Le imprese del Risorgimento
Contesti economici e percorsi interpretativi
Tra i primi lavori sulla storia dell’industria italiana vanno senz’altro segnalati, oltre alle opere celebrative di ricorrenze importanti di una o di un’altra azienda (Mori 1959), quello di Corrado Barbagallo (1929) sulle origini della grande industria in Italia, che per primo si mosse nella direzione di rintracciare gli inizi dello sviluppo industriale italiano già nel Settecento, e quello, anch’esso dedicato alla grande industria, di Rodolfo Morandi (1931). Si ferma invece alla proclamazione dell’Unità il lavoro di Roberto Tremelloni, che prende anch’esso avvio dal Settecento, ma del quale è stato pubblicato nel 1947 soltanto il primo volume. Nello stesso anno apparve il lavoro di Emilio Sereni sul capitalismo nelle campagne, seguito di lì a poco dagli scritti sul Risorgimento di Antonio Gramsci (1949). Le due opere indicano la responsabilità dei ritardi dello sviluppo industriale del Paese nei limiti del Risorgimento come ‘rivoluzione agraria mancata’. Le vicende dell’agricoltura italiana e il loro rapporto con la storia industriale assumono così una pronunciata valenza politica. Quella visione negativa sembra poi trovare conferma sul piano strettamente scientifico nel lavoro di Gino Luzzatto (1957) sull’economia nel primo decennio postunitario.
Tra il 1956 e il 1958 lo storico siciliano Rosario Romeo pubblicò nella rivista «Nord e Sud» due articoli (poi raccolti nel suo Risorgimento e capitalismo, 1959) in cui metteva in discussione l’interpretazione di Gramsci e di Sereni, alla quale opponeva una ricostruzione basata sull’idea che senza un’accumulazione di capitale non si sarebbe potuta avere, in un Paese eminentemente agricolo come l’Italia, nessuna trasformazione industriale in senso moderno. Quest’accumulazione sarebbe stata resa possibile dall’aumento della rendita fondiaria, dovuto all’incremento della produzione agricola, nel primo ventennio dopo l’Unità. Si sarebbe così generata, attraverso meccanismi di risparmio in parte volontario e in parte forzato (sistema fiscale), quell’accumulazione primitiva di capitale che avrebbe permesso – insieme agli investimenti provenienti dall’estero – la realizzazione delle infrastrutture che hanno poi consentito lo sviluppo industriale del Paese. Alla fine degli anni Cinquanta prese così avvio un dibattito storiografico sui caratteri e l’interpretazione dello sviluppo industriale italiano che ha segnato un’epoca (cfr. Pescosolido 1983). Erano gli anni del miracolo, e le vicende dell’economia italiana suscitarono grande interesse non solo in Italia.
I lavori di Romeo incontrarono l’opposizione di Alexander Gerschenkron, che ne riconobbe l’importanza, ma ne contestò la ricostruzione storica e il modello interpretativo. Ne nascerà un’accesa discussione accademica e politica che darà origine a un’enorme quantità di ricerche e di studi (cfr. De Rosa 1980, pp. V-XI). Non è questa la sede per ricostruire quel dibattito, che pose al centro dell’attenzione non solo il ruolo dell’agricoltura, ma anche la qualità dei dati utilizzati. Gerschenkron aveva pubblicato nel 1955 sul «Journal of economic history» un indice del saggio di sviluppo industriale dell’Italia (ora in Gerschenkron 1965, pp. 71-87), basato sul lavoro di Guglielmo Tagliacarne (1947) per il ministero della Costituente. Il lavoro di Romeo si giovava, invece, di una serie di dati resi disponibili dall’Istituto centrale di statistica nel biennio 1957-58 (Indagine statistica sullo sviluppo del reddito nazionale dell’Italia dal 1861 al 1956, 1957; Sommario di statistiche storiche italiane 1861-1955, 1958). La revisione critica di tali dati e la ricerca di nuove fonti, a partire dalle quali realizzare nuove elaborazioni, sono fatti dell’ultimo quindicennio, e sembrano aprire una nuova stagione di riflessioni, destinate forse a una maggior condivisione (Pescosolido 1998; Fenoaltea 2006; Trento 2012).
A partire dagli anni Ottanta, alla discussione si sono aggiunti nuovi temi e nuovi spunti. Innanzitutto lo studio dei fattori tecnologici: nella storiografia sullo sviluppo economico moderno, infatti, se la tecnologia ha un posto di assoluto rilievo negli studi sul Regno Unito, sugli Stati Uniti, sulla Germania, sul Giappone, è mancata un’analisi storica sul suo ruolo nello sviluppo dell’Italia (Giannetti 1998, p. 7). Inoltre, si è cominciato a prestare maggiore attenzione alla storia delle imprese e degli imprenditori (Castronovo 1980; Bigazzi 1990 e 1999; Crepax 2002; Castagnoli, Scarpellini 2003). La rivalutazione del mondo imprenditoriale ha coinciso con una nuova interpretazione del ruolo dell’industria pesante e della mano pubblica nel promuovere l’industrializzazione: anche senza voler negare quest’ultimo, infatti, l’imprenditorialità diffusa presente nel Paese già prima del compimento dell’Unità diventa più importante se si sposta l’asse interpretativo e si considerano entrambe le componenti in una prospettiva ‘gradualista’ e di ‘lunga durata’ (Bonelli 1978; Cafagna 1989 e in Storia economica d’Italia, 1° vol., 1998; Bigazzi 1990 e 1999).
Tra agricoltura e industria
Se si guarda allo sviluppo industriale italiano in un’ottica tradizionale, il panorama preunitario non può che apparire sconfortante. Anche se la ricerca storica mostra – a ragione – come le origini dell’industria italiana siano rintracciabili già quando la penisola era divisa tra vari Stati di diverse dimensioni, vi è tra gli studiosi un consolidato consenso sul fatto che il Paese, al momento dell’unificazione, fosse ancora decisamente arretrato.
La lavorazione a domicilio era estremamente diffusa nelle città come nelle campagne; gli scambi risultavano limitati perché il mercato era ristretto e modesto per il basso livello dei consumi; scarsi erano i mezzi di comunicazione, e insufficiente la viabilità, soprattutto nel Mezzogiorno e nelle zone montagnose in buona parte della penisola (De Rosa 1980, pp. XIII-XVI). La realtà economica e sociale era estremamente frammentata, disegnando «un mosaico di diversi segmenti regionali eterogenei e spesso contrastanti» (Castronovo 1980, p. 3). La rete ferroviaria assommava a poco più di 2000 km, era sostanzialmente interna ai singoli Stati e non esistevano collegamenti longitudinali da un capo all’altro della penisola. Il tasso di alfabetizzazione, basso ovunque, era solo relativamente più alto nelle regioni del Nord-Ovest, il futuro triangolo industriale, con Veneto e Toscana in posizione intermedia.
E tuttavia, anche sullo sfondo di questo quadro di arretratezza, si possono notare dei sintomi di sviluppo industriale che si intensificarono a mano a mano che ci si avvicinava alla metà del secolo e, ancor più, all’unificazione politica del Paese. Inoltre, nel dibattito che accompagnò il movimento risorgimentale, la questione nazionale si intrecciò ripetutamente con quella dello sviluppo economico. Il termine stesso Risorgimento, del resto, implica di per sé la volontà di «riscatto da una condizione di ritardo, di subordinazione, di dipendenza, in ogni campo della vita collettiva, da quello culturale a quello civile, a quello economico» (Lacaita, in L’industria nei 150 anni dell’Unità d’Italia, 2012, p. 79). L’osservazione delle trasformazioni che stavano avvenendo al di là delle Alpi sollecitò già negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento l’adozione di nuovi sistemi nel campo dei trasporti, nel campo manifatturiero (in particolare nel tessile) e anche in agricoltura.
Gli italiani che parlavano di redenzione politica e di rinascita morale e civile (cioè quella parte di classe dirigente che avrebbe guidato il processo di unificazione) discutevano anche di trasformazioni agricole e progressi manifatturieri, di miglioramento della gelsi-bachicoltura, di lavorazione della seta e del cotone, di produzione di formaggi e di vini, di incremento del credito, di circolazione delle merci, di come estendere le ferrovie e collegarle fra loro, di come usare i nuovi congegni meccanici e i nuovi prodotti chimici (Lacaita, in L’industria nei 150 anni dell’Unità d’Italia, 2012, p. 81).
Le potenzialità di questa eredità preunitaria appaiono oggi più significative di quanto non si ritenesse ancora negli anni Ottanta, perché si è diffusa l’idea che l’Italia abbia seguito una sua linea di crescita economica, con caratteristiche specifiche legate alla sua storia e alle sue condizioni di partenza, differenziandosi dal «paradigma inglese» (Bevilacqua, in Storia economica d’Italia, 1° vol., 1998; Crepax 2002, pp. 99-116). E i settori tradizionali – che alimentarono in larga parte un’imprenditorialità diffusa che comunque esisteva, sia pur in diversa proporzione, in tutti gli Stati preunitari – hanno un peso rilevante in questa diversa visione del processo di sviluppo.
L’Italia che si affacciava sulla scena internazionale nel 1861 era un Paese con una struttura economica essenzialmente agricola. L’agricoltura contribuiva per il 58% alla formazione del prodotto privato lordo, contro il 20% dell’industria e il 22% del terziario. Quella dell’Italia era, d’altronde, una situazione comune alla maggior parte dell’Europa continentale: benché esistessero aree di intenso sviluppo industriale in Francia, Belgio, Paesi Bassi, Germania, impero austro-ungarico, in nessuno di questi Stati l’agricoltura aveva perso il suo primato, come era invece avvenuto in Inghilterra. Solo in Belgio vi era una relativa prevalenza dell’industria, e nei Paesi Bassi una decisa supremazia del terziario. Si dovrà giungere alla fine del 19° o addirittura all’inizio del 20° sec. per vedere il processo di industrializzazione largamente predominante o comunque irreversibilmente avviato in molti Paesi del vecchio continente. L’agricoltura del resto si trovava di fronte a una tale domanda di innalzamento dei livelli di produttività (causata dalla stessa rivoluzione industriale con i suoi processi di transizione demografica, urbanizzazione e formazione del proletariato di fabbrica) da rendere inevitabile una trasformazione di tecniche colturali e rapporti di produzione, di natura e dimensioni epocali (Pescosolido 2011).
Le visioni industrialiste del futuro economico del nuovo Regno, pure qua e là timidamente avanzate, restarono nettamente minoritarie almeno fino agli anni Ottanta dell’Ottocento. I grandi temi attorno ai quali ruotava la riflessione rimasero pressoché esclusivamente agricoli, e gli interessi di tipo agronomico ebbero una schiacciante preminenza anche nelle istituzioni scientifico-culturali. Per gli economisti liberisti del primo quindicennio postunitario, e per larga parte della classe dirigente con loro, nella divisione internazionale del lavoro l’Italia doveva perseguire lo sviluppo delle sue risorse ‘naturali’, e quindi essenzialmente della produzione agricola. Perfino per un uomo come Carlo Cattaneo (1801-1869), che pure era consapevole della forza dell’industria inglese e degli esiti potenzialmente distruttivi che essa avrebbe potuto avere sulle manifatture dei Paesi arretrati, come l’Italia, il riferimento liberista e agricolturista rimase un assioma. Lo fu anche nel Piemonte cavouriano che, a partire dagli anni Quaranta, assunse la guida politica e culturale del processo di unificazione e che conobbe uno sviluppo economico straordinario negli anni Cinquanta, quando le esportazioni aumentarono a un ritmo del 10% annuo trainate dall’olio e dalla seta greggia.
Al momento dell’unificazione, l’Italia poteva contare su un certo numero di stabilimenti e imprese di tipo industriale, nel settore tessile e in quello alimentare, accanto a un antico e illustre artigianato di prodotti di lusso, e poi sul legname, destinato a notevoli sviluppi per via del forte legame con l’attività edilizia e la costruzione di infrastrutture. Tutti settori che si trovavano in una posizione di cerniera tra agricoltura e industria. L’industria tessile rappresentava la quota maggioritaria, sia nei numeri sia – ancor più – nella percezione dei contemporanei e degli storici. Si trattava, oltretutto, dell’unico settore industriale che potesse vantare una presenza territoriale non episodica.
In Piemonte erano presenti tutte le specialità: seta, lana e cotone. La Lombardia primeggiava nell’industria serica e aveva una significava presenza della cotoniera. L’industria cotoniera era inoltre presente in Campania, mentre quella laniera lo era anche in Toscana e nel Veneto. La lavorazione a domicilio era di gran lunga prevalente, e la produzione di fabbrica risultava decisamente poco sviluppata. Gli opifici restavano al di sotto delle dimensioni medie dei coevi concorrenti europei, ma qualche decina di impianti superava la soglia minima e usciva dalla dimensione artigianale, con esperienze di rinnovamento del macchinario e dell’organizzazione produttiva che daranno frutti importanti dopo l’unificazione.
Tra il 1870 e il 1874 venne condotta un’inchiesta parlamentare sulla situazione dell’industria in Italia (Baglioni 1974). Ne fu promotore uno dei grandi imprenditori tessili: Alessandro Rossi. La classificazione delle industrie italiane adottata dalla commissione (Baglioni 1974, pp. 197-98 nota) rifletteva la visione dei contemporanei: sulle diciotto categorie indicate, ben quattro riguardano i settori tessili, partitamente considerati, altre quattro le industrie direttamente legate alla produzione agricola, mentre ben cinque categorie riguardano le produzioni artigiane di lusso e la carta; soltanto le ultime cinque si riferiscono a settori non collegati direttamente o indirettamente alla produzione agricola:
• cat. XIV. Industrie grafiche;
• cat. XV. Industrie pesanti: 1) miniere e cave; 2) industrie metallurgiche; 3) macchine; 4) armi; 5) strumenti di precisione; 6) ceramica; 7) vetreria; 8) prodotti chimici di origine minerale; 9) sale e polvere pirica;
• cat. XVI. Lavori di precisione;
• cat. XVII. Marina: 1) trasporti marittimi; 2) costruzioni navali;
• cat. XVIII. Ferrovie.
Gli imprenditori della seta e della lana
Prima dell’Unità fu soprattutto il comparto della seta – nel quale le campagne piemontesi e lombarde godevano di una situazione climatica vantaggiosa, di una tradizione plurisecolare e di una posizione geografica a ridosso dei principali mercati europei – a beneficiare maggiormente dell’aumento della domanda internazionale.
Nel decennio a cavallo dell’unificazione, il comparto subì una crisi drammatica dovuta al diffondersi della pebrina, una malattia epidemica del baco. Il superamento di questa fase, grazie all’importazione di uova seme-bachi dal Giappone e a nuove tecniche di allevamento, produrrà una ristrutturazione del settore, a tutto vantaggio delle regioni settentrionali, e approderà a una nuova organizzazione produttiva, non dissimile da quella del comparto cotoniero che, sotto l’impulso di un gruppo di importanti aziende lombarde, si era modernizzato e meccanizzato molto rapidamente.
Il comparto laniero, infine, procedeva lentamente, ma con continuità, mantenendo la preminenza di alcune grandi imprese che si affermarono precocemente e furono in grado di orientare tutto il settore nella scelta delle strategie produttive e di mercato.
La maggiore dinastia imprenditoriale della seta era la famiglia Gavazzi, attiva nel settore dagli anni Settanta del Settecento, con Pietro Antonio (1729-1797) direttore e affittuario di filande e filatoi a Valmadrera. Suo figlio Giuseppe Antonio (1768-1835) diverrà proprietario di impianti a Valmadrera e a Bellano, sul Lago di Como, affermandosi nell’età napoleonica e nei primi anni della Restaurazione tra i maggiori produttori della regione, con stabilimenti dotati di tecnologie avanzate, come il sistema di trattura a vapore Gensoul-Bruni. Negli anni di formazione dello Stato unitario suo figlio Pietro (1803-1874) fece crescere ulteriormente l’azienda, dopo essersi svincolato dai soci nel 1852. Nelle sue fabbriche avviò una nutrita serie di miglioramenti tecnologici sin dagli anni preunitari, e fu tra i primi a importare sete cinesi e giapponesi per l’utilizzazione nel ritorto attraverso l’impiego di sbattitrici meccaniche e di macchine apposite. Nel 1869 spinse i figli Egidio (1846-1910) e Pio (1848-1927) ad aprire una tessitura meccanica a Desio, mentre affidò agli altri figli Carlo (1832-1878) e Giuseppe (1831-1913) l’azienda di Valmadrera. L’impresa divenne la più importante in Italia tra le manifatture seriche, dando luogo a ingenti esportazioni, anche negli Stati Uniti. La sua produzione, prevalentemente incentrata sulla stoffa per ombrelli, si rivolgeva ad articoli semplici e di costo contenuto: artefice principale di questa strategia di sviluppo fu Egidio, imprenditore attento alle novità, benché conservatore in politica.
Quanto all’industria laniera, il riferimento territoriale delle imprese maggiori era in Piemonte, nel Biellese e in Veneto, nel Vicentino. Nel Biellese, in particolare, emersero – ancora nella seconda metà del Settecento – alcune famiglie che spostarono i loro interessi dalla gestione delle terre, dal prestito di denaro e dal commercio verso le attività industriali, forti anche di vincoli relazionali che permettevano di attingere, fra i parenti e gli amici, i capitali necessari all’impianto delle prime manifatture. Fra questi imprenditori vi furono i Sella di Valle Mosso: fu uno di loro, Pietro, a introdurre in Italia nel 1817 alcune innovazioni tecniche già collaudate in Belgio e in Inghilterra; il suo esempio venne seguito dal fratello Giovanni Battista (1788-1878), e quindi nel 1835 da Maurizio (1784-1846), padre di Quintino, che aprì il nuovo opificio della famiglia lungo il torrente Cervo. Il loro più celebre esponente fu Quintino, uno degli uomini politici più autorevoli del ventennio postunitario, ma furono i suoi fratelli – in particolare Giuseppe Venanzio (1823-1876) – a condurre l’azienda di famiglia, attuando un forte rinnovamento tecnico e organizzativo che sarà poi la base della prosperità successiva dell’azienda.
Ha origini antiche anche l’attività laniera nel Vicentino. Qui avviò la sua attività come intermediatore di lane Francesco Marzotto (1730 ca.-1800), genero di un fabbricante di tessuti di Valdagno. Fu però uno dei suoi figli, Luigi (1773-1859), a compiere il passaggio successivo che portò alla nascita di un vero opificio, la Fabbrica, dove nel 1836 vennero accentrate le lavorazioni precedentemente sparse presso lavoranti a domicilio, come era tradizione. Il decollo dell’azienda verso la dimensione di grande industria avvenne sotto la guida di suo figlio Gaetano (1820-1910), che gradualmente uscì dalle attività mercantili del padre e si concentrò sulla manifattura laniera: negli anni Settanta la sua azienda fu la seconda del Veneto, dopo il Lanificio Francesco Rossi di Schio. Dalla metà degli anni Ottanta, il suo secondogenito Vittorio Emanuele (1858-1922), gerente dal 1879, orientò l’ampliamento dell’azienda verso la costruzione di un impianto a ciclo completo di pettinatura e di filatura pettinata, realizzato in un nuovo stabilimento prossimo a quello originario.
La Gaetano Marzotto & figli si pose così fra le aziende più evolute e innovative dell’industria laniera: la pettinatura e la filatura furono subito dimensionate non solo per soddisfare l’autoconsumo, ma anche per avviare la vendita del semilavorato (il tops, o nastro pettinato) e del filato pettinato a fabbricanti terzi che si muovevano sulla più remunerativa frontiera dei tessuti di qualità. Tale innovazione portò l’azienda a proiettarsi sempre di più sui mercati stranieri, sia per l’acquisizione della materia prima sia per l’esportazione dei filati industriali, in un primo tempo nell’area danubiano-balcanica, e in seguito nell’America Meridionale. Il continuo confronto con i mercati internazionali differenziò l’azienda valdagnese dal Lanificio Rossi, più conservatore.
Quest’ultimo era stato fondato nel 1817 da Francesco Rossi, ma venne trasformato in grande impresa industriale dal figlio Alessandro (1819-1898), che ne assunse la direzione nel 1849, dopo un periodo di inattività seguito alla morte del padre e alle vicende politiche del 1848. Alessandro Rossi ammodernò completamente la vecchia fabbrica, e nel 1862 la ampliò con la costruzione della Fabbrica Alta, uno dei simboli della prima industrializzazione italiana: lungo 80 m e largo 14, il nuovo edificio contava sei piani di altezza più il sottotetto; al suo interno vi erano immensi saloni suddivisi in tre campate da 125 colonne in ghisa, illuminati da oltre 300 finestre, e il tetto era sormontato da decine di abbaini. In ogni piano si eseguiva una diversa fase della lavorazione della lana. Lo sviluppo dell’impresa fu di tale portata da condizionare lo sviluppo economico, sociale e urbanistico di Schio e del circondario (Pievebelvicino, Torrebelvicino, Santorso, Piovene Rocchette, Cogollo del Cengio e Marano Vicentino).
Dopo il 1859 e fino al 1866 Schio rimase parte dei domini austriaci, fatto che condizionò i rapporti dell’azienda con il mercato italiano. Dopo l’ingresso delle province venete nel Regno d’Italia, Rossi venne eletto deputato (1867) e nel 1870 fu nominato senatore. Da questo momento all’attività imprenditoriale si affiancò un’importantissima attività politica, di grande rilievo per i successivi orientamenti della politica commerciale e industriale del Regno, di cui si dirà in seguito. Nel 1873 le lanerie e la filanda vennero fuse in un grande organismo societario, la Lane Rossi, quotato alla Borsa di Milano, realizzando un’impressionante raccolta di capitali. La gestione dell’impresa fu affidata a quattro dirigenti esterni alla proprietà, posti a capo di quattro settori produttivi indipendenti, ma sottoposti al divieto di concorrenza reciproca e assoggettati al controllo dell’amministrazione generale e del consiglio di amministrazione. Alla fine degli anni Settanta l’impresa occupava 5000 operai, capitalizzava 30 milioni ed era considerata nel suo settore la più aggiornata tecnologicamente e la più grande d’Italia.
Cantoni, Crespi e l’industria del cotone
Risalgono alla fine del Settecento anche le origini delle maggiori industrie cotoniere lombarde, alle quali si deve in gran parte la modernizzazione produttiva del settore già negli anni centrali dell’Ottocento. Nei primi anni dell’Ottocento, infatti, ai numerosi operatori che avevano aperto nel Lecchese piccoli impianti per la filatura e la tessitura del cotone, si aggiunsero alcuni nuovi imprenditori che, contando sui favori dapprima della legislazione napoleonica e poi del governo austriaco, impiantarono le loro fabbriche nella fascia di territorio delimitata dall’Olona e dal Brebbia.
Il pioniere di questo gruppo fu probabilmente Andrea Ponti (1752-1819), che fu il primo ad adottare la jeannette nel 1812, e nel 1818 fondò a Solbiate Olona una filatura meccanica. Fu però un altro Andrea Ponti ad avviare nel 1823 un nuovo stabilimento nel quale adottò la mule-jenny fino ad allora sconosciuta in Italia. Nel 1819 anche Pasquale Borghi stabilì a Varano, sul canale Brebbia, una filatura meccanica, che si sviluppò presto come una solida realtà industriale e una notevole fonte di ricchezza. Alla sua morte, l’azienda passò nelle mani dei fratelli Francesco e Carlo. Risale, infine, al 1820 l’avvio dell’attività a Legnano del cotonificio di Costanzo Cantoni (1800-1876).
Nel trentennio successivo, queste aziende conobbero un notevole sviluppo basato sulla lavorazione del cotone greggio importato dagli Stati Uniti. Fu nel decennio precedente all’Unità che una nuova generazione prese in mano la conduzione delle tre aziende, rinnovandole ulteriormente dal punto di vista tecnico e portandole a una dimensione organizzativa e produttiva di notevole rilievo. L’azienda Borghi venne presa in mano dal figlio di Carlo, Luigi (1812-1859), che in gioventù si era distinto per l’attività politica antiaustriaca, ma dal 1849 si dedicò esclusivamente all’industria; alla sua morte, dopo un breve periodo di gestione affidato all’altro nipote di Pasquale, Paolo, l’azienda passò nelle mani di Napoleone, Pio e Antonio, figli di Luigi. Nel corso degli anni Cinquanta, inoltre, Eugenio Cantoni (1824-1888) affiancò in azienda il padre, che gliene cedette gradualmente la gestione. Eugenio era un imprenditore di grandi capacità e con relazioni politiche di notevole livello: dopo un’occasionale partecipazione ai moti del 1848, sposò, infatti, Amalia Genotte von Markenfeld e Sauvigny, figlia di uno stretto collaboratore dell’imperatore d’Austria. Le redini del cotonificio Ponti furono invece saldamente nelle mani di Andrea, che investì con decisione nell’aggiornamento e nel potenziamento tecnologico degli impianti.
All’indomani dell’Unità l’industria cotoniera italiana subì il contraccolpo della guerra di secessione negli Stati Uniti e del blocco dei porti degli Stati del Sud, che rese impossibile l’esportazione del cotone greggio verso l’Europa. A questo si aggiunsero le difficoltà causate dall’indirizzo più liberista nella politica commerciale del nuovo regno, che si manifestò nel trattato commerciale con la Francia del 1863. In questa difficile congiuntura Cantoni, ma anche Borghi e Ponti riuscirono a tenere, e continuarono a investire nell’adeguamento degli impianti. In tal modo poterono godere dei benefici derivanti dall’introduzione del corso forzoso (1866) e dall’espansione degli anni successivi alla guerra franco-prussiana.
Negli anni Settanta la ditta Cantoni si trasformò nella società anonima Cotonificio Cantoni, nella quale entrarono anche Andrea Ponti (presidente della società fino al 1875), i fratelli Turati, Napoleone Borghi e l’ingegner Giuseppe Colombo, mentre Eugenio Cantoni ne teneva in mano la guida. Le tre grandi famiglie di industriali cotonieri si erano ormai trasformate in gruppi imprenditoriali con una ramificata struttura finanziaria, una moderna e ampia organizzazione produttiva, e interessi in diverse iniziative che li videro talora alleati e altre volte in conflitto, come dimostra la complicata vita della compagine azionaria del Cotonificio Cantoni.
È invece tutta postunitaria la vicenda della famiglia Crespi, la cui attività ebbe un difficile inizio negli anni Sessanta con varie iniziative di Cristoforo Benigno (1833-1920), ma decollò decisamente quando quest’ultimo, resosi definitivamente autonomo dai fratelli, inaugurò nel 1878 un proprio stabilimento a Capriate (poi Crespi d’Adda), dove adottò soluzioni tecniche d’avanguardia e approntò locali capaci di contenere in futuro l’imponente sviluppo dell’attività. La decisione di Cristoforo Benigno fu molto tempestiva, perché proprio in quell’anno entrarono in vigore le prime tariffe protezionistiche a favore dell’industria cotoniera, che permisero una rapida espansione della produzione, sempre sostenuta da una notevole attenzione alla qualità e alla competitività degli impianti. Nel frattempo lo affiancò nella gestione il figlio Silvio Benigno (1868-1944), che assunse ufficialmente la responsabilità dell’azienda nel 1890, guidandola nel periodo giolittiano, attraverso la trasformazione in società anonima – ma sempre saldamente in mano alla famiglia – e in un’attenta espansione degli investimenti in numerosi settori correlati, inclusa l’industria elettrica.
Ci fu anche, all’inizio dell’Ottocento, un avvio di industria cotoniera nell’Italia meridionale (Crepax 2002, p. 101; Castronovo 1980, p. 20). Le modeste piantagioni di cotone lungo i pendii del Vesuvio e nei pressi di Castellammare avevano spinto alcuni fabbricanti svizzeri (Escher & C., Vonwiller, Schlaepfer Wenner & C., Egg, Meyer) ad aprire cotonifici e filature nel Salernitano, nelle alture del Matese e nei sobborghi di Napoli. Queste imprese avevano beneficiato del blocco delle merci inglesi durante il periodo napoleonico e, successivamente, del protezionismo doganale borbonico. Ma le loro iniziative non fecero da battistrada a una più ampia diffusione dell’industria tessile: avvalendosi di macchinari e di tecnici fatti venire dalla madrepatria e dal Belgio, gli imprenditori elvetici si limitarono a sfruttare il basso costo della manodopera e la protezione del governo napoletano per fare concorrenza nell’export alle merci inglesi; inoltre, i vantaggi da loro goduti scoraggiarono altri investimenti nel settore. Alla vigilia dell’Unità i loro impianti rappresentavano oltre un quarto della capacità produttiva della penisola, ma la scarsa integrazione nel tessuto produttivo campano impedì loro di fare da traino alla modernizzazione di un tessuto economico rimasto sostanzialmente ancorato ai modelli dell’ancien régime.
Falcidiata da un’organizzazione produttiva arretrata, l’industria tessile napoletana riuscirà a superare alcune strettoie del periodo postunitario, avviandosi però a una situazione soffocante di crisi endemica, che proprio nell’età giolittiana ne evidenzierà il declino.
La pasta con il pomodoro
L’Italia unificata nel biennio 1859-61 era un Paese in cui malattie come lo scorbuto e la pellagra, connesse a carenze alimentari, erano endemiche (Bianchi, in L’industria nei 150 anni dell’Unità d’Italia, 2012; Crepax 2002, pp. 77-81). L’asse portante dell’industria alimentare italiana erano i mulini, dal momento che la base alimentare della popolazione era rappresentata dal pane, dalla polenta e dalla pasta. Nonostante la progressiva trasformazione dei prodotti, questi restarono confinati a una circolazione locale. In tale contesto, tuttavia, alcune imprese familiari che avevano avviato attività produttive nell’ambito agroindustriale riuscirono a uscire dal mercato di origine. Aumentando l’estensione del mercato in cui si poteva collocare il prodotto, si accrebbe la possibilità di concentrare gli impianti realizzando economie di scala. Questo spiega il fatto che le prime aziende che passarono alla produzione industriale operavano nei comparti della pasta (dove nel ciclo produttivo si introdusse l’essiccatura) e delle conserve (dove venne introdotto l’uso dell’inscatolamento e della banda stagnata). Nacquero o crebbero in seguito, soprattutto nell’ultimo quarto dell’Ottocento, molti marchi storici dell’alimentare italiano, dagli insaccati ai dolci, dai vini ai liquori, alla birra: Citterio, Alemagna, Lazzaroni, Talmone, Branca, Ramazzotti, Campari, Fabbri, Peroni, Cinzano, Martini, Gancia.
Il più antico fra i marchi della pasta italiana è senz’altro Buitoni, la cui attività venne avviata a Sansepolcro da Giovanni Battista Buitoni (1769-1841) nel 1827. La ditta mantenne fino al 1841 le caratteristiche iniziali di attività a carattere artigianale e familiare, comuni, del resto, alle altre aziende consimili. Lo sviluppo tecnico delle imprese per la fabbricazione di paste alimentari sarà infatti molto lento, ma la Buitoni, passata sotto la guida del figlio Giovanni (1822-1901) si impose presto come il primo pastificio italiano con impianti meccanizzati. Coadiuvato dalla madre e dai quattro fratelli, Giovanni estese il campo d’azione della ditta prima alle province di Arezzo e Perugia, e poi a livello nazionale, mentre potenziò gli impianti con l’apertura di un moderno mulino annesso alla fabbrica di Sansepolcro e di un nuovo stabilimento a Città di Castello. Dopo l’Unità si affacciò con successo sul mercato internazionale e operò con grande attenzione alla reputazione del marchio. Fra i prodotti di maggior successo la pastina glutinata, che aprì ai prodotti dell’azienda un ricco mercato di nicchia. La guida dell’azienda passerà poi al figlio Francesco (1859-1938), al quale già nel 1878 fu affidata la direzione di un nuovo stabilimento a Perugia: sarà lui il primo a introdurre la tecnica di essiccazione termomeccanica della pasta (1880) e a potenziare il settore degli alimenti dieto-terapeutici. Sarà ancora Francesco, nel 1908, a fondare la Perugina.
Sviluppò un proprio metodo di essiccazione anche Filippo De Cecco (1854-1930), il quale, nel 1889, brevettò un essiccatore a bassa temperatura che utilizzava per essiccare la pasta il calore generato dallo stesso impianto di produzione. Si trasformò così in grande impresa la tradizione artigianale della Fratelli De Cecco, fondata nel 1886 a Fara San Martino, in Abruzzo, a partire da un’antica attività molitoria.
Per quell’epoca era già nato a Parma, nel 1877, il terzo grande marchio della pasta italiana, la Barilla: si trattava inizialmente di una piccola attività, fondata da Pietro Barilla (1845-1912), nella quale lavorava tutta la famiglia. Il principale collaboratore di Pietro era il figlio Riccardo (1880-1947), il quale, nei primi anni del Novecento, guiderà l’azienda verso la trasformazione in grande impresa.
Nel Parmense si sviluppò anche la produzione di conserve di pomodoro ottenute industrializzando la tecnica tradizionale dell’essicazione delle polpe: il processo di standardizzazione fu opera di un docente del locale Istituto tecnico, Carlo Rognoni, e venne adottato da un numero crescente di aziende locali, che da cinque nel 1893 diventarono sedici nel 1905.
Ma il maggior protagonista dell’industria conserviera fu Francesco Cirio (1836-1900). Di origini assai modeste, dopo essersi dedicato al commercio ambulante di ortaggi per conto di alcuni grossisti, si avventurò in una piccola attività di esportazione verso la Francia, e ne ricavò un piccolo capitale che, nel 1856, decise di investire in una piccola fabbrica per la conservazione dei piselli, a Torino. Iniziò così a studiare l’inscatolamento in barattoli e poi in contenitori di latta stagnata: utilizzando la rete ferroviaria che stava sviluppandosi, il suo prodotto poté raggiungere mercati altrimenti lontani da questa produzione. Ottenne il primo riconoscimento all’Esposizione internazionale di Parigi del 1867 e, da quel momento, la sua attività conserviera si allargò dai piselli a numerosi altri prodotti (tartufi neri, funghi, asparagi, carciofi, pesche, pere), passando dai 50 quintali del 1868 agli oltre 10.000 del 1880. In particolare, Cirio sviluppò il comparto dei derivati del pomodoro, e nel 1875 trasferì il centro di quest’attività a Napoli, dove era più conveniente l’approvvigionamento della materia prima: i suoi pelati e la conserva ‘alla napoletana’ erano i più richiesti dal mercato interno ed estero. Dal 1869 la sua attività principale fu in realtà l’esportazione in tutta Europa di derrate alimentari fresche, per la quale introdusse per primo l’uso dei carri ferroviari dotati di impianto frigorifero, divenendo il principale esportatore italiano del settore. Le sue aziende costituirono il punto d’incontro fra un’agricoltura che utilizzava l’evoluzione tecnologica e le pratiche moderne per la conservazione dei cibi, anche se l’eterogeneità rendeva difficile la gestione delle sue iniziative, che negli anni Ottanta e Novanta subirono un ridimensionamento: restava però l’idea originaria, e dopo la sua morte l’impresa, trasformata in una moderna holding industriale connessa alla grande banca e aperta a partecipazioni estere, proseguirà l’attività conserviera per oltre un secolo.
Casa Florio: dal tonno alle navi
Verso la fine del Settecento e nei primi decenni del secolo successivo la Sicilia trasse beneficio dal processo di industrializzazione dell’Inghilterra e di altri Paesi europei: le accresciute necessità di acido solforico e di acido citrico, soprattutto da parte dell’industria tessile, portarono a un incremento delle esportazioni di zolfo e di agrumi (Crepax 2002, p. 102). L’aumento dei consumi privati, inoltre, favorì l’esportazione del vino ‘alla maniera di Madera’, alla cui produzione si dedicarono alcune aziende attivate a Marsala da imprenditori britannici, come John Woodhouse e Benjamin Ingham. Grazie a loro il Marsala s’impose sui ricchi mercati inglesi e americani. Ingham, in particolare, giunto in Sicilia dopo la restaurazione, gestì direttamente sia la fase produttiva sia quella commerciale, e accumulò un ingente patrimonio ampliando e diversificando la propria attività: dal Marsala allo zolfo, dagli agrumi alla distillazione dell’alcool, alla pesca del tonno; senza contare che la sua compagnia di navigazione trasportò le merci siciliane in qualunque mercato del mondo, compreso quello americano, di interesse crescente per l’economia isolana. Questi imprenditori stranieri alla ricerca di sempre nuove occasioni di scambio rappresentarono uno stimolo per le élites mercantili siciliane.
Al modello di Ingham si ispirò in particolare Vincenzo Florio (1799-1868) che, a quindici anni – dopo un viaggio a Londra –, decise di impiantare a Palermo un’attività commerciale di droghe e prodotti coloniali e, a vent’anni, con il capitale ereditato da uno zio, sviluppò e diversificò il proprio campo d’azione. Innanzitutto prese in gestione le tonnare di Favignana, Formica, Levanzo e Marettimo, di proprietà dei Rusconi di Bologna e dei Pallavicino di Genova: ne rinnovò e migliorò le tecniche di pesca, e vi introdusse la preparazione del tonno sott’olio, che poi spedì in tutta Italia. Quindi entrò nel settore dello zolfo, prendendo in gestione le zolfatare dei marchesi di Torrearsa e dei principi di Montevago. Florio condivise la vivacità commerciale di Ingham nell’esportazione di materie prime e prodotti dell’isola, e l’economia siciliana ritrovò con loro un’occasione di apertura e internazionalizzazione. Nel 1832 impiantò a Marsala uno stabilimento per la produzione vinicola, accanto a quelli di Woodhouse e Ingham, e nel 1841 rilevò dai fratelli Sgroi di Palermo la Fonderia Oretea. L’attività si estese ancora con la coltivazione e l’esportazione delle arance, e spinse Florio ad armare una flottiglia a vela per il trasporto dei suoi prodotti. Nel 1845 venne messo in servizio sulla rotta Napoli-Palermo un battello a vapore, e Florio decise di dotarne la sua flottiglia. Il suo primo piroscafo, l’Indipendente, effettuò il primo viaggio nel 1849: negli anni successivi ne vennero varati una cinquantina. Si avviò così un’attività armatoriale destinata a diventare, a fine secolo, la maggiore compagnia di navigazione italiana.
Scomparso Vincenzo, alla guida degli affari dei Florio arrivò il figlio Ignazio (1838-1891), indicato come Ignazio Senior per distinguerlo dal suo primogenito Ignazio Junior, che gli succederà nel 1891. Fu con lui che la Casa di commercio Florio divenne uno dei maggiori gruppi imprenditoriali italiani. Data l’entità dell’eredità paterna e l’intenzione delle sorelle Giuseppina e Angelina di non partecipare all’azienda e avere liquidata la loro parte, si temette inizialmente una liquidazione. Ma Ignazio riuscì a sborsare oltre 4 milioni di lire, corrispondenti a più di un terzo del valore di tutti i beni, senza menomare le attività produttive, e quindi, libero da vincoli, si dedicò allo sviluppo dell’impresa. Il suo assillo costante fu il rinnovo delle convenzioni marittime, con le quali dal 1862 lo Stato sovvenzionava i servizi postali sulle principali rotte nazionali, e che costituirono da sole una parte cospicua delle entrate della Casa. Ignazio coltiverà per tutta la vita le relazioni con il potere centrale, e tutte le strategie imprenditoriali dei Florio ruoteranno attorno all’armamento navale.
Nel 1873 non gli riuscì, peraltro, il tentativo di dare vita a una moderna industria tessile in Sicilia, introducendo la tessitura meccanica e accompagnando le dipendenti con varie forme di paternalismo assistenziale, come era peraltro divenuta consuetudine per i maggiori imprenditori del settore, sullo stimolo soprattutto di Alessandro Rossi. Ma il contesto sociale si rivelò refrattario, e le difficoltà nel rapporto con le dipendenti e le loro famiglie portarono alla chiusura dell’opificio.
Funzionò, invece, a pieno ritmo la Fonderia Oretea, che soddisfaceva le richieste di un ampio mercato anche extra-isolano, e che con il tempo dedicò una parte importante della produzione alla meccanica navale, per conto proprio, ma anche in conto terzi. A metà degli anni Settanta fu l’unico stabilimento siderurgico di rilievo nazionale presente in Sicilia. Nel 1874 Ignazio Senior acquistò le tonnare nelle Egadi, che il padre aveva lasciato nel 1859 per contrasti con le rispettive proprietà e che si rivelarono subito un ottimo investimento, dando lavoro a oltre 900 persone, con utili lordi fino al 20% del capitale.
Anche la miniera di Bosco di San Cataldo, di cui era proprietario, e le zolfare di Rabbione e di Grottarossa, che la famiglia aveva in gestione da decenni, beneficiarono in questa fase del picco produttivo e di mercato dello zolfo siciliano, nonostante la caduta dei prezzi, che precedette l’arrivo di una grave crisi del settore. Dette risultati incoraggianti anche l’impresa del Marsala: Ignazio chiamò a dirigere lo stabilimento un tecnico, l’inglese Gordon, figlio di un enologo già alle sue dipendenze. Il vino veniva lavorato secondo un metodo che si tramandava da decenni, ed era conservato in fusti di rovere americano allineati su tre file, per vari metri d’altezza, sotto tettoie lunghe 200 m. La qualità risultava eccellente, mentre si rese necessario migliorare la presentazione del prodotto: i fusti erano infatti piuttosto rozzi in confronto con le botti usate dalle aziende continentali. Inoltre, l’imprenditore siciliano si lamentava di una discriminazione fiscale rispetto alla produzione piemontese di vermouth, ma non riuscì a far modificare in proprio favore il meccanismo dei rimborsi all’esportazione, nonostante le ripetute sollecitazioni a Francesco Crispi, del quale era amico.
Il punto di forza della Casa Florio restò comunque la compagnia di navigazione, per la quale Ignazio riuscì a ottenere un rinnovo di quindici anni delle convenzioni con un significativo aumento del premio, grazie all’acquisto delle navi a vapore della Compagnia La Trinacria, fallita nel 1876, e al subentro nei contratti di quest’ultima.
Anche se la ferrovia cominciava a divenire diretta concorrente del servizio marittimo, l’indirizzo governativo di agevolare nuove linee commerciali internazionali sembrò eliminare sul nascere le preoccupazioni degli armatori. I nuovi accordi riguardarono il servizio postale e commerciale tra la Sicilia e il continente (con prolungamento a Malta e Tunisi) e tra l’Italia e gli scali del Levante e del Mar Nero, oltre agli importanti collegamenti con Istanbul, Odessa e Corfù. Insieme con la solidità economica, la compagnia raggiunse un indiscusso prestigio all’estero: i trasporti risultarono veloci, la periodicità degli approdi regolare, le tariffe convenienti; per il commercio con la Germania i mercanti del Levante la preferirono al Lloyd Austriaco, tanto che sui medesimi percorsi Ignazio istituì anche linee non sovvenzionate.
La situazione favorevole, però, non durò: vi si opposero le contingenze internazionali, il recupero di competitività delle compagnie austro-ungariche, le sovvenzioni ricevute da quelle francesi e la concorrenza dal trasporto ferroviario che portò a una specializzazione del trasporto navale sulle grandi rotte internazionali, con i conseguenti investimenti. La situazione era tale da spingere Ignazio a riprendere un vecchio progetto del padre: la fusione con la compagnia Rubattino di Genova. L’operazione non era riuscita a suo tempo perché prematura e non indispensabile alla sopravvivenza di entrambe le aziende: ora conveniva ai due partner e al governo italiano, dato che l’approvazione politica era indispensabile per una sistemazione che comportasse la nascita di un monopolio di fatto sui servizi di trasporto navale. Nacque così nel 1881 la Navigazione generale italiana (Società riunite Florio e Rubattino), con oltre 100 piroscafi, e un capitale di 100.000.000 di lire, detenuto all’80% dei due soci con quote paritarie, e al 20% dal Credito mobiliare, che apportò l’indispensabile denaro fresco.
Ignazio morì nel 1891, anno di scadenza delle convenzioni stipulate nel 1876. Nominato senatore nel 1883, da tempo la sua vivacità imprenditoriale si era esaurita: ai figli Ignazio Junior, Vincenzo (al quale si deve l’istituzione della Targa Florio) e Giulia lasciò una situazione molto complessa. La crisi della Navigazione generale italiana divenne manifesta nel 1896, con la svalutazione del capitale, nonostante il rinnovo delle convenzioni nel 1893, e nel giro di un decennio trascinò con sé tutte le attività della famiglia: i Florio saldarono tutti i debiti, senza ricorrere alla dichiarazione di fallimento, ma per farlo furono costretti a ipotecare e liquidare tutto il patrimonio. Ancora per qualche anno svolsero un ruolo importante nella vita culturale ed economica di Palermo e dell’isola, ma il loro declino – reso ancor più stridente dal decollo economico del periodo giolittiano – si rivelò irreversibile.
Giovanni Ansaldo: alle radici dell’industria pesante italiana
Nell’Italia preunitaria le industrie metallurgica e meccanica erano meno praticate di quelle tessili. Il fabbisogno di parti in ferro per l’agricoltura, l’edilizia, i trasporti e le esigenze domestiche veniva soddisfatto dal lavoro di una fitta rete di artigiani, fucine e piccoli impianti. Una realtà produttiva che non era in grado di rispondere adeguatamente alle nuove esigenze di una domanda che cresceva soprattutto in ragione delle costruzioni ferroviarie, alle quali si aggiunsero esigenze di natura militare nel campo delle costruzioni navali e delle armi. Le nuove tecnologie di questi settori portarono a una marcata dipendenza non solo in termini di importazioni, ma anche attraverso il trasferimento nella penisola di imprenditori e tecnici stranieri, incoraggiato dall’apertura dei cantieri ferroviari nel Regno di Sardegna e in Lombardia, come nel Regno delle Due Sicilie. Sorsero così a Napoli lo stabilimento Macry e Henry (un imprenditore tessile locale e un tecnico francese), le Officine di Pietrarsa e la società Guppy & C. (creata dagli inglesi Thomas Guppy e John Pattison). A Sampierdarena, vicino Genova, nel 1846 l’ingegnere inglese Philip Taylor e l’uomo d’affari piemontese Fortunato Prandi fondarono, su proposta del governo piemontese, un grande stabilimento per la fabbricazione delle componenti meccaniche destinate alla costruzione della ferrovia Genova-Torino: il governo fornì capitali come anticipo sulle commesse future.
L’iniziativa però non si rivelò all’altezza delle aspettative, e nel 1852 – in seguito alla stipula di un nuovo accordo con il governo e con la società ferroviaria – lo stabilimento Taylor & Prandi venne rilevato da una nuova azienda: ne erano soci Carlo Bombrini, direttore della Banca nazionale del regno sardo, l’armatore Raffaele Rubattino e il finanziere Giacomo Filippo Penco, che affidarono la gestione a un socio accomandatario, Giovanni Ansaldo (1815-1859). Nato in una famiglia della piccola borghesia genovese (il nonno era un tappezziere e il padre lavorava come agente per le famiglie aristocratiche) appena dopo la restaurazione e l’annessione dell’antica Repubblica di San Giorgio al Regno sabaudo, il ragazzo Ansaldo aveva ottime capacità in campo matematico e inclinazioni artistiche (Castronovo 1994).
Giovanni si laureò nel 1840 in ingegneria civile e nel 1841 in ingegneria idraulica, e iniziò a guadagnare lavorando come architetto per le ville in Riviera di alcune famiglie aristocratiche con cui il padre aveva relazioni. Nel 1850 divenne professore con il plauso di Giovanni Plana, membro della commissione di concorso e uno dei più illustri matematici piemontesi dell’epoca. Nel frattempo, aveva sposato Giuditta Muratori, figlia di un imprenditore tessile, che lo sollevò dalle difficoltà finanziarie grazie all’apporto di una discreta dote, e gli aprì le porte del mondo economico genovese.
Giovanni si era interessato ai problemi della produzione, e già dal 1846 divenne membro della Società economica di manifatture e commercio presieduta da Luigi Zenone Quaglia, che volle promuovere l’adozione delle novità tecniche provenienti d’oltralpe. Nello stesso anno collaborò alla realizzazione dell’Esposizione di prodotti delle manifatture nazionali che fece da cornice all’ottavo Congresso degli scienziati italiani svoltosi appunto a Genova.
Fin dai primi anni della sua attività, Ansaldo collaborò con l’amministrazione civica per problemi relativi alla sistemazione urbanistica e alle comunicazioni, e proprio in questa veste cominciò a occuparsi di questioni ferroviarie. Nel 1851 la Camera di commercio lo inviò all’Esposizione universale del Crystal Palace a Londra come accompagnatore di un gruppo di operai mandati in visita di studio dal governo piemontese. Era in rapporti con Giacomo Filippo Penco, assessore ai lavori pubblici del comune di Genova che conosceva la sua vocazione ‘ferroviaria’: fu Penco, presumibilmente, a indicarlo come persona competente agli altri soci dell’impresa che rilevò la Taylor & Prandi (all’azienda partecipò comunque con 40.000 lire, un ottavo del capitale versato). Fu lui il socio accomandatario, e l’impresa venne quindi intestata a suo nome: nacque così uno dei più grandi gruppi industriali italiani.
Si cominciò subito a progettare e a costruire locomotive: le prime due uscirono dallo stabilimento nel 1855. Quando, nel 1859, Ansaldo morirà, stroncato da una malattia cerebrale ad appena 41 anni, ne saranno state consegnate già venti. Sfumato il tentativo di Rubattino di fondere l’Ansaldo con la sua Compagnia transatlantica e farne un’impresa commerciale-industriale (modello Ingham e Casa Florio, per intendersi), d’intesa con Carlo Bombrini (Penco era morto nel 1854) si giunse alla decisione di affidare la gestione dello stabilimento a Luigi Orlando (1814-1898), un profugo siciliano che insieme ai fratelli Paolo, Salvatore e Giuseppe aveva impiantato a Genova un’officina meccanica di medie dimensioni, riprendendo l’attività di famiglia svolta nell’isola prima della rivolta del 1848. Nonostante le simpatie mazziniane, Orlando godeva notoriamente delle simpatie di Cavour, e questa potrebbe essere una delle ragioni della scelta per un’azienda che aveva comunque bisogno delle commesse pubbliche. Furono gli Orlando a far compiere un deciso salto industriale all’Ansaldo, affiancando alla produzione ferroviaria quella di artiglieria e armi: sarà l’azienda di Sampierdarena a fornire, fra l’altro, le armi per la spedizione dei Mille e per l’esercito piemontese nella Seconda guerra d’indipendenza.
Agli Orlando si deve anche la costruzione a Genova delle prime navi a vapore in ferro. E quella delle costruzioni navali, dopo l’esperienza fatta all’Ansaldo, fu la vocazione industriale che li spinse, nel 1866, a rilevare il cantiere navale di San Rocco, a Livorno, dove si avvierà la storia di questa grande dinastia imprenditoriale che Luigi continuerà a guidare fino alla morte, e che comprenderà tutti i settori dell’industria pesante, oltre all’ingresso in settori innovativi, come quello elettrico. Ma questa è un’altra storia.
L’azienda genovese restò invece sotto il controllo di Bombrini, e la gestione dello stabilimento venne affidata a un tecnico straniero, l’ingegner Wehrli, che subentrò nel 1866 a Luigi Orlando. La storia dell’Ansaldo era ormai legata strettamente alla storia industriale italiana. I settori di attività restarono la costruzione di locomotive e le costruzioni navali, e difficile fu il rapporto con il governo, che ebbe un atteggiamento altalenante nell’attribuzione delle commesse. Alla morte di Bombrini, avvenuta nel 1882, l’impresa venne ceduta alla famiglia Perrone, che avviò nuovi importanti processi di integrazione e sviluppo, superando i confini produttivi dell’area genovese.
Anche in Lombardia, prima dell’Unità, erano numerose le aziende meccaniche e metallurgiche gestite da tecnici stranieri. Fra queste spiccava l’attività siderurgica avviata a Dongo da Giuseppe Rubini con la consulenza di George Henri Falck, un tecnico alsaziano. Falck ebbe una vicenda professionale complessa che, dopo Dongo, lo portò a Lecco, presso la ditta Badoni. Nel 1856 suo figlio Enrico (1828-1878) assunse la direzione dello stabilimento per la produzione di lamiere di Bellano, che il padre aveva preso in affitto dai Badoni, e sempre insieme al padre prese in gestione la vicina ferriera di Castello. Nel 1863, però, Enrico sposò Irene Rubini, figlia di quel Giuseppe con cui il padre era stato in rapporti a Dongo. Tornato a Dongo, Enrico Falck assunse la direzione dello stabilimento del suocero, del quale rinnovò gli impianti, e successivamente ampliò l’attività associandosi ad altri imprenditori lombardi (Giuseppe Bolis e Pietro Redaelli) per creare il laminatoio di Malavedo. Si ponevano così le premesse per lo sviluppo di quella che sarebbe divenuta una delle maggiori aziende siderurgiche italiane.
L’altra grande realtà di questo settore era legata all’attività della famiglia Breda, e in particolare dei due cugini Vincenzo Stefano (1825-1903) ed Ernesto (1852-1918). Vincenzo Stefano aveva solide relazioni politiche e si occupò soprattutto di opere pubbliche: nel 1872 costituì a Padova la Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche, di cui divenne presidente, e che si occupò, tra l’altro, della costruzione degli acquedotti di Venezia e di Napoli, del ministero delle Finanze di Roma e di vari tronconi della rete ferroviaria veneta e lombarda. Proprio la Società veneta si fece interprete e promotrice di un progetto per la creazione di un grande gruppo siderurgico nazionale: da quel momento la sua vicenda fu legata alle acciaierie di Terni, sorte nel 1884 grazie al forte sostegno statale. Nella Società veneta fece il suo apprendistato anche Ernesto, che nel 1886 rilevò l’Elvetica, un’officina fondata nel 1836 in un’area prima occupata da un convento di missionari svizzeri, finanziata dal mercante imprenditore Enrico Mylius Mennet, che aveva trovato nelle prime costruzioni di materiale rotabile l’occasione per tentare di superare le angustie della domanda locale. L’Elvetica era passata attraverso molte gestioni, ma fu Ernesto Breda, con la società che portava il suo nome, a rilanciarla, acquisendo importanti ordini soprattutto per materiale ferroviario.
Un po’ di chimica
Secondo una diffusa convinzione, in Italia non vi è stata un’industria chimica prima della trasformazione in questo senso della Montecatini, avvenuta nei primi anni del Novecento. E in un certo senso questo è vero, se si considera come industria chimica quella basata sulla nuova chimica organica di marca tedesca, consistente nella lavorazione degli intermedi del carbone in impianti di grandi dimensioni. Non mancarono però le imprese operanti in altri comparti: la preparazione di acido solforico, acido nitrico, soda, e la produzione di saponi, candele steariche e fiammiferi, per non parlare dei primi sviluppi della produzione di farmaci. Ma benché esse ebbero spesso dimensioni poco più che artigianali, e quindi di una vera industria chimica non si possa parlare che a partire dall’età giolittiana, pure non si può tacere delle più promettenti esperienze del periodo preunitario e risorgimentale, alcune delle quali diedero poi vita a importanti realtà industriali. Di tre di esse, almeno, bisogna dar conto: per la loro natura innovativa e per la loro dimensione aziendale.
Risale al periodo napoleonico l’arrivo in Italia dell’uomo d’affari francese François-Jacques de Larderel (1789-1858), che volle sfruttare i ‘soffioni’ (getti di vapore che fuoriescono dal terreno) e i ‘lagoni’ (pozze d’acqua gorgogliante a causa del vapore e del gas) localizzati tra le province di Pisa, Siena e Grosseto. Il fenomeno era noto già nell’antichità, ma solo alla fine del Settecento, scoperta la presenza di borace e acido borico, si era pensato a un’utilizzazione industriale.
De Larderel prese in concessione il lagone di Montecerboli (ribattezzato Larderello nel 1846), poi altre zone vicine, e fece della Toscana l’area di produzione europea dell’acido borico, che in precedenza doveva essere importato dall’Oriente e che si utilizzava per saldature, invetriatura di ceramiche e prodotti di farmacia. Suo figlio Federigo e suo nipote Florestano portarono avanti l’attività, accumulando una delle maggiori fortune familiari della Toscana ottocentesca, finché negli anni Ottanta la scoperta dei giacimenti di borace in California non fece crollare i prezzi. Sarà Piero Ginori Conti, marito di Adriana de Larderel, a rilanciare l’azienda, di cui nel 1904 aveva assunto la direzione. Con la collaborazione di Raffaello Nasini realizzò un radicale rinnovamento delle produzioni chimiche, e impiegò il vapore dei soffioni per produrre energia elettrica, dapprima per i propri stabilimenti, poi anche per le utenze vicine. Costituita nel 1912, la Società boracifera di Larderello assorbirà anche le piccole aziende che avevano condiviso con i de Larderel lo sfruttamento dell’area dei soffioni, la quale nel 1916 sarà sotto il totale controllo della nuova società.
Nel comparto farmaceutico la maggiore azienda a ridosso dell’unificazione fu senz’altro quella creata da Carlo Erba (1811-1888), che nel 1865 impiegò oltre 100 dipendenti. Figlio di un farmacista, si era diplomato presso la facoltà medica dell’Università di Pavia e aveva assunto nel 1837 la direzione della farmacia di Brera in via Fiori Oscuri, una delle più antiche di Milano. Convinto che la debolezza dell’attività farmaceutica in Italia dipendesse dalla mancanza di laboratori di ricerca ben attrezzati e dallo scarso collegamento con i progressi della chimica e della medicina, Erba si impegnò nel proprio lavoro di laboratorio per aggiornare e ampliare le proprie produzioni. Accanto alle preparazioni di uso schiettamente farmaceutico, non trascurò quelle di interesse più generalmente industriale, rivelando il suo spirito imprenditoriale e una spiccata attitudine per la ricerca sulle applicazioni. Il suo primo preparato fu il calomelano sublimato, seguito dai sali di bismuto e di chinina e dall’acido valerianico. Ma il primo successo commerciale gli arrivò con la preparazione di un lassativo, la Magnesia uso Henry, che imitava un prodotto francese di nome analogo. Seguirono dopo poco le capsule gelatinose, un nuovo metodo per la somministrazione di medicinali che si stava diffondendo dalla Francia, molto costose, ma molto richieste. Nel 1848, poi, realizzò un nuovo preparato commerciale, l’estratto di tamarindo, che replicò il successo della magnesia.
L’aumento delle vendite della farmacia e gli ordini che riceveva da altre farmacie di tutta l’Italia lo spinsero, nel 1851, ad aprire un laboratorio più grande e attrezzato vicino alla farmacia di Brera, dove impiegò quattro operai. Nel 1859, all’indomani delle Cinque giornate, decise di passare alla produzione su scala industriale. Nel 1862 costituì la ditta Erba, e costruì uno stabilimento grande e attrezzato. Accanto alla produzione farmaceutica in senso stretto produceva chine, rabarbari, gialappe, salsapariglia, liquirizia, cremortartaro, gomme arabiche e zucchero. Nel 1880 il suo catalogo comprendeva 1760 prodotti, che in parte erano destinati all’esportazione, verso l’Oriente e le Americhe, ma anche verso la Francia, la Germania e l’Inghilterra. Si interessò dello sviluppo economico milanese, sia promuovendo iniziative di ricerca e formazione, tra cui l’Istituzione elettrotecnica Carlo Erba per la quale fece nel 1886 una donazione di 400.000 lire al Politecnico di Milano, sia partecipando a numerose iniziative industriali, fra le quali la costituzione della Edison e della Società Ricordi.
Fortemente innovativa fu l’azienda fondata nel 1872 da Giovanni Battista Pirelli (1848-1932). Dopo aver studiato a Milano nell’Istituto tecnico di indirizzo fisico-matematico, nel 1865 si iscrisse al biennio propedeutico nell’Università di Pavia e quindi all’Istituto tecnico superiore (oggi Politecnico) di Milano. Nel 1870 si laureò in ingegneria industriale con la miglior votazione del suo corso e ricevette il premio Kramer, una borsa di studio di 3000 lire da usare per un viaggio di studio, del quale organizzò il programma insieme al suo maestro, Giuseppe Colombo. Al rientro, anche per suggerimento di Colombo, decise di dedicarsi all’attività imprenditoriale portando in Italia un’industria allora nuovissima: la lavorazione del caucciù. Il suo progetto trovò dei finanziatori nell’ambiente economico milanese: nacque così nel 1872 la G.B. Pirelli & C., della quale il ventiquattrenne ingegnere era socio accomandatario. Inizialmente concentrata su articoli per usi industriali, la produzione dello stabilimento abbracciò presto ogni categoria di prodotti di gomma e guttaperca.
Già alla fine degli anni Settanta, però, Pirelli aveva compreso che i cavi elettrici isolati potevano essere decisivi per le sorti della sua impresa: glielo avevano fatto pensare gli sviluppi del telefono e la presentazione dei primi modelli di trazione elettrica per ferrovie e tranvie, ma soprattutto la lampadina a incandescenza di Edison. Erano cavi Pirelli quelli che trasportarono l’elettricità della centrale di Santa Radegonda (la prima in Europa) alle lampadine che illuminavano la serata della Scala in occasione del Capodanno 1883: una dimostrazione pubblica delle potenzialità dei nuovi sistemi elettrici, ma anche un’iniziativa propagandistica diretta al cuore della borghesia produttiva milanese. Della Edison, del resto, Pirelli fu tra i fondatori. Risale già a questa fase la collaborazione con la Richard, la nota azienda toscana che, accanto alle porcellane di grande design, produceva isolatori per macchinari e linee elettriche. A fine secolo entrò anche nel settore degli pneumatici. Fin dal 1886, con una commessa uruguayana per la città di Montevideo, la società mostrò il proprio potenziale competitivo, che nei primi anni del Novecento portò alla costituzione di controllate in varie parti del mondo.
Epilogo
Questa rassegna di imprese e imprenditori si chiude alla vigilia dell’età del decollo industriale italiano, mentre si delineava il grande ruolo che nella ‘rivoluzione industriale’ italiana (quella dell’età giolittiana) avrebbe avuto l’industria elettrica. Sarebbero stati i suoi sviluppi ad allentare il vincolo energetico che pesava sullo sviluppo economico italiano, in particolare grazie all’energia idroelettrica, il ‘carbone bianco’ di Nitti, che permise di preoccuparsi un po’ meno della scarsità dell’altro carbone, quello nero e vero. Adriana Castagnoli ha osservato (Castagnoli, Scarpellini 2003, pp. 52-53) che, se si considera comparativamente il livello di industrializzazione dei venti Paesi più avanzati, l’Italia del 1860 si colloca nella decima posizione, in una classifica guidata prima dal Regno Unito e poi dagli Stati Uniti, e risale al nono posto alla vigilia della Prima guerra mondiale. Ma i Paesi più avanzati (dei quali comunque l’Italia faceva parte) rappresentavano nella prima metà del secolo solo un terzo della produzione industriale a livello mondiale, mentre nel 1860 la proporzione si era invertita; nel 1913, poi, i Paesi più avanzati rappresentavano il 92,5% della produzione. Il nono posto dell’Italia, dunque, se considerato in rapporto ai primi venti Paesi era migliorato di poco, ma se lo si considera su un piano globale costituiva una svolta epocale.
L’inchiesta industriale del 1870-1874 aveva permesso per la prima volta di conoscere la situazione reale e i punti di vista del mondo industriale italiano, e poneva le basi per un profondo cambiamento di rotta della politica economica italiana in senso protezionista, fornendo le premesse sia per la tariffa doganale del 1878, sia per la svolta in senso ancor più nettamente protezionista del 1887. Questa nuova impostazione modificò sostanzialmente il quadro in cui si muovevano le imprese e gli imprenditori di cui si è fin qui parlato. L’interpretazione storica di questa svolta è stata ed è tuttora oggetto di importanti dibattiti, che ne valutano sia le implicazioni politiche sia le conseguenze macroeconomiche. Non è questa la sede per addentrarsi in queste discussioni. Importa invece osservare come la svolta protezionista segnerà il definitivo superamento dell’impostazione liberistico-agricolturista che aveva contraddistinto il primo ventennio postunitario e l’affermazione graduale di una visione industrialista dell’economia italiana, della quale il protezionismo doganale fu solo la prima manifestazione, e che durerà poi molto a lungo.
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Per le biografie di alcuni imprenditori si è fatto ricorso alle voci del Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1971 e segg. (consultabile anche on-line): L. Segreto, Barilla Riccardo, 34° vol., 1988; M. Gobbini, Borghi Luigi, 12° vol., 1971; M. Gobbini, Breda Ernesto, 14° vol., 1972; F. Bonelli, P. Craveri, Breda Vincenzo Stefano, 14° vol., 1972; P. Scavizzi, Buitoni Francesco, 15° vol., 1972; P. Scavizzi, Buitoni Giovanni, 15° vol., 1972; P. Scavizzi, Cantoni Costanzo, 18° vol., 1975; L. Ganapini, Cantoni Eugenio, 18° vol., 1975; L. Agnello, Cirio Francesco, 25° vol., 1981; R. Romano, Crespi Benigno, 30° vol., 1984; R. Romano, Crespi Cristoforo Benigno, 30° vol., 1984; R. Romano, Crespi Silvio Benigno, 30° vol., 1984; S. Casmirri, Erba Carlo, 43° vol., 1993; M. Fumagalli, Falck Enrico, 44° vol., 1994; S. Candela, Florio Ignazio senior, 48° vol., 1997; S. Candela, Florio Ignazio iunior, 48° vol., 1997; R. Romano, Gavazzi, 52° vol., 1999; D. Pozzi, Lazzaroni, 64° vol., 2005; G. Roverato, Marzotto, 71° vol., 2008.