato dal Cappello ed i calcoli della Signoria si rivelarono giusti: in soli cinque giorni Argo venne riconquistata e, sulla scia di un'autentica sollevazione popolare, prima della fine di agosto i Turchi avevano perso tre quarti della Morea e s'eran rinchiusi in alcune fortezze, peraltro ben munite.
Raggiunto l'Examilion il 1° settembre, Bertoldo ne ordinò la ricostruzione (in quindici giorni fu alzato un muro a secco spesso circa 70 centimetri e alto più di 3 metri, munito con 136 torri di guardia), e intanto si accinse ad espugnare la rocca di Corinto, chiave dell'istmo.
L'assedio tuttavia si rivelò assai più duro del previsto; inoltre bisognava fare presto, poiché il 25 settembre truppe turche giunsero in vista dell'Examilion. Tuttavia il loro comandante, Omer Beg, non attaccò: le fortificazioni erette dai Veneziani lo persuasero che i suoi 10.000 uomini non sarebbero bastati per averne ragione.
Sin qui la spedizione in Morea si era dimostrata per la Repubblica poco più che una passeggiata militare; inoltre il 12 settembre a Petrovaradino aveva concluso un'alleanza con Mattia Corvino, che in una rapida campagna (durata poco più di due mesi) strappò ai Turchi gran parte della Bosnia appena conquistata.
Allora Maometto prese una decisione che si rivelò esiziale per Venezia: abbandonate temporaneamente le operazioni contro gli Ungheresi, inviò truppe nella Grecia, al comando del governatore della Rumelia, Davud Pascià; Bertoldo d'Este si trovò stretto tra la minaccia di questo nuovo intervento e Corinto, che ancora resisteva. Decise l'attacco finale per il 20 ottobre; nel corso della battaglia ebbe l'imprudenza di togliersi l'elmo, per il gran caldo: fu colpito da un sasso e trasportato agonizzante a Negroponte, dove morì il 4 novembre (67).
L'avvenimento decise le sorti della campagna: il grosso dell'esercito veneziano, demoralizzato e stremato dalla dissenteria, si ritirò a Nauplia, mentre la flotta del Loredan cercava di risollevare le sorti della Repubblica con la parziale conquista di Lemno ed il consiglio dei dieci organizzava l'ennesimo avvelenamento di Maometto II (ci avrebbe provato in tutto quattordici volte); entro la fine dell'anno le sorti della guerra si rovesciarono, i Turchi superarono 1'Examilion senza colpo ferire, ripresero Argo, costrinsero i reparti veneziani a rinchiudersi a Nauplia e Modone. Terminava così la speranza di una rapida soluzione del conflitto con la conquista della Morea; la guerra sarebbe durata ancora a lungo, ma la Signoria non avrebbe più avuto la possibilità di rimettere piede saldamente nella Grecia.
L'iniziativa dei Veneziani aveva naturalmente suscitato entusiasmo a Roma, dove Pio II continuava ad accarezzare l'idea della crociata contro l'espansionismo islamico: il 19 ottobre '63 si giunse così alla stipulazione di un'alleanza fra il papa, la Repubblica ed il duca di Borgogna, mentre da ogni parte della Germania la gente del popolo, galvanizzata dai predicatori, sognava di recarsi ad Ancona, donde sarebbe salpata la flotta cristiana, guidata dal pontefice stesso e dal doge di Venezia, Cristoforo Moro.
Costui però non aveva la tempra di un Enrico Dandolo, neanche un poco, e dopo l'iniziale adesione cominciò a frapporre indugi: era vecchio, diceva, ed inesperto delle cose del mare. Fu Vettore Cappello, che già conosciamo come il più autorevole fautore della guerra, a riprenderlo duramente, in veste di consigliere: "Serenissimo principe, se la serenità vostra non vorà andare co' le bone, la faremo andar per forza, perché gavemo più caro el ben e l'onor de sta terra che no xe la persona vostra" (68).
Se il Cappello si esprimeva con tanta sicurezza era perché sapeva di poterlo fare, e siccome pure Sua Serenità lo sapeva, obtorto collo si decise infine a salpare per il porto marchigiano, naturalmente dopo essere stato ufficialmente informato che già il papa v'era giunto.
Pio II arrivò ad Ancona il 19 luglio 1464, ammalato e stremato dal caldo; i medici - scrive il Babinger - gli fecero presente che l'imbarco avrebbe provocato la sua morte, ma il pontefice fu irremovibile.
Compì fino all'ultimo, con vero eroismo, il compito che s'era assegnato e che riteneva giusto, amareggiato dalle cattive notizie che intanto provenivano dal fronte, e dal ritardo delle galere veneziane. Queste giunsero il 12 agosto; Pio II fece appena in tempo a vederle: ormai moribondo, spirò tre giorni dopo, portando con sé nella tomba l'esaltante sogno della crociata liberatrice.
Il 18 agosto il doge rimpatriava per procedere all'immediato disarmo della squadra. Era una decisione poco generosa, ma certamente realistica, poiché anche nell'ambito militare la campagna stava volgendo ingloriosamente al termine, sia per mare che per terra.
All'inizio del '64 Alvise Loredan era stato sostituito, nel ruolo di capitano da Mar, da Orsatto Giustinian; questi decise di impiegare le trentadue galere di cui disponeva per impadronirsi di Mitilene, che assediò per un mese e mezzo, sinché il 18 maggio comparve Mahmud Pascià con centocinquanta vele, costringendo il Giustinian a ripiegare su Negroponte; il veneziano ritentò l'impresa una seconda volta, in giugno, con esito del pari infausto, onde portò la flotta a Modone per morirvi agli inizi di luglio, di crepacuore dicono le fonti.
Fu sostituito da Giacomo Loredan che, forse per risollevare il morale dei suoi equipaggi, si portò negli Stretti, limitandosi peraltro a tenerli bloccati. In questa occasione ebbe a verificarsi la temeraria impresa - le cui motivazioni sono tuttora alquanto oscure - di un suo comandante; così ce la descrive il Nani:
Allora Giacomo Venier capitano del Golfo, spinta innanzi con sommo ardire la sua galera, sperando di esser seguito dalli altri capi del Mare, passò con gran rischio sotto la grandine di tutte le artiglierie de' castelli, macchinando portar il terrore a Costantinopoli; ma rimasta adietro senza seguirlo l'armata, et egli serrato fuori sotto tanto fuoco, quando si credeva perduto, tanto si adoperò facendo animo alli suoi nella oscurità della notte, che malgrado tutto l'impeto de' nemici fuori di speranza di ognuno, ritornò adietro, e si unì nuovamente all'armata (69).
Accreditiamolo pure come un beau geste: certo rimase inconcludente, tal quale lo svolgersi delle operazioni in Morea.
Qui a Bertoldo d'Este era subentrato Sigismondo Malatesta, signore di Rimini; era un soggetto dal carattere cocciuto ed intrattabile, ma la Repubblica faceva conto su di lui per espandersi in Romagna; per di più gli venne affiancato, in qualità di provveditore, Andrea Dandolo (70), con il quale il Malatesta aveva già collaborato nel corso delle guerre in Lombardia, quindici anni avanti, con pessimi risultati.
Fu un errore perché le incomprensioni tra i due si rinnovarono, aggravate; il veneziano spingeva all'azione, il comandante delle truppe, invece, accusava la Signoria di lesinargli i mezzi: gli erano stati promessi 3.000 fanti ed altrettanti cavalieri, e a Modone non ne aveva trovati che la metà. Finalmente, nell'agosto '64 essi decisero la conquista di Mistrà, presso l'antica Sparta, ma la resistenza della guarnigione turca asserragliata nella rocca e l'arrivo di 12.000 uomini guidati da Omer Beg indussero il Malatesta a ripiegare, mentre a fine anno il Dandolo chiedeva il rimpatrio.
Nel secolare confronto tra Venezia e gli Ottomani, successe più volte che quando uno dei due stati si trovò ad attraversare una fase di crisi, pure l'altro fosse interessato da analoghe traversie: insomma, se nel lungo periodo possiamo riscontrare come i due imperi abbiano prosperato e siano declinati insieme, questa sorta di sinusoide politica ebbe talvolta a riproporsi anche nelle piccole congiunture: l'esempio più macroscopico è certamente dato dagli eventi della lega di Cambrai, ma qualcosa del genere accadde pure all'incirca mezzo secolo prima, tra il 1464 ed il '65.
Fu gran fortuna infatti per Venezia che allora Maometto II non fosse in grado di rivolgere contro di lei un colpo decisivo. Lui - s'è visto - stava male fisicamente, e poi c'era del malcontento fra le sue truppe, sottoposte ad un continuo logoramento ed impegnate in diversi settori, dalla Morea alla Bosnia all'Albania, e poi in Asia, nella Caramania, a Trebisonda, da ultimo contro Uzun Hasan, il signore del Montone Bianco...
Il 28 settembre 1464, scrive il Malipiero, questi aveva persino mandato un suo ambasciatore a Venezia "per intenderse [...> contra turchi; promette 60.000 cavalli sotto la so persona, e se obliga de no far mai pace con essi [...>; e promette che '1 so signor sarà, el mese de marzo che vien, su le rive del stretto de Galipoli, cioè al castelo del Dardanelo, sì che l'armada della Signoria poderà andar fin a Costantinopoli" (71).
Venezia aveva naturalmente risposto in termini positivi, aprendo inoltre trattative col Caramano e col sultano d'Egitto, ma soltanto qualche anno dopo l'alleanza con gli Orientali sarebbe divenuta realmente operativa.
Alla luce di questa realtà, nel '65 le operazioni militari ristagnarono, limitandosi a qualche dimostrazione navale ed a poche manovre nella Morea; si ebbero invece prolungati sondaggi di pace tra Venezia e la Porta. Fu il sultano a muoversi per primo, sin da gennaio, tramite Scanderbeg; poi, un mese dopo, il bailo Paolo Barbarigo (che già abbiamo incontrato rettore a Negroponte in occasione della visita effettuatavi da Maometto nel '58) riferiva da Costantinopoli le condizioni avanzate dal gran visir Mahmud Pascià, che però comportavano la cessione di tutto il Peloponneso. Su questa base il consiglio dei dieci non riteneva possibile stabilire un trattato, e le discussioni e le proposte continuarono per tutta la bella stagione, sinché verso novembre apparve chiaro che gli umori del sultano erano ormai inclinati alla guerra, e da una parte e dall'altra ci si accinse a riprendere le armi.
Per la campagna del '66 il Malatesta fu sostituito con Gerolamo da Verona, che si trovò a comandare reparti non proprio foltissimi: la presenza veneziana in Morea era ormai ridotta a qualche porto, né la Signoria s'illudeva di poter riprendere l'iniziativa sul fronte terrestre, non per il momento almeno; inoltre - e questo è davvero sconcertante - si accingeva a muovere nuovamente guerra, in Italia, a Firenze ed a Milano, sia pure per interposta persona, ossia tramite il Colleoni. Perciò le truppe servivano altrove.
A debole e parziale giustificazione di questa folle condotta non resta che pensare ad un tentativo di congelamento, di paralisi del conflitto in Levante in vista di una soluzione diplomatica, lasciando alla flotta il compito di esercitare le debite pressioni sul sistema difensivo ottomano.
Così, il 20 aprile '66 l'armata navale, forte di venticinque galere, venne nuovamente affidata a Vettore Cappello, con un mandato che gli garantiva piena libertà di azione.
Quel che bisognava fare lui lo sapeva benissimo ed infatti strappò subito ai Turchi le isole dell'Egeo settentrionale, Imbro, Taso e Samotracia, quindi sbarcò nell'Attica e prese Atene, dopo di che si rivolse contro Patrasso, assediata dal provveditore Giacomo Barbarigo. Nella battaglia decisiva, alla fine di luglio, questi però fu vinto e ucciso dai Turchi di Omer Beg, il quale, giacché s'era fatto trenta, ordinò pure di impalarne il cadavere.
Forse anche per vendicare l'oltraggio, il capitano da Mar decise di ritentare l'impresa alcuni giorni più tardi; la città fu rapidamente occupata, ma - al solito - la rocca si dimostrò imprendibile, e dopo un furioso combattimento il Cappello venne sconfitto.
Era la fine della sua politica e di ogni speranza di risolvere sul campo, positivamente, il duello ingaggiato con i Turchi.
Condusse la flotta a Negroponte, si ammalò e morì di crepacuore ("occupado da dolor", scrive il Malipiero) il 13 marzo 1467: suppergiù come il Giustinian, tre anni prima.
Ripresero le trattative, stavolta affidate a Giovanni Cappello, con la mediazione di un ebreo cretese, David di Maurogonato, ma fallirono di nuovo; né miglior sorte toccò in seguito a Francesco Diedo (che tra l'agosto del '67 ed il luglio '68 fu a Buda presso Mattia Corvino, il quale pure cercava di giungere ad una tregua con gli Ottomani) ed a Leonardo Boldù, inviato direttamente a Costantinopoli nel '68 (72); in realtà i Veneziani s'illudevano, perché Maometto II non era affatto convinto di volere la pace: forse la sfortunata campagna in Albania, culminata nel fallito assedio di Croia dell'estate del '66, o la ricorrente minaccia di Uzun Hasan per qualche tempo lo indussero a vagheggiare quantomeno una tregua, ma il perdurare dell'impegno militare in Italia da parte della Repubblica, la cui "superbia" si era ormai attirata l'odio universale (73), come anche la morte di Scanderbeg (17 gennaio 1468), vanificarono irrimediabilmente le speranze di una equa composizione del conflitto.
Su questa falsariga trascorsero dunque il '68 ed anche il '69, in un intrecciarsi di rinnovati tentativi diplomatici e di azioni affidate alla squadra navale; di positivo per la Repubblica ebbero a verificarsi la pace stipulata con Firenze e Milano (2 febbraio '68), il fidanzamento di Giacomo II Lusignano, re di Cipro, con Caterina Cornaro (30 luglio '68), la guerra mossa da Maometto ai Mamelucchi di Siria (estate '68), la peste che travagliò Costantinopoli (seconda metà del '69); di contro, oltre alla già ricordata morte di Scanderbeg, le devastazioni operate dai Turchi nei possedimenti veneziani in Albania, in Dalmazia, in Istria (autunno '68 - primavera '69) e la sconfitta patita in Romagna (29 agosto '69) nella breve guerra seguita alla morte di Sigismondo Malatesta.
Quanto alle operazioni più propriamente militari, va ricordata la campagna condotta nell'estate 1469 da Nicolò Canal, succeduto al Cappello nell'incarico di capitano da Mar il 13 novembre '68, dopo la breve parentesi di Giacomo Venier e di Giacomo Loredan (74).
Il Canal era un umanista (Sanudo lo definì sarcasticamente "generai dottor, atto più presto a leger libri che a governar le cose da mar"), e chissà per qual motivo - se non, forse, la speranza di aver sottomano l'uomo adatto in caso di trattative col Turco - il senato scelse proprio lui a guidare la flotta.
Partì per l'impresa carico di libri, tra le acclamazioni dei letterati, e - a dire il - vero sulle prime il miraggio di gloria sembrò avverarsi; forte di ventisei galere, devastò il golfo di Salonicco, occupò le isole di Lemno ed Imbro e, per finire, il 14 luglio '69 sottopose ad orribile saccheggio Aenos, sulla costa tracia, non lontano dai Dardanelli.
L'eccidio colpì soprattutto l'inerme popolazione greca, ma gli intellettuali che accompagnavano il Canal per descriverne le gesta nulla trovarono da eccepire, mentre a Venezia l'avvenimento suscitò l'entusiasmo pubblico e privato, che diede la stura a scampanii e processioni.
Fu, quello del Canal, un grosso errore di valutazione: non bisognava provocare Maometto proprio davanti alla capitale, sotto gli occhi della sua gente esasperata dalla peste.
Non bisognava provocarlo, ora ch'era libero dalla guerra in Siria...
Sin dagli ultimi mesi del 1466 Antonio Michiel del ramo di San Baseggio, ricchissimo appaltatore, assieme a Girolamo, dell'allume a Pera, aveva scritto alla Signoria avvisando che il prossimo obbiettivo degli Ottomani sarebbe stato Negroponte.
Questo non era difficile immaginarlo neppure a Venezia, neanche in una giornata di scirocco di quelle che tolgono il respiro e le idee: l'isola era ormai l'ultimo grande possedimento che le restasse a nord di Candia, nell'Egeo, o meglio in Grecia, visto che da essa la separavano neppure settanta metri nel punto più stretto; tenne dunque nel debito conto, il senato, l'avviso del Michiel? Era munita Negroponte alla fine degli anni '60?
È probabile di sì, considerato lo spiegamento di forze con cui Maometto II si accinse all'attacco, che diresse di persona.
Condotto un poderoso esercito (pare fossero 120.000 uomini) in Beozia, attraverso la Tessaglia, si accampò sull'Euripo, l'angusto braccio di mare che separa la Grecia dall'isola, quasi di fronte alla capitale Negroponte, l'antica Calcide; contemporaneamente l'ammiraglio Mahmud Pascià usciva dai Dardanelli con la flotta, una possente armata ch'era il segno tangibile dei progressi compiuti dai Turchi nel settore marittimo dopo essersi impadroniti di Costantinopoli e, nel contempo, di quanto fossero ormai legittime le loro aspirazioni al dominio del mare.
Ascoltiamone la descrizione da un testimone oculare, il sopracomito Girolamo Longo, imbarcato nella squadra veneziana che da lontano seguì le mosse degli Ottomani sino all'Eubea, dove ebbe modo di valutarne con precisione la consistenza:
L'armada ne è parsa la seconda volta de più numero de legni e più potente, che la non ne parse all'isola di Embro, quando la uscì. Prima giudicai che la fusse de 300 vele; hora credo che le sieno 400, partite in questo modo: 100 galie, 150 fuste, 2 galeazze, una nave de 500 bote, il resto parandarie. Il mar parea un bosco; a sentirlo a dir, par cosa incredibile, ma a vederlo è cosa stupenda [...>. Vogano benissimo, ma con voga spessa: non sono sì bone da remi, come sono le nostre; ma le vele e tutte l'altre cose son più bone che le nostre: penso che habbino più homeni sopra che non havemo noi [...>. Quest'armada tien antiguarda e retroguarda, circa 50 galie per banda, e ciascuna galia ha la so fusta [...>. Vi prometto, che dal capo alla coda, tutte le galie erano in conserva 6 mia poco più. Chi volesse spontar quest'armada in mar, per mia opinion, non se voria manco de ioo bone galie; e anche no so quello che seguiria [...> (75).
Di contro, il Canal non disponeva che di 35 galere, all'incirca un terzo di quelle turche, il che giustifica la sua prudenza iniziale, ma non la successiva inerzia.
Come si è accennato, si limitò a seguire da lontano la flotta di Mahmud, senza osare intercettarla, sino a Negroponte, dove assistette alla costruzione di un ponte sull'Euripo, ordinata dal sultano.
Di intervenire, neppure gli passò per la testa; del resto la città era ben fortificata ed a difenderla c'era il coraggioso bailo Paolo Erizzo. Forse per questo (ma la decisione lascia quantomeno perplessi) il Canal abbandonò l'isola e si portò a Candia, per rinforzare la squadra. A Venezia, come pure a Roma, la notizia dello sbarco turco destò sgomento; scrive il Malipiero, sotto la data del 24 giugno '70:
Si biasma el General che '1 sia andà in Candia con l'armada, e che l'habbia lassà Negroponte assedià [...>. E '1 zorno dietro è stà chiamà '1 consegio de Pregadi, et è stà fatto provision de 200.000 ducati [...>. Dapoi è stà preso d'armar tutte le galie grosse e sotil [...>, e la Signoria ha mandà a dir a d. Maffio Ghirardo patriarca che fazza cantar ogni zorno le litanie davanti la Messa a tutto el clero, e che la domenica se fazza solenne procession [...>, e '1 patriarca è stà a piè nudi: è stà fatto '1 medemo in tutte le terre suddite, e a Roma [...> è stà portà attorno el Sudario e la testa de san Piero; cosa che no è stà fatta mai più (76).
Il Canal lasciò Candia dopo breve sosta e certamente con una flotta meno debole, poiché il divario rispetto alla turca adesso era ridotto alla metà: aveva 52 galere, una galeazza, 18 navi, e 20.000 uomini imbarcati.
Di tempo, però, ne perdette eccome, inspiegabilmente, tanto che giunse a Negroponte - da nord, anziché da sud, si badi bene - soltanto all'alba dell'11 luglio. A quella data i Turchi avevano già dato diversi assalti alla città, il 25 e il 30 giugno, e poi ancora il 5 e 1'8 luglio, con gravi perdite da entrambe le parti: secondo il Malipiero, di Infedeli ne morirono ben 77.000; certo i Veneziani si difesero bene e l'Erizzo fece la sua parte, al punto che le cronache - chiaramente sensibili alla grandezza dell'evento - gli attribuiscono un atteggiamento sprezzante, se non addirittura provocatorio, nei confronti degli inviati turchi che intimavano la resa.
L'11 luglio Negroponte resisteva ancora e l'armata del Canal giunse inaspettata davanti a quella turca, allora non in grado di difendersi, con gran parte degli equipaggi a terra: le fonti ed i successivi studi concordano nel sostenere che sarebbe stato relativamente facile, per i Veneziani, investire la squadra ottomana, distruggere il ponte sull'Euripo ed infliggere insomma un grave colpo all'esercito di Maometto.
L'ordine di attaccare, però, non giunse; anzi il Canal ormeggiò qualche miglio lontano, pare in attesa di ulteriori rinforzi.
Era un avversario troppo abile, il Conquistatore, perché gli si potessero concedere simili vantaggi; rinfrancato dalla cautela del Canal, ordinò l'attacco generale e Negroponte cadde, sotto gli occhi dei marinai che assistevano impotenti all'eccidio, il 12 luglio 1470. Fu davvero una strage da cui nessun veneziano si salvò: sembra che l'Erizzo sia stato segato in due su di una tavola; taluni gli attribuirono pure una figlia di nome Anna, ovviamente bellissima, che preferì suicidarsi piuttosto che soggiacere alle brame del sultano: insomma, fiorì tutta un'aneddotica che nel '700 giunse persino a ricamarvi sopra delle commedie; sennonché pare proprio che Anna non sia mai esistita, e sui dettagli della vicenda rinvio alla "voce" dedicata all'Erizzo nel Dizionario Biografico degli Italiani.
Il Canal, dimostratosi tanto irresoluto di fronte a veri nemici così come aveva saputo portarsi egregiamente allorché s'era trattato di sterminare popolazioni inermi, tentò in seguito un'impossibile riconquista dell'isola, ovviamente fallita sul nascere; era un tardivo colpo di coda nella speranza di recuperare la perduta credibilità, cioè di salvarsi: invece fu prontamente sostituito (19 agosto) con Pietro Mocenigo, e processato al rientro a Venezia. Ma se la cavò a buon mercato, con l'esilio a vita nella vicina Portogruaro: il che fa pensare che il divario di forze allora esistente fra Veneziani e Turchi fosse così marcato, da essere colmabile solo grazie a doti di coraggio che per legge non potevano essere imposte ad alcuno.
Pare che dopo la conquista di Negroponte, all'incirca nella prima metà di ottobre, Maometto II abbia cercato di intavolare trattative di pace valendosi della sua matrigna, la sultana Mara, ch'era nata cristiana per esser figlia del despota serbo Giorgio Brankovié; così, all'inizio del nuovo anno (2 gennaio '71) la Signoria inviò a Costantinopoli Francesco Cappello e Nicolò Cocco, offrendo 250.000 ducati per la restituzione dell'isola, mentre il 3 luglio dello stesso '71 giungeva a Venezia un chiaus, ossia un plenipotenziario turco (77).
Evidentemente, però, dovevano ancora maturare sufficienti margini di intesa e di fronte alle esorbitanti richieste avanzate dalla Porta (restituzione di Lemno e pagamento di un tributo annuo di 100.000 ducati), la duplice missione si concluse con un fallimento.
Quanto a Venezia, dopo sette anni di guerra non solo non aveva conquistato la Morea, ma addirittura si trovava estromessa dalla sua più ricca ed importante base nell'Egeo, talché - scrive il Malipiero - "persa l'isola de Negroponte, l'armada priva del so porto solito, va per l'Arcipelago hora a questa hora a quell'altra isola" (78); tuttavia, per sua fortuna o sventura, stavano manifestandosi talune positive premesse per la continuazione della guerra, al punto che di lì a qualche anno (tra il '72 ed il '73) essa fu addirittura sul punto di poter chiudere vittoriosamente, una volta per tutte, il duello col potente avversario.
Vediamo cosa successe.
Anzitutto c'è da dire che, nonostante gli alti costi di un conflitto condotto sui mari, i traffici prosperavano, grazie anche alla crescente influenza veneziana sul Regno di Cipro, che dall'ottobre '69, in seguito ai negoziati condotti dall'ambasciatore Domenico Gradenigo con Giacomo II Lusignano, era praticamente un protettorato della Repubblica (79); inoltre dal 10 gennaio 1471 essa aveva concluso una specifica lega antiturca con il re di Napoli, Ferdinando d'Aragona, che inviò dieci galere ad unirsi alla squadra del Mocenigo (80).
Anche l'idea della crociata sembrò prendere nuovo vigore quando, nell'agosto '71, Sisto IV subentrò nella cattedra di Pietro al defunto Paolo II, che per essere veneziano non era mai andato d'accordo con i compatrioti; naturalmente gli stati europei alla prova dei fatti mancarono all'appello, ma nel corso della campagna del '72 il Mocenigo poté far conto perlomeno su diciannove galere pontificie. Quanto a lui, nell'estate del 1471 corse in lungo ed in largo l'Arcipelago e devastò in più punti le coste dell'Anatolia, comportandosi da predone anziché da soldato; ma va detto che la flotta turca, nonostante tante provocazioni, non uscì mai dagli Stretti: perciò che altro poteva fare?
La grande speranza di questi primi anni dell'ottavo decennio del secolo fu però rappresentata, per l'Occidente, dal rinnovato atteggiamento antiottomano di Uzun Hasan.
L'iniziativa partì da Venezia, la cui diplomazia non aveva mai interrotto i rapporti col re del Montone Bianco, sin dal '64; ora, nel febbraio 1471 Lazzaro Querini, inviato presso quella corte, tornava dalla Persia con un emissario del sovrano, Murad.
Costui era latore di una proposta tanto semplice quanto suggestiva: attaccare Maometto da due lati. I Turcomanni si sarebbero spinti fino al Bosforo per via di terra, mentre la flotta veneziana avrebbe superato gli Stretti e finalmente preso Costantinopoli; all'impresa avrebbero partecipato - come poi avvenne - il papa ed i Valacchi. Uzun Hasan poneva tuttavia una condizione a Venezia: quella di essere provvisto di artiglieria, altrimenti sarebbe sempre rimasto inferiore rispetto ai Turchi, che disponevano di un parco di cannoni e bombarde tradizionalmente eccellente.
La Signoria prese tempo, impegnata com'era in trattative di pace con Maometto, ma allorché fu chiaro che queste erano destinate al fallimento, inviò in Persia come ambasciatore Caterino Zeno, che aveva soggiornato a lungo in Oriente ed era pure parente alla lontana del sovrano turcomanno, per via di certi matrimoni con i Comneno di Trebisonda (81).
Lo Zeno giunse a Tabriz, ch'era la corte di Uzun Hasan, nell'aprile 1472, donde scrisse lettere alla Signoria fornendo tutte le assicurazioni richieste, ed esortando ad una celere iniziativa.
Allora Venezia era in grado di farlo, poiché due mesi prima, il 13 febbraio, aveva avuto buon fine un'impresa esa tanto audace quanto coraggiosa: un siciliano di nome Antonello (nessuna parentela col noto pittore) era riuscito ad incendiare di notte l'arsenale di Gallipoli; il rogo durò dieci giorni, causando al sultano un danno di 100.000 ducati e, soprattutto, ponendo fuori uso gran parte dell'armata navale turca.
Se il Mocenigo - afferma il Babinger - ch'era ben al corrente dell'iniziativa, dal momento che aveva egli stesso organizzato l'azione del siciliano, ne avesse tempestivamente sfruttato le conseguenze, avrebbe potuto infliggere ai Turchi una sconfitta irreparabile. Ma così non fu, e si rimase in attesa di un'azione militare concordata con i Persiani.
Nell'intento di favorirla, la flotta veneziana, rafforzata dalle galere pontificie condotte dal cardinal legato Oliviero Carafa e da altre dodici inviate dal re di Napoli Ferrante d'Aragona, si concentrò a Rodi nel giugno '72, donde mosse alla conquista delle coste meridionali e sud-occidentali dell'Asia Minore, proprio per stabilire un collegamento con i dominii di Uzun Hasan e, per quella via, cercare di fargli giungere le armi da fuoco che gli erano indispensabili.
Tutto si risolse però come l'anno precedente, ossia in un crudele saccheggio di castelli e villaggi, concluso con la presa di Smirne (13 settembre), così descritta dal Malipiero assieme alle successive vicende:
[...> i turchi per salvarse se retirorno in le moschee, e la terra fo sachizada, e tagiado a pezzi gran numero de turchi: fo mena via molti presoni, e fo fatta grossa preda d'oro, arzento, panni de seta e vasi preziosi [...>. Sparsa la vose per el paese della presa delle Smirne, el Beglierbei della provincia adunò molta gente, e andò verso i nostri; e i stradioti ghe andò contra [...> e fo tagliado a pezzi el Beglierbei, e messi i turchi in desordene, e mandà tutti a fil de spada. [...> Fo trovado in questo luogo, tra le altre notabele antichità, la sepoltura d'Homero, e la so statua in bellissima forma; e fatti questi effetti, l'armada andò a depredar su l'isole vicine [...>. E perché sorazonzeva l'inverno [...> se vene a Modon; onde '1 legato del Papa tolse licenzia dal Capetan general, e vene alla volta d'Italia (82).
Insomma, una serie di inutili scorrerie, forse per ritorsione contro quelle che i Turchi del pascià di Bosnia andavano compiendo in Friuli (e che si sarebbero ripetute negli anni '77-'78), ma nessuna azione decisiva. Eppure il momento era favorevole per violare gli Stretti: la flotta cristiana appariva superiore a quella turca (che infatti rinunciò a combattere), Costantinopoli era fiaccata dalla peste, il sultano incalzato a oriente da Uzun Hasan e dai suoi alleati, che gli avevano strappato Cesarea, l'attuale Kayseri, ed ora minacciavano di impadronirsi di tutta l'Anatolia con un esercito - correva voce - di cento, forse duecentomila uomini...
Per fronteggiare il pericolo, all'alba del 12 ottobre 1472 Maometto II passava il Bosforo alla testa delle sue truppe, dopo aver frettolosamente provveduto a rafforzare le difese della capitale, evidentemente nel timore di un attacco da parte dei Valacchi o degli Ungheresi o dei Veneziani, o magari di tutti questi assieme.
Ecco, forse allora il senato avrebbe potuto sferrare il colpo risolutivo, ma per sua sfortuna non c'era più un Vettore Cappello alla testa dell'armata (83).
Dunque l'iniziativa congiunta contro gli Ottomani fu rinviata all'anno seguente, allorquando si presumeva che gli alleati fossero in grado di coordinare al meglio i propri sforzi. Intanto, per sicurezza (che non era mai troppa, considerate le distanze e i tempi necessari a superarle), il 18 febbraio 1473 la Signoria inviava un altro ambasciatore ad Uzun Hasan, stavolta nella persona nell'abile ed esperto Giosafat Barbaro (lo stesso che abbiamo incontrato nel '37, a proposito di certe iniziative alla Tana), che avrebbe dovuto provvedere a fargli giungere le tanto sospirate artiglierie.
Per far ciò, era necessario disporre della base di Cipro: cosa in teoria semplicissima, per essere l'isola un protettorato veneziano ed essendosi finalmente stipulato il matrimonio tra il re e Caterina Cornaro (fine del '72); sennonché Giacomo II era pure vassallo dell'Egitto e pertanto non era in grado (cioè non volle per paura del sultano del Cairo, a sua volta timoroso di quello di Costantinopoli) di dare alla spedizione del Barbaro tutto l'appoggio di cui necessitava. Si perdette poi dell'altro tempo in attesa che la flotta completasse la conquista della costa anatolica di fronte a Cipro, poi, quando nel giugno '73 il Barbaro fu in condizione di consegnare ai Turcomanni le armi da fuoco, avvenne che la via per Tabriz si trovò ad essere bloccata dagli Ottomani.
Questo tuttavia non impedì ad Uzun Hasan di battere i Turchi a Tergian, appena qualche settimana più tardi, cosicché il senato poté finalmente ordinare a Pietro Mocenigo (23 giugno 1473) di forzare i Dardanelli e muovere contro Costantinopoli.
Il momento tanto atteso era giunto, né le circostanze potevan essere più felici.
Sennonché, quasi a conferma dello stretto nesso che non di rado unì le sorti turche a quelle veneziane, da Cipro il Barbaro informava in tutta fretta il Mocenigo che improvvisamente, nella notte fra il 6 ed il 7 luglio, era morto il re Giacomo II, lasciando erede la moglie, ch'era pure gravida.
Si determinava in tal modo un vuoto politico nell'isola, dove i Veneziani contavano molto, ma che per essere una delle regioni più ricche del Mediterraneo orientale era pure concupita da una quantità di potenze, a cominciare dagli Aragonesi e dai seguaci della legittima regina, Carlotta.
Questa morte, poi, così improvvisa... Fatalità, omicidio? Vero è che statisticamente i mariti muoiono sempre prima delle mogli, ma il Lusignano aveva appena 33 anni ("aetate integra et corpore robusto" precisano le fonti), per cui s'instaurò subito un clima di sospetti e di intrighi (84). Per Venezia l'alternativa fu se confermare l'attacco ai Dardanelli o spostare la flotta su Cipro, bloccando in tal modo qualsiasi possibile ingerenza straniera; il senato scelse la seconda ipotesi, avallando l'iniziativa del capitano da Mar, Mocenigo, che per suo conto sin dal 7 agosto aveva ancorato a Famagosta (85).
Costantinopoli era salva, giacché il momento giusto per investirla si sarebbe poi rivelato il trascorso mese di luglio, quando Uzun Hasan riusciva a battere Maometto ed il voivoda di Moldavia, Stefano il Grande, gli strappava la Valacchia (86); ma ben presto la situazione mutò in peggio, sotto l'incalzare degli eventi: 1' 11 agosto a Baskent, sull'Eufrate, i Turchi si presero la rivincita sui Persiani ed i Caramani ed il 28 dello stesso mese Caterina Cornaro partoriva un figlio, il futuro re, la qual cosa generò nuove tensioni nell'isola.
Impossibile dunque, per Venezia, pensare d'impiegare la flotta in rischiose operazioni sugli Stretti ed al Mocenigo fu ordinato di svernare a Modone, in attesa del successore, lasciando però a Cipro almeno cinque galere.
Tanta prudenza non era infondata, poiché nella notte fra il 13 ed il 14 novembre 1473 venne alla luce a Famagosta una congiura organizzata da Ferdinando d'Aragona con l'appoggio dei partigiani di Carlotta, che facevano capo all'arcivescovo di Nicosia, Luigi Fabricies; il colpo di stato prese subito i colori di una rivolta antiveneziana, dato l'odio che animava la nobiltà locale particolarmente contro lo zio di Caterina, Andrea, il quale, come procuratore del Regno, incentrava in pratica ogni potere.
Abbandonato dai suoi stessi soldati, l'infelice - scrive il Malipiero - "cerchete de salvarse tra do muri della roca: ma i congiurati el descoverse [...>; e contra la fede che i ghe avea dato, l'amazorno crudelmente con molte feride, insieme con Marco Bembo so nevodo; e i corpi che da i congiuradi era stà butadi nudi nelle fosse, fo levadi [...> a tempo che i cani haveva comenzà a manzarli [...>" (87).
Il contemporaneo sopraggiungere di due galere napoletane non riuscì peraltro a neutralizzare i presidi dei quali i Veneziani disponevano nell'isola, mentre bastarono eccome ad allarmare il Mocenigo, che difatti spedì subito a Famagosta il provveditore Vettore Soranzo con otto galere ed ordini precisi. Qualche tempo dopo, il 3 febbraio '74, l'intera armata veneta arrivava a Cipro, rafforzando ulteriormente il controllo della Signoria sull'isola.
In cambio, come s'è accennato, era svanita l'occasione di colpire al cuore la potenza turca. Vero è che, nonostante la sconfitta, Uzun Hasan non abbandonò la lotta e che i contatti con la Repubblica continuarono (il 23 febbraio 1474 partì da Venezia un nuovo ambasciatore, Ambrogio Contarini (88), il quale giunse a Tabriz sei mesi dopo, attraverso la Germania e la Russia), ma le enormi distanze e la lentezza delle comunicazioni si rivelarono ostacoli insormontabili, per cui l'alleanza con i Turcomanni - ancora una volta, come sempre - non poté sfruttare il fattore decisivo di un attacco congiunto.
Quanto a Maometto II, una volta rimossa la minaccia persiana, non occorrevano facoltà divinatorie per immaginare che si sarebbe rivolto ad occidente, secondo la tradizionale politica turca.
Occidente voleva dire Albania, al di là della quale c'era l'Italia. Per fortuna dei cristiani, nel '74 il quarantaduenne Gran Signore fu costretto all'inazione dalla gotta, e poi in giugno gli morì il prediletto figlio Mustafà: dunque rimase ad Istanbul, affidando il comando delle truppe (pare 80.000 uomini) ad un bosniaco, l'eunuco Suleyman Pascià.
Costui pose l'assedio a Scutari, che si protrasse inutilmente dal 15 luglio al 28 agosto 1474. Animati dal valoroso Antonio Loredan, gli abitanti seppero resistere all'attacco di forze soverchianti, ai guasti provocati dall'artiglieria ottomana (Suleyman aveva fatto fondere le sue colubrine - il cui bronzo era stato trasportato da 500 cammelli - proprio sotto le mura della rocca), ai tormenti della sete.
Alla fine, falcidiati dalle perdite, i Turchi tolsero l'assedio, fra il giubilo degli assediati ormai allo stremo; anche la flotta veneziana, prontamente accorsa alle foci della Boiana, uscì duramente provata dal confronto, il cui annuncio, la notizia insomma dell'esito vittorioso, venne salutata tra le lagune con universale entusiasmo: Pietro Mocenigo, gravemente ammalato, appena rimpatriato fu eletto doge, a significare la riconoscenza dei concittadini per quanto operato; il suo successore nell'armata, Triadan Gritti, morì di febbre e, forse, per gli ottantaquattro anni che si portava sulle spalle: se ne andò in buon punto, e fu chiamato a succedergli proprio Antonio Loredan.
Negli anni che seguirono la guerra si trascinò stancamente: ormai era evidente che i giochi erano fatti; di crociata, di alleanze risolutrici ormai non si parlava se non nell'ambito del rituale diplomatico, ossia laddove nessuno ci credeva; le operazioni militari s'erano ridotte al livello di rappresaglia: i Turchi in Friuli, i Veneziani a devastare le coste dell'Asia Minore. Insomma, tutt'al più erano in palio conquiste e/o perdite assolutamente secondarie, ma non il senso del conflitto intrapreso nell'ormai lontano 1463...
Il '75 trascorse quasi nell'inazione, come se ognuno dei due contendenti fosse in attesa di una mossa dell'avversario o di qualche clamoroso mutamento nella politica internazionale; scrive il Malipiero che la sera del 6 gennaio giunse a Venezia un inviato del Turco, con un salvacondotto per quell'ambasciatore che la Signoria volesse inviare a Costantinopoli a trattar la pace.
Nel consiglio dei dieci il dibattito durò più di due giorni: chi propendeva per la guerra
considerava che 'l re di Persia deve uscir in campagna tanto gagliardo dalla parte di Soria; che 'l re d'Ongharia ha fermado la ligha co 'l re de Polonia a tal effetto; che la Valacchia superior ha rebelà con l'ajuto de onghari, poloni e russi; e che è stà spazzà Polo Moresini ambassador a Roma per far ligha de tutta Italia contra turchi; che 'l duca de Milan e fiorentini s'ha obbligà de contribuir 100.000 ducati [...>.
Il partito opposto, che faceva capo al doge Mocenigo, aveva invece buon gioco nel rammentare
che le borse de particulari è vuote, e le facultà destrutte; non ghe è danari da [...> mantegnir l'armada e così, [conclude il Malipiero> dopo molte consulte è stà preso de accettar el salvo conduto. E dall'altra banda è stà fatto diverse provision d'armar [...>
insomma, s'era scelto di non scegliere (89).
Del resto, Maometto (che in giugno aveva annesso al suo impero Caffa e Tana, gli ultimi possedimenti genovesi in Crimea) puntava ora all'Albania, voleva Croia e poi Scutari; Girolamo Zorzi - questo il nome dell'ambasciatore alla Porta - non poteva concedere tanto, e la missione ovviamente fallì. Nel '76 il sultano si affidò nuovamente alle armi, ed inviò il pascià Gedik Ahmed con ottomila uomini ad assediare Croia, ma i Veneziani resistettero validamente sotto la guida del provveditore della città, Pietro Vitturi, e di quello dell'Albania, Francesco Contarini, che pagò il suo coraggio con la cattura e la morte.
Attacchi contro la stessa Croia, contro Drivasto, Scutari, Lepanto, incursioni devastanti in Friuli si rinnovarono incessantemente per tutto l'anno ed in quelli che seguirono, mentre nella primavera del '78 falliva l'ennesimo tentativo di concludere la pace, stavolta affidato al provveditore della flotta, Tommaso Malipiero.
In realtà Maometto voleva la vittoria sul campo: Croia cadde il 17 giugno 1478, dopo un anno di assedio, ma per avere Scutari fu necessario che lo stesso sultano si mettesse alla testa dell'esercito; comunque la città si arrese solo dopo la stipulazione della pace, alla quale si pervenne anche per la discutibile condotta del nuovo provveditore in Albania, Antonio da Lezze, che nascose al senato l'entità delle risorse di cui i Veneziani potevano ancora disporre (90).
La guerra infine ebbe termine con un trattato firmato da Giovanni Dario ad Istanbul il 25 gennaio 1479, per cui Venezia cedeva Scutari, Croia, Lemno, Negroponte ed il Braccio di Maina, nel Peloponneso; si obbligava inoltre a pagare al sultano 100.000 ducati d'oro quale indennità, ed un annuo tributo di 10.000 ducati sul commercio; in cambio, la Signoria poteva nominare un bailo a Costantinopoli.
Condizioni dure ed umilianti: la Repubblica, che aveva iniziato la guerra mirando ad una rapida conquista della Morea, la concludeva dopo quasi sedici anni con l'estromissione dall'Egeo (nel quale conservava solo il protettorato sul Ducato di Nasso); doveva inoltre riconoscere la superiorità marittima degli Ottomani ed accettare che la bandiera della mezzaluna sventolasse a Valona, sull'ingresso del "Golfo", di fronte all'Italia.
In compenso, la pace del '79 fu uno spartiacque politico, ma non economico. Il ripristino del bailato a Costantinopoli, le buone relazioni prontamente instauratesi tra Venezia e la Porta (più che buone, addirittura ottime, inspiegabilmente: Maometto inviò alla Signoria come negoziatore tale Lutfi Beg, con ricchi doni, e di lì a poco la Repubblica contraccambiò mandando alla sua corte il più valente pittore di cui disponeva, Gentile Bellini) contribuirono ad una rapida ripresa dei commerci, che conobbero una fase di intensa fioritura; d'altro canto, il trattato affossava l'ideale medioevale della crociata, della guerra naturalmente assiomatica contro l'Infedele, sostituendogli la pratica del particolarismo politico. Un tratto di realismo perfettamente connaturato al tradizionale pragmatismo della Repubblica, ma anche - inequivocabilmente - un segno dei nuovi tempi (91).
ed i porti pugliesi (1480-1498)
Come si è accennato, la pace del '79 fu accolta con sollievo tanto a Venezia quanto a Costantinopoli: per l'emporio realtino infatti, essa significava la ripresa in grande stile dei traffici; per di più, il tributo di 10.000 ducati venne riscosso solo alcuni anni, giacché la morte di Maometto II e la contrastata ascesa al trono del figlio Bayezid indussero quest'ultimo ad abolirlo, il 12 gennaio 1482. Quanto agli Ottomani, la fine del lungo conflitto li liberava dalla pressione della flotta veneziana, e quindi consentiva loro di muovere con maggior efficacia contro l'Occidente.
Il grande sogno di Maometto era l'Italia. Porre piede nella penisola appenninica, riconquistare gli antichi dominii dell'Impero d'Oriente di cui si sentiva erede, magari - anche - cacciare il papa da Roma, o sottometterlo alla propria autorità, come aveva fatto col patriarca Gennadio a Costantinopoli...
Che il sultano ritenesse ormai giunto il tempo di mettere in atto questo progetto (del resto, ovvio corollario di una politica trentennale) apparve subito chiaro, sin dai mesi successivi alla firma del trattato con Venezia.
Fallito, nel dicembre '79, un colpo di mano su Rodi, il 23 maggio 1480 l'esercito turco, comandato da un discendente dei Paleologo, Mesih Pascià, iniziava in grande stile l'assedio della città. Per ottantanove giorni i cannoni frantumarono la cinta muraria e le abitazioni dei Rodioti, e quarantamila uomini rinnovarono assalti sempre più cruenti, ma non riuscirono ad aver ragione della coraggiosa resistenza dei cavalieri di San Giovanni e dell'apparato difensivo, accuratamente approntato dal gran maestro Pierre d'Aubusson (92).
Maggior fortuna toccò agli Ottomani nelle isole Ionie. Qui l'ultimo dinasta franco, Leonardo Tocco, da tempo tributario del sultano, s'imbarcò alla volta di Napoli senza neppur pensare ad opporre resistenza, non appena ebbe sentore dell'approssimarsi della squadra turca.
Nello stesso '79 Maometto, ormai saldamente accampato di fronte all'Italia, pensò al gran balzo, o meglio, provò a saggiare il terreno per mezzo del pascià di Valona, Gedik Ahmed.
Il 23 agosto un suo ambasciatore giungeva a Venezia spiegando che il pascià aveva in animo di assalire Ferrante d'Aragona, re di Napoli, ed il papa; poiché sapeva che entrambi erano nemici capitali della Repubblica, proponeva alleanza.
Il rifiuto veneziano fu così cortese, calibrato e sfumato (Babinger lo definisce redatto "nello stile dell'oracolo di Delfo"), da indurre Maometto II a spedire un nuovo ambasciatore presso la Signoria, ove giunse il 29 aprile '80; rinnovava l'offerta - caso mai il senato avesse cambiato idea -, e comunque chiedeva l'appoggio della base veneziana di Corfù e la somministrazione di viveri alle truppe destinate a sbarcare nella Puglia.
"Ghe è stà resposo [scrive il Malipiero> che la Signoria se trova in pace con ogn'un, e che per adesso non se puoi satisfarlo" (93). Per adesso...
In realtà Venezia mai e poi mai avrebbe osato farsi essa stessa carico di favorire, o addirittura realizzare, un'invasione turca dell'Italia (neppure nell'ora buia di Agnadello, come si avrà modo di ricordare, l'ipotesi prese realmente forma): sarebbe stato quantomeno un imperdonabile errore politico. Tuttavia non dispiaceva al senato l'idea che Maometto giungesse a dare qualche afflizione - dopo averne procurate così tante alla Repubblica - pure all'infido Sisto IV ed a Ferrante di Napoli, di cui erano note le tradizionali mire su Cipro.
Donde un contegno ambiguo, un gioco - per così dire - di rimessa, calcolato per non dispiacere a nessuno; ne fece le spese lo stesso Nicolò Cocco, inviato dalla Signoria a Costantinopoli il 3 aprile 1480 (c'era già andato nel '71, dopo la caduta di Negroponte), cui era stata affidata l'iniziativa di talune aperture con la Porta, in relazione alla progettata aggressione del Regno, salvo poi sconfessarlo ufficialmente quando l'attacco trovò piena attuazione.
Di qui, anche, l'invio a Roma dell'ambasciatore Zaccaria Barbaro (94), che nel giugno '80 si adoperò in tutti i modi per evitare una lega generale degli stati italiani contro gli Ottomani.
Non c'è dunque da stupirsi delle accuse che i Veneziani si attirarono quando le truppe di Maometto passarono l'Adriatico e ad affrontarle furono solo il papa ed il re di Napoli; non c'è proprio da stupirsi, se pensiamo che la Repubblica rimase certo neutrale, ma che forse qualche privato armatore veneziano avrà magari dato una mano - dietro adeguato compenso, naturalmente - a rifornir di navi e derrate quei poveracci che s'erano fissati di voler passare il Golfo...
L'11 agosto 1480 Otranto cadeva in mano agli Ottomani. La marea islamica giungeva così a ridosso di Roma, ma sarebbe stato il suo estremo conato, così come a Vienna nel 1683: giunti all'apice dello slancio conquistatore, i Turchi sarebbero presto rifluiti.
Un mese dopo il papa bandiva la crociata, la cui prima adunanza era fissata per l'inizio di novembre: tutti i principi europei risposero che era un bene, che era ora, e nessuno vi andò.
Venezia ovviamente diede l'esempio, né c'è da stupirsi perché alla lega aveva smesso di credere da un pezzo; tuttavia inviò la flotta a Corfù, per proprio conto, ufficialmente per reprimere i colpi di coda dei Tocco, fomentati dagli Aragonesi, su Zante e Cefalonia.
Di lì a qualche mese, peraltro, gran parte di queste schermaglie politiche non avrebbero più avuto senso: il 3 maggio 1481 Nicolò Cocco annunciava la scomparsa di Maometto il Conquistatore.
"La grande aquila è morta", scrisse al senato. Ucciso, probabilmente; benché sofferente di gotta e di artrite, il sultano aveva solo quarantanove anni ed aveva appena lasciato la capitale per muovere contro i Persiani, alla testa dell'esercito. Nulla, dunque, che potesse far presagire la fine imminente, per cui convien pensare con il Babinger che ad ammazzarlo sia stato un veleno: non veneziano, stavolta, ma turco, e precisamente del suo mistico e bigotto primogenito Bayezid che, una volta riuscito a prevalere sul fratello Gem, avrebbe regnato da solo sino al 1512; fino a quando, cioè, non sarebbe stato avvelenato a sua volta (95).
Il 10 settembre 1481 le truppe pontificie e napoletane riconquistavano Otranto, e a quella data la Signoria aveva già iniziato il tanto atteso regolamento di conti col duca di Ferrara, Ercole d'Este.
Questa guerra, come quella successiva per Rovereto (1487), rappresenta una ripresa dell'espansionismo veneziano in Italia, resa possibile dal venir meno, all'incirca per il decennio successivo alla scomparsa di Maometto, della pressione ottomana. Il conflitto per la successione, infatti, fu lungo e dispendioso e gli avversari non mancarono di approfittarne: nell'estate dell'81, scrive il Malipiero,
El fio de Scanderbec, chiamato da albanesi, è passà da Puglia in Albania; e con l'aiuto de Cimerioti ha recuperà la maggior parte del stado paterno e rotti 2.000 Turchi che se ghe ha opposto [anche per i Veneziani sembravano schiudersi buone prospettive>; Antonio Vitturi [prosegue l'annalista>, ambassador al Turco, giunse al primo de ottubrio con Alvise Manenti so secretario: è stà accettà honoratamente, ha bascià la man in pubblico a quel Signor, e ha mangiato con lui. El Signor ghe ha promesso de remetter a la Signoria i danari che se dovea dar a so padre, e de cederghe l'isole del Zante e de Zeffalonia (96).
Le ragioni e lo svolgersi della guerra di Ferrara sono note; da un lato v'era l'Estense, appoggiato dal re di Napoli suo suocero, che intendeva liberarsi della pesante tutela politico-economica tradizionalmente esercitata dai Veneziani sopra il piccolo stato padano; dall'altro la Signoria ed il papa, che mirava alla Romagna e addirittura al Regno, nella speranza di sostituirvi alla dinastia aragonese il nipote Girolamo Riario: ma in realtà il contrasto di fondo risiedeva nell'antagonismo veneto-fiorentino.
La guerra dunque venne ufficialmente proclamata a Venezia il 2 maggio 1482, fra l'entusiasmo popolare. Doveva essere poco più di una passeggiata militare, e invece, sia per il coraggio e l'abilità del duca Ercole, sia per il rapido voltafaccia pontificio, si rivelò dura e costosa: alla fine Venezia ottenne il Polesine di Rovigo, ma perse definitivamente ogni ingerenza su Ferrara.
Per affrontare i nemici, la Repubblica dovette allestire due armate navali:
L'una [informa il Nani> contro il re d'Aragona per travagliare le rive della Calabria, e scorrere e saccheggiare quelle della Puglia, sotto il comando di Vettor Soranzo. L'altra contro il duca di Ferrara sul Po, dei legni grossi della quale [venne> dato il governo al capitano Damiano Moro, e dei sottili a Cristoforo da Mula (97).
Il fronte meridionale era senz'altro secondario per la Repubblica, maggiormente interessata al controllo del Po che ai porti pugliesi; per questa ragione l'azione del Soranzo si limitò a saccheggi e devastazioni piuttosto che a cercare lo scontro. Il 29 giugno '82 sbarcò 600 stradioti presso Ortona e li inviò a distruggere Lanciano, sede di una rinomata fiera mercantile; quindi, il mese seguente,
con 24 Balie, 2 fuste grosse e 78 gripi grossi [annota il Malipiero> all'impresa della Puglia e della Calavria ha messo in terra 7.000 persone su quelle marine; e ha fatto grossissimi botini de homini, de animali e de robe da prezzo; e ha preso 24 castelli, tal che l'ha acquistà più de ioo mia de paese. I Stradiothi ha fatto gran fattion, e ogn'un li stima summamente (98).
Quanto alla flotta napoletana, adottò una strategia simile a quella dell'avversario: per tutta la durata della guerra, anziché cercare di affrontarlo, gli inflisse quanti più danni poteva, scaricando i suoi fulmini sulla Dalmazia, a Curzola e a Zara. Insomma, una sorta di braccio di ferro, di logoranti ma non risolutive pressioni.
Il fatto è che l'epicentro del conflitto era nella Padania, e siccome sui fiumi i Veneziani non si portarono mai troppo bene, ben presto il Soranzo venne richiamato a dar man forte contro i Ferraresi.
Al suo posto nel grado di capitano da Mar fu nominato, nel gennaio '83, Giacomo Marcello di Cristoforo, la cui condotta non riscosse tuttavia l'approvazione del senato; accusato d'inazione per aver indugiato gran parte dell'estate nel porto di Zara, a fine anno venne sostituito da Giacomo Venier di Delfino, che però morì quasi subito: e così il Marcello riebbe il comando dell'armata.
Nel maggio '84, dietro suggerimento del Malipiero - che noi conosciamo quale annalista, ma che allora era pure provveditore e vicecomandante dell'armata -, occupò parte della penisola salentina:
e con questo esempio [così il cronista parlando di sé in terza persona> el Malipiero hebbe in otto zorni, oltre Galipoli e Nardò, Loportino e XXII altre castelle. I principi de Bisignan e de Rossan, e 'l marchese de Bitonto ghe fece saver che i voleva intenderse con esso, e far rebelar in un zorno al re sessanta città (99).
Attribuendosi tanta gloria il vicecomandante non prevaricava, ché il Marcello aveva avuto il buon gusto di morire nel corso del combattimento, il 19 maggio, colpito da una bombarda.
Si trattò in ogni caso di conquiste effimere: la pace di Bagnolo del 7 agosto imponeva a Venezia la restituzione dei porti pugliesi (100).
Come si è accennato, il trattato del gennaio 1479 favorì la ripresa del commercio veneziano in Levante; vero è che ormai gran parte dell'Egeo era persa, ma in fondo la via delle spezie aveva soprattutto bisogno degli scali siriaci ed egiziani con i quali i rapporti non si erano mai interrotti; per di più il protettorato su Cipro garantiva alla Signoria la disponibilità di sale, zucchero, cotone (101).
Certo, una guerra così lunga non aveva mancato di ripercuotersi sui circuiti commerciali, suggerendo ai mercanti di operare preferibilmente su altre rotte: a leggere il Malipiero si ha l'impressione che, a partire dallo scoppio del conflitto, il maggior pericolo per le mude veneziane sia stato rappresentato dai pirati provenzali e catalani, segno che le vie di Ponente erano le più battute: nel '67 si tratta di recuperare una galera naufragata presso Siviglia mentre tornava dalle Fiandre, due anni dopo si dà la caccia ad un corsaro gallego, nel '76 la minaccia è costituita da pirati provenzali, nell'81 sono i Genovesi, nell'agosto '85 tocca a "Colombo corsaro, el zovene, fio de Colombo corsaro" impadronirsi presso capo San Vincenzo, nell'Algarve, di un intero convoglio, per cui il senato si sente in dovere di inviare addirittura "Geronimo Donado, dottor ambassador, in Portogalo", per ringraziare il re Giovanni II dei soccorsi prestati ai superstiti del saccheggio (102).
Tuttavia, la morte di Maometto e la conseguente guerra scoppiata tra i suoi figli favorirono un rapido reinserimento degli operatori realtini nelle antiche piazze; solo a partire dall'84, infatti, Bayezid, ormai saldamente al potere, cominciò a praticare una politica attiva, ossia volta all'espansionismo militare.
Nel giugno di quell'anno intraprese una campagna contro il voivoda di Moldavia, Stefano, al quale con un fortissimo esercito riuscì a strappare Moncastro, principale porto sul mar Nero; quindi fu coinvolto in una serie di guerre, di esito alterno, con il sultano d'Egitto.
Questo rappresentava per Venezia una minaccia gravissima: l'occupazione ottomana degli scali siriaci avrebbe privato i suoi mercanti della libertà di commercio, con conseguenze disastrose, molto più - ad esempio - di quelle derivate dalla perdita di Negroponte, che pure era stata avvertita come una calamità.
Né era solo la Repubblica a temere le mire di Bayezid: nell'86 il bey di Tunisi si fece invano promotore di un'iniziativa di pace fra i due sultani. Un anno dopo il senato tornava ad inviare a Costantinopoli Giovanni Dario, per giustificare la Signoria del rifiuto opposto alla flotta ottomana circa la concessione di un porto a Cipro, per muovere contro gli Egiziani, e intanto ordinava al capitano generale da Mar, Francesco Priuli, di rinforzare i presidi dell'isola.
A Venezia i timori crescevano sempre più: si sapeva che Bayezid disponeva di una armata navale superiore alle cento vele e che fortificava Laiazzo, nell'Anatolia meridionale, proprio di fronte a Cipro. Per difendersi dal sultano del Cairo, diceva.
Quanto all'isola, economicamente e politicamente era in mano dei Veneziani, ma giuridicamente era pur sempre un Regno con una propria corte, e per di più vassallo dell'Egitto.
Inoltre Caterina regnava da sola da molto tempo, dal '73, ma era ancora giovane e avrebbe pur sempre potuto passare a nuove nozze...
Bisognava agire. L'occasione contingente venne fornita dall'ennesimo tentativo di far sposare la Corner con un Aragonese, stavolta organizzato dall'astuto Rizzo de Marino, un napoletano ch'era stato tra i più fidi sostenitori di Giacomo II, e poi divenuto ciambellano del Regno (103).
Catturato, venne portato a Venezia dove fu inquisito e condannato a morte dal consiglio dei dieci, dopo di che il senato risolse di rompere gli indugi. Per vincere la prevedibile resistenza di Caterina, si pensò di ricorre a suo fratello, Giorgio Corner: sarebbe toccato a lui convincerla a far buon viso a cattiva sorte, ad accettare la volontà della patria e salvare così la propria famiglia, assicurandone per sempre le fortune (104).
L'operazione scattò in pieno inverno, quando le flotte delle potenze stavano ritirate negli arsenali; la squadra veneta, al comando del Priuli, sbarcò a Cipro il 24 gennaio 1489. Non ci fu spargimento di sangue: semplicemente, le truppe venete disarmarono le milizie greche, sostituendosi ad esse.
Poi il Corner spiegò alla sorella il senso di quanto stava succedendo: il consiglio dei dieci voleva l'isola, in cambio della quale le concedeva onori regali, il feudo di Asolo, lo stesso appannaggio di cui attualmente godeva. Disse anche che una sua opposizione avrebbe comportato la disgrazia di tutta la famiglia, della vecchia madre, di lui stesso, mentre l'annessione sarebbe stata comunque condotta a termine, poiché questi erano gli ordini impartiti al Priuli.
Priva di alternative, Caterina cedette. Un mese dopo, il 26 febbraio, rinunciava formalmente al possesso di Cipro fra il rimpianto dei sudditi, e s'imbarcava alla volta di Venezia, dove giunse il 6 giugno, accolta con gran solennità dal doge Agostino Barbarigo e da tutta la signoria. Fu portata in Bucintoro a San Marco, dove ripeté la donazione, quindi si recò ad Asolo.
Non avrebbe mai dimenticato la luce della sua isola; in compenso Giorgio venne nominato cavaliere ed insignito della prioria di Cipro, costituita da ben quattordici latifondi. Era la sanzione ufficiale delle fortune economiche e politiche dei Corner che, da allora, avrebbero potuto annoverare, nel solo campo delle carriere ecclesiastiche, ben sette cardinali.
L'operazione fu gestita da parte veneziana con rapidità ed efficacia, e fu premiata dalla fortuna. Colti di sorpresa, paralizzati dalle reciproche rivalità e diffidenze, gli altri stati non si mossero, accettando il fatto compiuto (105).
Bayezid non aveva certamente la statura del padre, che non avrebbe fatto passare tanto liscio il colpo di mano su Cipro ai Veneziani; col nuovo sultano questi ultimi ebbero dunque rapporti contrastanti, ispirati più ad una tattica contingente, modificabile secondo le circostanze, che ad una strategia di largo respiro. Certo, ne temevano la forza e le iniziative (nel giugno '93, ad esempio, 5.000 Turchi occuparono Segna nel Quarnaro) e tra il 1499 ed il 1503 gli mossero anche guerra, ma questo non impedì che nel giugno 1495 e nel luglio 1509, in due momenti assai difficili per la Repubblica, fosse proprio il sultano a prendere l'iniziativa di mettere le sue truppe a disposizione della Signoria, proponendo un'alleanza militare.
Questa diminuita pressione da parte ottomana consentì pure a Venezia di vagheggiare periodicamente, approfittando di talune congiunture favorevoli, la riconquista delle posizioni perdute nell'Albania: un'operazione che sarebbe stata grandemente favorita dal possesso di basi sicure nella Puglia; di qui l'attenzione che il governo marciano rivolse a questo settore, particolarmente dopo il passaggio delle isole Ionie sotto la dominazione turca.
L'occasione si presentò allorquando la discesa in Italia di Carlo VIII venne a sconvolgere definitivamente gli equilibri sui quali da tempo ormai si reggeva l'assetto politico della penisola.
L'evento - dopo il quale nulla fu più come prima - venne subito percepito come gravissimo anche da parte di Bayezid, che nel novembre 1494 inviò un ambasciatore a Venezia.
A la Porta [questo il senso della missione, secondo il giudizio del Malipiero> è stà stimà grandemente i progressi del re Carlo de Franza in Italia: e vedendo che l'haveva sul mar armada potente, ha fatto reveder le so Balie in modo che '1 poderà metter in acqua 120 vele a tempo nuovo; e ha fatto lavorar attorno i Dardaneli, e i ha presidiadi d'artegliaria; e ha mandà 3.000 giannizzeri a Galipoli, e un so fio a Negroponte e un altro a Metelin; e teme che el re Carlo no passa in Grecia con Gen soldan, e che '1 no sollievi quel paese contra de lui (106).
Il fatto è che Bayezid paventava una collusione tra la Francia e la Repubblica, che per lui sarebbe stata esiziale; accolse perciò con sollievo le assicurazioni della Signoria, e ancor più volentieri l'adesione di quest'ultima alla lega antifrancese, al punto da passar sopra l'occupazione della costa pugliese ad opera della flotta veneziana.
L'alleanza che avrebbe portato alla battaglia di Fornovo (6 luglio '95) venne firmata tra i principi cristiani il 31 marzo di quello stesso anno; in giugno Carlo iniziò a ripiegare verso la Francia, lasciando numerose guarnigioni nel Regno, e Venezia ne approfittò per impadronirsi di alcuni porti.
Agli inizi di luglio infatti, quasi contemporaneamente a Fornovo, il capitano generale da Mar, Antonio Grimani, prendeva Monopoli, e quindi Otranto, Brindisi, Polignano, Mola, Bari e Trani.
Conosciamo la dinamica della conquista di Monopoli grazie ad una lettera del provveditore dell'armata, Girolamo Contarini, riportata in estratto dal Nani. L'impressione è che il documento abbia subito qualche manipolazione successiva, e pure rispecchia in qualche modo l'atteggiamento mentale e le contraddizioni con cui i Veneziani vissero quell'intenso momento:
Questa è gran vittoria. La terra [scrive il Contarini> è fortissima da mar e da terra, è grande come Zara ed è più bella [...>. Dopo Napoli questa è la prima città del Regno. Tutta quest'armata è fatta ricca, nelle galee v'è tanta roba che non si sa dove metterla [...>; penso che la mia parte importerà 200 ducati [...>. Vorrei non avere niente, e non aver veduto tanta miseria [...>. In Venezia possono esser sicuri che, se questi della Puglia credessero che l'ill.ma Signoria tenesse questi luoghi, tutto questo Regno verrebbe alla sua divozione, ma si dice pubblicamente che si restituirà tutto al re Ferrandino [...>. Non si devono aver tanti rispetti [...>. Se si acquistasse questa Puglia si sarebbe patroni d'Italia, e non si averebbe da temere né li Turchi né altri. Noi mettiamo la vita senza temer di pericoli per acquistar stato alla Signoria, e non per restituir quello che noi guadagnammo colla punta della spada e col sangue (107).
Impossibilitata a sfidare il Turco nell'Egeo ed a rimettere piede nella Romània, Venezia cercava almeno di ampliare i suoi dominii italiani. Di fronte al perentorio manifestarsi delle preponderanze straniere, in un mondo in cui le grandi monarchie cristiane e islamiche relegavano a ruoli necessariamente subalterni gli stati minori, che altro le restava? Quale diversa carta avrebbe potuto giocare, tranne quella di battere sul tempo gli alleati di oggi e probabili nemici di domani, per diventare a propria volta una vera potenza, una costruzione politica insostituibile?
I negoziati di pace le diedero ragione, ma l'accontentarono solo in parte: mantenne Otranto, Brindisi e Trani, e restituì le altre città a Ferdinando di Napoli.
Dopo essersi lungamente diffuso sulle imprese di Puglia e Monopoli, d'improvviso, in data imprecisata, ma comunque situabile nella seconda metà del marzo 1496, il Malipiero annota:
È stà trattà de tuor Pisa in protettion, et è stà preso de no se impazar, perché i ha Zenoesi, Lucchesi e Senesi che li aiuta, e se puoi defender senza la Signoria (108).
Invece, qualche mese dopo Venezia era impegnata a fondo nella salvaguardia della "libertà" della ex repubblica marinara contro Firenze, che rivendicava l'antica supremazia: era anche questo un ulteriore sconvolgimento prodotto da Carlo VIII. Non sarebbe stata una guerra facile, e neppure vittoriosa, per la Repubblica di San Marco: fu l'ennesimo assurdo logoramento reciproco che gli stati italiani s'inflissero in quel periodo di per sé gravoso, oltretutto complicato dalla discesa effettuata nella penisola dal re dei Romani, Massimiliano, che diceva di voler combattere i Francesi.
In Toscana la Signoria inviò stradioti, e a Pisa molti denari, ma già a fine anno si dubitava della bontà dell'iniziativa.
"Le cose di Pisa va mal per la Signoria", ripetono concordi le fonti, a cominciare proprio dal Malipiero, che nell'autunno '96 comandò una squadra veneta inviata contro Livorno, nella vana speranza di strappare quel porto ai Fiorentini.
Fra il 1495 e tutto il 'g8 insomma, ossia sino alla pace stipulata dalla Repubblica con Firenze (6 aprile '99) ed all'alleanza con la Francia di Luigi XII in funzione genericamente antiturca (trattato di Blois del 15 aprile '99), la flotta veneziana fu costantemente impegnata nel Tirreno e, a sud, contro i presidi francesi di Gaeta e Taranto.
Non ne uscì rafforzata, ma logorata nei mezzi e negli uomini.
Già il 21 marzo 1495 il provveditore dell'armata Girolamo Contarini, in caccia del corsaro Camalì, aveva denunciato al senato l'indisciplina e la sfiducia che serpeggiavano tra gli equipaggi posti sotto il suo comando: preso contatto col nemico,
mi abocai [egli scrisse> con la galia Sebenzana [di Sebenico>, et mi dolsi che si navigava di quella maniera: mi fu risposto per il suo comito, che 'l corsaro era troppo grosso, et che non era da investirlo. Queste parole, Serenissimo Principe, tolsero il cuor alle ciurme, et mi misero in disperazion; in modo che [...> feci ad essa galia un commandamento in vose, perché non si poteva farlo in scrittura: che 'l mi dovesse seguir, sotto pena della disgrazia di Vostre Eccellentie; et mi fu risposo in modo non conveniente (109).
Né rimase, quella del Contarini, una voce nel deserto: altri precisi segnali, altri campanelli d'allarme si fecero sentire, in quel torno di anni, a proposito delle cattive condizioni in cui versava l'armata marittima della Repubblica. Non se ne fece nulla (110). Era un momento di transizione, di grandi mutamenti che trovavano impreparati i Veneziani: nel settore mercantile il sistema delle mude con galere stava per essere soppiantato da quello, più flessibile e conveniente, delle navi armate; in quello militare la flotta scarseggiava di equipaggi e la sua consistenza non era ormai più tale da consentirle di controllare il Mediterraneo, ma solo l'Adriatico e parte dei mari italiani.
In queste condizioni il confronto con gli Ottomani avrebbe costituito un azzardo, come dimostrerà la guerra intrapresa con essi di lì a poco, avanti che il secolo finisse, nel '99.
Non è ben chiaro per quali ragioni sia scoppiata questa guerra. Quel che è certo è che essa non giunse al termine di un processo di reciproco logoramento, non ebbe insomma i caratteri dell'ineluttabilità com'era avvenuto per la precedente: ci fu, ma avrebbe potuto benissimo non essere mai stata combattuta.
Vero è che gli incidenti tra galere veneziane e turche non mancavano, ma Bayezid era impegnato contro i Polacchi e di nemici cristiani sul mare ne aveva da scegliere: nella primavera del '98 il Malipiero annota come "rissona da ogni banda che el Turco manderà l'armada a Rhodi"; qualche mese dopo un loro esercito, forte di 20.000 uomini, devastava Lubiana ed altre terre imperiali spingendosi sino in Friuli, "ma ne i luoghi della Signoria [ricorda sempre il cronista> i ha pagà tutte le vittuarie, e no ha fatto danno alcun".
Tuttavia nell'estate, e più precisamente il 3 agosto,
el proveditor Pesaro s'ha scontrà [...> in uno schirazo turchesco de 300 bote, ben armado; et havea su 150 turchi, i quali ha fatto gran danno con le frezze e con le arteglierie a la galia del proveditor: ma finalmente l'è stà butà a fondi, e i turchi è tutti perfidi; e 86 homeni della galia del proveditor è restadi feridi, e io morti (111).
Ora, siccome la squadra veneziana era di cinque galere e la nave turca, per quanto benissimo armata era pur sempre sola, pare verosimile che siano stati i cristiani a prendere l'iniziativa, magari per ritorsione o per vendicare chissà quale violenza o ingiuria. Dunque gli attriti c'erano; quello che mancava però, almeno per parte turca, era un obiettivo preciso, un luogo o un territorio da rivendicare, a meno che essi non intendessero semplicemente ostacolare l'inserimento dei loro antichi avversari in quel litorale pugliese da cui erano stati ingloriosamente cacciati.
La flotta veneziana, s'è visto, non versava in buone condizioni e la Repubblica era esausta per i troppi impegni affrontati, buon ultimo quello pisano; da Costantinopoli Andrea Gritti faceva pervenire notizie allarmanti, che il sultano aveva ordinato di allestire una grande flotta.
I1 15 gennaio '99 il senato deliberò quindi di armare trenta galere, "per esser parechiadi in ogni besogno che turchi rompesse da qualche banda contra la Signoria", ed alla fine del mese seguente Andrea Zantani giungeva alla corte del sultano con doni per il valore di 4.000 ducati: "fo ben visto" chiosa il Malipiero, e siamo pronti a credergli.
Si acceleravano i preparativi di guerra; il 14 aprile era eletto capitano da Mar per la terza volta il ricchissimo Antonio Grimani, procuratore di San Marco e padre del cardinale Domenico. Aveva cercato, sia pure senza troppa convinzione, di evitare la nomina, offrendo denaro per la guerra, ma il senato confermò fiducia all'uomo che aveva conquistato Monopoli.
Non fu una buona scelta, ma forse la storia è stata troppo severa col Grimani, facendogli carico di circostanze che trascesero la sua responsabilità (112).
L'indomani, 15 aprile, come si è detto veniva annunciata l'alleanza fra la Repubblica e Luigi XII: la lega alzava la bandiera antiturca, ma il suo obiettivo era Milano. Ludovico il Moro si affrettò a spiegare al sultano che il momento buono per assalire Venezia era proprio quello in cui essa si apprestava ad invadere il Milanese. Può darsi che la fondatezza del ragionamento abbia contribuito a far decidere Bayezid, ancora incerto su chi e dove attaccare (agli inizi di maggio arrivava a Venezia lo Zantani, dicendosi sicuro che gli Ottomani si sarebbero diretti a Rodi); intanto il 9 giugno l'armata ottomana, forte di 250-300 unità, lasciava il Bosforo puntando verso la Morea. L'obiettivo dunque era qualche luogo dello stato da Mar.
La flotta comandata dal Grimani - la più potente mai messa assieme da Venezia - era invece salpata dal Lido da oltre un mese, sin dal 2 maggio, dirigendosi alla volta di Modone con 46 galere ed altri legni minori, per un totale di 117 vele. L'armata turca quindi era ben più consistente, ma la veneta disponeva di un maggior numero di navi grosse, sulle quali erano imbarcati dai 20 ai 25.000 uomini; di conseguenza tutto sarebbe dipeso dal vento: se fosse stato favorevole il vantaggio sarebbe andato ai Veneziani, se invece non fosse risultato buono, allora la flotta turca avrebbe potuto agevolmente circondare l'avversario.
All'inizio di agosto Grimani venne informato che la squadra ottomana, che si credeva puntasse su Lepanto in concomitanza con l'approssimarsi a quella volta dell'esercito, aveva molto sofferto per una burrasca in cui s'era imbattuta al largo di capo delle Colonne (l'attuale capo Matapan), e si diede ad inseguirla per sfruttare il vantaggio.
L'aggancio tra le due flotte avvenne allo Zonchio, ed un primo scontro ebbe luogo il 12 agosto. Scrive il Nani:
Il nostro generale, che fin a quest'ora era stato un Ettore, si perdette di cuore e di animo, dappoiché ebbe veduta l'armata turchesca [è un giudizio stilato post res perditas, vero solo in parte: poiché il Malipiero precisa che sin dalla seconda metà di giugno Grimani aveva> rechiesto due volte la Signoria, che ghe faccia saver chiaramente, se scontrandose in l'armada del turco, e habbiando occasione de invaderla, die' farlo: e no ghe è stà ditto altro (113).
Bisogna dunque distinguere fra una prudenza strategica chiaramente imposta dal senato, e la successiva incapacità tattica di cui il capitano da Mar diede prova, una volta presa la decisione di dar battaglia. La quale, a dire il vero, non ci fu, o meglio si risolse in una serie di scontri parziali e inconcludenti, avvenuti fra le isole di Sapienza e di Zante nei giorni 12, 20, 22 e 25 agosto, nel corso dei quali i Veneziani non si dimostrarono in grado di sfruttare convenientemente l'artiglieria: in questo settore, solo a Lepanto essi sarebbero riusciti a capovolgere la loro inferiorità rispetto all'avversario.
Inutili risultarono quindi i rinforzi pervenuti nel frattempo al Grimani, da parte di una squadra francese e del provveditore di Corfù, il valoroso Andrea Loredan: le testimonianze concordemente affermano che il comandante mancò di coraggio, e soprattutto che non riuscì a farsi obbedire dai propri subalterni; di fronte ai primi atti di inadempienza avrebbe dovuto infatti comminare punizioni esemplari, e invece non fece nulla, favorendo in tal modo il propagarsi dell'indisciplina nell'armata. Secondo il Malipiero - che prese parte alla battaglia come responsabile di un settore della flotta - il Grimani non seppe neppure provvedere a soccorrere i feriti e raccogliere i naufraghi, come invece fecero i Turchi; e valga per tutti questo suo amaro sfogo sulla vicenda del 12:
Se allora le sole galie grosse havesseno investido l'armada del turco, l'haveriano tutta fracassada. Tutta la ciurma cridava: addosso addosso; et questi cani de i patroni mai non volseno investir.
Ascoltiamone ancora le conclusioni, in una falsa lettera ch'egli immagina spedita da un anonimo testimone degli scontri il 2 settembre, da Zante:
Se havessimo maggior armada, seria maggior confusion; tutto procede da poco amor verso la christianità et verso la patria; da poco cuor, da poco ordene, e da poca reputazion. L'armata turchesca andò a Lepanto [...>; et hebbe la terra subito. Tutti i homeni da ben de questa armada, che pur ghe ne son molti, piangono, et chiamano traditor el capitanio, che non ha havuto anemo de far il debito suo (114).
I successi di Lombardia, la conquista di Cremona non potevano compensare lo smacco subito, la "poca reputazion" che ormai accompagnava il nome veneto nel Levante.
Naturalmente si corse ai ripari: furono subito inviati rinforzi a Corfù, i sopracomiti colpevoli vennero incarcerati ed il 15 settembre il Grimani era sostituito nel comando con Melchiorre Trevisan; ancora, si spedirono ambasciatori in Francia ed in Ungheria per sollecitare aiuti contro gli Ottomani e contemporaneamente si dava incarico ad Alvise Manenti, ch'era già stato a Costantinopoli nel 1481, di allacciare trattative con il sultano.
Al Grimani non furono risparmiate umiliazioni plateali (forse per accontentare il popolo, che ora pretendeva un capro espiatorio, dopo aver salutato la partenza per la Grecia di quello stesso uomo, appena qualche mese prima, con plebiscitario entusiasmo (115)); Antonio Grimani dunque venne condotto in ceppi a Venezia e posto in carcere.
Ci rimase sette mesi, ma al processo, nonostante le precise accuse dell'avogador Nicolò Michiel, la pena fu mite: relegazione nell'isola di Cherso, nel Quarnaro. D'inverno soffia la bora da quelle parti e così, forse per fuggire quel clima insopportabile, nell'ottobre 1502 scappò a Roma presso il figlio cardinale; sette anni dopo fu graziato e visse così a lungo da diventare addirittura doge, nel '21. Breves et incerti non furono evidentemente solo gli odi e gli amori dei Quiriti...
Dunque si sapeva che la colpa dell'insuccesso non poteva esser fatta ricadere solo sul capitano da Mar; ed infatti neppure il suo successore ebbe maggior fortuna sul teatro delle operazioni: per compensare la perdita di Lepanto il Trevisan cercò di avere Cefalonia, ma l'assedio si rivelò più difficile del previsto e le truppe veneziane si impegnarono inutilmente per lunghi mesi, dal dicembre '99 al febbraio dell'anno seguente (116).
L'aprirsi del nuovo secolo vedeva l'esercito della Repubblica vittorioso a Novara (10 aprile), per cui la Ghiara d'Adda entrava a far parte dei dominii marciani, ma la Francia e la Spagna, che Venezia sperava di avere alleate contro il Turco, guardavano ormai al Meridione della penisola. In primavera s'ebbe notizia che Bayezid avrebbe mosso contro Modone e Nauplia sia per terra che per mare, e il senato decise di sostituire il Trevisan nel comando, a motivo delle sue cattive condizioni di salute.
Il 28 luglio riuscì eletto Benedetto Pesaro di Pietro; a quella data il suo predecessore era morto da undici giorni, a Corfù.
In attesa che il nuovo capitano da Mar raggiungesse la flotta, il comando delle operazioni venne temporaneamente assunto dal provveditore Girolamo Contarini, che già abbiamo avuto modo di incontrare (117); in ottemperanza agli ordini già emanati dal Trevisan, questi mosse incontro al nemico, che incontrò schierato in ordine di battaglia presso lo Zonchio.
Lo scontro avvenne il 24 luglio 1500, e ancora una volta quella che doveva essere una clamorosa vittoria si tramutò in uno scacco, nell'ennesimo vano sforzo di inseguire il confronto decisivo. Il Contarini si batté benissimo - "più da soldato che da capitano", scrive il Cogo (118) -, ma tra i suoi subalterni si rinnovarono le disobbedienze e le codardie dell'anno prima, e questo segnò la fine di Modone, e poi di Corone e quindi di Zonchio.
Neanche l'arrivo a Corfù di Consalvo di Cordova, in ottobre, con una flotta spagnola valse a ribaltare la situazione: l'unica conseguenza positiva dell'apporto degli Iberici fu la conquista di Cefalonia, finalmente caduta in mano cristiana nel dicembre, dopo duro assedio, accompagnata da un felice colpo di mano sullo Zonchio. Ma ben presto Consalvo fu richiamato in Italia, a combattere i Francesi nel Regno, quale naturale conseguenza del trattato di Granada.
La guerra proseguì con alterna fortuna, senza troppa convinzione né dall'una né dall'altra parte: il nuovo doge Leonardo Loredan v'era personalmente contrario, ed il sultano si trovava minacciato dai Persiani; inoltre le tumultuose vicende che stavano interessando l'Italia, i successi dei Portoghesi nell'India rendevano controproducente sotto ogni riguardo la prosecuzione del conflitto, per entrambi i contendenti.
Tra l'inverno del 1500 e la primavera successiva il Pesaro, finalmente giunto ad assumere il comando delle operazioni, ottenne qualche buon risultato a Santa Maura e a Vodiza, nel golfo di Arta, ma perse Zonchio. Inconcludente ai fini militari e politici si rivelò pure l'ennesima lega antiturca stipulata col papa e l'Ungheria, il 13 maggio 1501. Così, allorquando Bayezid fece intendere di essere disposto a trattare, il senato inviò a Costantinopoli il segretario Zaccaria Freschi, nel settembre 1502, con ampio mandato; i negoziati furono difficili, come e forse più del solito, al punto che quando il veneziano rimpatriò, nell'aprile 1503, chiese di essere accompagnato da un emissario turco, per poter meglio giustificare la condotta tenuta nei colloqui col visir Hersekoglu Ahmed (119).
La pace, ingloriosa, fu sottoscritta il 20 maggio 1503: Venezia perdeva Modone, Corone, Zonchio e Santa Maura, da poco acquistata con le armi; conservava Cefalonia e Zante, quest'ultima dietro versamento di un tributo annuo di 500 ducati; inoltre le era garantita la libertà di commercio, secondo le clausole del 1481.
Si è accennato che, fra le cause che spinsero alla pace Veneziani e Turchi, occorre considerare la negativa congiuntura che molti paesi mediterranei attraversarono tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo.
Sin dallo scorcio del '400, ha fatto notare Ugo Tucci, l'oro africano non raggiunge più l'Europa con la frequenza e l'abbondanza di un tempo, poiché i Portoghesi lo stornano verso l'India (120).
I Portoghesi. Circumnavigando l'Africa hanno alterato i tradizionali circuiti commerciali, rompendo il monopolio delle spezie. Le fonti più autorevoli, a cominciare da Sanudo e Priuli, fanno largo spazio alle lettere con cui Pietro Pasqualigo informava da Lisbona, sotto la data del 27 giugno 1501, che sette delle tredici navi spedite in India erano tornate con le stive piene; notizie che diedero "molto che pensar a quelli di questa terra [...> et li merchadanti dubitava assai fusse la mina": e quando nel 1507 i Portoghesi giunsero a stabilirsi permanentemente a Calicut, per il terminal di Gedda, nel mar Rosso, fu davvero rovina (121).
Una indiretta riprova di queste nuove difficoltà per il commercio veneziano può essere fornita dalla creazione, deliberata dal senato il 5 dicembre 1502, di una magistratura denominata Additio specierum, giunta alle spezie, presto seguita (15 gennaio 1506) dalla creazione dei cinque savi alla mercanzia: l'una e l'altra indici di un malessere dal quale neppure i Turchi furono esenti; i Turchi che peraltro non trovarono di meglio, per far quadrare le loro entrate, se non aumentare nel 1505 i dazi corrisposti dai Veneziani dal 2 al 5%, e, nel '16, ampliare il loro controllo delle coste mediterranee attraverso la conquista della Siria e un anno dopo dell'Egitto, inserendosi così direttamente nel commercio delle spezie e nel traffico dell'oro, a scapito dei Veneziani (122).
Tuttavia - forse proprio anche per queste ragioni - dopo il trattato del 20 maggio 1503 ci fu la pace, fra Venezia e la Porta, per oltre un trentennio.
Pace naturalmente nel senso che non si ebbero conflitti, il che non vuol dire che i rapporti fossero sempre idilliaci, tant'è vero che a più riprese, ad esempio, sia il papa Giulio II che l'imperatore Massimiliano cercarono di indurre la Repubblica ad aderire ad alleanze contro gli Ottomani; però giusto negli anni della lega di Cambrai l'Impero turco cessò di costituire una minaccia per il governo marciano, quasi a riprova del singolare legame che unì i destini e la storia dei due stati.
In fondo, gli accordi francesi del 10 dicembre 1508 prevedevano un'alleanza generale delle potenze europee contro gli Ottomani, alleanza dalla quale la sola Venezia era esclusa, e un mese dopo Giulio II dichiarava addirittura di temere una possibile intesa tra la Repubblica e la Porta, contro i collegati.
Non si trattava solo di parole, di schermaglie politiche: dopo la disfatta di Agnadello l'ipotesi di una richiesta di aiuto al sultano fu realmente dibattuta in senato. Il 13 luglio 1509 se ne fece portavoce lo stesso figlio del doge e futuro procuratore di San Marco, Lorenzo Loredan: né la sua proposta rimase l'iniziativa di un singolo, dal momento che la richiesta di cavalli e contingenti militari alla Porta - sia pure prudentemente mascherata dietro inviti ai sangiacchi bosniaci o albanesi - fu avanzata da più parti e a più riprese, ed effettivamente un reparto di alcune centinaia di soldati a cavallo (Schiavoni e Albanesi sudditi dei Turchi) fu impiegato con buoni risultati, anche di ordine psicologico, nell'estate 1509 tra Padova e Vicenza (123). La cosa non ebbe seguito, ché la Signoria ben si rendeva conto di come l'Europa cristiana e gli stessi sudditi non avrebbero tollerato una così grave provocazione; ma è certo che in quella congiuntura Bayezid manifestò costantemente "bon anemo" verso la Repubblica, tanto più che la perdita dei porti pugliesi (verificatasi sin dal giugno 1509 in favore della Spagna) cessava di consentire all'antico rivale una politica potenzialmente minacciosa verso i dominii ottomani dell'altra sponda dell'Adriatico.
La ripresa, nel 1510, della muda di Costantinopoli dopo un'interruzione che durava ormai da diciott'anni rappresenta in ogni caso la miglior prova delle buone relazioni allora esistenti tra Venezia e la Porta.
Tra le numerose concause che possono spiegare la riscossa veneziana seguita al disastro del 14 maggio 1509 va quindi annoverata la politica di buon vicinato perseguita in quegli anni tra la Repubblica e la Porta, con l'indispensabile partecipazione dell'Ungheria. Dal 1504, ossia all'indomani dell'ultimo conflitto turco-veneto, fra questi tre paesi si instaurò infatti una sorta di patto di reciproco rispetto, quasi un noli me tangere basato su accordi bilaterali estesi nell' 11 a tutti e tre gli stati; si spiega in tal modo la mancata adesione ungherese alla coalizione antiveneziana, che si sarebbe inevitabilmente tradotta nell'occupazione della Dalmazia - proprio allora pervasa da fermenti di rivolta -, con gravissime conseguenze sulla tenuta dei dominii marciani nell'Adriatico.
Fu così possibile alla Serenissima resistere ai vincitori, eludere di fatto - per esempio - le capitolazioni concordate col pontefice il 21 dicembre 1509, in base alle quali essa s'impegnava a rinunciare al monopolio della libertà di navigazione nel Golfo (124); non solo, Venezia fu in grado di inviare la flotta all'assedio di Trieste (agosto 1509), di manovrare sul Po, di portare la guerra addirittura nel Tirreno, tentando la conquista di Genova (estate 1510).
In altri termini, la saldezza dello stato da Mar e la pace ad Oriente consentirono alla Signoria di superare la fase più critica dell'offensiva mossale dall'Europa.
Nel '12, poi, moriva Bayezid e gli succedeva il figlio Selim, dopo l'immancabile cruenta lotta domestica. Il nuovo sultano non regnò a lungo, solo otto anni, sinché nel '20 gli subentrò Suleyman II, che noi conosciamo come Solimano il Magnifico o il Legislatore, il quale avrebbe retto l'Impero ottomano nel periodo del suo maggior splendore per quasi mezzo secolo, fino al 1566.
Selim I si occupò ben poco dell'Occidente, preso come fu dai problemi che gli derivavano ai confini con la Persia dal movimento religioso dei Safavidi; vittorioso su questi ultimi nel '14, si volse - come si è accennato - verso il Regno dei Mamelucchi, impadronendosi della Siria e dell'Egitto (1516-1517) ed assumendo in tal modo la tutela dei luoghi sacri dell'Islam, che sino ad allora erano spettati al sultano del Cairo. Ancora, nel '19 il famoso corsaro Khair ed-din, detto Barbarossa, lo riconosceva come alto signore di Algeri.
Suo figlio Solimano fu però uomo di ben altra levatura; dopo la conquista di Rodi (attaccata il 10 giugno, presa il 26 dicembre 1522), nel '24 entrò a Baghdad, poi si spinse risolutamente in direzione dei Balcani, dove occupò Belgrado; quindi, al termine di una fulminea campagna, il 28 agosto 1526 sconfisse a Mohàcs gli Ungheresi, il cui re Luigi Il Jagellone trovò la morte sul campo di battaglia: nell'Adriatico, Ragusa passava sotto la sua protezione.
Più nulla ormai lo separava, per terra e per mare, dai domini di Carlo V, specie quando, potenziata la flotta sotto il comando del Barbarossa (125), la trasformò da componente ausiliaria dell'apparato militare turco, quale sino allora era stata, in una forza autonoma: perciò fu, il loro, l'inevitabile scontro di due colossi, entrambi protesi verso il sogno di una monarchia universale.
In questi termini, Venezia era una potenza secondaria ed il ruolo da essa svolto in tale periodo sul piano politico-militare non poteva che essere marginale. Questo le regalò alcuni anni di pace, ma il senato si rendeva ben conto che la conquista dell'Egitto e la successiva espansione turca lungo la costa africana comportavano un incremento dei contatti e dei traffici tra Costantinopoli ed il Mediterraneo centrale, in seguito al quale i possessi veneziani di Cipro e Candia avrebbero finito per risultare dei corpi estranei, se non dei veri e propri ostacoli all'omogeneità dell'Impero ottomano.
Cipro e Candia, ma anche Rodi.
Per fortuna della Serenissima, i fulmini di Solimano si riversarono proprio contro i Giovanniti, il secolare nemico che, diversamente dai Veneziani, neppure contribuiva con i dazi a rimpinguare le finanze ottomane. Quando se ne ebbe avvisaglia, nella primavera del '21 il senato spedì in Levante una flotta di quaranta galere, col compito di intervenire solo nel caso l'aggressione fosse rivolta a Cipro, quindi inviò a Costantinopoli Marco Minio per rinnovare con Solimano il trattato di pace, che venne firmato l'11 dicembre 1521 (126); per quanto poi concerneva i cavalieri (con i quali i rapporti non erano mai stati eccessivamente cordiali), la Repubblica non solo si guardò bene dal porgere loro il benché minimo aiuto, ma nell'aprile '23 affidò addirittura a Pietro Zen il compito di congratularsi col sultano per l'acquisto dell'isola... (127).
Dopo Rodi, i Turchi si volsero contro l'Ungheria e Venezia si trovò le mani libere per poter badare alle vicende della penisola; il 22 maggio 1526 aderiva alla lega di Cognac nell'estremo tentativo di contenere la preponderanza spagnola.
Durante l'estate la flotta veneta comandata da Alvise d'Armer, in unione a quelle pontificia e francese, si limitò a qualche azione dimostrativa (portata avanti fiaccamente e senza convinzione) contro la riviera ligure: in realtà il senato non aveva alcun interesse ad occupare Genova o Napoli - quest'ultima fatta oggetto di blocco navale nella primavera dell'anno successivo, ad opera del nuovo provveditore Agostino da Mula -, mentre la sua attenzione era nuovamente rivolta ai porti della Puglia, ch'era stato costretto a cedere dopo Agnadello.
Così, quando all'inizio del '28 Odet de Foix, visconte di Lautrec, lascia Milano alla testa delle truppe francesi per muovere alla conquista del Regno, scendendo la penisola lungo l'Adriatico, Venezia è pronta a richiamare la squadra dal Tirreno, facendola concentrare a Corfù (128).
La comanda il futuro doge Pietro Lando, che giunge a Trani il 13 aprile '28, quando la maggior parte della regione ha già innalzato le insegne degli alleati: solo Otranto, Taranto e Gallipoli restano in mano degli Spagnoli.
All'inizio di maggio il Lando riceve l'ordine di muovere verso Napoli; obbedisce a malincuore, lasciando a proseguire le operazioni in Puglia il provveditore da Mula ed il capitano in Golfo, Almorò Morosini.
A Napoli la collaborazione coi Francesi si rivela difficile, mentre le operazioni militari ristagnano e la peste falcidia le truppe degli alleati: il 17 agosto, con la morte dello stesso Lautrec, la spedizione può ritenersi virtualmente conclusa, ed infatti appena due settimane dopo il suo successore, il marchese di Saluzzo, capitola ad Aversa.
Malgrado la piega negativa presa dagli avvenimenti, nonostante la maggior parte del territorio fosse prontamente tornata all'obbedienza degli Ispano-Imperiali, Venezia cercò comunque di difendere i porti pugliesi.
A ottobre il da Mula è sostituito da Giovanni Contarini, il temerario "Cazza-diavoli", per metà comandante nell'armata e per metà corsaro, uno dei pochi che la storia veneta possa annoverare (129); con le sue navi (cinque galere ed una galeotta) nella primavera del '29 questi collabora a difendere il Gargano, che il provveditore generale Giovanni Vitturi ed il comandante dei reparti al soldo dei Francesi, Lorenzo Orsini detto Renzo da Ceri, avevano occupato sin dal dicembre nell'intento di farne una testa di ponte contro gli Spagnoli. Costoro infatti non disponevano di una flotta nel Regno, e quindi il promontorio ben si prestava a rappresentare una sorta di fortezza naturale.
Quando poi, in marzo, il comandante degli Imperiali, Alfonso d'Avalos marchese del Vasto, si accinse all'assedio di Monopoli, la galera del Contarini divenne (la testimonianza è del Vitturi) quasi una "barca de traghetto", adoperandosi infaticabile nella spola tra i diversi centri pugliesi per portar uomini, munizioni, viveri.
La tenace resistenza dei collegati fu premiata: dopo due mesi di assedio, visto inutile ogni sforzo e premuto dal serpeggiare della peste tra i suoi soldati, il Vasto si ritirava. Ora l'iniziativa passava ai Franco-Veneti, ed il Vitturi riuscì ad ottenere dal senato che il Contarini continuasse ad operare nel basso Adriatico, anziché ricongiungersi con l'armata francese nel Tirreno.
Il fatto è che ormai a Venezia si sapeva delle trattative in corso tra Francesco I e Carlo V; la guerra volgeva al termine ed il buon senso suggeriva di pensare al proprio tornaconto, di acquistare la Puglia, se possibile (magari per valersene in futuro quale ipotetica merce di scambio), anziché impegnare la flotta nel Mediterraneo, in settori remoti e di scarso o nessun interesse per la Repubblica.
Così il "Cazzadiavoli" comparve il 10 luglio '29 con diciannove galere al capo di Santa Maria di Leuca, ed in breve ottenne la resa di numerose località della costa; il 18 cadeva Molfetta e qualche giorno dopo iniziava l'assedio di Brindisi.
Ma era tutto inutile: il 5 di agosto giungeva notizia della pace conclusa a Cambrai; l'impresa di Puglia, cominciata da parte della Repubblica quasi per inerzia, sulla scia della spedizione del Lautrec, era andata poi suscitando vecchie aspirazioni di conquista su terre già possedute, ed ora finiva con la delusione della rinuncia, dopo tanti sacrifici e tante spese.
A Bologna, in cambio dei porti pugliesi, di Cervia e di Ravenna, la Signoria avrebbe ottenuto dall'imperatore il riconoscimento dei suoi dominii di Terraferma e la sopravvivenza - sia pure per breve tempo - del Ducato milanese.
A partire dal 1523, nel Mediterraneo orientale non restavano che i possedimenti veneziani ad interrompere la continuità dell'Impero ottomano; tuttavia - come si è accennato - Solimano ingaggiò il suo duello con Carlo V, essendo giustamente persuaso che la Repubblica non costituiva una minaccia. Non da sola, almeno: la sua armata navale poteva essere pericolosa unicamente se unita a quella di un'altra grande potenza.
Per questo il governo marciano ispirò la sua condotta ad esemplare prudenza: non soltanto infatti lo stato usciva da un ventennio di guerre tanto impegnative quanto dispendiose, ma la stessa flotta versava in cattive condizioni, specie per la crescente difficoltà di procedere al reclutamento delle ciurme. Il fatto è che la consistenza delle squadre era aumentata a dismisura, con i Turchi che allestivano armate di centinaia di vele, mentre Venezia non poteva neppure far conto sulla superiorità qualitativa delle sue galere, dal momento che il loro livello tecnico non era cambiato granché, nonostante l'Arsenale fosse allora probabilmente la più grande industria d'Europa, che è come dire del mondo.
Nell'estate del '29, ad esempio, un plebiscitario tripudio accolse l'uscita in mare - avvenuta davanti al Lido - della quinquereme progettata da Vettor Fausto, un umanista che, anziché limitarsi a commentare codici greci, ebbe la malsana idea di sostenere di aver trovato in Archimede il segreto della costruzione delle più grandi navi dell'antichità, le quinqueremi appunto. Il Fausto non soltanto non venne rinchiuso, ma si procedette subito a dar corpo alla sua trovata. Le varie prove alle quali l'imbarcazione fu sottoposta fornirono risultati discordanti, ma tale era la forza di suggestione del progetto, che per decenni si continuò, di tanto in tanto, a riproporlo: ancora a fine secolo uno dei più valenti responsabili delle costruzioni navali nell'Arsenale, Baldassarre Drachio Quinzio, sentiva il bisogno di polemizzare, in uno scritto, contro la tenace fama di quello ch'egli giustamente definiva un "lazareto", buono solo a sterminare i rematori stipati in spazi troppo angusti (130).
Venezia dunque mai si discostò da una condotta estremamente prudente, addirittura conciliante con gli Ottomani: sin oltre la metà degli anni '30 il suo governo - ha scritto Cessi - "rifiutò sempre con energia di figurare in qualunque accordo internazionale, nel quale direttamente o indirettamente si parlasse di guerra al Turco; non partecipò alla difesa di terre cristiane aggredite dal Turco, da Rodi al continente europeo; non si associò alle imprese del Doria nell'Egeo, né a quella di Carlo V contro Tunisi, per quanto dovesse anch'esso soffrire della pirateria greca e africana" (131).
La situazione cominciò a precipitare dopo che il congresso di Bologna ebbe praticamente consegnato l'Italia nelle mani di Carlo V, estromettendone i Francesi; da allora il confronto tra i due Imperi si fece più serrato: il 24 marzo dello stesso 1530 Carlo infeudava Malta e Tripoli ai Giovanniti, mentre nell'aprile del '32 Solimano conduceva di persona un immenso esercito in Ungheria e, nell'Egeo, Andrea Doria guidava un'armata ispano-pontificia alla conquista (21 settembre 1532) di Corone.
La mossa era chiaramente provocatoria, e mirava a coinvolgere i Veneziani.
Sotto questo riguardo, però, i Turchi non erano da meno: nel giugno '33 alcune fuste barbaresche si impadronirono addirittura della galera sulla quale era imbarcato il capitano in Golfo, Francesco Dandolo, con le paghe degli equipaggi; per ritorsione, la notte del 10 novembre il provveditore dell'Armata, Girolamo Canal (132), investì nelle acque di Candia una squadra turca, procurandole gravi danni: di fronte alle rimostranze di Costantinopoli, il senato incaricò il segretario Daniele Ludovici di portare le sue scuse al sultano, assicurandolo che simili errori non si sarebbero ripetuti; il felice esito della missione venne accolto a Venezia con sollievo, quasi si fosse trattato di una segnalata vittoria.
C'è da chiedersi, dunque, perché, nonostante tanta arrendevolezza, nel '37 Solimano prendesse l'iniziativa di una guerra contro la Repubblica. Probabilmente si trattò di un'azione preventiva, almeno nella sua ottica.
Dopo l'annessione alla corona imperiale del Milanese (ottobre '35), Venezia infatti non poteva sottrarsi ad una scelta di campo: o si sarebbe schierata con la Francia per controbilanciare l'influenza spagnola nella penisola, o con Carlo per combattere gli Ottomani.
Così, allorché nel '36 venne rinnovata l'alleanza tra Francesco I e Solimano, col progetto di un contemporaneo assalto per terra e per mare contro i dominii di Carlo V, il 15 gennaio 1537 giungeva a Venezia un emissario turco, Janus Bey, per proporre alla Repubblica di aderire alla lega. Dal rifiuto di quest'ultima, la diplomazia franco-ottomana dedusse che la Repubblica inclinava, o stava per inclinare, verso l'Impero; pertanto il 26 agosto '37 una grande armata turca, comandata dallo stesso Barbarossa, compariva dinanzi a Corfù e vi sbarcava 25.000 uomini agli ordini di Lutfi Pascià.
L'isola però disponeva di ottime fortificazioni, che recentemente erano state anche accresciute, e a difenderla la Signoria aveva inviato il capitano generale da Mar Girolamo Pesaro, che poteva contare su quasi cento galere.
Furono respinti due attacchi degli Ottomani, sinché il 15 settembre costoro levarono improvvisamente l'assedio (forse perché la collaborazione con i Francesi cominciava ad incontrare difficoltà), spostando la loro aggressione contro Nauplia e Malvasia, ed abbattendo le superstiti dinastie feudali venete nell'Arcipelago, che ancora sopravvivevano a Sciro, Patmos, Paros, Stampalia (133).
Mentre i Veneziani riportavano taluni successi presso Scardona, in Dalmazia, da Costantinopoli parve trapelare "qualche lieve inclinazione alla pace", per usare l'espressione del Romanin.
Il dibattito che seguì in senato vide duramente contrapposti i fautori della pace e della guerra, ma alla fine (13 settembre) si decise di continuare a combattere. Vien da chiedersi perché Venezia, sempre così attenta ad evitare conflitti con i Turchi, questa volta - pur con risicata maggioranza - abbia mutato atteggiamento (134).
L'unica risposta è nella fiducia ch'essa nutriva nella grande lega che sembrava potersi realizzare fra i principi cristiani: nel novembre '37, infatti, venne stipulata una tregua di tre mesi fra l'imperatore ed il re di Francia, presto seguita (8 febbraio 1538) da un altro patto cui accedevano il papa e la Repubblica; di lì a qualche mese, infine (18 giugno), Francesco I e Carlo V firmavano gli accordi di Nizza.
Era tempo: proprio allora gli Ottomani muovevano all'offensiva sia in Dalmazia - dove strappavano ai Veneziani diversi centri, come Clissa, Vrana e Nadin (135) -, sia contro Candia, con sbarchi a Suda ed alla Canea, che vennero però respinti grazie alla coraggiosa difesa organizzata dai provveditori Giovanni Moro e Andrea Gritti. Nella Morea, Nauplia continuava a resistere.
La situazione era di stallo, giacché la flotta cristiana andava concentrandosi a Corfù, ma con eccessiva lentezza; alla fine di luglio vi si trovavano centoventi galere, formate dalla squadra veneta comandata da Vincenzo Cappello (136), da quella pontificia agli ordini di un altro veneziano, e cioè il patriarca eletto d'Aquileia, Marco Grimani, e dalla flotta napoletana condotta dal viceré Ferrante Gonzaga.
Si attendeva il comandante in capo, Andrea Doria, che però tardava a giungere, al punto che, insofferente di ulteriore indugio e all'insaputa (pare) di tutti, il 10 agosto il legato pontificio compì un'incursione a Prevesa, fortezza quasi inespugnabile all'imboccatura del golfo di Arta.
Poco credibili appaiono le giustificazioni addotte dal Grimani per spiegare il suo gesto, che comunque si risolse in un fallimento.
Finalmente, 1'8 settembre il Doria comparve a Corfù, con 49 galere, circa la metà di quelle che s'attendevano.
La sua successiva condotta giustifica pienamente le cause di tanta parsimonia, perché gli ordini ch'egli aveva ricevuto non prevedevano un attacco risolutivo, che alla fin fine avrebbe favorito soprattutto Venezia. Sotto questo aspetto, la battaglia che seguì fu in qualche modo la prefigurazione di Lepanto: anche qui la Spagna voleva fermare il Turco, farsi carico magari della crociata, ma non certo aiutare la Repubblica.
Così, allorquando il 25 settembre i collegati decisero di far uscire in mare una flotta che ormai raggiungeva la ragguardevole dimensione di 139 galere e 70 navi (137), apparve subito chiaro che il Doria non intendeva causare troppe afflizioni al Barbarossa.
L'aggancio tra le due flotte avvenne il giorno 27, al largo di Prevesa. Per due volte gli alleati ebbero l'opportunità di investire i Turchi da favorevole posizione, e per altrettante volte il comandante in capo si oppose alle richieste del Cappello e del Grimani: da ultimo il Doria lasciò le acque dell'Arta e riparò a Corfù (138).
Non c'era stata sconfitta, e neppure battaglia a dire il vero, se si eccettuano gli scontri isolati di taluni legni: d'altra parte non s'era avuta la vittoria, e questo mancato successo da parte dei collegati acquistò ben presto le dimensioni ed il significato di una manifesta inferiorità marittima nei confronti degli Ottomani, che ora potevano disporre del formidabile apporto dei Barbareschi.
La beffa della Prevesa - chiamiamola così - si tradusse per tutti (colpevoli o innocenti che fossero: Spagnoli, Pontifici, Veneziani, Genovesi, Maltesi, che c'erano anche loro) in un danno gravissimo, che negli anni a venire avrebbe comportato sacrifici e umiliazioni d'ogni genere...
Per tutti, e fino a Lepanto.
Il mancato scontro nel golfo di Arta costituì si può dire l'inizio e la fine del conflitto, che si trascinò poi stancamente sino all'inevitabile conclusione a favore di Solimano: infatti le trattative di pace - prontamente avviate dalla Repubblica dopo l'ennesima dimostrazione dell'inaffidabilità di una grande lega cristiana - vennero condotte in lungo solo perché i Turchi, con i quali negoziare fu sempre defatigante impresa, presero a giocare al rialzo.
Naturalmente in parallelo proseguirono le operazioni militari, ma senza troppa convinzione: il Cappello riuscì a conquistare Castelnuovo, presso Cattaro, ma la flotta del Barbarossa rimase a lungo alla Prevesa, di fronte a Corfù, mentre i pirati di Dragut correvano liberamente nel basso Adriatico.
La situazione di Venezia era difficile anche dal punto di vista socio-economico (una negativa congiuntura climatica determinò in quegli anni il succedersi di carestie) e finanziario, poiché il deprezzamento monetario che andava sviluppandosi proprio allora contribuiva a far lievitare i costi della guerra (139): una guerra, giova ripetere, che esigeva uno spiegamento di mezzi incomparabilmente superiore rispetto a quanto richiesto dai conflitti del secolo precedente.
Così, mentre il Cappello, malato, veniva sostituito nel generalato da Tommaso Mocenigo (il quale peraltro rimase pressoché inattivo, essendosi nel frattempo pattuita una tregua di tre mesi), sin dall'inizio del '39 la Signoria aveva affidato a Lorenzo Gritti - figlio naturale del defunto doge Andrea, e come il padre mercante a Costantinopoli il compito di sondare quali umori corressero sul Bosforo. Dopo di che, essendosi il Gritti dichiarato piuttosto gioviale che saturnino, l'11 aprile di quello stesso anno venne ufficialmente eletto Pietro Zen per recarsi a trattare col sultano.
Ammalatosi lo Zen, il 14 giugno fu sostituito nell'incarico da Tommaso Contarini (140), cui venne data facoltà di offrire a Solimano fino a trecentomila zecchini e la cessione delle località dalmate conquistate dalle sue truppe; inoltre la Repubblica s'impegnava a versare un annuo tributo in cambio del possesso di Nauplia e Malvasia.
Proprio su questo punto invece il negoziato falliva, ché il Contarini venne cacciato da Costantinopoli non appena ebbe manifestato l'indisponibilità veneziana alla perdita dei porti moreoti.
Di fronte all'intransigenza turca, stavolta il senato capitolò: era l'unica via per concludere un conflitto che ormai non poteva più essere vinto, che divorava le risorse dello stato e paralizzava i commerci.
Il senato, o meglio a decidere la resa fu il consiglio dei dieci, che sin dal 17 novembre '39 aveva deciso l'elezione di una zonta allo scopo di trattare la pace.
Quaranta giorni dopo, il 27 dicembre, veniva eletto un nuovo ambasciatore nella persona di Alvise Badoer, abile ed esperto diplomatico che due anni prima era stato presso Carlo V (141); le commissioni che gli vennero affidate ricalcavano da vicino quelle del predecessore (l'unica differenza consisteva in un aumento del tributo proposto per Nauplia e Malvasia), ma dopo la partenza riceveva segretamente nuove istruzioni dal consiglio, che acconsentiva quale ultima ratio alla cessione di una o addirittura entrambe le città.
Giunto a Costantinopoli alla metà di aprile del '40, il Badoer si scontrò subito con una insuperabile intransigenza dei suoi interlocutori, e questo perché i Turchi erano a conoscenza anche della parte segreta del suo mandato.
Gliel'aveva trasmessa l'ambasciatore francese, che l'aveva avuta dal collega a Venezia, cui era stata fornita da tale Agostino Abbondio al quale l'avevano passata Costantino e Nicolò Cavazza, segretari rispettivamente del consiglio dei dieci e del senato (142): tutto questo commercio nonostante la recente istituzione (20 settembre 1539) dei tre inquisitori di stato sulla propalazion dei segreti, come suonava l'esatta denominazione!
Due anni dopo il tradimento sarebbe stato scoperto, ma intanto il Badoer dovette accettare le peggiori condizioni: cessione di Nauplia, Malvasia e di qualche isoletta dell'Egeo (dove ormai Venezia avrebbe conservato solo Tine), pagamento di 300.000 ducati a titolo d'indennità, versamento di un annuo tributo di 500 ducati per Zante e di 8.000 per Cipro; in cambio, le solite garanzie sulla libertà di commercio (143).
Questi vergognosi capitoli avrebbero assicurato a Venezia la pace in Levante, che sarebbe poi durata trent'anni; con questa speranza il senato li ratificò il 2 ottobre 1540.
Si chiudeva in tal modo un'altra fase del secolare confronto nel corso del quale l'Impero ottomano riuscì a strappare ai Veneziani gran parte dei loro possedimenti greci e albanesi, ma non a distruggerne la presenza: la barriera rappresentata dalla Repubblica tra l'Europa cristiana e l'Islam avrebbe continuato ancora a lungo ad espletare la sua funzione.
1. Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, I-II, Torino 19762: I, p. XXVII.
2. Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, Jacopo Nani, Memorie sopra le militari imprese marittime de' Veneziani, cc. 4v-5. Quest'opera, la cui importanza mi è stata segnalata da Piero Del Negro, si articola in quattro torni che a loro volta costituiscono il primo dei cinque libri della ponderosa opera stesa dal Nani attorno alla metà del '700, e intitolata Della veneta milizia marittima (cf. su di essa: Filippo Nani Mocenigo, Giacomo Nani. Memorie e documenti, Venezia 1893, pp. 123-162; sul Nani, Piero Del Negro, Giacomo Nani. Appunti biografici, "Bollettino del Museo Civico di Padova", 60, 1971, pp. 115-147). Il torno citato copre gli anni 1400- 1569 ed è sostanzialmente una silloge di cronache e storie mano-scritte (tra le quali ampio spazio viene accordato, con funzione di raccordo, a quella del Molin, come esplicitamente dichiara l'autore all'inizio dell'opera: Memorie [...> tratte da soli manoscritti contemporanei [...> a cui sino all'anno 1612 servirono di connessione e legame li manoscritti postumi sulla marina, e commercio di Sebastiano Molin), tutte volte ad illustrare la grandezza della vocazione marinara della Repubblica, in evidente alternativa all'opzione espansionistica nella Terraferma ed alla conseguente politica di coinvolgimento nelle questioni italiane ed europee. Tale fonte è stata da me utilizzata soprattutto nella parte iniziale del presente lavoro. Sulla battaglia del 7 ottobre 1403, cf. Camillo Manfroni, Lo scontro di Modone, "Rivista Marittima", 30, 4, 1897, pp. 75-99, 3 19-341 ; Giacomo Dalla Santa, Uomini e fatti dell'ultimo Trecento e del primo Quattrocento. Da lettere a Giovanni Contarini, patrizio veneziano, studente ad Oxford e a Parigi, poi patriarca di Costantinopoli, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 32, 1, 1916, pp. 61 s. (pp. 5-105)
3. Freddy Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Âge. Le développement et l'exploitation du domaine colonial vénitien (XIIe-XVe siècles), Paris 1957, pp. 366 s.
4. Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, c. 12.
5. Per gli anni 1405-1408, cf. A.S.V., Senato misti, reg. 47, passim; per il materiale inerente alla concomitante conquista della Terraferma, considerato di natura riservata ed eccezionale, occorre rivolgersi alla parallela serie delle Deliberazioni segrete.
6. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 367; sui tentativi di Manuele per porre fine alla guerra veneto-ungherese, A.S.V., Senato deliberazioni secreta, reg. 6, c. 85; reg. 7, cc. 129v-130.
7. Scrive in proposito il Ventura: "Fondamento del dominio veneto rimase sempre e ovunque il diritto di conquista, oppure, in alcuni casi, di acquisto per cessione da parte di precedenti signorie (tali in realtà i casi di Corfù, Nauplia e Argo): mai un patto contratto consensualmente con i sudditi. Venezia non era certo disposta a consentire che la farsa rituale della `spontanea' dedizione, improvvisata all'ultima ora quando le sorti erano decise potesse in qualche modo limitarne la piena sovranità. Come rispondeva duramente il senato nel 1409 ai cittadini di Zara, su proposta del futuro doge Tommaso Mocenigo, non è costume della Signoria ῾ea, que debemus facere de gratia, facere per pactum expressum'" (Angelo Ventura, Il Dominio di Venezia nel Quattrocento, in Florence and Venice: Comparisons and Relations, a cura di Sergio Bertelli-Nicolai Rubinstein-Craig Hugh Smith, I, Florence 1979, pp. 172 s. [pp. 167-190>).
8. Vittorio LAZZARINI, L'acquisto di Lepanto (1407), "Nuovo Archivio Veneto", 15, 1898, pp. 276 s. (pp. 267-287).
9 Camillo Manfroni, La marina veneziana alla difesa di Salonicco. 1423-1430, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 20, 1, 1910, pp. 8-12 (pp. 5-68). Questo lavoro fa parte di una serie di lunghi articoli (che verranno via via indicati) mediante i quali, tra la fine del secolo scorso e gli inizi del presente, il Manfroni intese studiare la politica militare veneziana in Levante nel '400, sulla scorta di un metodo positivista non immune da evidenti coloriture nazionaliste, ma in grado di fornire una documentazione tuttora utile per quantità e precisione.
10. Jorjo Tadić, Venezia e la costa orientale dell'Adriatico fino al secolo XV, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I, Firenze 1973, pp. 690 s. (pp. 687-704).
11. Gaetano Cozzi-Michael Knapton, Storia della Repubblica di Venezia. Dalla guerra di Chioggia alla riconquista della Terraferma, Torino 1986, p. 198.
12. Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, c. 35v.
13. A. Ventura, Il Dominio di Venezia, p. 186. Come si è detto, il suggerimento del Contarini venne respinto, ma la sua stessa formulazione, nella fase iniziale della costruzione dello stato veneto, indica come il patriziato non avesse ancora un concetto esclusivo della gestione del potere nelle province di recente acquisto (cf. in proposito lo stesso Ventura nella Introduzione a Dentro lo "Stado Italico". Venezia e la Terraferma fra Quattro e Seicento, a cura di Giorgio Cracco-Michael Knapton, Trento 1984, p. 12 [pp. 5-151)
14. Alberto Tenenti, Venezia e la pirateria nel Levante : 1300 c.-1460 c., in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I, Firenze 1973, p. 713 (pp. 705-771).
15. Ibid., p. 765.
16. Ibid., pp. 759 s.
17. Cf. rispettivamente: Camillo Manfroni, La battaglia di Gallipoli e la politica veneto-turca (1381-1420), "Ateneo Veneto", 25, 2, 1902, p. 129 (pp. 3-34, 129-169) ; Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, cc. 39, 41, 50.
18. JEAN Richard, Chypre du protectorat à la domination vénitienne, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I, Firenze 1973, pp. 663 s. (pp. 657-677).
19. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 374. L'attacco veneziano era stato guidato dal capitano da Mar Andrea Mocenigo, che però dopo due mesi di assedio aveva abbandonato l'isola per l'approssimarsi della cattiva stagione ed il ventilato arrivo di una squadra genovese (Mario Nani Mocenigo, Un capitolare veneziano per il buon governo delle galere del 1428, "Archivio Veneto", ser. V, 6, 1929, p. 92 [pp. 83-117>).
20. Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, c. 47V.
21. Cf. su di lui la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XVIII, Roma 1975, pp. 796-799.
22. Il tutto in una lettera indirizzata dal sultano al doge, il cui laborioso (e ai nostri occhi singolare) proemio mi permetto di riportare nella traduzione ufficiale veneziana: "A la presentia del Doxe glorioso, magnifico e de gran autorità e antigissimo in nobilitade, da esser reguardao e grandamente honorado, Thomà Mocenigo, lo honor de la generation de Yesu Christo, congregador de queli che adora la croxe, Doxe de Venitiani, Crohatie, Dalmatie et Romanie, adornamento de i fioli del batexemo, amigo de i re e de i soldani, che Dio el mantenga per longi tempi in so stado! Lo Soldan excellente, lo possessor, lo re victorioso, signor glorioso, savio, zusto, conquistador, confermador e rezador de le riviere, conquistador de i so rebelli, spada del mondo e de la lè, soldan del Sarainaxego e di Saraini, suscitador de zustixia in la humana generation, acordador e mezador entro queli che ha torto e raxon, hereditaor de lo reame, soldan dei Harabi e di Persy e di Turchi, Alexandro de questo tempo, semenador de zustixia e de bontà, congregador de le parole de la verità, re sora de queli che senta in chariega e in pergoli e che porta corona in testa, re de i do mari, asegurador de i caminj da levante a ponente, servo de i do sancti luogi, zoè de la Mecha e de la Medina - che Dio sì lo reza in terra!, lo qual fa i commandamenti de Dio e del profeta, Soldan el qual senta suxo honorevol e possente trono, asegurador de tuta la universa terra, signor de i re e de i soldani, compagnon de lo almiraio de i fedel, zoè del Chaliffo Abunasser Siech che Dio lo mantegna in lo so soldanaego! e che Dio daga victoria ai so hosti e ai suoi povoli, e sia in prosperità tute le sue terre e in la gratia de Dio!, al nome de Dio - misericordioxo e piatoxo" (Diplomatarium Veneto-Levantinum, sine acta et diplomata res venetas, graecas atque Levantis illustrantia a. 1351-1454, II, a cura di Georg M. Thomas, Venetiis 1899, pp. 167 s.).
23. Raimondo Morozzo della Rocca-Maria Francesca Tiepolo, Cronologia veneziana del '400, in AA.VV., La civiltà veneziana del Quattrocento, Firenze 1957, p. 199 (pp. 185-241); I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di Riccardo Predelli, X-XII, Venezia 1883-1896, ad dies. Cf. inoltre Alberto Sacerdoti, Venezia e il regno hafsida di Tunisi. Trattati e relazioni diplomatiche (1231-1534), "Studi Veneziani", 8, 1966, p. 334 (pp. 303-346).
24. Alberto Tenenti, Profilo di un conflitto secolare, in AA.VV., Venezia e i Turchi, Milano 1985, p. 18 (pp. 9-37).
25. C. Manfroni, La battaglia di Gallipoli, p. 133.
26. Ibid., pp. 131 s.; F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 368.
27. C. Manfroni, La battaglia di Gallipoli, p. 139.
28. Serban Papacostea, Venise et les Pays Roumains au Moyen-Âge, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I, Firenze 1973, pp. 604 s. (pp. 599-624). Le commissioni al Venier, come pure quelle del Loredan, sono state pubblicate dal Manfroni (La battaglia di Gallipoli, pp. 162-166).
29. C. Manfroni, La battaglia di Gallipoli, pp. 146 s.
30. Il testo della lettera, in Marin Sanuto, Vitae Ducum Venetorum, in R.I.S., XXII, 1733, coll. 901-909; ristampata in Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, IV, Venezia 1855, pp. 71-74.
31. Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, c. 40v.
32. Franz Babinger, Le vicende veneziane nella lotta contro i Turchi durante il secolo XV, in AA.VV., La civiltà veneziana del Quattrocento, Firenze 1957, p. 56 (pp. 51-73)
33. Cf. su di lui la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, Roma 1966, pp. 115-116.
34. C. Manfroni, La marina veneziana alla difesa di Salonicco, pp. 19-20.
35. A.S.V., Senato deliberazioni secreta, reg. 9, c. 165.
36. M. Nani Mocenigo, Un capitolare veneziano, pp. 93-116.
37. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, pp. 410-428.
38. Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, cc. 25v, 32, 39v, 5ov.
39. La citazione è tratta da Innocenzo Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, Napoli 1974, pp. 177 s
40. Fernando Fagiani, Schizzo storico-antropologico di un gruppo dirigente: il patriziato veneziano (secoli XII-XV), "Studi Veneziani", n. ser., 15, 1988, pp. 32 s., 45-55 (pp. 15-69).
41. Sull'Arsenale veneziano, cf. G. Cozzi-M. Knapton, Storia della Repubblica, pp. 173-176, 293-296; sulla struttura e compiti della flotta, ibid., pp. 290 ss.; A. Tenenti, Profilo di un conflitto, pp. 747-756.
42. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 368.
43. Guido Cappellini, Contributo storico alle relazioni fra Venezia e Genova. Lo scontro di Rapallo (27 agosto 1431), "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 6, 1, 1903, pp. 84 s. (pp. 69-131).
44. Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, cc. 56v-57. Di questa relazione esistono diverse copie, con qualche variante; è riportata pure da M. Sanuto, Vitae Ducum, coll. 1024 s.
45. Su questi avvenimenti, M. Nani Mocenigo, Un capitolare veneziano, p. 92; Roberto Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, I, Milano-Messina 19682, p. 395; F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 374. Per le commissioni che vennero impartite ad Andrea Mocenigo il 20 settembre 1431, A.S.V., Senato deliberazioni secreta, reg. 12, cc. 26V-29V.
46. Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, c. 58.
47. S. Papacostea, Venise et les Pays Roumains, pp. 601 s. Lo scalo di Moncastro ebbe vita effimera, poiché sin dal 1439 non lo si trova più nominato nelle deliberazioni senatorie. Sul Barbaro, cf. la "voce" a lui dedicata nel Dizionario Biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, pp. 106-109.
48. Cf. su di lui la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, pp. 706-709.
49. Probabilmente lo stesso che prese parte alla difesa di Salonicco nel '30 (cf. la "voce" a lui dedicata ibid., XXXIX, Roma 1991, pp. 761-764).
50. Cf. su di lui la "voce" ibid., XVIII, Roma 1975, pp. 822-827.
51. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 380.
52. Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, cc. 66v-70.
53. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 372.
54. Ibid., pp. 374 e 377. Nel 1437 duca dell'Arcipelago era Giacomo Crispo e non Giovanni, come erroneamente scrive il Thiriet (cf. in proposito il Dizionario Biografico degli Italiani, XXX, Roma 1984, alla "voce" Crispo, Francesco, p. 806).
55 G. Cozzi-M. Knapton, Storia della Repubblica, p. 38.
56. Del resto 1'Enotikòn, o editto di riunione, ebbe soltanto una limitata valenza politica, dal momento che le popolazioni greche lo avvertirono soprattutto come un sopruso dei Latini: un sopruso ed uno sbaglio (Georg Ostrogorsky, Storia dell'impero bizantino, Torino 1968, p. 502).
57. Su questi avvenimenti, F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 377; F. Babinger, Le vicende veneziane, p. 61.
58. A.S.V., Senato deliberazioni secreta, reg. 16, cc. 73-74.
59. Franz Babinger, Maometto il Conquistatore e il suo tempo, Torino 19672, p. 43 (sul complesso delle due campagne antiturche del 1443-1444, pp. 21-43); Gyula Razso, Una strana alleanza. Alcuni pensieri sulla storia militare e politica dell'alleanza contro i turchi (1440-1464), in Venezia e Ungheria nel Rinascimento, a cura di Vittore Branca, Firenze 1973, pp. 79-100.
60. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 380.
61. F. Babinger, Maometto, p. 81. Per gli avvenimenti relativi all'assedio ed alla caduta di Costantinopoli, v. ancora ibid., pp. 81-110; G. Ostrogorsky, Storia dell'impero, pp. 506-509. Cf. inoltre Luigi Fincati, La presa di Costantinopoli (maggio 1453), "Archivio Veneto", 32, 1, 1886, pp. 1-37, e con particolare riferimento alle implicazioni politiche che l'avvenimento suscitò negli stati italiani - Roberto Cessi, La caduta di Costantinopoli nel 1453, "Atti del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti", 97, 1937-1938, pp. 551-575. La principale fonte veneziana sulla vicenda è costituita da: Nicolò Barbaro, Giornale dell'assedio di Costantinopoli, 1453, a cura di Enrico Cornet, Vienna 1856. Un'ampia raccolta di cronache, fonti, testimonianze relative alla fine dell'Impero bizantino ed alle sue conseguenze nella coscienza collettiva del tempo, in La caduta di Costantinopoli, a cura di Agostino Pertusi, I-II, Milano 1976.
62. Cf. su di lui la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, pp. 756-759.
63. Cf. su di lui la "voce" ibid., XXVI, Roma 1982, pp. 518-520.
64. Su tutti questi avvenimenti, F. Babinger, Maometto, pp. 169-192.
65. Domenico Malipiero, Annali veneti dall'anno 1457 al 1500, a cura di Francesco Longo - Agostino Sagredo, "Archivio Storico Italiano", 7, 1, 1843, pp. 6-10 (pp. 5-586; 7, 2, 1844, pp. 589-720). Un'attenta ricostruzione dei lavori tenuti presso il Marchesato gonzaghesco, in Giovanni Battista Picotti, La dieta di Mantova e la politica de' Veneziani, Venezia 1912.
66. Su questa vicenda, e più in generale sugli avvenimenti che caratterizzarono il primo anno di guerra, Roberto S. Lopez, Il principio della guerra venetoturca nel 1463, "Archivio Veneto", ser. V, 15, 1934, p. 48 (pp. 45-131). Fondamentale, inoltre, F. Babinger, Maometto, pp. 240-245.
67. R.S. Lopez, Il principio della guerra, pp. 96-99. 68. Alberto Tenenti, La rappresentazione del potere, in I Dogi, a cura di Gino Benzoni, Milano 1982, p. 85 (pp. 73-106).
69. Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, c. 76r-v. Sull'episodio, cf. anche Luigi Fincati, La perdita di Negroponte (luglio 1470), "Archivio Veneto", 32, 1, 1886, p. 278 (pp. 267-307).
70. Cf. su di lui la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 440-441.
71. D. Malipiero, Annali veneti, p. 33.
72. Sul Diedo e sul Boldù, cf. le "voci" nel Dizionario Biografico degli Italiani, rispettivamente: XXXIX, Roma 1991, pp. 769-774; XI, Roma 1969, pp. 270-272.
73. "Sete soli, et havete tutto 'l mondo contra": questa l'esplicita accusa che il duca di Milano rivolgeva all'ambasciatore veneziano, nel '67. Mi permetto in proposito di rinviare ad un mio lavoro: Giuseppe Gullino, La politica di espansione in Terraferma, in AA.VV., Il primo dominio veneziano a Verona (1405-1509). Atti del Convegno tenuto a Verona il 16-17 settembre 1988, Verona 1991, p. 7 (pp. 7-16)
74. Sul Canal, cf. la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XVII, Roma 1974, pp. 662-668.
75. D. Malipiero, Annali veneti, pp. 51 s. Sugli avvenimenti che accompagnarono la caduta di Negroponte, ibid., pp. 48-66; la fonte principale è rappresentata dalla cronaca di un testimone diretto: Giacomo Rizzardo, La presa di Negroponte fatta dai turchi ai veneziani nel MCCCCLXX [...>, a cura di Emanuele A. Cicogna, Venezia 1844; cf. inoltre: L. Fincati, La perdita di Negroponte, pp. 267-307; F. Babinger, Maometto, pp. 298-302.
76. D. Malipiero, Annali veneti, pp. 53 s.
77. Su queste trattative, Maria Pia Pedani, In nome del Gran Signore. Inviati ottomani a Venezia dalla caduta di Costantinopoli alla guerra di Candia, Venezia 1994, p. 104. Sul Cocco, cf. la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XXVI, Roma 1982, pp. 519-520.
78. D. Malipiero, Annali veneti, p. 63. Egli precisa inoltre, alla data del 1470: "Fin adesso è stà speso in questa guerra in rason de un milion e dugentomile ducati all'anno" (p. 66).
79. J. Richard, Chypre du protectorat, pp. 669-672; Giovanna Magnante, L'acquisto dell'isola di Cipro da parte della Repubblica di Venezia, "Archivio Veneto", ser. V, 5, 1929, p. 104 (pp. 78-133; 6, 1929, pp. 1-82).
80. Si v. Luigi Fincati, L'armata di Venezia dal 1470 al 1474, "Archivio Veneto", 34, 1, 1887, p. 33 (pp. 31-72).
81. Cf. in proposito, F. Babinger, Maometto, pp. 338-344. Sui rapporti tra Venezia e Trebisonda, cf. Sergej P. Karpov, L'impero di Trebisonda, Venezia, Genova e Roma 1204-1461. Rapporti politici, diplomatici e commerciali, Roma 1986, passim.
82. D. Malipiero, Annali veneti, p. 78. Un'interessante documentazione relativa a queste vicende è raccolta in Enrico Cornet, Le guerre dei Veneziani nell'Asia. 1470 -1474. Documenti cavati dall'Archivio dei Frari in Venezia, Vienna 1856.
83. Scrive il Babinger, a commento di tale congiuntura: "Mai forse si presentò un'occasione più favorevole per dare un colpo mortale all'impero di Mehmed II come durante gli anni 1472 e 1473. Essi passarono senza che la cristianità si accorgesse di questo vantaggio. La massima colpa ne spetta a Venezia, la cui flotta non osò affrontare un incontro decisivo con il nemico mortale" (F. Babinger, Maometto, p. 337)
84. G. Magnante, L'acquisto dell'isola di Cipro, pp. 115-121.
85. L. Fincati, L'armata di Venezia, pp. 53 s.; G. Magnante, L'acquisto dell'isola di Cipro, pp. 114-122.
86. F. Babinger, Maometto, p. 341; S. Papacostea,
Venise et les Pays Roumains, p. 613.
87. D. Malipiero, Annali veneti, p. 600. Sul Corner, cf. la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, pp. 157-159.
88. Cf. su di lui la "voce" del Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 97-100.
89. D. Malipiero, Annali veneti, pp. 108 s. A fine anno, tuttavia, l'incameramento di gran parte dei beni del defunto Colleoni avrebbe migliorato la condizione dell'erario veneziano.
90. Sul da Lezze, cf. la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XXXI, Roma 1985, pp. 746-748.
91. Sulla pace del 1479, rinvio soprattutto a F. Babinger, Maometto, pp. 401-405.
92. Sull'assedio di Rodi, v. ibid., pp. 413 ss., 431-435.
93. D. Malipiero, Annali veneti, p. 123 (il corsivo è mio). Sull'occupazione turca di Otranto, F. Babinger, Maometto, pp. 425-431. L'ambigua condotta tenuta dai Veneziani nella circostanza fu diversamente giudicata, ed in tempi nei quali l'orgoglio nazionale era fortemente avvertito diede luogo pure a qualche polemica: cf. Edoardo Piva, L'opposizione diplomatica di Venezia alle mire di Sisto IV su Pesaro e ai tentativi di una crociata contro i turchi. 1480-1481, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 5, 1, 1903, pp. 72-80 (pp. 49-104, 424-466; 6, I, 1903, pp. 134-172); Felice Fossati, Alcuni dubbi sul contegno di Venezia durante la ricuperazione d'Otranto (1480-1481), "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 12, 1, 1906, pp. 5-35.
94. Cf. su di lui la "voce" del Dizionario Biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, pp. 118-119.
95. F. Babinger, Maometto, pp. 439-445. Benché sconfitto più volte sul campo di battaglia, Gem continuò a rappresentare per molto tempo una minaccia per il fratello, grazie all'appoggio dei Cavalieri di Rodi che lo portarono in salvo in Provenza, e poi del papa che l'ospitò a Roma. Anche Carlo VIII di Francia pensò di utilizzarlo contro il sultano, sinché Gem morì a Capua nel febbraio '95, probabilmente di veleno, secondo il costume di famiglia (D. Malipiero, Annali veneti, pp. 145 s.).
96. D. Malipiero, Annali veneti, pp. 132 s. Quando un anno dopo, alla fine dell'82, Sisto IV si schierò a favore del duca di Ferrara, Venezia decise addirittura di ricorrere all'aiuto ottomano: "Questa novità ha dà gran travaglio a la Signoria, vedendosi fatta e fermata contra una ligha potentissima: et è stà preso subito de mandar Marchiò Trevisan, Proveditor dell'armata, a Constantinopoli, per haver aiuto da quella banda in caso de besogno [...>" (ibid., p. 269).
97. Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, c. 86v.
98. D. Malipiero, Annali veneti, pp. 263 s.
99. Ibid., pp. 293 ss.
100. Sui rapporti veneto-pugliesi, cf. il non più freschissimo, e rivolto specialmente alle questioni economiche, Giovanni Guerrieri, Le relazioni tra Venezia e Terra d'Otranto fino al 1530, Trani 1904.
101. Sulla ripresa dei traffici veneziani nel Levante, dopo la guerra veneto-turca del 1463-1479, cf. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, pp. 436-439, e la bibliografia ivi riportata.
102. D. Malipiero, Annali veneti, pp. 618-621. Sul Donà, che fu umanista e poeta di notevole rilevanza, cf. la "voce" del Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, pp. 741-753.
103. Sulla vicenda, G. Magnante, L'acquisto dell'isola di Cipro, pp. 69-74; più in generale, per l'annessione dell'isola nel 1489, pp. 62-79.
104. Cf. su di lui la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, pp. 212-216.
105. Solo il sultano d'Egitto, Al-Ashraf Sayf ed-Din Qa'it Bay, quale alto signore di Cipro, operò delle ritorsioni sui mercanti veneziani. Ne scaturì una vertenza che fu composta a prezzo di diverse ambascerie; particolare efficacia ebbe quella di Pietro Diedo, nell'inverno 1489-1490 (cf. su di lui la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, pp. 778-781; i documenti relativi alla missione sono stati editi in Ambasciata straordinaria al sultano d'Egitto, a cura di Franco Rossi, Venezia 1988).
106. D. Malipiero, Annali veneti, p. 145.
107. Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, cc. 102v-103.
108. D. Malipiero, Annali veneti, p. 427.
109. Ibid., p. 149.
110. Poco più che semplice palliativo rimase l'istituzione, decretata nel 1497, della nuova magistratura dei due provveditori ed esecutori alle cose marittime, portati a tre nel '99 (Mario Nani Mocenigo, Storia della marina veneziana da Lepanto alla caduta della Repubblica, Roma 1935, p. 4).
111. Per tutte le citazioni, D. Malipiero, Annali veneti, Pp. 159 s.
112. Sul Grimani e la battaglia di Zonchio, si v.: Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, cc. 110-126; D. Malipiero, Annali veneti, pp. 173-197; Luigi Fincati, La deplorabile battaglia navale del Zonchio (1499), "Rivista Marittima", 16, nr. I, 1883, pp. 185-214 (su questo lavoro del Fincati, cf. la recensione di Bartolomeo Cecchetti, "Archivio Veneto", 25, nr. 2, 1883, pp. 415-430); Gaetano Cogo, La guerra di Venezia contro i Turchi (1499-1501), "Nuovo Archivio Veneto", 18, 1899, pp. 20-76 (pp. 5-76, 348-421; 19, 1900, pp. 97-138); Ester Zille, Il processo Grimani, "Archivio Veneto", ser. V, 36, 1945, pp. 137-194.
113. Per queste citazioni, cf. rispettivamente: Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, C. 118; D. Malipiero, Annali veneti, p. 166.
114. D. Malipiero, Annali veneti, pp. 177, 179.
115. I1 Sarludo ricorda di aver visto scritto sui muri di molte botteghe: Antonio Grimani rebello de venitiani (Marino Sanuto, I diarii, III, a cura di Rinaldo Fulin, Venezia 1880, col. 5).
116. Nonostante il Trevisan avesse cercato di riportare ordine nell'armata, la disciplina vi rimaneva al quanto approssimativa; lo stesso provveditore delle truppe che assediavano la rocca di Cefalonia era solito trascendere a violente provocazioni, secondo questa icastica testimonianza del Sanudo: "Missier Tomà Zen è a l'impresa capetanio, tuto el zorno zuoga li pugni con li soi governdori. El diavolo non puoi far simel homo" (M. Sanuto, I diarii, III, col. 127; sul personaggio si v. Philip M. Giraldi, Tomaso Zen: a Venetian Military and Naval Commander of the Late Quattrocento [1435-1504>, "Studi Veneziani", n. ser., I, 1977, pp. 105-118).
117. Si tratta di Girolamo di Moisè, che fu capitano in Golfo nel 1493, e provveditore d'Armata dal 1500 al 1501 e poi dal 1504 al 1508, alternandosi nella carica con l'omonimo Girolamo di Francesco, che fu provveditore dal 1502 al 1503. A quest'ultimo è dedicata una "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani (XXVIII, Roma 1983, pp. 213-217), dove si accenna pure a Girolamo di Moisè.
118. G. Cogo, La guerra di Venezia, p. 374.
119. Mary Neff, A Citizen in the Service of the Patrician State: the Career of Zaccaria de' Freschi, "Studi Veneziani", n. ser., 5, 1981, pp. 50-54 (pp. 33-61); l'emissario turco che accompagnò il Freschi a Venezia era il subqi Ali Bey (M.P. Pedani, In nome del Gran Signore, p. 117).
120. Ugo Tucci, Le monete in Italia, in AA.VV., Storia d'Italia, 5/I, I documenti, Torino 1973, p. 542 (pp. 534-579).
121. Sull'impatto causato a Venezia dall'avvenimento, e per la citazione, I. Cervelli, Machiavelli e la crisi, pp. 180 ss.; Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, cc. 157r-I59v.
122. Secondo Braudel, la conquista della Siria e dell'Egitto rappresentò "l'evento decisivo della grandezza ottomana, ancor più della presa di Costantinopoli" (F. Braudel, civiltà e imperi, II, p. 702). Nei primi anni del '500 il consiglio dei dieci discusse più volte l'idea di aprire un canale a Suez, ossia di operare un taglio che unisse il mar Rosso al Nilo, ma il progetto non venne mai concretamente sottoposto al sultano del Cairo (cf. Rinaldo Fulin, Il Canale di Suez e la Repubblica di Venezia (MDIV), "Archivio Veneto", 2, 1871, nr. I, p. 197 [pp. 175-199>).
123. Si v. in proposito Paolo Preto, Venezia e i turchi, Firenze 1975, pp. 37-45.
124. Antonio Battistella, Il dominio del Golfo, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 35, 1918, pp. 32 s. (pp. 5-102).
125. Sui corsari barbareschi Harudi e Khair ed-din Barbarossa, Camillo Manfroni, Storia della Marina italiana dalla caduta di Costantinopoli alla battaglia di Lepanto, Roma 1897, pp. 258-263.
126. Un sommario dell'udienza concessa al Minio il 29 ottobre 1521, con i punti principali del trattato, in Marino Sanuto, I diarii, XXXII, a cura di Federico Stefani et al., Venezia 1892, coll. 255 s.
127. Si v., a cura di Rinaldo Fulin, l'Itinerario di Pietro Zeno oratore a Costantinopoli nel MDXXIII compendiato da Marino Sanuto, "Archivio Veneto", 22, 1881, pp. 104-136.
128. Su questi avvenimenti, cf. Vito Vitale, L'impresa di Puglia degli anni 1528-1529, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 13, nr. 2, 1907, pp. 5-68; 14, nr. I, 1907, pp. 120-192; 14, nr. 2, 1907, pp. 324-351; C. Manfroni, Storia della Marina italiana, pp. 276-284.
129. Cf. su di lui la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 204-206.
130. Sulla quinquereme numerosi i riferimenti del Sanudo; cf. inoltre Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, cc. 163v-165v. Sul Drachio, rinvio alla "voce" a lui dedicata nel Dizionario Biografico degli Italiani, XLI, Roma 1992, pp. 623-627.
131. R. Cessi, Storia della Repubblica, 11, p. 101.
132. Cf. su di lui la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XVII, Roma 1974, pp. 652-655.
133. Sulla guerra veneto-turca del 1537-1540, cf. Paolo Paruta, Historia Vinetiana, in Degl'Istorici delle cose veneziane [...>, Venezia 1718, III/1, pp. 653-726; IV, pp. 5-121; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, Venezia 1857, pp. 23-29, 34-40, 51-66; C. Manfroni, Storia della Marina italiana, pp. 320-350. Una chiara sintesi in R. Cessi, Storia della Repubblica, II, pp. 102-105. La principale fonte in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 784 (7485): Antonio Longo, Guerra veneto-turca del 1537, cc. 1r-353v.
134. Anche il Nani, seguendo la storia di Sebastiano Molin, commenta criticamente la scelta del senato; cf. Padova, Biblioteca Universitaria, 161.2, cc. 170v-171r. Indipendentemente dall'aleatorietà del suo esito, la guerra comportava comunque gravissimi e talora irreparabili danni per lo stato da Mar: Corfù, che prima dell'assedio del 1537 contava 40.000 abitanti, vent'anni dopo ne aveva solo 19.000 (F. Braudel, civiltà e imperi, I, p. 121).
135. Sulla situazione venutasi a creare nella Dalmazia in seguito a tale offensiva turca, Gaetano Cozzi-Michael Knapton-Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992, pp. 329 s.
136. Cf. su di lui la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XVIII, Roma 1975, pp. 827-830.
137. Così il Manfroni (Storia della Marina italiana, p. 337); il Romanin (Storia documentata, VI, p. 36) propone invece queste cifre: 136 galere, 2 galeoni, 30 navi armate.
138. Tanto i datati quanto i più recenti studiosi sono d'accordo sul fatto che Andrea Doria aveva avuto segrete istruzioni dall'imperatore, che gli davano mandato di trattare col Barbarossa e di evitare, se possibile, la battaglia. Non è escluso peraltro che accanto a questa strategia convivessero nel genovese sollecitazioni ispirate a privato tornaconto (cf. in proposito, C. Manfroni, Storia della Marina italiana, pp. 335-345; Gaetano Capasso, Andrea D'Oria alla Prevesa. Nota, Milano 1905; G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 44).
139. Sorsero in questo torno di anni le istituzioni caritative dei santi Girolamo Miani all'Ospedaletto, Ignazio di Loyola e Francesco Saverio agli Incurabili. Si ricordi poi che l'11 aprile 1538 venne decretata l'istituzione di depositi vitalizi in Zecca al 14% e che il 6 settembre '39 fu istituita la nuova tassa sugli immobili del 2%, detta Messettaria. Una sintesi dei dibattiti che si svolsero in senato agli inizi del '39 per reperire il denaro necessario alla continuazione della guerra, in S. Romanin, Storia documentata, VI, pp. 43-51
140. Cf. su di lui la "voce" nel Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 295-300.
141. Sul Badoer rinvio alla "voce" a lui dedicata ibid., V, Roma 1963, pp. 93-96.
142. Sull'Abbondio c'è la "voce" ibid., I, Roma 1960, pp. 42 s.
143. Si v. in proposito Luigi Bonelli, Il trattato turco-veneto del 1540, in AA.VV., Centenario della nascita di Michele Amari, II, Palermo 1910, pp. 332-363.