Le grandi infrastrutture: il sistema delle ferrovie e delle autostrade
Il ruolo delle infrastrutture
Il tema delle infrastrutture – intese come capitale pubblico durevole presente in un territorio – si è conquistato negli ultimi anni il centro del dibattito politico e della riflessione economica. Per consuetudine si intendono per infrastrutture materiali, di cui si tratta nella presente circostanza, le strade e le ferrovie, i porti e le vie d’acqua interne, gli aeroporti, le poste e le telecomunicazioni, le reti energetiche e i sistemi igienico-sanitari urbani, i ponti e i tunnel, gli oleodotti e i gasdotti, in definitiva tutti i grandi apparati tecnico-organizzativi che prendono la forma di reti, estendendosi sul territorio e che costituiscono la base fisica in grado di permettere l’implementazione di flussi di persone, merci, capitali, informazioni e servizi.
Raramente un interesse si era manifestato nel passato con tale intensità come avviene oggi e ciò ha spinto anche gli storici a guardare a questo fenomeno con uno sguardo indagatore nuovo e più attento. Se l’arretratezza e la disorganizzazione delle infrastrutture rappresentano storicamente un ostacolo al progredire di una regione o di un Paese, viceversa un sistema funzionante è un presupposto ineliminabile del successo economico e misura il grado di modernizzazione raggiunto. In Italia oggi le tematiche all’ordine del giorno sono molteplici e di grande attualità. La congestione e la saturazione delle vie di comunicazione, i processi di liberalizzazione e il nuovo intervento dello Stato, l’utilizzo delle tecnologie informatiche, il riequilibrio delle singole dotazioni in un quadro omogeneo, fino all’irrompere della logistica negli scenari di tutti i giorni e alle nuove pratiche di mobilità sono questioni con le quali ci troviamo costretti a fare i conti. Di qui la nuova dimensione del problema, la sua pervasività e incisività.
L’esperienza italiana
Nel processo di costruzione delle reti di infrastrutture italiane si riflette la storia del Paese, nelle sue acquisizioni talvolta geniali come nei suoi errori più marchiani: acquisizioni e vincoli, opportunità e mancanze si alternano in questo lungo processo fondativo di nation building.
In prospettiva storica le infrastrutture hanno sollecitato le competenze pubbliche e degli individui, la qualità degli apparati tecnici della pubblica amministrazione, le capacità imprenditoriali e tecniche, la sensibilità comune verso grandi valori come libertà e solidarietà; hanno ribadito la validità di un sistema di regole, disegnando gli spazi e rendendoli vivibili, sicuri e compatibili sotto il profilo ambientale. Sono le connessioni delle reti, o la mancanza di esse, che strutturano gli spazi, attivando e disattivando le potenzialità dei luoghi e, in ultima analisi, determinandone le traiettorie di sviluppo. Attraverso l’analisi dell’insieme complesso di relazioni sociali, economiche, tecnologiche, culturali, politiche che diacronicamente convergono, si concentrano e si interconnettono, grazie all’azione di soggetti individuali e collettivi, privati e pubblici, emerge il quadro completo del sistema infrastrutturale in un dato territorio.
Se una caratteristica comune può essere individuata nella storia italiana è l’assenza di una considerazione complessiva, a causa della quale le singole reti si sono formate prevalentemente in modo indipendente, prive di unità di intenti e di organicità, senza tener conto del fatto che in realtà andavano a operare sul medesimo territorio. Dunque, è mancata fondamentalmente la capacità di programmazione anche per il carattere ondivago dell’invadenza dell’elemento politico, intervenuto troppe volte a modificare il processo di formazione del sistema, favorendo, intralciando o comunque sterzandone i risultati e gli esiti.
Per questo motivo il percorso seguito dal processo delle principali reti di infrastrutture in Italia è costellato di acquisizioni straordinarie, ma risente anche di mancanze e passi falsi. Oggi prevale la litania sulle carenze e sulle distorsioni infrastrutturali che si sono venute a creare accumulandosi nel corso della storia e che gravano sulla nostra economia; e si tende a dimenticare quanto di buono è stato realizzato, spesso meglio e prima di altri, nei centocinquant’anni di vita di questo Paese. Sta di fatto che l’Italia soffre la polarizzazione del trasporto su alcuni grandi assi e la concentrazione molto di più sulla gomma che sulla rotaia, le disfunzioni organizzative del sistema ferroviario, la faticosa mobilità che si sviluppa nel Sud del Paese nonostante la dinamicità nei porti meridionali del traffico di container, la scarsa sostenibilità ambientale, la mancata responsabilizzazione degli attori pubblici rispetto ai risultati complessivi di efficienza ed efficacia delle loro azioni, la scarsa propensione alla programmazione, la sovrapposizione fra le varie reti. Il compito dello storico consiste nel rivedere con equilibrio, servendosi della propria cassetta degli attrezzi, i singoli passi, evidenziando eventi, cambiamenti decisivi, formidabili opportunità, snodi cruciali e difetti.
L’unificazione
Quando nel 1861 i nuovi governanti dell’Italia unita si apprestarono a mettere mano alla riorganizzazione di quella che veniva considerata, non a torto, l’infrastruttura principale, i difetti ereditati dall’epoca preunitaria si fecero sentire in maniera pesante, condizionando, in certi casi fino a oggi, la fisionomia del sistema ferroviario del Paese. Non esisteva ancora sulla penisola una vera rete organica, ma soltanto una serie di subsistemi regionali scollegati fra loro che bisognava ricucire, affidando alle ferrovie il compito di favorire l’integrazione fra le varie economie regionali. Per questo fin dai primi anni del nuovo Regno vennero progettate alcune grandi direttrici da Nord a Sud per avvicinare le zone del Paese ancora distanti.
L’affastellamento incoerente di una pur consistente ragnatela di vie ferrate, che mutò il disegno della carta del giovane Regno, fu quasi caotico e accentuò il carattere longitudinale del sistema ferroviario italiano. Una tale politica, giustificata dalla convinzione che le ferrovie fossero in grado di garantire la sopravvivenza stessa dello Stato, non riuscì a risolvere il problema evidente di uno squilibrio netto nella dotazione ferroviaria delle varie aree del Paese.
La rete che si venne creando – nel giro di cinque anni, dal 1861 al 1866 i chilometri passarono da 2370 a oltre 4000 – rispondeva solo parzialmente a logiche coerenti. Bisognava far entrare subito l’Italia nel ristretto novero delle grandi potenze europee e le ferrovie servivano, in un’ottica del genere, a sostenere questo processo modernizzatore ritenuto assolutamente necessario. All’interno della stessa logica rientrava la riorganizzazione nel 1865 del confuso mondo ferroviario, in cui pullulavano decine di piccole e spesso fatiscenti compagnie private, finalmente riunite in poche compagnie finanziariamente più robuste. Si trattò di un grande impegno per i nuovi governanti italiani. Le ferrovie si trovavano a un crocevia di interessi formidabili di lobby politiche, militari, di affari e su base locale, ponendosi in un’ottica di clientele finanziarie e imprenditoriali favorite dall’impotenza finanziaria dello Stato, che delegava, attraverso l’istituto della concessione concepito in un’ottica privatistica, le proprie prerogative in tema di realizzazioni ferroviarie.
Il completamento della rete
La salita al potere della Sinistra nel 1876 segnava il secondo boom ferroviario: in quindici anni, dal 1881 al 1895, si costruirono 6500 km di nuove linee ferroviarie, per la gran parte secondarie, di integrazione della rete principale. Ad alcune leggi apposite, in particolare quella del 1879, venne affidato il compito di creare una rete di ferrovie di raccordo, chiamate complementari; fu il primo tentativo di procedere a una programmazione sistematica e organica delle ferrovie italiane. L’obiettivo di rendere più capillare la rete scatenò ovunque una battaglia localistica dai toni spesso accesissimi. Il rapporto fra notabili locali e sviluppo delle infrastrutture prefigura in quest’epoca una vera e propria conquista del territorio all’interno dei programmi espansivi della borghesia.
Se la rete in questi anni si accrebbe notevolmente sotto il profilo quantitativo, il servizio, invece, nel suo complesso subì un preoccupante degrado a causa dello stato scadente di un materiale rotabile usurato e non rinnovato, delle irriformabili caratteristiche della rete per le frequenti e aspre pendenze, della scarsità preoccupante di doppi binari e della limitata potenzialità degli impianti sulle linee e nelle stazioni. Le tariffe troppo alte, inoltre, deprimevano i traffici di merci e il trasporto di viaggiatori. Il lungo e impegnativo dibattito sulla nazionalizzazione prese le mosse anche da questo stato generalmente insoddisfacente. Conquiste di rilievo furono invece ottenute nell’innovativo campo dell’elettrificazione, avviata precocemente, rispetto agli altri Paesi europei, fin dagli ultimi anni dell’Ottocento.
La nazionalizzazione
Giunta nel 1905 al termine di un confronto molto sentito e prolungato nel tempo, la nazionalizzazione delle ferrovie si configura in termini di intervento dettato dall’esigenza di operare un salvataggio ritenuto necessario. La decisione di rendere pubblica la gestione delle ferrovie rispose a un evidente bisogno di mutare drasticamente rotta rispetto alla gestione della principale infrastruttura del tempo. Sulla impegnativa svolta per la vita del Paese pesò l’emergenza che influì in maniera determinante sulle scelte alla base della costruzione della nuova impresa pubblica. Si preparò la nazionalizzazione, dunque, persuasi che bisognasse assolutamente farlo e che con il tempo, al momento di affrontare i singoli problemi, le soluzioni si sarebbero trovate. La fiducia in parte venne ripagata, ma un simile modo di procedere appose un marchio indelebile sui tratti fondativi dell’azienda.
Nazionalizzare le ferrovie significò fondamentalmente riorganizzare una rete che constava di 10.528 km. Si trattava di affrontare la prima esperienza di intervento pubblico realizzato mediante un’impresa operante nel campo della produzione di beni e servizi in un momento di una delicatezza estrema. Guidate da Riccardo Bianchi (1854-1936), le ferrovie italiane, una volta condotte nell’alveo pubblico, nel periodo compreso fra l’inizio della nuova gestione e la guerra, vissero una fase di grande trasformazione. Per quanto concerneva l’ordinamento italiano, la nuova azienda ferroviaria era una novità assoluta. In pratica, le ferrovie pubbliche vennero inventate ex novo, stabilendo la formula amministrativa ritenuta più confacente alle esigenze di una gestione che venne, però, impostata sulla base della pratica operativa di un’impresa privata.
L’attività dell’azienda
L’attività della nuova azienda fu subito intensa. Particolarmente importanti furono gli interventi sul materiale rotabile, ampiamente rinnovato con il coinvolgimento dell’industria nazionale, e di estensione del processo di elettrificazione: al 30 giugno 1914 la rete elettrificata raggiungeva i 300 km, sei anni dopo avrebbe raggiunto quota 460, ponendo l’Italia ai vertici in Europa. Le costruzioni di nuove linee vennero portate avanti con un buon ritmo e risultarono tutte di miglior fattura rispetto a quelle realizzate nel periodo della gestione privata.
Tra i primi successi dell’amministrazione ferroviaria italiana va elencato anche il record di velocità di 120 km/h stabilito il 7 febbraio 1907 da un treno trainato dalla prima locomotiva a vapore del gruppo 680 realizzata dalle Ferrovie dello Stato.
I primi anni del secolo furono anni di grandi progressi anche dal punto di vista del traffico. In cinque anni, dal 1905 al 1910, gli oltre 20 milioni di viaggiatori conteggiati al momento della nazionalizzazione divennero quasi 30. Infine, fra le realizzazioni della prima fase di vita della nuova azienda vanno annoverate anche le linee ferroviarie nelle colonie. Il primo tronco della rete ferroviaria italiana fuori d’Italia venne realizzato in Eritrea nel 1888. Nel 1911 venne completata la linea strategica Asmara-Massaua in seguito prolungata verso Cheren. Anche in Libia vennero costruiti alcuni tronchi ferroviari a scartamento ridotto.
L’epoca del motore
Esauritasi la spinta propulsiva ottocentesca delle ferrovie, con il nuovo secolo il motore cominciò a diffondersi in virtù di progressive maggiori sicurezza e resistenza. Al termine della Prima guerra mondiale anche l’Europa, dopo gli Stati Uniti, mise in cantiere la produzione di automobili in grandi serie, con la Francia (grazie a Renault, Peugeot e Citroën) alla guida del settore.
Nel 1920 gli autoveicoli circolanti nel mondo erano 11 milioni e provvedevano al trasporto del 25% delle persone e delle merci. Gli Stati Uniti rimasero il Paese guida: nel 1939 il 70% delle automobili circolanti nel mondo erano americane. Là vennero istituiti i primi collegamenti camionali efficienti nel trasporto merci già a partire dal primo decennio del secolo. Sotto il profilo della flessibilità del servizio, gli autoveicoli per trasporto merci completavano la rivoluzione avviata dalla ferrovia, riducendo sensibilmente il peso di alcuni vincoli limitanti la scelta delle localizzazioni produttive e fornendo maggiori possibilità di sviluppo anche a quelle aree che non disponevano di fattori della produzione in loco e che non si trovavano lungo i tracciati ferroviari.
Anche gli autoveicoli adibiti al trasporto di persone, gli autobus, nel primo dopoguerra ricevettero un potente incremento allo sviluppo e all’organizzazione delle prime reti. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, in un contesto automobilistico ormai saldamente oligopolistico, circolavano 45 milioni di autoveicoli che effettuavano il 35% dei trasporti terrestri. L’espansione automobilistica, con l’introduzione dell’asfalto, spinse verso un vasto adattamento delle strade al nuovo mezzo di trasporto.
La guerra e le sue conseguenze
La Prima guerra mondiale si tradusse per le ferrovie italiane in uno sforzo immane. L’emergenza bellica richiese alla rete un impegno totale e la macchina ferroviaria rispose adeguatamente, grazie anche alla dedizione del personale, unito da uno spirito di corpo e da un attaccamento al mestiere raramente rintracciabile in altre categorie. Le ferrovie dimostrarono di saper soddisfare i bisogni di una mobilitazione che si dimostrò imponente.
Il totale dei treni in circolazione nell’arco del conflitto toccherà il numero di 899.138; 18.975 saranno i treni sanitari, tutti organizzati e funzionanti ottimamente; i soldati trasportati per ferrovia saranno complessivamente 35.201.098, i feriti 1.090.395, i malati 831.230, i prigionieri 893.251, i quadrupedi 1.300.000 circa; i materiali vari raggiungeranno la cifra di 22 milioni di tonnellate.
Il settore delle ferrovie soffrì ovunque in Europa molte difficoltà al momento della ripresa postbellica, sia sotto il profilo del funzionamento del servizio sia sotto quello della gestione economica. Prezzo aumentato del carbone, distruzioni e danneggiamenti, rapido deterioramento del capitale fisso e rotabile, aumento vertiginoso generalizzato dei costi, a cui non aveva corrisposto un pari aumento delle tariffe, contrazione dei traffici e crescente concorrenza dei servizi automobilistici non furono che alcuni fra i molti problemi del settore.
Al tempo stesso la guerra, come in molti altri ambiti economici, agì, anche in Italia, come potente fattore d’innovazione. Ciò in particolare avvenne in campo amministrativo, poiché il conflitto accrebbe i compiti della burocrazia e numerose furono le istanze di riforma e di modernizzazione avanzate al suo termine. Il confronto sviluppatosi in questi anni intorno alla teoria generale del pubblico impiego, come punto di arrivo di un dibattito che coprì, grosso modo, il primo trentennio del secolo, assunse vesti di enorme pregnanza. Le ferrovie rappresentarono un laboratorio estremamente interessante nel contesto del processo complessivo di modernizzazione dell’amministrazione pubblica e del management nel corso degli anni Venti e Trenta. Va ricordato anche come, dopo la parentesi bellica, le ferrovie vennero restituite al ministero dei Lavori pubblici il 21 marzo 1920, quando fu decisa la soppressione del ministero per i Trasporti marittimi e ferroviari istituito in tempo di guerra.
Ferrovie e fascismo
Il fascismo dette una spinta considerevole verso la trasformazione dell’organo ferroviario. Una delle prime misure volute da Benito Mussolini nel settore ferroviario consistette nella nomina di un commissario straordinario per l’azienda con lo scopo manifesto di risanarne i bilanci fortemente in perdita e di riorganizzare completamente il servizio. Il primo approccio del fascismo ai problemi della burocrazia statale si realizzò dietro la parola d’ordine ‘largo alle competenze’ accompagnata da una forte polemica antiburocratica; prevalse così il criterio dello sfoltimento e del ridimensionamento dell’apparato statale accusato di ‘elefantiasi burocratica’.
Fra il 1922 e il 1923 il fascismo mise in opera anche un rinnovamento dei quadri dirigenti improntato a criteri produttivistici e di efficienza, in nome di quella ‘burocrazia della cifra’ che avrebbe dovuto trasformare il sistema amministrativo italiano. Ma, in realtà, il regime mussoliniano puntava soprattutto a una politicizzazione del pubblico impiego a ogni livello, tentativo nel complesso fallito, così come fondamentalmente fallì lo sforzo modernizzatore e razionalizzatore dei metodi di lavoro. Nel giro di due anni, fra il 1922 e il 1924, il personale venne ridotto da 226.000 a 174.000 unità. I licenziamenti in massa avvennero sulla base di un’esigenza di natura efficientistica, che copriva in realtà la volontà di allontanare molti possibili avversari del regime. Gli sforzi riformatori resero la gestione del servizio ferroviario più sana sotto il profilo finanziario. Il progetto tecnocratico del fascismo assegnava ai tecnici e agli ingegneri in particolare una rinnovata credibilità politica e sociale, valorizzandone le funzioni e il ruolo. In quest’ottica si inquadra l’adozione da parte delle Ferrovie, che le accolsero fra le prime, delle tecniche tayloriste negli uffici, cioè di quello scientific management proveniente da oltreoceano, che rappresentava la frontiera più avanzata delle teorie organizzative in chiave razionalizzatrice.
Buoni risultati vennero ottenuti anche con il secondo ciclo di elettrificazione, apertosi nel 1922 e che condusse a una dotazione, nel giro di sei anni, di 2799 km, i quali consentirono all’Italia dell’epoca di occupare la posizione più alta in Europa. La crisi del 1929 influì pesantemente sui programmi di elettrificazione, senza però bloccarli: nel 1939 ben 5160 km saranno elettrificati, il 44% dei quali con il sistema trifase.
Nel complesso, l’immagine che il nostro Paese riusciva a offrire anche all’estero in epoca fascista era, sul versante ferroviario, di grande vitalità e di buona amministrazione. Il regime, del resto, puntava le sue carte con convinzione sulle ferrovie, considerandole una vetrina irrinunciabile in grado di veicolare una visione del fascismo funzionante. La politica seguita in questi anni puntò a migliorare, nei limiti delle risorse disponibili, impianti fissi e materiale rotabile per assicurare in via prioritaria il trasporto sulle lunghe distanze. Nel 1927 venne inaugurata la Direttissima Roma-Napoli, che riduceva di 34 km il tragitto esistente; sette anni dopo la Bologna-Firenze, con la più lunga galleria a binario doppio. Il grado di modernità e di efficienza raggiunto dalle ferrovie italiane alla vigilia della Seconda guerra mondiale poteva considerarsi in definitiva, nonostante le pecche ancora esistenti, del tutto apprezzabile.
L’innovazione tecnologica nel settore della trazione
Nel campo della trazione, fra il 1920 e il 1940, il vapore dominava ancora il panorama ferroviario italiano, ma i tecnici ormai erano orientati verso la corrente elettrica trifase, in attesa della definitiva applicazione di quella continua. Il frutto principale della progettazione italiana in quest’epoca fu il gruppo E550 costruito inizialmente in 186 unità, che rappresentava all’epoca una delle punte di diamante su scala europea. Da quel momento, l’impegno della progettazione ferroviaria, gestita internamente all’azienda, fu spinto con decisione in direzione della trazione elettrica, alla quale si assegnavano nuove potenzialità anche in termini di velocità.
Il portabandiera della velocità ferroviaria italiana fu l’elettromotrice elettrica Etr 200, i cui primi sei esemplari vennero costruiti nel 1936. Raggiungevano i 160 km/h e vennero usati all’inizio specialmente lungo le Direttissime appena aperte, dove in prova toccarono i 203 km/h. Il nuovo elettrotreno rappresentò la vetta tecnologica e il vanto legittimo dei tecnici italiani del tempo. Si trattava, infatti, di un prodotto molto avanzato, uscito dall’Ufficio studi del servizio Materiale e trazione delle Ferrovie dello Stato e realizzato dalla Breda. L’introduzione sul carrello motore degli ammortizzatori e la grande flessibilità della sospensione secondaria, insieme con il passo lungo e la trasmissione ad assi cavi, furono uno dei motivi del successo conseguito. Il primo elettrotreno italiano era composto di tre vetture: due vennero riservate ai viaggiatori, mentre nella terza erano concentrati tutti i servizi ausiliari, dal bagagliaio al postale, alla cucina e agli armadi.
Il 6 dicembre 1937 un elettrotreno Etr 200 in occasione di una corsa dimostrativa toccò la massima velocità di 201 km/h sulla Roma-Napoli; due anni dopo, il 20 luglio 1939, sul percorso Firenze-Milano, lo stesso treno ottenne il primato mondiale di velocità commerciale ferroviaria: i 316 km che separano le due città vennero infatti coperti in 115 minuti a una velocità di 165 km/h di media. In particolare, furono necessari solo 38 minuti per coprire il tratto fra Firenze e Bologna a una velocità media di 154 km/h; e 77 minuti fra Bologna e Milano a una velocità media di 171 km/h con una punta massima di 203 km/h. Il record mondiale di velocità – ineguagliabile all’epoca da qualsiasi veicolo a motore – ebbe un’eco vastissima in tutto il mondo.
L’altro grande successo della progettazione ferroviaria italiana fu la Littorina, un’automotrice leggera realizzata nel 1932 dalla Fiat che, oltre a ottenere immediatamente un successo strepitoso, offre ancora oggi una delle immagini più classiche dell’Italia autarchica. Le nuove automotrici, che disponevano di 48 posti a sedere imbottiti in un unico grande ambiente, raggiungevano i 115 km/h, rivoluzionando il servizio sulle linee secondarie.
I ‘treni popolari’
All’inizio degli anni Trenta, sia per effetto della crisi economica mondiale, sia per la crescente concorrenza delle automobili, le Ferrovie dello Stato registrarono un forte calo nel traffico viaggiatori; parallelamente si verificò un altrettanto intenso calo negli arrivi dei turisti stranieri. Fu in questo quadro che, nella primavera del 1931, il ministero delle Comunicazioni intraprese una politica improntata alla concessione di speciali sconti per particolari destinazioni turistiche. Fu proprio l’orientamento del regime teso a garantirsi un ampio consenso che diede luogo all’istituzione di convogli ‘a prezzo ridottissimo’, come venivano chiamati.
Nell’agosto del 1931 vennero così inaugurati i primi ‘treni popolari’, straordinari di sola terza classe, con sconto fino all’80% sulla tariffa ordinaria, destinati a raggiungere località climatiche, balneari o di interesse storico e artistico. Consentirono in Italia la prima affermazione del turismo di massa, permettendo a migliaia di persone di raggiungere le località di villeggiatura e di salire su un treno per la prima volta. Riguardarono però una parte limitata della popolazione, quella che viveva nelle grandi città e lavorava nelle fabbriche e negli uffici.
Lo sviluppo autostradale
La vicenda autostradale italiana racchiude storicamente più significati. Sviluppatasi inizialmente in epoca fascista, nella seconda metà del 20° sec. diventò il simbolo della trasformazione infrastrutturale italiana tutta protesa alla celebrazione del motore e della mobilità privata. Nella storia delle autostrade italiane si rispecchia anche l’incerto e mai risolto rapporto fra pubblico e privato che, fin dai tempi di Mussolini, si intrecciarono senza ottenere, spesso e pericolosamente, una chiara delimitazione dei ruoli. Al tempo stesso, le autostrade costituiscono un settore tecnologico in cui l’Italia si è costantemente trovata all’avanguardia, a partire dagli esordi: gli italiani furono fra i primi a concepire e realizzare autostrade e ancora oggi esportano il proprio fondato saper fare, costruendo in tutto il mondo vie di comunicazione per veicoli a motore. Infine, un ulteriore aspetto sta nel difficile rapporto con l’ambiente, questione estremamente spinosa nel nostro Paese se considerata nella sua degenerazione di distruzione degli equilibri idrogeologici naturali, cui anche l’impianto di autostrade ha contribuito.
Le prime autostrade italiane vennero pionieristicamente costruite negli anni Venti. A livello internazionale le reti di autostrade divennero uno strumento per la ricucitura della tela della cooperazione fra Stati lacerata dalla Prima guerra mondiale. Andavano in questa direzione i numerosi progetti autostradali elaborati nel corso del decennio che interessarono l’intera Europa. In realtà, poi, l’unico Paese che investì in maniera convinta e sulla base di una visione complessiva fu la Germania di Adolf Hitler, dove le autostrade giocarono un ruolo assai simile a quello che ebbero in Italia, in quanto furono concepite a sostegno di un’esperienza totalitaria.
Al momento dell’avvio della stagione autostradale italiana il contesto dello sviluppo automobilistico era estremamente ridotto al Centro-Nord ed era quasi inesistente nella parte meridionale della penisola. La Milano-Laghi nel settembre 1925 apriva per prima le proprie corsie ai pochi fortunati che allora possedevano un’automobile. L’opera l’aveva voluta Mussolini stesso il quale, con uno dei primi atti dal momento della salita al potere, autorizzò la costruzione del tratto lombardo che dette avvio alla stagione autostradale italiana. Nonostante l’utilizzo a dir poco rarefatto, la novità si basava su un concetto avveniristico: la destinazione al solo trasporto a motore, con una carreggiata priva di linea di mezzeria e una casa cantoniera collocata all’ingresso per riscuotere il pedaggio.
L’Italia conseguì in epoca fascista una considerevole rete autostradale, 500 km nel 1940, anche grazie alla presenza di tecnici di livello come Piero Puricelli (1883-1951), ritenuto l’inventore dell’autostrada. Frutto maturo di una tradizione tecnica lusinghiera che l’Italia si era costruita fin dall’epoca della sua prima industrializzazione, Puricelli possedeva il profilo tipico di tecnico portatore di cultura nazionalista e competenze tecniche, che il fascismo esaltò per potenziare il Paese. Proveniente da una famiglia attiva nell’ambito delle costruzioni edili, ingegnere e imprenditore visionario e spregiudicato, fu l’autore di una serie innumerevole di progetti autostradali, a partire dalla Milano-Laghi per giungere al disegno di una rete europea, mantenendosi attivo fino alle porte della guerra. Intuendo gli sviluppi del trasporto a motore, Puricelli sfruttò l’amicizia con Mussolini e le ottime relazioni e protezioni di cui godeva, sia nel mondo industriale sia in quello politico, per promuovere la prospettiva autostradale. Fu grazie a lui che si venne a creare un terreno oltremodo fertile, nel quale crebbe un’opinione pubblica che guardò al fenomeno autostradale con grande interesse.
La nuova rete autostradale era lo specchio dell’Italia fascista, impegnata in quegli anni in uno sforzo notevole nel campo delle opere pubbliche e, in particolar modo, nel processo di modernizzazione delle infrastrutture di trasporto. Rispondeva altresì alla necessità di catturare il consenso degli italiani: supplire alle mancanze puntando tutto sui primati, stradale e ferroviario, in modo da nascondere il necessario che mancava e offrire il superfluo, costituiva un formidabile strumento di propaganda per un regime autoritario bisognoso di sbandierare all’interno come all’estero il proprio prestigio. Lo sviluppo automobilistico fu del tutto funzionale anche all’alleanza con quegli industriali che dallo sviluppo del settore avrebbero tratto robusti vantaggi economici, rappresentando quindi, in definitiva, una sorta di anomalo intervento diretto nei lavori pubblici.
Mussolini dimostrò una generosa benevolenza nei riguardi delle società costruttrici private, all’interno delle quali non mancavano ras del partito, cui il duce non fece mai mancare sussidi. Al punto che, misurata da parte degli imprenditori del settore l’incapacità di produrre reddito sostanzialmente a causa del fallimento del decollo del mercato dell’automobile, le autostrade italiane conclusero la propria traiettoria nel seno dello Stato, che finirà per riscattare i vari tratti entrati in esercizio. Del resto, la previsione delle entrate fu esageratamente ottimistica – prevedere che il pedaggio potesse coprire le spese di costruzione e di gestione si rivelò del tutto illusorio – mentre le spese furono sottostimate. Il grande crollo del 1929 inferse un colpo mortale a quanti avevano investito nel settore autostradale, spingendo verso una vasta incorporazione da parte dello Stato.
La svolta si situò, come per molti altri settori economici, negli anni Trenta, quando si assistette a un cambiamento di scala dei progetti, che da locali o regionali cominciarono ad assumere connotati nazionali e continentali. Il grande piano autostradale studiato nel 1934 dalla progenitrice dell’Anas, l’Azienda autonoma statale della strada, fondata nel maggio 1928, pur rimanendo sulla carta, costituì la base del successivo sviluppo dell’epoca del boom. Il successo più significativo fu la Milano-Torino, inaugurata in coincidenza del quarto anniversario della marcia su Roma, che vide una corposa concentrazione di giganti del mondo industriale italiano – da Giovanni Agnelli a Giovanni Battista Pirelli ad Antonio Pesenti – che poi si ritroveranno a far blocco nel secondo dopoguerra al momento di asfaltare il Paese. Ma ancora va rilevata la presenza della Banca commerciale e dei maggiori gruppi elettrici, tutti lanciati verso l’avventura autostradale, ma oltremodo prudenti nel volerne dividere i rischi con lo Stato.
Un bilancio autostradale nella sua prima fase non può sottovalutare la valenza di esperienza pilota, gravata però da una fatale incoerenza fra le differenti iniziative, frammentarie e disorganiche, e dall’assenza di una valutazione complessiva di opportunità economiche e funzionali. Non si riuscì mai a superare la contraddizione tra i privati, portatori di esigenze locali di breve respiro, e lo Stato, dal quale non provenne un concreto e ponderato progetto di rete nazionale. Il nodo della vicenda stava proprio nell’incapacità, protrattasi anche nell’epoca successiva, di varare un piano organico costruito su una visione di rete, che racchiudesse i vari sistemi di trasporto. Fondamentalmente, il tentativo di creare una domanda nel settore automobilistico, provvedendo alla creazione di un’offerta autostradale che andasse ben al di là di quanto il Paese allora era in grado di garantire, fallì. L’impostazione confusa e l’oggettiva arretratezza del contesto economico non riuscirono a conferire ai concetti di automobilismo e di motorizzazione uno spessore pienamente industriale e commerciale, relegandoli, viceversa, a patrimonio esclusivo di una ridotta e snobistica élite.
La ricostruzione
I danni subiti dalla rete ferroviaria durante la Seconda guerra mondiale furono ingenti: oltre 7000 km di binari, il 25% del totale, furono danneggiati, ben 4750 ponti, il 32,1% del totale come lunghezza complessiva, vennero distrutti e la stessa sorte toccò al filo aereo di contatto, mentre minori furono i danneggiamenti subiti dalle gallerie. La quantità di linee ferroviarie e di materiale rotabile distrutta totalmente o in parte rispetto all’anteguerra toccava il 40%, mentre il valore dei danni subiti dalle linee e dal materiale rotabile rispetto al patrimonio precedente il conflitto si ferma al 15%. Furono colpite, in particolare, le linee elettrificate e a doppio binario, sulle quali si concentrarono gli attacchi aerei. Bersaglio dei bombardamenti fu anche il materiale rotabile che si ridusse notevolmente rispetto alla consistenza avuta al momento dell’entrata in guerra.
Detto questo, se si paragonano i danni subiti dai Paesi europeo-occidentali, la situazione italiana non sembra peggiore delle altre relativamente alla dotazione patrimoniale di impianti fissi, materiale rotabile e attrezzature; viceversa, l’Italia fu il Paese che patì più degli altri la carenza di pezzi di ricambio per il materiale rotabile e per le attrezzature fisse.
La ricostruzione fu dunque difficile e onerosa, ma lo sforzo fu ampiamente ripagato: alla fine del 1948 la viabilità della rete era nuovamente garantita all’80%. Stessa efficienza fu dimostrata per gli impianti e il materiale rotabile colpiti dai bombardamenti e resi inservibili dalle manomissioni; per la loro riattivazione le ditte italiane furono chiamate a una rincorsa decisamente impegnativa vista anche la grave mancanza di materiali ferrosi ed elettrici necessari per la ricostruzione di questo settore. Sul programma di ripristino della rete incisero la mancanza di materiali da costruzione e di semilavorati, il precario stato di efficienza sia delle industrie private sia delle officine di Stato e, in ultima analisi, i pochi soldi a disposizione.
Il secondo dopoguerra: uno spartiacque
Le infrastrutture furono considerate nell’immediato secondo dopoguerra un dato marginale. Rispetto a quelle che vennero trattate da vere priorità dai nuovi governanti del Paese, non fu riservato loro un trattamento particolare e non vennero cercate né pensate serie alternative a quanto fu fatto. Non si seppe prevedere e neppure immaginare un futuro che fosse diverso dal passato; né si conferì alle infrastrutture quel ruolo strategico che avrebbero invece meritato all’interno di una riflessione più ampia sui termini dello sviluppo economico e sociale del Paese.
Il risultato è dunque facilmente sintetizzabile: il semplice restauro di quanto era stato danneggiato finì per denotare una netta continuità rispetto al passato, anche perché, in realtà, al momento della rinascita del Paese non venne elaborata una vera e propria politica globale all’interno del settore. Il secondo aspetto della questione risiede nella preferenza accordata ai trasporti a motore a discapito delle ferrovie, opzione che cominciò a delinearsi con nettezza fin dagli anni Cinquanta, nonostante che, durante la ricostruzione, la preminenza del mezzo ferroviario non venisse mai messa in discussione.
Le premesse, anche legislative, per il futuro boom stradale si posero fin dal 1948, quando una legge riorganizzò l’Anas, accentrandone l’autonomia e rendendo possibile la concessione a enti pubblici o privati di infrastrutture. Si generalizzò poi la pratica dell’aggiudicazione mediante licitazione privata per i lavori pubblici.
Il primo decennio della ripresa economica del Paese fu caratterizzato dal sogno autostradale e il motore sostituì la ferrovia senza alcuna scelta conclamata, ma sotto la spinta, da un lato, dei profondi mutamenti sociali e del costume che il nostro Paese visse e, dall’altro, di quello che è stato opportunamente chiamato il blocco della strada, ossia quei settori industriali interessati a una decisa intensificazione dell’uso del mezzo automobilistico. L’evidente inadeguatezza della rete ferroviaria, la maggiore elasticità della politica stradale, gli elementi gestionali che fin dall’inizio volsero al peggio per le Ferrovie dello Stato avrebbero nel giro di pochi anni facilitato un mutamento che al giorno d’oggi pare ormai irreversibile. La caduta dell’interesse nei riguardi del trasporto pubblico negli anni Cinquanta-Sessanta dunque fu netta. Si finì per primeggiare a livello europeo in campo autostradale ed ebbe inizio in questi anni un declino inarrestabile in ambito ferroviario, di cui non si vede ancora la fine.
Prestigio e velocità: l’Italia che riparte
In un contesto di forte penalizzazione del trasporto ferroviario, prese forma l’idea di lanciare un treno veloce che al tempo stesso rispondesse adeguatamente anche alle esigenze di prestigio, imposte dall’inserimento del Paese nel nuovo scenario internazionale, e al bisogno di implementare il settore turistico.
I primi progetti da parte degli uffici delle Ferrovie dello Stato per un treno prestigioso risalgono al 1948; cinque anni dopo faceva il suo debutto l’Etr 300, l’ultima generazione di elettrotreno, inizialmente avviato sulla dorsale fra Milano e Roma. Oltre a porsi come legittimo continuatore della tradizione della velocità ferroviaria italiana, il Settebello – costruito dalla Breda e composto di sette carrozze, quattro delle quali destinate a ospitare i passeggeri e le altre tre adibite a servizi – fu anche il simbolo del miracolo economico del Paese, il testimone viaggiante della rinascita dell’Italia.
Dal punto di vista della tecnologia ferroviaria, il nuovo elettrotreno di lusso rappresentava un passo in avanti considerevole, riunendo in sé modernissime installazioni tecniche e marcate caratteristiche di eleganza e di comfort. Il disegno presentava caratteri di grande originalità, soprattutto nelle due testate profilate con una sagoma aerodinamica tondeggiante e la cabina di guida sopraelevata. Altrettanto insolita era l’introduzione dei due belvedere, dove fu ricavato un salottino di undici posti, uno in testa e l’altro in coda, intuizione mutuata dai treni americani. La concezione della divisione degli spazi all’interno del treno era fortemente innovativa. La filosofia seguita nella progettazione non rispondeva a logiche di velocizzazione; piuttosto era maggiormente ispirata a un bisogno di comodità e di estetica; resta il fatto che il Settebello, che conseguì un successo notevole, ebbe anche il merito di contribuire ad abbassare sensibilmente i tempi di percorrenza sulla principale direttrice ferroviaria italiana.
Il trionfo del motore
Dopo il 1945 il dato che balza con maggiore risalto agli occhi di un osservatore della storia della mobilità italiana è l’impetuoso sviluppo automobilistico. L’affermazione dell’automobile come veicolo supremo di libertà di movimento ha coinvolto non solo la sfera dei trasporti e della mobilità, ma anche quella della psicologia collettiva. L’automobile a lungo, e tuttora, ha funzionato da formidabile status symbol nel mondo occidentale, modellando le società industriali e decretando il trionfo della mobilità individuale. L’enorme espansione della produzione automobilistica e dei veicoli per uso privato, in genere registratasi nell’Europa del dopoguerra, può ben essere illustrata dal fatto che le prime quattro nazioni europee, fra cui l’Italia, nel 1970 raggiunsero la produzione americana. La moltiplicazione dei veicoli per uso privato – una vera e propria motorizzazione di massa – incrementò gli investimenti nelle infrastrutture, che a loro volta favorirono lo sviluppo del trasporto su gomma sulle lunghe distanze.
Maggiormente flessibile rispetto a ogni altra modalità, il trasporto su gomma di persone e merci domina sovrano il panorama dei trasporti mondiali degli ultimi sessant’anni. Se nel 1965 in Europa il trasporto stradale rappresentava il 47% di tutto il trasporto di merci non marittimo, compresi gli oleodotti, dieci anni dopo la percentuale era salita al 56%, nel 1985 toccava il 62%, nel 1987 il 64% e nel 1993 infine raggiungeva il 77%. Non è azzardato affermare che nel secondo dopoguerra si sono verificati i cambiamenti più straordinari in tema di mobilità mai avvenuti prima.
L’Autostrada del Sole
L’esperienza fascista contribuì a preparare la svolta autostradale del secondo dopoguerra. Il patrimonio di 479 km ereditati dal regime aumentò a 1169 nel 1960, 1736 nel 1965, 3913 nel 1970 e, infine, 5329 nel 1975. Fu uno sviluppo poderoso avviato intorno alla metà degli anni Cinquanta da Giuseppe Romita, ministro socialdemocratico dei Lavori pubblici, con il piano Romita, che in pratica decretava la fine della prevalenza del trasporto ferroviario. L’ingente investimento in nuove autostrade, tutte a pedaggio, avrebbe mutato per sempre il volto infrastrutturale del Paese e la sua mobilità. Nella stessa epoca alcune grandi imprese, dalla Fiat – che nel 1954 faceva uscire sul mercato la 600 – all’Italcementi, dalla Pirelli all’Italstrade, ma anche le imprese petrolifere e quelle assicurative, interessate direttamente allo sviluppo delle autostrade e riunite, a partire dal 1952, nella Federazione italiana della strada, cominciavano a spingere per una decisa opzione motoristica.
L’ottica autostradale fu chiaramente sfruttata dalla Democrazia cristiana, che conferì una valenza politica di rilievo alle opere pubbliche in funzione elettorale per opporsi alla sinistra, la quale, da parte sua, cedette facilmente alla prospettiva costituita da un aumento considerevole dell’occupazione che il piano implicava. Non vanno neppure trascurate poi altre motivazioni, di ordine sociologico, ampiamente note, che facevano dell’automobile un simbolo di libertà e di progresso; il sogno autostradale, dunque, era pienamente in sintonia con i profondi mutamenti sociali e del costume che l’Italia stava vivendo all’epoca.
Il trasporto su gomma fu oggetto di un trattamento particolarmente vantaggioso in termini di mancanza di una precisa regolamentazione. Il criterio dell’aggiudicazione mediante licitazione privata degli appalti per la costruzione dei vari tratti, un meccanismo sostanzialmente tanto sbrigativo quanto sospetto, permise alle società interessate di forzare la mano ai politici con la conseguenza che fenomeni di corruzione e favoritismi si diffusero enormemente. Nei fatti, la politica dei lavori pubblici, in anni cruciali per lo sviluppo del Paese, rimase in gran parte nelle mani di un ristretto numero di imprese private.
L’atteggiamento di favore nei riguardi dei costruttori autostradali fu mantenuto ancora per tutti gli anni Sessanta e prese le forme legislative più varie. La spesa complessiva per la realizzazione di un patrimonio autostradale che ci pose ben presto ai vertici europei superò di parecchio ogni previsione, gonfiando ulteriormente i profitti delle società private e scaricando ogni onere sulle spalle dello Stato. La massima attenzione prestata al sistema autostradale portò con sé un’inevitabile diminuzione degli investimenti nelle strade ordinarie; gli stanziamenti principali infatti furono interamente assorbiti dalle autostrade.
La realizzazione più significativa fu l’Autostrada del Sole, i cui lavori ebbero inizio nel 1956. In otto anni vennero portati a termine 755 km di autostrada costruiti secondo standard tecnici in gran parte importati dagli Stati Uniti. Opera di alta statura tecnica, il lungo nastro autostradale che unisce Milano a Napoli rappresenta compiutamente l’Italia degli anni Sessanta nei suoi nuovi valori e nella sua capacità di emanciparsi dalla propria arretratezza. Fu in definitiva uno dei più potenti fattori di modernizzazione di un Paese che stava definitivamente cambiando pelle anche grazie alle proprie infrastrutture.
Nel 1973, quando il boom autostradale volse al termine, l’Italia risultava, per lunghezza complessiva, la terza nazione al mondo dopo gli Stati Uniti e la Germania.
La Direttissima Roma-Firenze e i primi passi dell’Alta velocità
Nell’ambito del tentativo di rivitalizzazione del trasporto ferroviario da una parte si pensò alla possibilità di disegnare linee veloci e, dall’altra, si cominciò a immaginare un innovativo treno veloce. La prima idea di Direttissima tra Firenze e Roma risale al 1958. Il tratto era ovviamente fondamentale nell’economia della rete ferroviaria nazionale, mentre il tracciato esistente, tortuoso e lento nonostante il raddoppio – fra Roma e Chiusi – e l’elettrificazione, entrambi risalenti all’epoca fascista, non rispondevano al bisogno. Il progetto di una nuova linea fra le due città fu probabilmente il più rilevante in un’epoca di sorti declinanti per le ferrovie.
I lavori della nuova linea ebbero inizio nel 1970. Il nuovo tracciato accorciava il precedente di 61 km, da 316 a 255; vi si sarebbe raggiunta una velocità di 250 km/h, obiettivo che impose l’adeguamento degli impianti di segnalamento e di tutti gli impianti fissi, in sintonia con il processo di vasto ammodernamento e di rinnovamento tecnologico del materiale rotabile e degli stessi impianti fissi deciso in quegli anni per tutta la rete.
Per tutti gli anni Settanta, la Direttissima Roma-Firenze rappresentò la frontiera della modernità ferroviaria. Nel 1977 venne finalmente aperta la prima tratta fra Roma Settebagni e Città della Pieve, mentre quella fra Chiusi e Arezzo fu portata a termine solo otto anni dopo. L’intero percorso venne completato nel 1992.
Sull’altro versante del nuovo treno veloce, la grande intuizione fu l’assetto variabile. Se si voleva far viaggiare un treno a velocità superiori rispetto a quelle comunemente praticate, non solo nei rettilinei, ma anche in curva, bisognava prevedere che cambiasse assetto. Ciò fu reso possibile grazie all’idea del pendolamento, che permetteva al nuovo treno di toccare velocità assai maggiori senza rischi né disturbi apportati ai viaggiatori. L’assetto variabile, sistema a casse oscillanti, applicato al corpo della vettura permetteva al treno di inclinarsi in curva verso l’interno; in tal modo, gli effetti della forza centrifuga in curva, quando il treno viaggiava a velocità superiori a quelle dei treni normali, sarebbero stati contenuti. I carrelli restavano incollati ai binari mentre il corpo della vettura inclinava. L’assetto variabile consentiva al treno di abbordare le curve con un sovralzo addizionale a quello della rotaia esterna.
L’ostacolo più arduo da superare era costituito dai carrelli, che un ingegnere in servizio presso la Fiat ferroviaria, Oreste Santanera (1918-2013), aveva cominciato a studiare fin dalla prima metà degli anni Sessanta. Nel 1967 il tecnico brevettò un tipo di carrello destinato in seguito a costituire la base della concezione del nuovo treno. L’idea originale non era tanto quella del pendolamento, di cui esiste traccia anche in precedenza nella storia delle ferrovie europee, bensì del giroscopio che ne permetteva l’attuazione. Questo strumento, infatti, riusciva a sentire la variazione della geometria di binario, preannunciando la curva e trasmettendola ai pistoni idraulici che attuavano l’inclinazione della cassa in modo graduale. Per questo motivo la cassa era un po’ più piccola del normale e ben arrotondata e tutti i sedili erano disposti secondo il senso di marcia, come gli aerei, in modo da non sommare gli effetti del pendolamento a quelli negativi della posizione opposta. Il Pendolino, come si chiamò il nuovo elettrotreno che dette la sterzata decisiva alla storia dell’Alta velocità in Italia, fu un frutto maturato all’interno dell’industria privata nel corso degli anni Sessanta.
L’11 ottobre 1971, al termine di un programma di sperimentazione durato quattro anni, un’elettromotrice prototipo chiamata Y0160/7199, utilizzata come laboratorio viaggiante, percorreva il tracciato pieno di curve, e per questo ritenuto idoneo, fra Torino e Asti. Nelle curve in cui era ammessa una velocità di 60 km/h, l’elettromotrice era in grado di raggiungere i 100 km/h. Il primo esemplare di Pendolino ad assetto variabile, l’Etr 401, dopo essere stato testato definitivamente nel giugno precedente sul tratto Torino-Trofarello, entrò in servizio sul tratto Roma-Ancona il 2 luglio 1976. Poteva viaggiare a una velocità massima di 250 km/h, con a bordo 171 passeggeri tutti in prima classe. Era il primo modello del genere sviluppato con successo nel mondo, precedendo anche il Tgv fra Parigi e Lione, che risale al 1981.
Luci e ombre autostradali: un caso emblematico
Nella storia dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, caso emblematico della storia delle autostrade italiane, sono condensati i difetti di cui l’Italia, e in particolare il Meridione, soffrono in ambito infrastrutturale. Un tratto di soli 400 km – sicuramente il tratto autostradale più tormentato dell’intera penisola e attualmente quello di più difficile percorrenza – ha sollevato durante i lunghi anni della sua realizzazione senza fine una montagna di polemiche. Costituisce infatti un paradigma di stoltezza tecnica e politica e il metro di paragone ormai per ogni disagio in termini di spostamenti.
Vittima di un originario errore progettuale, in seguito al quale venne concepita come un’opera anomala rispetto alle altre analoghe della stessa generazione, la Salerno-Reggio Calabria fu gravata da una visione di fondo della questione meridionale viziata dalla convinzione che il Sud non avrebbe mai avuto capacità autonome di sviluppo. Liberandola dall’obbligo del pedaggio, si assegnavano all’autostrada dorsale tirrenica finalità sociali, finendo però per relegarla, insieme con le aree attraversate, in una disperata marginalità infrastrutturale. Scegliere un tracciato interno aspro e montagnoso, quindi di difficile realizzazione tecnica, piuttosto che quello costiero, sicuramente più funzionale, ha rappresentato alla lunga la condanna dell’autostrada che ancora, simbolicamente, fatica a congiungere il Nord con il Sud.
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