I grandi cambiamenti di scenario nell’epoca globale hanno spinto gli studiosi verso un ripensamento semantico di alcune aree della propria ricerca. In particolare nell’ambito dei trasporti e delle comunicazioni ha cominciato a prevalere una visione improntata a una maggiore organicità interpretativa e a una uniformazione delle singole modalità. Si è fatta strada una logica meno frammentata e orientata verso l’implementazione del concetto di mobilità che si riferisce alla gestione, agli utenti, ai rapporti con gli altri settori del sistema economico. Insieme a questo ha assunto un peso crescente la valutazione delle performance in termini di efficienza della gestione, di questioni relative alla proprietà e alla concorrenza e di tariffe applicate.
Il concetto di mobilità imprime un maggior dinamismo al quadro. Le sono le protagoniste nell’ambito del processo di riconfigurazione del potere statale nell’epoca del superamento dei confini, non in una mera ottica di comparazione internazionale, piuttosto ragionando sulla genesi e il funzionamento delle reti in un quadro sganciato dall’egida dello stato nazione. Non ha senso, quindi, pensare qualsiasi spazio rigidamente e stabilmente configurato soltanto in termini politici ed amministrativi, quando viceversa occorre leggerlo in una prospettiva dinamica di cambiamento alimentato continuamente dalle modificazioni indotte dalla geometria variabile dei flussi. Sono le connessioni delle reti, o la mancanza di esse, che strutturano gli spazi, attivando e disattivando le potenzialità dei luoghi e in ultima analisi determinandone le traiettorie di sviluppo. Attraverso l’analisi dell’insieme complesso di relazioni sociali, economiche, tecnologiche, culturali, politiche che diacronicamente convergono, si concentrano e si interconnettono, grazie all’azione di soggetti individuali e collettivi, privati e pubblici, emerge il quadro completo del sistema infrastrutturale in un dato territorio. In definitiva, ai sistemi della mobilità nella nuova visione viene affidato il compito cruciale di indicare la direzione e caratterizzare lo sviluppo, passando dunque da oggetto di indagine fra i tanti a order building intermediary, una forma di comunicazione e mediazione, un organizzatore, regolatore, generatore di processi e flussi per cui contano il modo, il luogo e la motivazione per i quali e nei quali operano le reti, il loro contesto istituzionale e politico, il rapporto fra attori e mezzi, il modo di utilizzo dei mezzi di trasporto, le caratteristiche delle società e delle comunità, i rapporti di potere che sottendono, le controversie e i conflitti sull’uso delle infrastrutture e dello spazio pubblico, le tecnologie che si dispiegano, le regole che sovraintendono, le forme che assumono, i simboli che rappresentano, la sostenibilità ambientale che favoriscono, i consumi che inducono.
Senza risalire all’epoca delle grandi esplorazioni quattrocentesche, operazione che effettivamente possiederebbe una sua logica, è possibile rintracciare le radici storiche dell’attuale sistema mondiale dei trasporti nella seconda metà del Ventesimo secolo, quando le mutate condizioni politiche ed economiche spingono verso una trasformazione profonda del quadro complessivo della mobilità. Le politiche libero-scambiste che connotano la nuova filosofia – che nasce in campo occidentale a Bretton Woods – ingigantiscono il ruolo dei collegamenti internazionali, aumentando considerevolmente il processo di interdipendenza, che porta a una costante diminuzione dei costi di trasporto coniugata ad una maggiore efficienza delle reti. Fra il 1960 e il 1995, le tariffe commerciali diminuiscono su scala mondiale dall’8,6 al 3,2%. Complessivamente, dagli anni Cinquanta fino ai Novanta il pianeta conosce una crescita del volume degli interscambi mediamente molto più rapida di quella del prodotto mondiale lordo. Tale formidabile rafforzamento resta a vantaggio quasi esclusivo dei paesi industrializzati a economia di mercato, contribuendo i trasporti dunque a scavare ulteriormente il divario economico e sociale fra paesi avanzati e in ritardo.
All’interno del contesto della mobilità, il dato che balza con maggiore risalto è l’impetuoso sviluppo : a titolo di esempio, nel 1950 gli europei occidentali percorrevano ogni anno su mezzi a motore 500 miliardi di chilometri, mentre nel 1992 i miliardi erano saliti a 4400, decretando il trionfo della mobilità individuale a scapito di quella pubblica. La diffusione dei veicoli per uso privato ha incrementato gli investimenti nelle infrastrutture, che a loro volta hanno favorito lo sviluppo del trasporto su gomma sulle lunghe distanze, maggiormente flessibile rispetto a ogni altra modalità: se nel 1965 in Europa il trasporto stradale rappresentava il 47% di tutto il trasporto di merci non marittimo compresi gli oleodotti, dieci anni dopo la percentuale era salita al 56%, nel 1985 toccava il 62% e nel 1993 infine raggiungeva il 77%. Sono gli Stati Uniti il paese più motorizzato del mondo e quello, al tempo stesso, che detiene la rete stradale nazionale più ampia; il motore ha svolto un ruolo essenziale nella formazione stessa del territorio americano, orientando gli insediamenti, modellando il territorio e trasformando le città. Ma la Cina insegue con successo: il sistema cinese di autostrade ha ormai raggiunto gli 80.000 km e costituisce la piattaforma decisiva per ulteriori aumenti del traffico sia di merci che di passeggeri.
Anche la vive un periodo di boom nel secondo dopoguerra, in particolare fino allo shock del 1973, quando il commercio marittimo presenta uno sviluppo superiore a quello delle esportazioni e a quello della produzione manifatturiera. Poche cifre offrono un’idea della grande trasformazione subita dal settore: il tonnellaggio trasportato quadruplica fra il 1948 e il 1968, mentre si limita a raddoppiare fra il 1968 e il 1992; la flotta mondiale quintuplica la sua disponibilità in termini di volumi lordi fra il 1950 e il 1992 e la stazza quadruplica fra il 1955 e il 1992. Nel 1991 viaggiava in container il 33% del tonnellaggio trasportato sui mari con una quota di valore pari al 60% su tre rotte principali: Stati Uniti-Sud-Est asiatico, Sud-Est asiatico-Europa, Europa-Stati Uniti. I settori, in cui la capacità di trasporto per tonnellata di stazza era più elevata, guadagnano sensibilmente peso e percentuale rispetto al resto: l’esempio immediato è costituito dai petroli greggi e dai derivati, ma va sottolineato anche come le navi porta-rinfuse aumentano il trasporto di tipologie piuttosto varie di merci come minerali ferrosi, carbone, bauxite, cereali e fosfati. Il ciclo di trasporto dei petroli – petroliere, depositi costieri, oleodotti – per la fluidità e l’agilità economico-operativa con cui si caratterizza ha fornito un modello efficace per le altre correnti di traffico, in particolare per il trasporto dei gas naturali liquefatti. Passi in avanti vengono compiuti nella seconda metà del secolo in termini di velocità e migliorano, accelerando notevolmente il disbrigo dei carichi, la meccanizzazione e la specializzazione nei porti.
Non altrettanto si può dire della modalità ferroviaria, che nonostante i treni sempre più veloci ed efficienti che percorrono le linee nel primo mondo, declina nettamente. A partire dalla ricostruzione postbellica il mondo ha conosciuto una decurtazione delle linee ferroviarie divenute improduttive; migliaia di chilometri sono stati tagliati in nome della mancanza di redditività e sostituiti prontamente con servizi a motore, in grado di offrire, specialmente nel settore merci, un’offerta imbattibile.
Un’ampia diffusione dell’abitudine al volo, per scopi prevalentemente turistici, e un’impressionante evoluzione tecnologica, che si sostanzia innanzitutto nell’avvento dei turboelica e dei turbogetti, segna profondamente il settore dell’aviazione. Nel 1958 venne inaugurato il primo servizio commerciale transatlantico a reazione e due anni dopo il quadrireattore Boeing 707 compiva lo stesso tragitto in sette ore e mezza con 144 passeggeri. Il primo jumbojet fu il Boeing 747, in grado di trasportare 500 passeggeri ad una velocità di 978 km/h.
A partire dall’ultimo decennio del Ventesimo secolo il sistema della mobilità mondiale vive una vera e propria rivoluzione, divenendo magna pars dell’economia globale, non solo rispetto al modo di produrre e di distribuire le merci, ma anche al modo di lavorare e di vivere la quotidianità stessa per centinaia di milioni di esseri umani. Fra il 1970 e il 2010 il valore delle esportazioni è cresciuto di 48 volte mentre il prodotto interno lordo di 22 e la popolazione di 1,8. La nuova mobilità globale permette di identificare le connessioni tra politiche di infrastrutturazione, scambi commerciali, assetti territoriali e dinamiche geopolitiche. Il risultato, sotto i nostri occhi, è una vasta riorganizzazione dello spazio economico mondiale. Nuovi criteri organizzativi improntati alla massima flessibilità come il trasporto intermodale, la delocalizzazione di molte attività economiche, l’irruzione poderosa di nuove tecnologie innovative all’interno dei processi produttivi, la sostituzione dell’asse economico di riferimento da quello atlantico a quello pacifico sono soltanto alcuni fra gli elementi, che vanno progressivamente mutando il quadro complessivo in modo massiccio e straordinariamente rapido. Si tratta di un vorticoso riposizionamento su scala globale, cui assistiamo quotidianamente, al quale partecipano sia la mano privata sia quella pubblica in differenti forme e combinazioni.
La riduzione degli effetti delle distanze geografiche, tradizionale ostacolo all’espansione dei traffici, è uno dei pilastri del nuovo mondo globalizzato. I limiti imposti storicamente dallo spazio fisico alla mobilità stanno via via riducendosi e le opportunità economiche di un paese o di un’area sono sempre più dipendenti dall’inserimento in una fitta rete di relazioni. La competitività delle imprese aumenta grazie alla minor incidenza del fattore distanza, dunque all’abbattimento dei costi di trasporto e alla riduzione degli squilibri territoriali. La possibilità di comprimere i costi dei trasporti permette la delocalizzazione, i luoghi della produzione e del consumo si allontanano sempre più in funzione della possibilità tecnica di abbassare quei costi. La nascita di interessi geoeconomici da una parte e il controllo dell’economia, che nuovi attori globali e potenti multinazionali detengono, trova nella gestione delle reti e delle tecnologie più avanzate nel settore dei trasporti uno dei momenti più significativi. Alla base dei nuovi trend risiedono anche livelli di sicurezza più elevati, che gli strumenti elettronici sono effettivamente in grado di garantire in virtù di un sempre più sofisticato trattamento dei sistemi informativi. Così come l’adozione progressiva di standard, grazie anche alla costante opera di unificazione promossa dalle norme dettate dall’International Standards Organization (Iso). La tendenza punta verso un coordinamento organizzativo e di gestione delle reti esistenti per ottenere la massima integrazione e funzionalità.
Per certi versi siamo al cospetto di una vera e propria marittimizzazione dell’economia. Le cifre relative all’incremento degli scambi via mare sono impressionanti: fra il 1955 e il 2004 i trasporti merci navali fra paesi non vicini sono aumentati da 880 milioni di tonnellate a 6,76 miliardi ad un tasso annuale del 5,37%. Nello stesso periodo anche il valore delle merci scambiate è cresciuto in maniera estremamente significativa, passando da 505 milioni di dollari a 8,16 miliardi ad un tasso annuale del 7,40%.
Nell’ambito della navigazione molte sono le novità nell’epoca dell’economia globale, a partire dalla progressiva specializzazione del ciclo di trasporto. Inoltre va sottolineato il poderoso riorientamento delle rotte del traffico mercantile, sempre più concentrate sui porti estremo orientali, per opera soprattutto di grandi compagnie private, nelle cui mani si concentra gran parte del potere sulle catene logistiche a scapito dello stato. Otto porti cinesi sono oggi fra i primi venti del mondo e movimentano il 55% del totale mondiale del traffico. A fronte delle lunghe traversate interoceaniche, si sono moltiplicati anche gli scambi sulle rotte brevi, che hanno fornito un ideale campo di applicazione dei traghetti per autocarri e container, come dimostrano il traffico italiano di cabotaggio, quello inframediterraneo e attraverso la Manica. Percorsi di specializzazione, nel campo delle cisterne per la chimica, nel settore alimentare e in quello delle merci deperibili, sono stati realizzati sulle rotte brevi. La dimensione delle navi, adibite a trasporto merci e in particolare delle navi container, cresce sensibilmente, fenomeno che egualmente vede i paesi asiatici emergenti primeggiare largamente. La diminuzione del peso degli scafi ha facilitato l’aumento della dimensione delle navi. Le petroliere più grandi oggi raggiungono la stazza di 500.000 tonnellate lunghe inglesi (tonnes dead weight), le navi porta-minerali le 200.000, le navi rinfuse secche, che nel 2005 coprivano il 69,6% del traffico marittimo, le 400.000. I trasporti petroliferi danno luogo a elevatissimi quantitativi di traffico e si svolgono di regola su percorrenze spesso molto lunghe.
Tecnologie di avanguardia hanno semplificato notevolmente non solo le operazioni di carico e scarico, ma la stessa fase della navigazione al punto che si riducono decisamente gli equipaggi a fronte di una sicurezza maggiore. Si diffondono anche sistemi che permettono di servire allo stesso tempo sia la scala globale sia quella regionale: nel sistema hub-spoke, la nave giramondo, attraverso il transhipment, trasborda il carico nella nave feeder, che a sua volta distribuisce le merci nei porti regionali.
Anche le strutture portuali, la cui accessibilità viene annualmente valutata dal Liner Shipping Connectivity Index, vivono un’epoca di grandi cambiamenti, che rendono gli scali sempre più adeguati tecnologicamente e preparati per accogliere, in un contesto organizzativamente efficiente, le grandi imbarcazioni che solcano oggi i mari. Costi ed efficienza del retroterra diventano gli elementi decisivi ai fini della scelta di un porto da parte di una compagnia: il 30% delle merci sbarcate nello scalo di Rotterdam vengono distribuite nel suo hinterland tramite vie navigabili.
La direzione dell’intermodalità risulta obbligata, non solo in nome dell’efficienza, ma anche del riequilibrio fra mezzi di trasporto. Con la parola intermodalità, che rappresenta un formidabile miglioramento organizzativo dei termini della mobilità su scala mondiale, si intende l’integrazione operativa e gestionale, senza dover ricorrere alla rottura di carico, fra diversi modi di trasporto (strada-rotaia-mare-vie d’acqua) mediante il container, che ha una sua unità di misura, il Teu (Twenty-Foot Equivalent Unit). Tale tipo di servizio integrato, che ha rivoluzionato la mobilità mondiale, rende il trasporto non più una somma di attività autonome dei singoli vettori interessati, ma una prestazione unica dall’origine alla destinazione in una visione organica e globale del processo di trasferimento delle merci, producendo un servizio a condizioni complessivamente più convenienti. L’uso coordinato di più modi inteso in termini di integrazione fra più vettori con diverse tecniche di trasporto e la standardizzazione del carico ottimizzano il risultato. Le tecniche intermodali richiedono l’effettuazione di diverse operazioni e l’intervento di più operatori e mezzi; ne deriva una certa rigidità delle strutture: in questa ottica alle ferrovie competono i percorsi lunghi mentre ai camion la distribuzione capillare. Il trasporto su container ha dato vita alla creazione di interporti e di terminali intermodali, nodi in cui vie di comunicazione e traffici si incrociano, diventando spesso poli di attrazione anche per ulteriori attività. L’importanza dell’intermodalità – che si afferma nel secondo Novecento – risiede nella sua capacità di superare l’antenata storica, appunto la plurimodalità, in cui il passaggio da un modo di trasporto a un altro avviene tramite la manipolazione delle merci o dei loro imballaggi. Il primo servizio regolare di navi container fra Stati Uniti e Europa risale al 1966 grazie all’americano Malcolm McLean. Negli anni Trenta operavano in quel paese otto grandi società per il trasporto con cassa mobile, in pratica l’antenata del container, dotata di una portata massima di cinque tonnellate e riservata a merci pregiate. Il tonnellaggio trasportato su scala mondiale tramite container fra il 1948 e il 1968 quadruplicava e raddoppiava fra il 1968 e il 1992. Attualmente un sesto delle navi nel mondo sono portacontainer; il 95% del traffico sulle rotte orientali, il 90% del traffico mercantile tra l’Europa e gli Stati Uniti e il 75% di quello complessivo viene effettuato con questa modalità, la cui adozione, in crescita, richiede elevati investimenti per le attrezzature sulle navi e l’approntamento di ampi spazi nei porti dove avviene il trasferimento. Il container ha imposto una riorganizzazione complessiva del lavoro portuale, che ha trasformato gli scali in semplici punti in cui avvengono i passaggi intermodali, dotati di magazzini e adeguati sotto il profilo tecnologico e della logistica, come i servizi just in time. Grandi compagnie globali, come la Maersk, dominano il settore, in cui il tasso di concentrazione risulta molto alto: nel 2013 le principali venti imprese controllavano più dell’80% del traffico oceanico in un’ottica di crescente integrazione verticale che comprende fino agli operatori portuali. Fra il 1995 e il 2013 la dimensione della flotta container è cresciuta di cinque volte; altrettanto significativo è stato l’aumento della capacità delle navi portacontainer, che fra il 2005 e il 2012 è praticamente raddoppiata. A partire dalla metà degli anni Novanta dello scorso secolo il possente sviluppo dei traffici navali, che ha caratterizzato il continente asiatico, rappresenta l’elemento di spicco del fenomeno intermodale: se nel 1995 137,2 milioni di Teu transitavano per i porti di tutto il mondo, nel 2012 un traffico di 155 milioni interessava solo i porti cinesi. Nel giro di dieci anni – fra il 1995 e il 2005 – il flusso di container sulla rotta pacifica fra la Cina, gli altri paesi estremo orientali e la costa occidentale degli Stati Uniti via Panámá passato da 8 milioni di Teu a 16. Nello stesso periodo di tempo il flusso Asia-Europa è aumentato ancora di più, da 4 milioni di Teu a 14. Ciò è stato reso possibile anche dai massicci investimenti operati dal governo cinese per modernizzare le proprie strutture portuali. Infine anche sulla direttrice atlantica si è registrato il raddoppio del traffico. Anche i tempi di percorrenza costituiscono un avanzamento rimarchevole: il tragitto Europa-Midwest americano richiede tre settimane e cinque sono necessarie per raggiungere l’Asia dall’Europa, sulla base di una velocità media delle navi di 15 nodi, cioè 28 km/h.
Se confrontate con le cifre del trasporto marittimo, quelle del trasporto aereo risultano quantitativamente assai più ridotte, mentre viceversa appaiono molto più significative se teniamo conto del valore delle merci, 15% del commercio mondiale complessivo. Nel valore sta il significato della sfida del a quello marittimo: beni preziosi e di peso limitato – elettronici e componentistica – rappresentano il target della modalità aerea, che presenta ovviamente decisamente ridotti, a fronte di , rispetto alla navigazione. Nel periodo fra il 1975 e il 2004 il tonnellaggio del trasporto merci aereo è aumentato di otto volte con un incremento annuo del 7,37%. Il settore aereo è ancora teatro di continui miglioramenti sotto il profilo tecnologico, soprattutto rispetto alla maggiore efficienza dei motori e al miglioramento dell’aerodinamica, entrambi in funzione di una riduzione dei consumi energetici.
La novità maggiore nel contesto ferroviario dalla seconda metà del XX secolo fino ai nostri giorni, prevalentemente in un’ottica di rivitalizzazione del settore e di alleggerimento del traffico su gomma, va individuata nell’, che muove i primi passi in Giappone nel 1964 con il Tokaido Shinkasen, il primo treno veloce entrato in servizio fra Tokyo e Osaka, che marciava alla velocità di 220 km/h. Nel corso dei due decenni successivi si sviluppa poi prevalentemente in Europa occidentale: Germania, Francia e Italia hanno fatto a lungo da battistrada, non senza incontrare grandi difficoltà, nella progettazione e nell’approntamento di nuovi treni veloci e di nuove linee dedicate. La precoce intuizione dei tecnici italiani fu l’assetto variabile: se si voleva far viaggiare un treno a velocità superiori, non solo nei rettilinei ma anche in curva, bisognava prevedere che cambiasse assetto. Ciò fu reso possibile grazie all’idea del pendolamento, che permetteva al nuovo treno di toccare velocità assai maggiori senza rischi né disturbi apportati ai viaggiatori. Il primo esemplare di Pendolino ad assetto variabile, l’Etr 401, entrò in servizio nel 1976 sulla Roma-Ancona. Poteva viaggiare a una velocità massima di 250 km/h con a bordo 171 passeggeri tutti in prima classe. Era il primo modello del genere sviluppato con successo nel mondo, precedendo anche il Tgv fra Parigi e Lione, che risale al 1981, competendo fin dall’inizio con il trasporto aereo su quella tratta.
Con gli anni Ottanta si è cominciato a registrare il lento passaggio da una serie di esperienze singole a una prima idea di sistema europeo di alta velocità destinata ancora solo ai passeggeri e basata su un modello che prevedeva domanda elevata e tariffe accessibili. Il coordinamento fra i paesi in sede europea relativamente alla questione dell’alta velocità ha spinto in modo deciso verso la costituzione di una rete continentale, ritenuta a ragione una delle chiavi di volta dell’unificazione fisica e un elemento insostituibile per incrementare la circolazione di merci e passeggeri. Il rapporto stilato nel 1986 sull’implementazione delle linee ad alta velocità – Verso una rete europea di treni a grande velocità – ne faceva un elemento cruciale nell’agenda europea, insistendo sui termini dell’omogeneizzazione delle politiche e della standardizzazione tecnologica. L’anno successivo venivano concretamente varate le prime linee: Londra-Parigi, Parigi-Bruxelles, Bruxelles-Amsterdam e Bruxelles-Colonia. Una più incisiva politica comunitaria a favore della realizzazione di una , in vista della realizzazione del mercato comune, si sviluppava all’inizio degli anni Novanta, sulla scia della preparazione del trattato di Maastricht e della definitiva liberalizzazione degli scambi, cui si connetteva lo sviluppo integrato delle reti di comunicazione e la rivitalizzazione del mezzo ferroviario. Il progetto Trans European Networks (Ten), varato nel 1992, si configurava soprattutto in termini di rete ad alta velocità, destinando al trasporto ferroviario l’80% degli investimenti previsti. Le idee guida alla base della scelta andavano dall’incremento della concorrenza al riequilibrio territoriale e alla creazione di nuovi assi di comunicazione fra i paesi della Comunità, inclusi quelli orientali, in un contesto di unificazione degli standard e delle strategie. Si faceva strada anche l’esigenza di associare l’alta capacità all’alta velocità, cioè un esercizio integrato fra merci e passeggeri, in nome di un riequilibrio modale ritenuto indilazionabile. Andavano nella stessa direzione il White Paper on European transport policy for 2010: time to decide, pubblicato nel 2001, ispirato da criteri ambientalistici e concentrato sul riequilibrio modale e sull’applicazione di avanzati standard tecnologici; e il documento del 2011 Roadmap to a Single European Transport Area. For a competitive and sustainable transport policy, che ruota intorno ai principi della sostenibilità ambientale di lungo termine, della coesione territoriale e del rafforzamento delle reti. L’alta velocità, ormai associata stabilmente all’alta capacità, costituisce e costituirà ancora a lungo la novità di maggiore impatto in ambito ferroviario. Nel frattempo altri paesi – gli Stati Uniti e un nutrito gruppo di realtà emergenti – hanno avviato progetti riguardanti l’alta velocità. L’esperienza cinese, in particolare, sembra quella di maggior successo: avviata nel 2003, ha prodotto il collegamento ad alta velocità più innovativo in assoluto. Il treno fra Shanghai e il suo aeroporto adotta un innovativo sistema di trazione, del tutto differente da quello europeo, che permette di raggiungere una velocità di 500 km/h, grazie all’utilizzo della levitazione magnetica e di materiali ultraleggeri.
di Carla Giovannini
«Sei favorevole alla costruzione di un terzo gruppo di chiuse sul canale di Panamá?»: a questa domanda i panamensi hanno risposto sì nell’ottobre 2006, nel rispetto della Costituzione che impone di consultare la popolazione per ogni progetto che riguardi il canale. Si è trattato del primo orgoglioso esercizio di sovranità nazionale sulla zona del canale di Panamá, fino al 2000 a sovranità Usa. Il referendum ha interpellato la popolazione solo su una parte del progetto che in realtà riguarda molti tratti del canale. L’opera è infatti imponente, annoverata tra i lavori più importanti del nostro tempo per l’impatto ambientale, le tecnologie, il volume di lavoro necessario e i costi.
Dopo l’approvazione del parlamento, la Acp (Autoritad del Canal de Panamá) ha avviato la raccolta di risorse finanziarie e ha scritto il calendario del nuovo canale. Un calendario più volte rivisto, per intoppi di ordine tecnico-economico, che fanno prevedere la fine dei lavori nel 2016.
Nonostante le voci contrarie che puntano il dito contro i rischi ambientali e contro l’iniquità sociale di un’operazione dai costi elevati, che costa più della metà del pil nazionale e che porterà beneficio solo a una piccola parte della popolazione, l’infrastruttura è stata salutata come urgenza e come una grande opportunità di sviluppo per tutto il Centro America.
Perché urgente? Anzitutto la perdita di profitti dovuta all’arretratezza delle strutture del canale, chiuse e camere d’acqua, che ingabbiano le navi e le conducono negli ampi bacini del canale. Il traffico interoceanico è cresciuto più in fretta delle infrastrutture che lo possono accogliere e molte navi oggi sono escluse dal canale di Panamá.
Il nuovo canale sarà una via d’acqua aperta a navi lunghe 400 metri, in grado di trasportare 14.000 container: tre volte di più rispetto alla portata massima odierna. L’obiettivo è garantire l’accesso alle navi post-panamax e super-post-panamax, intendendo con questo termine, il panamax, l’unità di misura massima delle imbarcazioni con carico massimo di 75.000 tonnellate e 4.442 teu. Il canale si potrà aprire anche alle nuove superpetroliere, che trasportano sino a 3 milioni di barili di greggio e che ora sono costrette alla circumnavigazione di 26.000 km, cioè un mese di navigazione.
I lavori di espansione del canale permetteranno anche transiti più frequenti e tempi di percorrenza minori. Ci si aspetta un transito di 4.750 navi in più all’anno e i maggiori incassi derivati dai pedaggi sono alla base del progetto finanziario. Si stima che il canale di Panamá possa raddoppiare i profitti passando da 2 miliardi di dollari l’anno (che salgono a 2,7 miliardi per l’indotto generato), a 4-5 miliardi dopo i primi 5 anni, necessari per recuperare gli investimenti.
Si tratta di un’opera costosa (5,35 miliardi di euro il conto finale) sostenuta dall’Acp, per metà con fondi propri derivati dai pedaggi e per l’altra metà con finanziamenti esterni provenienti da istituti di credito, tra i quali la Japan Bank for International Cooperation e la European Investment Bank.
Il progetto dell’allargamento del canale consiste nell’apertura di due nuovi grandi bacini, nell’ampliamento e nel rafforzamento dei tre bacini esistenti, nell’approfondimento dell’intero tracciato del canale e nello scavo di nuovi collegamenti. Per superare il dislivello di circa 27 metri tra gli oceani e il lago Gatun, le navi entreranno in una sorta di montacarichi idraulico formato dalle tre camere che costituiscono le singole chiuse e sono regolate dal sistema di paratoie scorrevoli. Queste nuove giganti paratoie, che sono alte circa 30 metri, larghe circa 10 e lunghe circa 58, con un peso di oltre 3.000 tonnellate ciascuna e che distano dai loro alloggiamenti in cemento armato solo pochi centimetri, sono tra le soluzioni tecniche più innovative.
Il nuovo sistema prevede l’apporto di acqua nelle camere: ogni chiusa è dotata di un bacino ausiliare, mediante il quale si recupera il 60% dell’acqua impiegata. Acqua che ora finisce direttamente in mare. I lavori sono affidati a un consorzio, il Grupo Unidos por el Canal, composto dall’italiana Salini-Impregilo, dalla spagnola Sacyr Vallehermoso, dalla belga Jan de Nul, e dalla panamense Constructora Urbana.
Lo sviluppo della vocazione ambientale che sfrutta da almeno un secolo il vantaggio di una posizione strategica fa dell’istmo di Panámá uno dei punti più sensibili e delicati del pianeta. La capitale, Panámá, è diventata grazie al suo canale zona franca, polo turistico di grande richiamo, città modernissima. Per rappresentare lo sviluppo degli ultimi anni similitudini si sprecano: Panámá è una Manhattan tropicale, una Dubai delle Americhe, la Singapore del Centro America.
Le ricadute sui territori limitrofi toccano anche Cuba che aspira a diventare uno dei prossimi hub portuali dei Caraibi, dove faranno sosta le meganavi portacontainer. Ci si attende un abbattimento dei costi di trasporto, che in linea di principio avvantaggia tutti coloro che sono consumatori e importatori; ma è anche una grande opportunità per i paesi dell’emisfero sud. Non a caso gli egiziani hanno voluto bruciare i tempi con il loro progetto alternativo, l’allargamento del canale di Suez, inaugurato nell’agosto 2015. Il Nicaragua ha affidato il progetto di un canale che tagli il suo territorio ad una compagnia di Hong Kong. E infine la Colombia sta lavorando al progetto, con la Cina, di un ‘canal seco’ di 220 km. Una ferrovia per le merci pesanti, un percorso tutto entroterra, ma che porta il nome di canale.
di Oliviero Baccelli
Le società di navigazione, che rispondono alle esigenze molto articolate di circa il 90% della domanda di commercio internazionale, si dividono in due principali gruppi a seconda delle modalità organizzative con cui vengono trasportate le merci: alla rinfusa o con unità di carico standardizzate come il container. Il primo tipo di società offre una risposta alle esigenze di approvvigionamento di fonti energetiche e di materie prime movimentate in ingenti quantitativi senza imballaggi siano esse liquide o solide, come il petrolio greggio, i prodotti raffinati, i minerali metalliferi e il carbone.
Nel corso degli ultimi anni i tassi di crescita più rilevanti si sono registrati nei traffici container, cioè quelli dedicati principalmente alla movimentazione di prodotti finiti. Sulla base delle statistiche Unctad, la quota dei container sul totale dei volumi interscambiati a livello internazionale via mare (espressi in milioni di tonnellate) è passata dal 2,8% del 1980, al 5,8% nel 1990, sino al salire al 16,5% nel 2013. Questa quota di mercato, se espressa in valore economico, sale a circa il 52%.
Il settore delle rinfuse è da sempre caratterizzato da un elevato numero di operatori, grazie alla relativa assenza di barriere all’entrata, con due conseguenze che sono i fattori strutturanti e distintivi del settore: le dimensioni ridotte della maggioranza delle aziende e la trasparenza assoluta nella formazione dei prezzi. Ad esempio ad ottobre del 2015 la società di ricerca Clarkson ha stimato che nel settore delle rinfuse solide operino oltre 1900 società di navigazione, molto spesso con azionariato familiare, con oltre 10.600 navi. Solo due società dispongono di una flotta con oltre 100 navi. Al contrario il settore container è basato su modelli organizzativi molto più complessi che prevedono una quota dei costi fissi sul totale molto alta, favorendo la ricerca delle economie di scala e, quindi, il gigantismo navale, sulle direttrici dove i volumi sono più consistenti, come quelle fra Asia ed Europa.
Se nel 2004 le navi di dimensioni superiori riuscivano a trasportare fino a 8238 Teu, nel 2010 questo valore è salito a 14.770 Teu e il 2015 è stato caratterizzato dall’ingresso sul mercato della nave Msc Oscar da 19.224 Teu. Inoltre, il settore si è distinto per la progressiva concentrazione industriale e, grazie a fusioni ed alleanze tra le varie società armatoriali, le prime 30 compagnie di trasporto rappresentavano quasi il 90% del mercato all’inizio del 2015 e soli quattro consorzi gestivano i flussi fra Asia ed Europa. Nel settore operano 5035 navi con una capacità complessiva di 18,4 milioni di Teu.
In questo mercato le forme di collaborazione fra compagnie si sono evolute molto nel corso degli ultimi anni a causa di fattori contingenti, ma in realtà sin dagli anni Novanta, periodo in cui l’organizzazione molto specialistica del settore ha raggiunto la copertura su scala mondiale, le fusioni e le acquisizioni sono state molto frequenti, con l’obiettivo di offrire una maggior capillarità e regolarità del servizio soprattutto a supporto delle grandi multinazionali, principali clienti degli operatori nel settore container. Le forme di collaborazione possono essere sintetizzate come segue:
• Vessel Sharing Agreement, finalizzato a ripartire gli spazi a bordo di una nave sulla base delle rispettive esigenze di carico;
• Slot Charter Agreement, finalizzato al noleggio di un determinato spazio o un certo numero di slot, sulle navi di un’altra impresa per un viaggio o per un determinato periodo di tempo ad un dato prezzo;
• Joint Services, finalizzati al coordinamento delle partenze delle navi da ciascun porto, in modo da evitare sovrapposizioni di offerta di stiva, riducendo al minimo il rischio di non saturare l’unità di carico ed offrire ai propri clienti un servizio più efficiente.
I due principali vettori al mondo, caratterizzati dalla presenza di gruppi familiari europei fra gli azionisti di riferimento, la danese Maersk e la svizzera Msc, nel corso del 2014 hanno predisposto un complesso accordo di Vessel Sharing entrato in vigore nel 2015, dopo aver ottenuto l’approvazione da parte delle autorità di vigilanza sulla concorrenza nei diversi continenti. L’alleanza è decennale e prende il nome di 2m ed è stata costituita per le rotte transatlantiche, transpacifiche e Asia-Europa. L’accordo riguarda 185 navi (110 di Maersk e 75 di Msc), per una capacità di stiva complessiva pari a circa 2,1 milioni di Teu e impiegate su 21 servizi di linea, ma non prevede la possibilità di scambiarsi informazioni commercialmente sensibili o indicazioni rispetto ai clienti.
Allo stesso tempo la francese Cma Cgm, la cinese China Shipping e l’araba United Arab Shipping hanno dato vita all’alleanza O3 che impiegherà 150 navi che verranno utilizzate sulle principali rotte est-ovest. Oltre alla 2m e alla O3, le altre alleanze di rilievo globale sono la G6, che raggruppa la American President Lines, la Hapag Lloyd, la Hyundai Merchant Marin, la Mitsui Nippon, la Oocl e la Ckyhe Alliance, dove sono confluiti parte dei servizi di Cosco, ‘K’ Line, Yang Ming, Hanjin Shipping e Evergreen.
di Massimo Moraglio
La tendenza – peraltro di lungo periodo - all’urbanizzazione è accentuata dal fenomeno della globalizzazione, con pesanti effetti sui trasporti cittadini. Il fenomeno numerico rappresenta in sé una sfida inusitata, con una previsione di circa 300 mega conglomerati urbani nelle sole economie emergenti (Asia, Sud America e Africa), conglomerati che necessiteranno di sistemi di trasporto pubblico di massa. Il fenomeno di inurbamento va, inoltre, di pari passo con la crescita della classe media, con la conseguente definizione della mobilità come fenomeno di identificazione sociale e autoaffermazione. La motorizzazione di massa in Asia e Sud America è, infatti, un elemento prevalentemente urbano (come avvenuto in Europa), che si accompagna a una maggiore richiesta di beni e servizi, mettendo sotto pressione così anche il sistema della logistica cittadina. Per di più, seguendo ancora una volta traiettorie consolidate, la nuova classe media è attratta dal turismo, il che richiede a sua volta lo sviluppo di sistemi aeroportuali. Un tale vorticoso processo, nel suo pieno svolgimento in particolare (ma non solo) in Cina e nel sudest asiatico, sta già dimostrando, anche a quelle latitudini, le sue intime contraddizioni. Inquinamento, uso incontrollato di energia e spazio, congestione hanno ormai raggiunto l’agenda politica di molte città e di parecchi governi. Pechino e Shanghai, ad esempio, hanno da anni introdotto un numero chiuso sull’acquisto di auto, regolato da una ‘lotteria’. Anche la vendita di auto usate in Cina è vincolata da rigide normative che hanno l’obiettivo di allontanare dalle maggiori città le auto più vecchie (quelle più inquinanti e più energivore). Questi freni alla proprietà veicolare, una volta generalizzati, non possono non aprire una cospicua contraddizione di politica economica. Limitare l’acquisto significa di fatto ostacolare le potenzialità del comparto automobilistico, che pure è uno dei pilastri della crescita. D’altra parte, incombenti scelte geostrategiche impongono un limite al consumo di energia, mentre i sistemi di trasporti in aree urbane – senza interventi pubblici – rischiano semplicemente il collasso (come nel caso iconico di Bangkok). Ciò detto, mentre i problemi da affrontare sono assai simili a quelli del cosiddetto Occidente, alcune nazioni sviluppano talora inedite traiettorie. Il boom delle biciclette elettriche in Cina (circa 200 milioni nel 2014) rappresenta un modello inedito, così come il perdurare di servizi di taxi collettivo in Africa e Sud America.
Gli effetti della globalizzazione impattano però anche le economie mature. Se le questioni energetiche, l’inquinamento e la congestione sono rilevanti ovunque, in Europa e Nord America ci sono flebili, ma ormai costanti, segnali riguardanti l’impatto della crisi economica sulle fasce di popolazione più povera, al punto che si sono ravvisate nuove tendenze alla mobilità, con una forzata riduzione del budget destinato ai trasporti. Alla scala sociale opposta, l’accesso a car e sembra terreno privilegiato per la classe medio-alta, che in alcune sue punte più avanzate non considera il possesso di un’automobile come elemento di prestigio sociale, e ha assunto realisticamente i limiti di tale mezzo nell’area urbana. A ciò va aggiunta una modesta, ma anch’essa costante, riduzione di richiesta di patenti di guida da parte delle nuove leve giovanili europee e nordamericane; sia pure talvolta esagerato nelle sue dimensioni quantitative, tale fenomeno si affianca a una riduzione dell’uso dell’automobile anche come passeggeri da parte dei giovani europei.
Anche se spostiamo l’accento dai trasporti passeggeri a quelli merci, l’impatto della globalizzazione si farà sentire pure in area urbana. L’effetto di nuove tecnologie di comunicazione e del commercio elettronico sui trasporti è controverso, ma in generale si ha una tendenza all’aumento del traffico merci. Ciò significa che la virtualizzazione dei flussi, come immaginato con lo sviluppo di Internet, non è avvenuta (e forse non avverrà neppure con lo sviluppo delle stampanti in 3D). Siccome proprio il sistema di traffico merci ha oggigiorno una bassa efficienza, con un alto numero di corse a vuoto e un’alta dispersione geografica degli utenti finali, si possono ipotizzare cambiamenti di una certa portata nel futuro più o meno vicino, con la possibile formazione di oligopoli di fatto, ma anche con lo sviluppo di sistemi logistici meno energivori. Mentre i flussi materiali rimangono assolutamente centrali, l’industria del trasporto merci mostra a occhi esperti una notevole concentrazione degli operatori, i cui effetti potranno essere definiti solo sul lungo periodo.
Su questi elementi, incombe l’impatto futuro dei veicoli a guida autonoma. Non appena i problemi legali e sociali (ma anche infrastrutturali) connessi a tale nuova forma di trasporto verranno superati, ci sarà una ibridizzazione tra trasporto pubblico e privato (rendendo agevole il car pooling e i taxi collettivi, ma anche i bus con servizio a domicilio), anche se, ancora una volta, le aspettative maggiori sono previste nel settore della logistica.
La separazione crescente fra luoghi della produzione e del consumo propone la rilevanza in primo piano della logistica e delle catene di approvvigionamento globale come strategia commerciale e spaziale in grado di determinare il livello dell’efficienza e di ridurre i costi di transazione. Le tecniche di just in time – in un contesto globale che vede primeggiare il trasporto su gomma – richiedono aggiornati sistemi logistici nelle aziende manifatturiere in modo da garantire consegne rapide, frequenti e capillari. Grandi compagnie delle dimensioni di Maersk nell’ambito della navigazione e di FedEx in quello del trasporto aereo, spesso frutto di fusioni ed acquisizioni, operano oggi nel settore, nel quale però convergono anche ingenti investimenti pubblici motivati dalla consapevolezza della indispensabilità di approntare adeguate infrastrutture e di promuovere le necessarie attività a sostegno. Nel 2006 i primi quindici spedizionieri del mondo controllavano il 60% del trasporto aereo; otto erano europei, cinque americani e due giapponesi. In definitiva il ruolo sempre più cruciale della logistica si deve maggiormente ad innovazioni di tipo gestionale ed organizzativo – il coordinamento dei vari segmenti della catena in primis – piuttosto che tecnologico, senza che una tale affermazione intenda trascurare i benefici apportati ai sistemi logistici dall’applicazione della information and communication technology. Gli Stati Uniti, il paese in cui la separazione fra trasporto merci e passeggeri risulta più netta, per primi si sono avvantaggiati in questo delicato campo; l’Europa, dove oltre tre quarti dei trasporti avviene su gomma, ha beneficiato del consolidamento ed allargamento dello spazio comune, che hanno permesso maggiore fluidità alla logistica.
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