Le inquietudini di Elizabeth
Lontana dai ritmi del mondo letterario di oggi, Elizabeth Strout concepisce l’essere romanziere come esperienza totalizzante ed esaustiva, da decantare con calma. Ma i suoi temi sono immersi nella contemporaneità: i malesseri della famiglia e della società nell’America dopo l’11 settembre.
Un paio di anni fa, quando la direzione del Premio Mondello mi affidò l’onore di celebrare un autore straniero a cui ero particolarmente devoto, formulai una promessa, intrapresi – per così dire – una missione: avrei fatto tutto il possibile affinché il nome di Elizabeth Strout giungesse a ogni lettore disponibile del pianeta, avrei perfino fondato un fan club a suo nome. Non ho mollato, né cambiato idea, quindi proseguo nel mio intento.
Nel 2013 Elizabeth Strout ha pubblicato il suo quarto romanzo, I ragazzi Burgess, prima in America e poi in Italia dove, anche grazie al premio Bancarella vinto nel 2010, conta più seguaci che altrove. Come sua abitudine, ha atteso con pazienza il tempo di maturazione naturale del libro, l’accumularsi di abbastanza vita vera da poter essere dispiegata in 400 pagine senza inutili diluizioni: 5 anni per l’esattezza, dopo il Pulitzer vinto nel 2009 con Olive Kitteridge, e senza frapporre alcunché. È, questa calma, uno degli elementi che la rendono controcorrente in un panorama letterario che si fa sempre più incalzante, frenetico, ovunque. Ricordo che un’estate ascoltai un suo testo inedito nella cornice maestosa della basilica di Massenzio: non mi sono stupito quando ho scoperto che anche quel racconto è confluito nell’ultimo romanzo. Sembra che per Elizabeth Strout ogni libro sia un’esperienza totalizzante, esaustiva, un baratro profondo dalle pareti lisce dove tutto precipita e, a pensarci bene, non mi viene in mente un approccio sensato al mestiere del romanziere che non sia proprio questo.
In contrasto alla lentezza quasi d’altri tempi è la contemporaneità dei temi che Elizabeth Strout affronta nelle sue storie. I ragazzi Burgess, che ha per centro il rapporto ambiguo e doloroso fra 3 fratelli segnati dalla morte prematura del padre, s’interroga sull’isolamento ostinato degli Stati Uniti dopo l’11 settembre, sullo stato effettivo dell’integrazione in un paese che dell’accoglienza ha fatto il suo statuto fondante e su come la psicologia sia diventata in Occidente un surrogato della religione, una stampella abusata per aggirare le nostre insicurezze di esseri umani. Il contesto, la visione del mondo restano tuttavia sempre impliciti, affiorano a poco a poco, esalati dalla pelle dei personaggi, dai quali la Strout non si allontana mai. La narrazione, come nei romanzi precedenti – Amy e Isabelle, Resta con me, Olive Kitteridge – procede allargandosi in cerchi concentrici, il malessere contagia prima la famiglia, poi la comunità in cui essa è immersa e infine la società tutta. Per i ragazzi Burgess, il sassolino che perturba la quiete superficiale delle acque è il gesto insensato e dissacrante del figlio adolescente di Susan, Zachary, che un giorno prende una testa di maiale dal congelatore di casa e la scaglia dentro una moschea durante le preghiere del Ramadan.
Proprio il rapporto, impossibile si direbbe, fra genitori e figli è stato fin dall’inizio, dalla cronaca tutta al femminile delle frizioni fra Isabelle Goodrow e la figlia Amy, il centro incandescente delle storie di Elizabeth Strout, la sua ossessione inesauribile. I figli, presto o tardi, presentano ai genitori il conto delle loro menzogne, della loro stessa maniera di stare al mondo, provocando la rovina disastrosa delle impalcature su cui si sono sorrette vite intere. Tanto più tardi ciò avviene, tanto più gravi saranno le conseguenze. Isabelle Goodrow, una donna per bene sotto tutti gli aspetti a parte l’ottusità, scopre la relazione sordida che Amy intrattiene con un professore del liceo; il mite reverendo Tyler Caskey (Resta con me) si ritrova braccato dall’insegnante d’asilo dell’afasica figlia Katherine e da una neolaureata in psicologia che gli sbatte in faccia espressioni orribili come «invidia del pene»; la rigidissima Olive Kitteridge – davvero uno dei personaggi più memorabili della letteratura moderna – mette piede, tremante, nell’appartamento sudicio che il figlio Christopher condivide con una donna e il figlio di lei a Brooklyn, quando per lui aveva previsto una casetta proprio graziosa in Maine; Jim, Bob e Susan Burgess sono costretti una volta per tutte a fare i conti con le ombre intorno alla morte del padre e con le loro rispettive responsabilità.
I vortici di sofferenza che catturano i personaggi di Elizabeth Strout accelerano con l’avanzare delle pagine, fino ad apparire fuori controllo, irrimediabili. Ma nel terreno ammorbidito dalla disperazione l’autrice lascia sempre, alla fine, germogliare una nuova speranza, una consapevolezza nuova, più esile e vulnerabile ma proprio per questo, forse, più autentica.
I romanzi precedenti
Amy e Isabelle. Pubblicato nel 1998, è la storia del rapporto tra una madre che cerca di nascondere il proprio passato dietro una facciata di decoro e perbenismo e la figlia adolescente che nasconde a sua volta un segreto, la relazione con un insegnante del liceo.
Resta con me. Pubblicato nel 2006, racconta la crisi di un giovane e brillante reverendo, trasferitosi in una cittadina del Maine, quando una donna muore, attirando su di lui l’ostilità e la maldicenza della comunità.
Olive Kitteridge. Pubblicato nel 2008, oltre al Pulitzer ha vinto, in Italia, il premio Bancarella (2010). Si compone di 13 racconti ambientati in una cittadina del Maine e incentrati in gran parte sulle vicende della famiglia della protagonista eponima, insegnante in pensione, il cui sguardo fa da filo conduttore alle diverse storie.
Chi è Elizabeth Strout
Nata a Portland, nel Maine, nel 1956, Elizabeth Strout si è laureata in giurisprudenza presso la Syracuse University e ha esercitato per qualche tempo la professione forense; in seguito si è trasferita a New York, dove ha lavorato presso l’English Department del Manhattan Community College. Negli anni ha pubblicato diversi racconti su riviste letterarie e nel 1998 è uscito il primo romanzo, Amy and Isabelle (2000). Nel 2009 ha vinto, con Olive Kitteridge, il Pulitzer per la narrativa.