Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le inquietudini religiose quattrocentesche si manifestano in forme varie e diverse. Tale diversità si radica in un periodo che assiste ad una grave crisi delle istituzioni ecclesiastiche (scisma d’Occidente e presenza di papi ed antipapi che si delegittimano reciprocamente) e politiche (guerre d’Italia e fine dell’indipendenza dei vari stati italiani). Nella crisi delle istituzioni ecclesiastiche maturano da un lato nuovi movimenti di laici devoti che mirano a stabilire un più intimo e personale rapporto con Dio – come la devotio moderna – da un altro movimenti, alcuni in forme che rimarranno nell’ambito dell’ortodossia, altri che saranno giudicati ereticali e che tentano di realizzare la riforma della Chiesa. Il concilio di Costanza accenderà i suoi roghi di eretici. Il papato non mancherà di bruciare, sui suoi, Savonarola e i suoi seguaci. Gli inquisitori, a loro volta, confermando la giustezza del binomio inquietudine-intolleranza, cominceranno ad accendere più frequentemente i loro.
“Quando l’uomo desidera qualcosa in maniera disordinata, ben presto l’inquietudine si produce dentro di lui” (De Imitatione Christi, I, 6): inquietudine, devotio moderna, ansia della morte
Il periodo in cui la Chiesa passa dallo scisma d’Occidente alla riforma protestante è assai ricco dal punto di vista dell’evoluzione e della trasformazione della spiritualità, come da quello, più esteriore ma a quello stesso fortemente intrecciato, della storia della Chiesa e del papato.
Quasi a simboleggiare, nel complicato passaggio del secolo, la continuità con le antiche devozioni, un grande movimento di flagellanti, il moto dei Bianchi, attraversa l’Italia nella seconda metà del 1399. Diffusosi tra Liguria e Piemonte sull’onda di presunte apparizioni della Madonna, il moto di pellegrini vestiti di bianco che portano, uomini e donne, una grande croce rossa, si diffonde verso sud. Essi, che per lo più si muovono in concordia con le autorità ecclesiastiche, procedono cantando laudi, digiunando e ascoltando la messa. In realtà molti sono i movimenti che ormai da tempo hanno investito nuove categorie di persone, e se molti, come questo dei Bianchi, si richiamano al passato, non mancano quelli che, nelle forme esteriori come in quelle più intime, esprimono posizioni nuove.
Le istanze di riforma della Chiesa danno luogo a una ricca fioritura spirituale. L’ispirazione riformatrice dei cosiddetti “movimenti dell’osservanza”, nati già alla fine del Trecento in ambito francescano con l’obiettivo di tornare alla purezza originaria della regola, si estende ad altri ordini religiosi, e perdura per tutto il secolo successivo. Già dalla fine del Trecento è maturato uno dei movimenti che maggiormente sembra concretizzare le ragioni di quell’inquietudine che caratterizzerà in special modo il Quattrocento, quello che chiamiamo della devotio moderna. Non per nulla, nel libro che di questo movimento costituirà il frutto più concreto e che maggiormente varrà a diffonderne il pensiero, l’Imitazione di Cristo, si può leggere una riflessione di sapore assai moderno proprio su questo tema dell’inquietudine: “Quandocumque homo inordinate aliquid appetit, statim in se inquietus fit” Quando l’uomo desidera qualcosa in maniera disordinata, ben presto l’inquietudine si produce dentro di lui (De Imitatione Christi, I, 6). Ma perché, dunque, il Quattrocento appare come attraversato da queste inquietudini? Che cosa gli uomini che si trovano a vivere in questi anni desiderano, e perché? Per tentare di rispondere a queste domande occorre fare un passo indietro, e vedere prima di tutto quale è l’ambiente dove è maturato questo scritto, e poi qual era la situazione della Chiesa all’inizio del secolo.
Il De imitatione Christi, nato probabilmente in ambiente monastico e attribuito non senza incertezze al monaco olandese Tommaso da Kempis (1380-1471), appare anonimo nel 1418 e a stampa probabilmente nel 1472. Già nel titolo il libretto espone il suo programma, quella imitazione di Cristo che ogni fedele deve avere in mente, che ogni fedele – ecco uno degli elementi più interessanti – anche indipendentemente dalla Chiesa, può realizzare. In realtà questo libro, che ha una diffusione che molti ritengono seconda solo a quella della Bibbia, non soltanto invita a seguire il modello del Salvatore, ma espone una serie di precetti e di norme di condotta che trovano riscontro nei testi sapienziali o nella saggezza di scrittori classici. Esso è il prodotto più maturo di quella spiritualità, ostile alle grandi speculationi teoriche, che si diffonderà enormemente in quei gruppi di laici che già dalla fine del Trecento appaiono realmente proiettati verso un significativo cambiamento. Tra questi vi sono soprattutto i Fratelli della vita comune, una comunità fondata da Geert de Groote (1340-1384), un olandese appartenente a uno di quei ceti sociali la cui partecipazione attiva alla vita religiosa ha costituito una delle “novità” più significative del basso Medioevo. Egli, come Francesco d’Assisi (1182-1226), è figlio di un mercante, come mercanti, del resto, erano stati eretici e santi – si pensi, per non ricordare altri, a Omobono di Cremona (?-1197), il primo santo mercante, appunto, e a Pietro Valdo (1130 ca. - 1217 ca.). De Groote si converte nel 1374 e da allora riunisce intorno a sé un gruppo di devoti. Nasce così quel movimento destinato a caratterizzare un nuovo tipo di religiosità laica, la devotio moderna. Nei primi tempi il movimento è anche sottoposto ad accuse di eresia, ma riesce tuttavia ad ottenere l’approvazione del papato. Alla morte di Groote, nel 1384, gli succede Florence Radewyns (1350 ca. - 1400). Il De Imitatione Christi è destinato ad esercitare un’enorme influenza soprattutto nel XV e XVI secolo. Dai Paesi Bassi si sarebbe diffuso in Europa e anche in Italia, influenzando i più importanti movimenti religiosi, dalla riforma protestante alla spiritualità di Ignazio di Loyola (1491-1556).
Ma questo scritto non solo parla con accenti moderni di quell’inquietudine che caratterizza il secolo, esso ci fornisce anche un elemento molto utile per comprenderne la radice, o almeno una delle radici; il De imitatione ci parla, anche qui con accenti nuovi, dell’attesa della morte. Un’attesa che apparirà ben presto vissuta in maniera nuova, fatta oggetto di opere che mirano a prepararla, di iconografie che tentano di fissarne l’immagine, di una vera e propria Arte del ben morire, quasi che scopo ultimo e prioritario della vita fosse l’attesa della fine. Un’attesa fatta al tempo stesso di paura e di desiderio, paura che la morte arrivi inaspettata, e desiderio che essa sia invece ben preparata. “Beato – leggiamo nel XXIII capitolo del I libro del De imitatione – colui che ha sempre dinanzi agli occhi l’ora della sua morte, ed è pronto ogni giorno a morire”.
Per lo storico olandese Johan Huizinga (1872-1945) “nessun’epoca ha coltivato l’idea della morte con tanta regolarità e con tanta insistenza quanto il secolo XV” (L’autunno del Medioevo, 1991, p. 187). Uomini e donne sono atterriti non solo dai sermoni dei predicatori sul destino che attende i peccatori nell’oltretomba, ma anche dal profluvio di immagini che raffigurano lo scheletro con la falce. Trionfi della Morte e Danze Macabre divengono un vero e proprio cliché artistico e letterario, così come la poetica dell’ubi sunt, compendiata nel ritornello ou sont les neiges d’antan della celebre ballata di François Villon (1431/1432 - post 1463). Come osserva Alberto Tenenti in un testo ormai classico sull’argomento “invece di annunciare le fiamme e i tormenti infernali, la morte impone lo spettacolo del disfacimento organico” (Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, 1982, I ed. 1957, p. 67). L’arte religiosa si sofferma compiaciuta sulla decomposizione del cadavere, cruda testimonianza della caducità del mondo e dell’esistenza umana, e caratterizza con la forza delle immagini le tematiche dell’Ars moriendi (è il titolo di un libretto anonimo, il primo di una lunga serie culminante nel tardo Settecento con l’Apparecchio alla morte di Alfonso Maria de’ Liguori), che ha grande diffusione nella seconda metà del XV secolo, e che intende preparare il fedele all’estremo, inevitabile passaggio.
Inquetudini e nuove eresie. La Chiesa tra scismi, antipapi e concili. I movimenti radicali
Ma l’inquietudine che caratterizza il Quattrocento non conosce solo accenti intimistici e, per così dire, privati; nella Chiesa dimidiata tra eresia e ortodossia essa assume, sia nei paesi che avevano assistito al diffondersi delle grandi eresie del più recente passato, sia in paesi che non erano stati toccati da quelle, una diffusione per certi aspetti considerevole.
Se i Paesi Bassi, come si è visto, sono all’origine di questo “ripensamento laico” dei temi della vita e della morte, l’Inghilterra ha segnato con la riflessione intellettuale di John Wycliffe (1324-1384) alcuni punti fondamentali di quella svolta che, arricchita a Praga prima e in Germania poi, andrà in parte a sfociare nella riforma protestante e in parte in quei movimenti che la storiografia ha definito “di riforma popolare” portando avanti una sorta di movimento parallelo, più radicale, più settario e opposto sia al mondo cattolico che a quello della riforma ufficiale (J. Macek, La riforma popolare,1974). Dunque non sono pochi i paesi d’Europa che già nel XV secolo sono su quelle posizioni che, in un modo o nell’altro, contribuiranno a far crollare per sempre il monopolio dottrinale e politico di Roma. Ma prima di andare avanti in questa analisi, occorre richiamare brevemente da quale situazione era caratterizzata la Chiesa all’inizio del secolo.
Tra la fine del XIV secolo e gli inizi del XV secolo la Chiesa cattolica, dopo la fine del periodo avignonese e il ritorno del papato a Roma, si trova a vivere il grande scisma d’Occidente. Ai vecchi problemi, accentuatisi con la sede francese, di inasprimento fiscale e di laicizzazione della “corte” papale, con i conseguenti utilizzi impropri delle armi spirituali, si va aggiungendo, a determinare disaffezioni e inasprimento delle critiche, la sequela dei pontefici che si delegittimano reciprocamente. La situazione negativa raggiunge il suo apogeo quando una minoranza di cardinali prende l’iniziativa di convocare un concilio a Pisa (1409), nel corso del quale vengono dichiarati decaduti sia il papa di Avignone, Benedetto XIII (1328-1423), sia quello romano, Gregorio XII (1360 ca. - 1417). Viene così eletto al soglio di Pietro l’arcivescovo di Milano, Pietro Filargo (1339 ca. - 1410), col nome di Alessandro V. I due esclusi non accettano però questa decisione, e si giunge al paradosso, questo davvero generatore di grandi inquetudini, che ben tre papi rivendicano la tiara. Anche se – è opportuno precisarlo – questa pluralità di papi non è da tutti considerata drammatica, e l’università di Parigi, per bocca di uno dei suoi portavoce, arriva ad affermare che poco importa in realtà “quanti siano i papi, se due, tre o dieci, o dodici”, dal momento che persino “ogni regno potrebbe avere il proprio” (J. Le Goff, Il cristianesimo medievale in Occidente dal Concilio di Nicea alla Riforma, in Storia del cristianesimo, a cura di H.Ch. Puech, 1983, p. 309). In questa situazione, l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo (1368-1437) impone a Giovanni XXIII (1370 ca. - 1419), succeduto nel frattempo a Alessandro V, la convocazione di un concilio effettivamente rappresentativo ed ecumenico (concilio di Costanza, 1414-1418). In questo importante consesso, che elegge finalmente un papa riconosciuto da tutti o quasi, Martino V (1368-1431) viene di fatto sancito un principio fondamentale e, per i tempi, rivoluzionario, la superiorità del concilio, in quanto rappresentante della Chiesa universale, sul pontefice.
In realtà il papato è andato progressivamente perdendo prestigio dopo aver superato lo scisma, e ha assunto sempre più i connotati di uno dei tanti principati che si erano insediati in Italia: Francesco Guicciardini (1483-1540) nella Storia d’Italia (IV, 12) scrive che i successori di Pietro “cominciorono a parere più tosto principi secolari che pontefici”. Abbandonate le antiche pretese teocratiche, il papato ha nell’immediato l’urgenza di ripristinare la propria autorità contro i conciliaristi, e si appoggia proprio ai principi, concedendo loro una congrua partecipazione agli utili nella gestione degli affari ecclesiastici, a spese dei fedeli: prima che Lutero (1483-1546) facesse scoppiare lo scandalo, l’indizione delle indulgenze era oggetto di trattative tra principi locali e funzionari papali che si concludevano inevitabilmente con un accordo reciprocamente vantaggioso, a cui faceva da contrappeso il sempre più marcato defilarsi del papato dalle attività più propriamente pastorali (G. Chittolini, Papato, corte di Roma e stati italiani dal tramonto del movimento conciliarista agli inizi del Cinquecento, in Il papato e l’Europa, a cura di G. De Rosa - G. Cracco, 2001, p. 196).
Ma sbaglierebbe chi pensasse che il concilio, certamente più “democratico” sul piano dell’organizzazione ecclesiastica, sia anche meno dogmatico nel campo della definizione dei principi della fede, e più pronto a venire incontro alle ansie ed alle inquietudini che le recenti vicissitudini avevano così accresciuto. Il concilio di Costanza rimane improntato a un’assoluta intransigenza sul piano dell’ortodossia, e se il già ricordato Wycliffe, che promosse anche la prima traduzione inglese della Bibbia, aveva potuto finire la sua vita tranquillamente, nonostante alcune sue posizioni fossero certamente non ortodosse (egli non solo aveva contestato le decime e il primato papale, ma aveva anche, tra l’altro, negato la transustanziazione e il culto dei santi), ecco che invece ora il concilio dichiara eretiche le sue proposizioni e condanna Jan Hus (1369-1415) che in tanti punti – ma non, ad esempio, sulla transustanziazione – riproponeva quelle tesi. Hus, nonostante fosse munito di un salvacondotto, viene condannato al rogo e bruciato il 6 luglio 1415.
Memorabile è rimasta la commossa lettera a Leonardo Bruni (1370-1444) di Poggio Bracciolini (1380-1459), il quale assiste a Costanza al supplizio di un discepolo di Hus, Girolamo da Praga (1370 ca. - 1416), e rimane colpito dal suo coraggio. Poggio (che si trova a Costanza per doveri del suo ufficio nella segreteria pontificia) riferisce che Girolamo, nel lodare Jan Hus, dichiara che “nulla questi aveva sostenuto contro la Chiesa, ma contro l’abuso dei preti, contro la superbia, il fasto e la pompa dei prelati. Infatti, poiché i patrimoni ecclesiastici sono dovuti essenzialmente ai poveri, poi ai pellegrini, quindi alla fabbrica delle chiese, a quell’uomo era sembrato indegno che venissero sperperati con meretrici, in banchetti, in cani, cavalli, vesti e altre cose indegne della religione di Cristo” (Epistola Poggii de morte Hieronimi Pragensis, 1416).
Una postuma vendetta si abbatte contro Wycliffe: il suo cadavere, con un procedimento non privo di macabri precedenti, nel 1428 fu riesumato e arso sul rogo. Naturalmente – e anche questo è certamente elemento che ci può far misurare il reale livello di quelle inquetudini – va sottolineato che il martirio di Hus non è determinato solo da motivazioni dottrinarie, ma anche politiche, nel timore che le sue posizioni possano saldarsi col movimento patriottico boemo. Dopo la morte di Hus alla testa del movimento si mettono i maestri dell’università che utilizzano, come simbolo del movimento il calice. Insomma, l’esecuzione del riformatore provoca disordini e tumulti, che sfociano in una vera e propria guerra tra le truppe imperiali e i Boemi, ma anche tra i riformatori stessi per quasi un ventennio. A questi tentativi di attuare quella riforma “popolare” o dal basso, appartiene l’ala radicale dell’hussitismo, che, dopo aver rotto i ponti con i più moderati utraquisti, si stabilisce sul monte Tabor, nei pressi della città di Serimovo Usti, nella Boemia meridionale, dove, in attesa della fine del mondo che ritiene imminente, instaura una comunità che si richiama al comunismo della primitiva Chiesa. I taboriti, come anche cominciano a essere chiamati questi hussiti radicali, non solo rifiutano ogni modello di organizzazione ecclesiastica, ma anche statale, e dunque non intendono pagare né tasse né decime. Essi predicano lo sterminio dei peccatori e dei nemici della comunità, in particolari di nobili e prelati. Come sarebbe accaduto un secolo dopo a Münster agli anabattisti, la comunità stanziata a Tabor viene presa d’assalto e sterminata; fra le accuse gettate loro addosso dagli hussiti moderati c’è quella – antichissima e ripetuta tante volte – di praticare il libero amore. La comunità dei fratelli e delle sorelle di Tabor viene distrutta nel 1421 dall’esercito guidato da Jan Žižka (1360 ca. - 1424). Alcune centinaia di chiliasti sono uccisi e arsi sul rogo. Anche per giustificare questa violenza gli utraquisti vittoriosi redigono un elenco di tutte le teorie eterodosse professate da questi eretici che essi chiamano pikarti. Tra gli altri movimenti che, in qualche maniera, pur ripudiandone il chiliasmo rivoluzionario, ne esprimono le inquietudini, merita almeno un cenno quello di Petr Chelčickv (scritto anche Chelčicky) (1390 ca. - 1460 ca.) che, nel suo progetto di rinnovamento delle comunità cristiane, in nome di una utopica, originaria uguaglianza, ripudia, forse per la prima volta senza ambiguità, quella dottrina sociale medievale che vedeva nella divisione in tre ceti la vera e più giusta gerarchia sociale.
L’eredità taborita, come quella di Chelčickv, viene parzialmente raccolta dall’Unità dei Fratelli boemi, i quali accettano la dottrina dei taboriti ma ripudiano la violenza, e riescono a ottenere, dopo scismi, divisioni e compromessi, una relativa e tacita tolleranza: la dieta di Kutnà, nel 1485, pone termine ai conflitti tra cattolici e hussiti moderati utraquisti, sancendo un embrionale ma fondamentale principio di libertà religiosa, di cui indirettamente beneficiano anche i Fratelli boemi, benché non espressamente menzionati nei capitolati di pace.
Inquietudini, profetismo, intolleranza. L’ansia di futuro e l’intolleranza di fine Quattrocento
Ma i chiliasti di Tabor non incarnano che uno dei rami del profetismo escatologico del Quattrocento; l’inquietudine di questo periodo pone problemi di interpretazione troppo complessi per poterne dare una definizione completa, e soprattutto per poter essere racchiusa nella logica forse troppo razionale che oppone devozioni antiche a devozioni moderne, fautori del potere papale e fautori del concilio, eresia a ortodossia.
Ciò che veramente pare alimentare l’inquietudine sulle soglie della modernità, è, assieme ad una voglia di cambiamento, un’ansia di futuro, un desiderio di conoscere e prevedere le cose ultime, un desiderio di uno sguardo definitivo sul mondo e sulla storia. In altre parole è il ritorno di quegli aspetti profetici e apocalittici che ciclicamente hanno attraversato la storia del cristianesimo. Per dirla con un autorevole studioso, “... è un dato di fatto ormai certo, che per tutto il corso del Quattrocento, in Italia come nel resto d’Europa, continuò ancora ad operare l’antico fascino dell’interpretazione gioachimita e pseudogioachimita degli eventi passati, presenti e futuri della storia sacra e profana”; interpretazione affidata alla diffusione, come sappiamo, anche di raccolte di profezie (C. Vasoli, L’influenza di Gioacchino da Fiore sul profetismo italiano della fine del Quattrocento e del primo Cinquecento, in AAVV, Il profetismo gioachimita tra Quattrocento e Cinquecento, a cura di G. L. Potestà, 1991, p. 62). In realtà, gli annunci dell’imminente fine dei tempi, radicati nel cuore stesso del cristianesimo, non meravigliano per la loro apparizione. E alla sconfitta della linea di riforma conciliare, corrisponde, come è stato scritto, anche la sconfitta di quell’altro filone, di tipo apocalittico e profetico che già da tempo cercava, soprattutto attraverso “una grande opera collettiva di conversione”, una strada per giungere ad un rinnovamento della Chiesa; rinnovamento, questo, cui miravano, per vie diverse, la predicazione popolare trecentesca e quattrocentesca, e tutte quelle “parziali iniziative di riforma degli ordini” che sono le ‘osservanze”. (G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d’Italia, II, 1974, p. 913). Anche fenomeni apparentemente lontani tra loro, come l’istituzione dell’Oratorio del Divino Amore a Genova (1497), una confraternita che si diffonde in varie città italiane, o il contemporaneo e sfortunato tentativo di instaurare una repubblica teocratica a Firenze da parte del Savonarola (1452-1498), si inquadrano in questa stessa atmosfera inquieta che mira a quelle riforme in capite et in membris da tutti invocate.
Fra gli eventi più importanti oggetto di una lettura in chiave profetica sono naturalmente le guerre di Italia e quel 1494, anno della calata di Carlo VIII (1470-1498) in Italia, nel quale Savonarola vede il “Carolus redivivus”. Proprio a Carlo VIII vengono infatti adattate le profezie della Sibilla Tiburtina e dello pseudo-Metodio sull’imperatore degli “Ultimi giorni”. L’Apocalisse era vicina e il secondo Carlomagno sarebbe presto comparso. Savonarola sarebbe presto stato bruciato, sia pur dopo essere stato ucciso, come eretico pentito, e Firenze sarebbe presto rientrata nell’ordine. Ma il periodo del profetismo va ben oltre il Quattrocento, caratterizzando anche il secolo successivo fino agli anni Trenta, per poi finire quasi improvvisamente dopo il sacco di Roma e l’incoronazione di Carlo V (O. Niccoli, Profeti e popolo nell’Italia del Rinascimento 2007).
Ma l’inquetudine, quale che sia la sua matrice, mostra sovente anche una sua faccia marcatamente intollerante, e questo breve quadro sarebbe certamente incompleto senza un cenno all’intolleranza che si concretizza soprattutto verso due fenomeni di cui, nonostante la storiografia abbia a più riprese mostrato un grande interesse, sappiamo ancora troppo poco: l’intolleranza contro i “perfidi giudei” e quella contro le streghe che si riacutizzano entrambe negli ultimi decenni del Quattrocento. Un episodio inquietante innesca la prima: nel 1475 a Trento un bambino di due anni, Simonino, viene ritrovato la domenica di Pasqua quasi dissanguato nei pressi del ghetto. Il principe vescovo, Johannes Hinderbach (1418-1486), accusa gli ebrei di aver sacrificato il piccolo innocente nel corso di un omicidio rituale – accusa, quella dell’omicidio rituale, che fino ad oggi trova, incredibilmente, i suoi sostenitori. Egli li espelle dalla città e si fa promotore di un culto alla piccola vittima che avrà grande diffusione fra le vallate alpine, e che fu dapprima osteggiato da Roma, poi ammesso dopo circa un secolo, quando Simonino fu riconosciuto santo. Solo quattro secoli dopo, nel 1965, tale culto sarà definitivamente soppresso (cfr. A. Esposito e D. Quaglioni, Processi contro gli ebrei di Trento (1475, 1478), 1990; T. Caliò, La leggenda dell’ebreo assassino. Percorsi di un racconto antiebraico dal medioevo ad oggi, 2007).
Altro grande capitolo dell’intolleranza legato certamente a inquietudini ed incertezze è quello che riguarda l’improvviso acuirsi della persecuzione delle streghe. Nel 1487 viene pubblicato il più celebre e organico trattato contro la stregoneria a uso degli inquisitori, il Malleus maleficarum (Martello delle streghe), scritto da due domenicani, Heinrich Institor (Heinrich Kramer; 1430 ca. - 1505) e Jacob Sprenger (1436 ca. - 1494), che avrà parecchie edizioni. La pubblicazione era stata preceduta dalla bolla di Innocenzo VIII (1432-1492) Summis desiderantes (1484) che affidava ai due autori il compito di reprimere la stregoneria nella valle del Reno. In realtà, non si tratta del primo manuale del genere: il Formicarius di Johan Nider (1380-1438) era stato pubblicato postumo a Colonia nel 1475, altri l’avevano preceduto, altri lo seguiranno, e, soprattutto, alle parole dei manuali seguiranno i processi e le condanne. Anche se forse occorrerà correggere il giudizio di Huizinga che proprio il Quattrocento sia stato più d’ogni altro il secolo della persecuzione delle streghe, è comunque questo il secolo che ne vede la formalizzazione e il primo, forte incremento. Una volta assimilato il patto col diavolo all’accusa di eresia, la macchina dei processi inquisitoriali, soprattutto in alcune zone europee, funzionerà senza intoppi. Si dovrà attendere il primo ventennio del Seicento per registrarne una significativa diminuzione.
In ogni caso, quali che siano stati i campi in cui l’inquietudine quattrocentesca ha trovato la sua espressione, dalla devozione che coinvolge con forme nuove nuovi strati sociali alla predicazione apocalittica che accompagna il triste periodo di scismi ed antipapi e quello delle “sciagurate” guerre d’Italia; dal profetismo che vede nell’imminente intervento di Dio l’unica soluzione della tanto attesa renovatio alle intolleranze che sembrano far scivolare indietro il tempo della storia, è proprio e solo nella diversità di tali situazioni che si può misurare la ricchezza e assieme il contraddittorio accavallarsi di problemi che caratterizza il secolo. Sarà solo l’esplosione della riforma luterana che riuscirà a dare anche un ordine a questa complessità.