Le istituzioni della Repubblica
Negli ultimi anni ampio spazio è stato dedicato dagli storici all'analisi del "mito" che vela, per ormai antica consuetudine, la lettura dell'ordinamento istituzionale veneziano nel periodo compreso tra la Serrata del maggior consiglio del i 297 e i primi tempi dell'età moderna. Un "mito" che, fondato sulle riflessioni dei contemporanei e già formulato in età umanistica, è stato accolto dalla grande storiografia ottocentesca la quale lo ha inglobato nella visione "statualistica" correntemente adottata per gli ordinamenti giuridici del passato, elevandolo a criterio interpretativo unico del governo veneziano di fine Medioevo-inizio età moderna.
Il "mito" veneziano è formato da vari elementi. Esso presenta le istituzioni della città lagunare come modello ideale in grado di conseguire tre obiettivi particolarmente rilevanti per il convivere civile: la "pax et quies" interna, cioè la piena concordia e la generale armonia tra i cittadini, una concordia ed un'armonia tanto più sorprendenti in quanto nello stesso periodo - e con particolare intensità nel Trecento - gli altri grandi comuni italiani erano travagliati da violente lotte di fazioni; la stabilità di governo che caratterizzerebbe la Repubblica lagunare in un contesto, come quello dell'Italia centro-settentrionale, in cui le grandi città conoscevano continui mutamenti di regime; e, infine, la libertà di cui Venezia avrebbe goduto e che avrebbe tenacemente difeso non soltanto contro il predominio di potenze esterne, ma anche - e soprattutto - contro ogni tentativo signorile promosso all'interno della stessa comunità cittadina. E tali risultati sarebbero stati opera di due fattori principali. Da un canto il patriziato veneziano, il quale, dopo aver raggiunto con la Serrata la formale definizione giuridica di ceto, insieme con il monopolio delle magistrature cittadine, avrebbe garantito non soltanto un costante e solido equilibrio al proprio interno, ma anche un corretto e giusto governo dell'intera collettività, esercitando il potere non già in vista della difesa dei propri, egoistici, interessi, bensì in funzione della tutela dei diritti di tutti i cittadini. Dall'altro l'affermazione di un "governo misto ", introdotto dal patriziato proprio per raggiungere gli obiettivi di equilibrio ora detti e nato dalla fusione delle tre forme indicate da Aristotele, la monarchia - impersonata dal doge -, l'aristocrazia - rappresentata dal senato - e la democrazia - espressa dal maggior consiglio (1).
Di tale "mito" veneziano sono stati discussi in anni a noi vicini numerosi aspetti. in primo luogo gli storici si sono interrogati sulla data della sua prima formulazione, ritenendo alcuni - come il Gaeta - che la definizione più consapevole e chiara si sarebbe avuta all'inizio del secolo XVI dopo la guerra della lega di Cambrai (2), giudicando altri - come la Fasoli (3) - già costruito il mito nella seconda metà del secolo XIII, tanto da trovarlo chiaramente espresso nella cronaca Les estoires de Venise che Martino da Canal scrisse tra il 1265 e il 1275 in lingua francese proprio per conferire maggior diffusione all'elogio del governo veneziano elaborato nella sua opera (4). Oggi la maggior parte degli storici sembra propensa ad accogliere quest'ultima tesi e, quindi, ad assegnare alla seconda metà del secolo XIII le prime espressioni del "mito" veneziano: l'esaltazione della concordia civile, ad esempio, sarebbe già chiara - a detta degli studiosi - agli artisti che in quel periodo elaborarono i mosaici della facciata della basilica di S. Marco, mosaici che, rappresentando la traslazione delle spoglie del santo nella città lagunare, avrebbero inteso richiamare l'attenzione dei cittadini sul carattere eccezionale del dono concesso da Dio alla loro comunità e, di conseguenza, sollecitarli a mostrarsi degni di tale favore mantenendo intatta l'armonia e la concordia interna (5). In particolare, per quanto riguarda il Trecento gli storici sottolineano l'ammirazione dei contemporanei per la pace sociale che caratterizzava Venezia e la distingueva dagli altri comuni italiani, tutti afflitti da un endemico stato di lotte intestine. Così Francesco Petrarca elogiava Venezia "urbs auri dives sed ditior fame, potens opibus sed virtute potentior, solidis fundata marmoribus sed solidiore etiam fundamento civilis concordie stabilita, salsis cincta fluctibus sed salsioribus tuta consiliis" (6). A parere degli studiosi più recenti, dunque, il secolo XIV rientra a pieno titolo nel "mito" veneziano: in questo periodo sarebbe stata già comunemente diffusa nei circoli intellettuali della penisola la consapevolezza della peculiarità dell'ordinamento lagunare, consapevolezza che nei secoli successivi avrebbe conosciuto ulteriori approfondimenti ed espressioni più mature.
Altro tema esaminato dagli studiosi è, poi, quello delle basi di un governo tanto equilibrato e saggio. In proposito - ricorda il Romano (7) - sono state proposte tre spiegazioni principali. Una prima corrente interpretativa attribuisce i meriti dell'ordinamento veneziano a fattori strutturali della realtà lagunare, quali la condizione geografica della città e la particolare natura della produzione economica. L'assenza di un esteso retroterra lagunare e la mancanza di vasti domini fondiari individuali avrebbero influenzato in maniera decisiva le scelte delle grandi famiglie che dominarono il comune. A differenza di quelle che avevano promosso la rinascita delle altre città dell'Italia centro-settentrionale, le veneziane non dovettero combattere contro la grande signoria fondiaria della campagna circostante il municipio, né furono titolari di significativi domini nel contado da difendere nella loro piena ed esclusiva libertà contro ogni pretesa di dominio esterno. I loro interessi prevalenti si sarebbero, allora, incentrati non già nel contado, ma in città, non già nella difesa della rendita fondiaria, bensì nello sviluppo del commercio e della produzione artigianale che nella città trovavano il loro centro propulsivo. E, libere dai problemi di gestione del contado e dai conflitti tra domini signorili, in città avrebbero ricercato solidarietà e concordia, indispensabili all'esercizio delle attività mercantili (8). Alla concordia avrebbe contribuito anche la topografia della città, dato che la presenza dei canali e l'articolazione per isole del territorio urbano avrebbero costituito ostacoli non lievi ai raduni di folle sediziose e non avrebbero lasciato spazi adeguati agli scontri delle fazioni (9). Quanto, poi, alla produzione economica, l'assenza di rilevanti rendite fondiarie avrebbe sollecitato le grandi famiglie ad indirizzare il loro impegno verso il commercio: di conseguenza non si sarebbe aperto mai a Venezia quel confronto dialettico tra nobiltà fondiaria e ceto mercantile che per gli altri comuni è visto all'origine e a fondamento delle lotte intestine (10).
Un secondo indirizzo interpretativo sostiene, poi, come fattore decisivo della concordia civile - ed in particolare della disponibilità dei popolani ad accettare senza discussioni il monopolio patrizio del governo - l'articolazione istituzionale che coinvolgeva gli stessi popolani. Costoro, infatti, vantavano in via esclusiva il diritto di far parte sia delle Scuole grandi - le ricche e potenti confraternite religiose -, sia delle numerose corporazioni in cui artigiani e piccoli commercianti si organizzavano; allo stesso tempo partecipavano in modo significativo alla comunità di vicinato, all'interno della quale avevano la possibilità di operare a fianco dei patrizi e in posizione paritetica con costoro (11). Un terzo gruppo di studiosi, infine, attribuisce il merito della concordia interna alla capacità del patriziato di farsi riconoscere dagli altri cittadini come legittima classe politica a motivo - per alcuni storici - della sua abilità nell'assicurare in maniera costante l'approvvigionamento della comunità municipale e nell'offrire a tutti una sicura tutela dei loro diritti (12) - per altri - di una continua, penetrante, efficace attività repressiva in grado di prevenire i complotti e stroncare sul nascere le congiure che cominciavano a prendere corpo (13).
L'individuazione dei contenuti del "mito" di Venezia è stata, peraltro, accompagnata negli studi più recenti da una parziale revisione dello stesso. Tale revisione ha investito, innanzi tutto, il presupposto del "mito ", l'esistenza - cioè - di un ben definito ceto aristocratico già negli ultimi anni del secolo XIII, un ceto in sé coeso ed armonico in grado di assumere il monopolio del governo cittadino e di dar vita ad un ordinamento municipale capace di offrire a tutti i cittadini la sicura tutela dei loro diritti, l'armonizzazione dei loro interessi economici, la salda concordia interna, la difesa costante ed efficace contro i nemici esterni, la continuazione piena della loro libertà. Secondo la tesi tradizionale tale ceto avrebbe ricevuto completa e formale definizione con il provvedimento del 28 febbraio 1297, noto come Serrata del maggior consiglio (14), che avrebbe concluso un processo istituzionale di lunga durata (15) diretto, per alcuni, verso l'ampliamento del ristretto numero di famiglie prevalenti nel governo del comune all'inizio del Duecento (16), per altri, al contrario, verso una selezione delle dinastie, di origine sia nobile sia popolana, fino ad allora dominanti in città per antichità o per potenza economica (17). Gli studi più recenti hanno ridimensionato sotto più aspetti il significato del provvedimento del 1297: molti lo hanno giudicato mera riforma tecnica che si sarebbe limitata a formalizzare una realtà di fatto consolidata da tempo (18), altri lo hanno considerato la prima di una lunga serie di delibere che tra la fine del secolo XIII e il 1381 - anno in cui fu decisa l'ultima immissione di famiglie nella nobiltà veneziana - definirono progressivamente sul piano formale il ceto aristocratico (19), una delibera che non avrebbe, pertanto, prodotto la chiusura del patriziato, ma avrebbe consentito ancora per lungo tempo una significativa mobilità sociale alla quale avrebbe posto fine solo la decisione del 1381 (20). Altri studiosi hanno aggiunto che la mancanza di una definizione cetuale precisa avrebbe comportato l'assenza del monopolio del governo comunale da parte della nobiltà veneziana: la Serrata non avrebbe avuto, allora, l'effetto di escludere dalle magistrature cittadine i popolari, ma solo l'altro - ben meno significativo - di avviare il processo, sviluppatosi nel corso del Trecento in parallelo alla progressiva formalizzazione del ceto aristocratico, grazie al quale i patrizi assunsero il monopolio delle cariche comunali e il maggior consiglio da principale assemblea cittadina si trasformò in comitato elettivo dei titolari delle magistrature e degli uffici della Repubblica (21).
La storiografia recente, peraltro, non si è limitata a mettere in dubbio l'esistenza per buona parte del Trecento del ceto patrizio veneziano: ha sottoposto a revisione anche un altro aspetto del "mito ", quello della coesione interna della nobiltà, della sua profonda ed unanime consapevolezza del dovere di governare la comunità lagunare per il bene di questa, non già per la tutela dei propri, particolari, interessi. Alcuni studiosi hanno messo in luce come le famiglie dell'oligarchia cittadina non fossero su un piano di perfetta parità tra loro, ma al contrario avesséro potenza economica ed autorità civica disuguali, tanto da legittimare l'idea di una gerarchia all'interno delle famiglie ammesse al maggior consiglio e, al vertice di questa, di una ristrettissima oligarchia di casate di antica tradizione e di crescenti fortune mercantili (22). E la differenza economica e politica sarebbe stata accompagnata lungo tutto il secolo XIV da non trascurabili dissidi interni al patriziato, dissidi espressi in scontri armati tra famiglie, in violazioni dell'ordine pubblico da parte di nobili e in episodi di congiura antigovernativa tanto ricorrenti da sollecitare le autorità comunali ad adottare severe misure repressive e ad istituire uffici e magistrature espressamente incaricati della difesa della pace interna e della prevenzione e repressione di ogni turbativa (23).
L'immagine della nobiltà veneziana del Trecento che emerge da detti studi è quella di un ceto non ancora completamente chiuso, diviso al suo interno da disuguaglianze, rivalità, contrasti, ferito da ripetuti tentativi individuali di rompere gli equilibri tra dinastie ed imporre il predominio di una fazione singola. Una tale immagine mina le fondamenta stesse su cui è stato costruito il "mito" veneziano per il Trecento e finisce per travolgere altri aspetti dell'interpretazione tradizionale, in primo luogo il mito della "pax et quies", come valore civile supremo della comunità lagunare, e quello della realizzazione dell'ideale forma di "governo misto". La "pax et quies", infatti, nell'ottica degli studi prima ricordati appare un obiettivo ben lontano dalla concreta realtà veneziana, mentre il "governo misto" è presentato come enfatizzazione letteraria elaborata dai patrizi veneziani per propagandare il proprio regime, nella piena consapevolezza che lo stesso era in realtà tutt'altra cosa. E proprio in riferimento a quest'ultimo punto è stato affermato di recente che la prima definizione del governo lagunare come governo misto fu formulata da cronisti e letterati veneziani nel corso del Duecento prima della Serrata del maggior consiglio e che tale definizione continuò ad essere accettata anche nel Trecento quando era ormai a tutti evidente che il maggior consiglio aveva definitivamente perso ogni pur lontana affinità con un'assemblea democratica in senso aristotelico (24).
Il "mito" dell'ordinamento veneziano finisce, allora, per essere presentato come frutto di un'abile operazione di mistificazione politica condotta da una parte delle famiglie oligarchiche. Queste, di fronte alle endemiche difficoltà di difendere con mezzi repressivi la loro autorità e di resistere da un lato ai tentativi promossi da altre dinastie aristocratiche per imporre la propria fazione, dall'altro alle turbolenze dei popolari esclusi dalle magistrature cittadine, avrebbero sollecitato l'immagine del governo veneziano come governo giusto ed equilibrato per presentarlo ai nobili lagunari come valore superiore cui tutti avrebbero dovuto tendere e ai popolari come strumento ideale di tutela dei loro diritti. Un'interpretazione, questa, che mistificava la realtà effettiva dell'ordinamento veneziano, ma legittimava la ristretta oligarchia al potere come unica titolare del governo cittadino (25).
La questione appare di grande interesse ed al contempo di notevole complessità e certamente non può essere affrontata in questa sede, la quale è destinata alla mera ricostruzione del funzionamento delle istituzioni cittadine. Tuttavia, senza addentrarsi nell'analisi dei singoli ricorrenti episodi di contrasto tra famiglie e dello svolgimento quotidiano del governo, detta ricostruzione può a buon diritto tentare di comprendere l'idoneità dei meccanismi istituzionali vigenti a Venezia nel Trecento al raggiungimento della concordia sociale, a prescindere dall'effettivo risultato conseguito.
Per raggiungere questo obiettivo appare necessario, peraltro, che la presente indagine si sbarazzi di un ulteriore "mito", il "mito" dello Stato, che offusca la lettura dell'ordinamento veneziano come quella degli altri ordinamenti di età medievale. Mi spiego meglio. L'ordinamento municipale di Venezia è correntemente giudicato di natura identica a quella dell'ordinamento dello Stato che si è formato nel secolo scorso e da allora si è imposto nella società occidentale, un ordinamento che si caratterizza per la netta distinzione tra la sfera del pubblico e quella del privato, per la superiorità della prima sulla seconda, per la derivazione del diritto dalla legge, espressione della sovranità statale, per l'unicità dell'ordinamento e per l'assenza di organismi intermedi tra i cittadini e lo Stato. Sull'uso del modello statuale per la lettura di ordinamenti del passato il discorso - come si diceva - va ben al di là del caso di Venezia, coinvolgendo in generale l'intera esperienza giuridica ed istituzionale del mondo occidentale di età medievale. La legittimità di tale uso, comunque, è oggi messa in discussione da quanti rilevano che nel Medioevo fonte primaria di produzione normativa era la consuetudine, cioè l'uso continuato nel tempo di comportamenti considerati dalla comunità legittimi e perciò degni di rispetto e di tutela e quindi diretta espressione delle necessità materiali, produttive e difensive della comunità medesima (26). Secondo questi autori i diritti nati dalla consuetudine trovavano la loro immediata tutela nelle unità che costituivano il momento aggregativo spontaneo dei soggetti, unità che, di conseguenza, avevano legittima forza vincolante nei riguardi dei loro componenti. Tali unità, in particolare, erano costituite nei comuni italiani dalla famiglia, dalle associazioni di vicinato, dalle consorterie, dalle corporazioni. Questi ordinamenti particolari trovavano, poi, la loro tutela e la loro armonizzazione all'interno dell'ordinamento unitario che tutti li comprendeva, cioè il comune. Un ordinamento unitario - questo - che esisteva proprio per proteggere quelli particolari, per rispettarli nella loro esistenza e nella loro libera, spontanea evoluzione e che interveniva nei loro riguardi nella misura in cui la sua giurisdizione era necessaria per integrare la loro. Gli studiosi che hanno colto tale complessa ed articolata natura della realtà istituzionale dei comuni medievali hanno abbandonato l'ottica con la quale in precedenza era vista la dialettica tra autorità del governo municipale e unità particolari, mettendo in evidenza come la prima non avesse il monopolio del potere legittimo e i suoi contenuti dipendessero dal gioco degli equilibri di volta in volta spontaneamente raggiunti tra le altre (27).
Il movimento di revisione ha riguardato anche Venezia ed in particolare le sue istituzioni nel secolo XIV. Decisivi contributi al riguardo sono stati forniti da Dennis Romano (28) e da Elisabeth Crouzet-Pavan (29): le loro ricerche hanno rovesciato l'impostazione con cui tradizionalmente era stato considerato il complesso ordinamento lagunare poiché invece di partire dall'analisi delle magistrature comunali, quali uniche legittime titolari di auctoritas, hanno preso le mosse dall'esame dei momenti associativi di base e ne hanno evidenziato la piena legittimità in quanto nati dai bisogni effettivi di coloro che ad essi facevano capo. E di recente il pluralismo degli ordinamenti particolari veneziani è stato esplicitamente riconosciuto dal Mackenney che ha indicato nella famiglia, nelle Scuole, nelle confraternite, nelle contrade e nelle corporazioni le unità intermedie tra il cittadino e la giurisdizione unitaria del comune (30).
Tali studi non soltanto hanno messo nella giusta evidenza il pluralismo degli ordina-menti compresi nell'unità del municipio lagunare, ma hanno anche sollecitato ad individuare il significato che per ciascuno di detti ordinamenti aveva la jurisdictio municipale. Ed è proprio nell'ottica di tale rapporto che appare necessario leggere il funzionamento delle istituzioni che detta jurisdictio amministravano al fine di tentare di comprendere se, al di là dei contrasti e degli scontri attestati dalle fonti ed occorsi soprattutto all'interno del ristretto ceto patrizio che dominava la città lagunare, i meccanismi di governo erano funzionali ad assicurare una corretta difesa dei diritti dei cittadini, il rispetto degli ordinamenti particolari, la concordia interna al ceto dirigente.
Per raggiungere tale obiettivo appare necessario, innanzi tutto, definire il contenuto del diritto di cittadinanza veneziana e le articolazioni che lo stesso presentava.
A Venezia il dominium aveva uno spessore sconosciuto agli altri comuni. Proprio nel secolo XIV Baldo degli Ubaldi - rifacendosi, forse, ad una precedente opinione di Bartolo da Sassoferrato (31) - affermava: "Et ita Veneti faciunt, qui sunt fundati in mari, et de iure gentium civitates in mari aedificate sunt ipsorum qui aedificant [...>. Hac ratione Veneti pretendunt libertatem quia non aedificaverunt in solo alicuius. Ceterum qui in solo iurisdictionali alicuius aedificat, illius efficitur subditus" (32). Baldo, dunque, metteva in risalto la differenza esistente tra Venezia e gli altri comuni italiani: questi ultimi sorgevano su un terreno che rientrava nel dominium dell'imperatore o del pontefice, così che nei possedimenti urbani dei cittadini si incrociavano due distinti dominia, quello del singolo soggetto e l'altro dell'imperatore o del papa, mentre nelle aree urbane comuni il secondo si affiancava al dominium del municipio; a Venezia, invece, tale duplicità non veniva in essere, perché il mare - sul quale la città era edificata - doveva considerarsi res nullius e chi se ne appropriava diventava l'esclusivo dominus (33).
Nella città lagunare, dunque, il dominium - sia quello di ogni soggetto, sia l'altro della comunità urbana - era pieno ed esclusivo. Ciò significava che mai l'imperatore avrebbe potuto vantare nei riguardi di Venezia quel diritto che cercava di far valere nei confronti degli altri comuni delle terrae Imperii, i quali sorgevano su un suolo appartenente al suo demanio; né avrebbe potuto avanzare pretese il pontefice, il quale rivendicava il dominium del territorio cittadino ove erano edificati i comuni immediate subiecti delle terrae Ecclesiae. Il dominio urbano assicurava, pertanto, una libertà altrove sconosciuta. Non solo. La configurazione geografica della zona lagunare offriva alla città un retroterra piuttosto angusto, nel quale non potevano costruirsi consistenti signorie fondiarie. Le famiglie veneziane, sia quelle di antica tradizione, sia le altre di origine popolare, finivano di conseguenza per stabilire in città la loro domus, cioè la sede - principale, se non esclusiva - della loro dinastia e della gestione dei loro interessi. La particolare natura del dominio in città, allora, si legava strettamente con la particolare importanza che lo stesso aveva per la vita quotidiana, per la difesa, per lo svolgimento delle attività produttive dei suoi titolari.
Il diritto di cittadinanza veneziana comprendeva, in primo luogo, tale esteso e pieno diritto di proprietà immune da ogni gravame e da ogni limitazione. Un diritto che era a fondamento della particolare libertà vantata dai Veneziani, quella libertà che - come abbiamo visto costituisce un aspetto importante del "mito" della città lagunare. Inoltre il diritto di cittadinanza comprendeva il diritto di esercitare attività mercantile sia all'interno della città e del territorio dogale, sia nei domini veneziani sulla costa adriatica e in Oriente e di appropriarsi dell'intera entrata proveniente da tale esercizio. La cittadinanza veneziana garantiva, dunque, un'ampia gamma di diritti fondamentali: di qui le remore a concederla agli stranieri che ne facevano richiesta. Proprio nel corso del secolo XIV vennero definite alcune interessanti norme in materia.
Nel Trecento, infatti, prese gradualmente forma la distinzione, all'interno dei cittadini veneziani, tra i cives originari e gli altri. Tale distinzione si rinviene, ad esempio, nelle leggi che nel 1363, nel 1376 e nel 1385 disciplinarono lo svolgimento delle operazioni commerciali per i cittadini veneziani non appartenenti al patriziato (34). Anche se il concetto di "origo" in queste leggi appare impreciso, sembra legittimo ritenere che fossero considerati cives originari coloro che erano nati in città da famiglia tradizionalmente appartenente alla comunità veneziana. Il titolo, inoltre, poteva essere concesso per privilegio a quanti, pur privi del suddetto requisito, avessero dato prova sicura di affezione verso la comunità cittadina e avessero manifestato una ferma "volontà di farne parte" (35): il loro numero, comunque, fu sempre molto limitato (36).
Accanto ai cives originari erano i cittadini divenuti tali in seguito alla concessione di un privilegio. La concessione poteva riguardare la cittadinanza de intus, oppure la cittadinanza de intus et de fora. La prima estendeva al beneficiario tutti i diritti di cui il cittadino veneziano godeva all'interno del territorio urbano per l'esercizio delle attività mercantili, mentre la seconda lo equiparava completamente a quello, dato che gli riconosceva anche i diritti di esercizio mercantile nelle terre d'Oltremare (37). Numerosi provvedimenti disciplinarono nel corso del secolo XIV la concessione dei due tipi di cittadinanza. Nella prima metà del secolo l'obiettivo principale di tali leggi fu la limitazione di detti privilegi. Così il 4 settembre 1305 il maggior consiglio deliberò che la cittadinanza de intus poteva essere concessa soltanto a forestieri già residenti a Venezia da almeno quindici anni e in regola con l'adempimento dei doveri civici loro imposti, in primo luogo il versamento regolare delle contribuzioni fiscali; deliberò altresì che per la cittadinanza de intus et de fora era necessaria, insieme con l'assolvimento dei suddetti doveri civici, una residenza di almeno venticinque anni (38). Nel 1313, poi, una nuova legge dispose che i figli di stranieri, ove fossero nati a Venezia, avrebbero potuto ottenere la cittadinanza de intus dopo soli dodici anni di residenza e quella de intus et de fora dopo diciotto anni di residenza (39). A partire dal 1348, poi, l'indirizzo della legislazione veneziana sulla concessione della cittadinanza si capovolse: la forte contrazione demografica provocata nella città lagunare dalla Peste Nera contrazione in merito alla quale le fonti non forniscono dati esatti e circostanziati, ma un quadro complessivo, sufficientemente chiaro, comunque, per rilevarne la gravità (40) - sollecitò le autorità ad attenuare la rigidità delle norme sulla concessione della cittadinanza con l'obiettivo di riempire, almeno parzialmente, con forestieri i vuoti provocati dall'epidemia. Nello stesso 1348 un provvedimento ammise gli stranieri, che esercitavano un mestiere a Venezia, alla cittadinanza de intus qualora risiedessero da almeno due anni e a quella de intus et de fora ove vantassero una residenza di almeno dieci anni (41). Quest'ultimo termine venne, poi, abbassato a cinque anni da una legge approvata nel 1358 (42). Negli anni successivi la ripresa demografica fu ostacolata da un canto dalle ricorrenti pestilenze, dall'altro dalla mortalità provocata dalla lunga guerra di Venezia con Genova, guerra che si concluse nel 1381 con la vittoria della città lagunare. Il 23 marzo 1381 venne definita una nuova normativa generale della concessione della cittadinanza, una normativa cioè - che riguardava tutti gli stranieri, non soltanto coloro che esercitavano un mestiere: si stabilì allora che la residenza necessaria per ottenere la cittadinanza de intus doveva essere protratta per almeno otto anni e quella per la cittadinanza de intus et de fora doveva essere di almeno quindici anni (43). Infine, nel 1391 venne ridotta a cinque anni la durata della residenza necessaria per la cittadinanza de intus (44).
Dalla concessione della cittadinanza veneziana sembra che rimanessero esclusi gli Ebrei. Tale idea, condivisa dalla storiografia tradizionale, è stata messa in dubbio nella prima metà del nostro secolo da alcuni studiosi i quali hanno ritenuto che documenti di anni compresi tra la metà del Duecento e gli ultimi decenni del Trecento autorizzassero una diversa interpretazione. Si tratta di documenti del 1268, 1300, 1333, 1340, 1359 e 1372 pubblicati dal Predelli (45) e relativi alla concessione decretata dal doge Lorenzo Tiepolo di un privilegio in favore di un ebreo di nome Davide e alle successive conferme disposte dall'autorità dogale per i discendenti di questo: secondo lo stesso Predelli ed altri storici, il privilegio in questione consisterebbe nell'attribuzione della cittadinanza veneziana (46). In anni più recenti la tesi è stata respinta dallo Jacoby (47) e dall'Ashtor (48) i quali, grazie ad una documentazione più ricca di quella utilizzata dal Predelli, hanno sostenuto che il privilegio non riguardava la cittadinanza de intus, né - tanto meno quella de intus et de fora, bensì la concessione dello status di fidelis che il governo veneziano riconosceva nelle colonie agli abitanti non veneziani particolarmente legati alla Serenissima. Peraltro, oltre al caso del suddetto Davide e dei suoi discendenti non si danno esempi ulteriori di privilegi individuali, di modo che appare legittimo condividere le perplessità sollevate dagli storici più recenti in merito alla concessione di cittadinanza a singoli Ebrei.
Lo scarso favore nei riguardi di una tale concessione trova conferma nelle difficoltà frapposte dal governo veneziano all'insediamento nella città lagunare di comunità ebraiche residenti in territori passati sotto il dominio di Venezia. In realtà, fino ai primi decenni del secolo XIV Venezia si era opposta all'insediamento stabile di comunità ebraiche nel suo territorio. Quando, poi, nel 1338 conquistò le città di Treviso e di Mestre, dove da tempo operavano importanti comunità israelitiche, nulla fece per favorire il loro trasferimento nella Dominante, né mutò indirizzo nei confronti degli Ebrei che operavano nella zona lagunare. Solo nel 1382, al termine del lungo conflitto contro Genova e in una situazione economica e demografica difficile, il governo veneziano modificò la sua politica (49). La guerra aveva spinto gli Ebrei di Treviso e di Mestre ad abbandonare le loro città e a cercare rifugio a Venezia dove, con ogni probabilità, venne loro riconosciuto il diritto di risiedere (50). Nel 1382 il governo decise di regolare l'esercizio delle attività mercantili di detta comunità, in particolare l'attività di cambio che faceva concorrenza a quella esercitata dai cittadini. Venne allora stipulata tra il governo veneziano e la comunità ebraica una "condotta", un contratto, della durata di cinque anni: quale corrispettivo per l'autorizzazione a risiedere nel territorio urbano, la comunità ebraica si impegnava a definire l'ammontare dell'interesse sui prestiti, fissandolo all'8% per quelli garantiti da pegno e al 10% per gli altri (un tasso inferiore a quello praticato dai prestatori veneziani che ammontava, rispettivamente, al 10% e al 12%), a limitare l'ammontare di ciascun prestito alla somma massima di 30 ducati, ad accettare come giudice delle eventuali vertenze la corte del piovego, a versare al comune una somma per l'esercizio dell'attività (51). Quando nel 1387 la "condotta" terminò, il governo decise di rinnovarla per altri dieci anni (52), ma prima della scadenza deliberò, in data 27 agosto 1394, di non procedere ad un ulteriore rinnovo e di limitare, una volta terminata la concessione vigente, a soli quindici giorni il soggiorno degli Ebrei in città (53).
L'ordinamento veneziano, dunque, prevedeva tre categorie di cittadini, gli originari, i titolari della cittadinanza de intus et de fora, i titolari della cittadinanza de intus, con due distinti ambiti giuridici, quello pieno relativo alle prime due categorie, quello limitato riguardante la terza. All'interno del primo ambito - o meglio all'interno della categoria dei cives originari - il provvedimento del 28 febbraio 1297 aveva, poi, inaugurato un'ulteriore distinzione formale, dando vita ad un ceto giuridico più ristretto, quello composto dai soli cittadini cui era riservato il diritto di far parte del maggior consiglio. Si è visto prima come la storiografia recente interpreti la Serrata del maggior consiglio non tanto come un provvedimento isolato e decisivo, quanto piuttosto come una delibera che si colloca all'interno del lungo processo, dipanatosi dalla prima metà del Duecento alla fine del Trecento, che portò alla definizione del patriziato veneziano. Ed in effetti sin dai primi del secolo XIII erano state approvate norme dirette a disciplinare l'accesso alla principale assemblea del comune. Così, durante il dogado di Pietro Ziani (1205-1229) venne definita una precisa procedura per la nomina al maggior consiglio: la designazione dei candidati fu affidata ad una commissione di tre membri - divenuti dieci nel 1230, ridotti a quattro nel 1286 - e sottoposta alla valutazione del consiglio dei quaranta; solo il voto favorevole di quest'ultimo apriva l'accesso al consiglio. Dopo la metà del Duecento aumentarono le pressioni delle famiglie maggiori per una più rigida selezione delle candidature. All'inizio del mese di ottobre del 1286 i capi della quarantia predisposero un'articolata riforma della suddetta procedura: si propose, allora, di riservare la partecipazione al maggior consiglio a quanti vantassero un ascendente paterno come membro di detta assemblea e di sottoporre le ulteriori candidature al giudizio di una commissione composta dal doge, dal minor consiglio e dallo stesso maggior consiglio. La proposta, che privilegiava un limitato numero di famiglie da anni al vertice della comunità veneziana e già da tempo indicate nei documenti con l'appellativo di "nobilis" (54), venne respinta. Medesimo esito ebbe anche la successiva proposta, avanzata pochi giorni dopo dai capi della quarantia, di affidare il giudizio sulle candidature ad un diverso collegio, composto dalla quarantia stessa e dal senato (55).
L'accordo venne, invece, raggiunto alla fine del mese di febbraio 1297: il provvedimento approvato il giorno 28 stabilì che entrassero a far parte del maggior consiglio sia coloro che ne erano stati membri negli ultimi quattro anni, sia quanti annoveravano un ascendente legittimo che ne fosse stato componente a partire dal 1172, sia, infine, coloro che erano stati nell'assemblea in passato e negli ultimi quattro anni non ne avevano fatto parte perché impegnati per conto del comune fuori della città lagunare (56). La riforma, introdotta a mero "titolo sperimentale e provvisorio" (57), fu subito prorogata e divenne definitiva nel settembre 1299.
Il provvedimento appare decisamente innovativo: pur esprimendo una situazione politica di fatto affermatasi da qualche anno e pur riallacciandosi a precedenti tentativi di riforma, esso presenta l'originalità di definire per la prima volta sul piano formale una distinzione all'interno della cittadinanza veneziana e di dar vita ad un ceto giuridico, distinto dalla esclusiva titolarità del diritto di esercitare la jurisdictio unitaria del municipio attraverso l'assemblea comunale più importante. A partire da detto provvedimento i cittadini esclusi da tale partecipazione continuarono a godere di tutti i precedenti diritti di libertà e di proprietà, ma rimasero privi del diritto di intervenire al principale consesso cittadino nel cui ambito quanti ne facevano parte da un canto tutelavano in via immediata e diretta i propri diritti, dall'altro partecipavano ad uno dei momenti più alti della gestione della potestà unitaria del comune. Non solo. Già nel corso del Duecento i consigli che si affiancavano a quello maggiore nell'esercizio della jurisdictio cittadina presentavano la natura di commissioni da quest'ultimo formate e dallo stesso investite delle competenze che esercitavano. In altre parole, i consigli più ristretti - quello dei quaranta e l'altro dei pregadi, o dei rogati, o senato, cioè - non esprimevano famiglie e gruppi sociali diversi da quelli rappresentati nel maggior consiglio ed in genere erano composti esclusivamente da membri di quest'ultimo. E sempre nel Duecento l'appartenenza al maggior consiglio era richiesta esplicitamente per ricoprire le cariche degli officia che numerosi già operavano in quel secolo: lo attestano, tra l'altro, le numerose norme inserite nei capitolari di tali uffici approvati in questo periodo, norme secondo le quali i titolari delle magistrature "esse debeant de maiori consilio" (58). Tale regola si consolidò nel corso del Trecento sia per la partecipazione ai consilia, sia per quella agli officia: non soltanto fu ribadita formalmente - come avvenne nel 1311, quando si confermò che i membri del senato potevano essere scelti soltanto tra i componenti il maggior consiglio (59) -, ma si legò anche all'evoluzione dei rapporti tra consilia, evoluzione che vide al vertice dell'ordinamento la graduale sostituzione del maggior consiglio da parte della quarantia, prima, e del senato, poi, e la sua progressiva caratterizzazione come assemblea elettiva delle magistrature e delle assemblee cittadine, fonte primaria delle loro competenze.
Nel corso del Trecento, dunque, si precisò e si consolidò il monopolio della gestione della jurisdictio municipale unitaria da parte del patriziato, di quel ceto giuridico - cioè - che si componeva dei membri del maggior consiglio. Gli altri cittadini ne risultarono esclusi non solo sul piano sostanziale, come era stato prima della Serrata, ma anche sul piano giuridico-formale: a loro era interdetto l'accesso a tutte le magistrature comunali; a queste erano ammessi solo nel caso in cui fossero riusciti ad entrare nel ceto patrizio.
Insieme con la precisazione del monopolio del governo comunale il Trecento conobbe anche la definizione delle procedure per l'entrata nel maggior consiglio e provvedimenti per l'ammissione eccezionale allo stesso. Nel 1310 il maggior consiglio adottò una delibera - una parte nella terminologia delle fonti - con la quale decretava l'istituzione di un registro in cui dovevano essere iscritti tutti coloro che, in base al provvedimento del 1297, avevano il diritto di far parte dell'assemblea; la compilazione e la conservazione del registro vennero affidate alla quarantia (60); gli iscritti entravano in assemblea al compimento della maggiore età (venticinque anni) dopo che una commissione di tre membri del maggior consiglio aveva verificato l'esistenza del loro diritto. La delibera appare sintomo evidente delle difficoltà di applicazione della legge del 1297 per la carenza di prove certe della titolarità dei requisiti richiesti, nonché dei ricorrenti tentativi di falsificazione portati avanti da chi di quei requisiti era sprovvisto.
Il provvedimento, peraltro, non si rivelò decisivo dato che numerosi furono i casi di registrazione di cittadini privi dei suddetti requisiti. Nel 1316 il maggior consiglio intervenne nuovamente, incaricando gli avogadori di comun di colpire con pesanti pene pecuniarie quanti risultassero indebitamente iscritti nel registro (61). Ma nemmeno questa volta gli abusi e le irregolarità cessarono. Per contrastarli il maggior consiglio affidò il 25 novembre 1319 agli avogadori di comun il compito di svolgere inquisitiones su ciascun cittadino incluso nel registro, per verificarne la titolarità dei requisiti: quanti fossero risultati in regola sarebbero stati immediatamente ammessi all'assemblea al compimento della maggiore età, senza attendere il giudizio della sopraricordata commissione di tre consiglieri che, divenuta superflua, venne eliminata. Il medesimo provvedimento istituì anche la Balla d'Oro, il registro cui dovevano iscriversi i giovani che avevano compiuto i diciotto anni: tra di loro il 4 dicembre di ogni anno, festa di s. Barbara (perciò la Balla d'Oro venne comunemente chiamata Barbarella), venivano estratti a sorte trenta patrizi ai quali si concedeva di entrare nel maggior consiglio al raggiungimento dell'età di venti anni (62).
Con successivi provvedimenti, poi, si cercò di rendere più severo ed efficace il controllo sui titoli che consentivano l'iscrizione nel registro. Nel 1323 tale esame fu affidato al doge e al minor consiglio con l'assistenza degli avogadori di comun (63), Nel 1333 venne imposto a quanti chiedevano di essere registrati di dimostrare con prove certe ed inequivoche la loro discendenza, per linea paterna, da un componente il maggior consiglio (64), nel 1356 fu introdotta una multa di 200 lire per coloro che si fossero fatti registrare nella Balla d'Oro prima di aver compiuto i diciotto anni (65) e nel 1376 vennero esclusi dall'iscrizione i figli naturali, ancorché legittimati da successivo matrimonio (66).
Si deve precisare, peraltro, che il provvedimento del 1297 non aveva innalzato una barriera insormontabile contro l'accesso al maggior consiglio dei cittadini privi dei requisiti fissati: aveva lasciato loro qualche spiraglio, affidando ai grandi consilia il compito di ammettere poche e ben oculate eccezioni. Tra il 1297 e il 1299 furono precisate le prime regole per la disciplina di dette ammissioni: quattro componenti del minor consiglio furono autorizzati a presentare candidature alla quarantia la quale era tenuta ad esaminarle in una riunione cui fossero presenti almeno venti consiglieri; le proposte che avessero ricevuto il voto positivo di almeno dodici presenti erano trasmesse al minor consiglio, il quale solo allora poteva disporre un privilegio di grazia in favore dei richiedenti. Nel 1300 i voti favorevoli in quarantia furono ridotti a undici (67). Nel 1307, poi, i membri del minor consiglio cui spettava di formulare la proposta passarono da quattro a cinque, mentre i voti favorevoli della quarantia furono elevati a venticinque. Nel 1310 questi ultimi vennero aumentati a trenta e al voto favorevole della quarantia fu aggiunto quello del maggior consiglio, per il quale era richiesta la maggioranza dei componenti l'assemblea: e nel 1315 tale maggioranza da semplice si fece qualificata, poiché venne richiesto il voto favorevole di due terzi del consiglio (68).
I provvedimenti ora ricordati attestano della crescente richiesta di ammissione al patriziato da parte dei cittadini non nobili e, al contempo, della forte resistenza dei nobili ad accoglierli e del tentativo degli stessi di contenere il numero delle domande. Sotto quest'ultimo profilo appare significativo il provvedimento adottato nel 1316 che previde pesanti pene pecuniarie per i richiedenti la cui domanda fosse stata respinta. Inoltre nel 1319 il maggior consiglio affidò agli avogadori di comun il compito di svolgere inquisitiones su quanti presentavano richiesta di ammissione (69) e riservò la concessione della grazia alle sedute più solenni del consiglio, quelle indicate con l'espressione "reggimenti maggiori", destinate all'elezione delle magistrature più importanti. Infine, nel 1328 Si decise di aggiungere ai pareri favorevoli della quarantia e del maggior consiglio quello dei tre capi della quarantia (70).
Questa elaborata procedura, diretta a rendere del tutto eccezionale l'elevazione di popolari al ceto patrizio senza, peraltro, escluderla del tutto, appare sostanzialmente rispettata nel corso del Trecento. Una sola volta, alla fine del lungo ed estenuante conflitto con Genova, le autorità veneziane la violarono. Nel dicembre del 1379, dietro proposta dei savi della guerra, il maggior consiglio decise di concedere l'ammissione a trenta famiglie popolari, scegliendole tra quelle che maggiormente si erano distinte, per contributi di sangue o di denaro, nella difesa della Repubblica. Nel 1381 ben cinquantanove famiglie presentarono domanda: tra loro il maggior consiglio scelse le trenta(71).
I provvedimenti, ora esaminati, relativi al patriziato giustificano l'interpretazione storiografica prima ricordata che vede nella Serrata del maggior consiglio l'atto iniziale di un graduale processo attraverso il quale prese forma nel corso del Trecento la nobiltà veneziana. Deve essere però chiaro che le delibere adottate dal governo lagunare nel corso del secolo XIV ebbero il solo effetto di disciplinare le procedure di ingresso nel ceto aristocratico e, quindi, di regolarne la composizione. Nessuna conseguenza ebbero, invece, sull'esistenza di detto ceto. Questo era stato introdotto nell'ordinamento veneziano dalla Serrata e le successive disposizioni non fecero altro che ribadirne la presenza nel diritto della Repubblica lagunare. Appare allora legittimo dire che la portata innovativa della legge del 1297 è piena ed esclusiva e che le disposizioni trecentesche contribuirono a precisare il contenuto dell'ordine cetuale da quella istituito.
Se, allora, per esprimere i vari gradi della cittadinanza veneziana ci fosse consentito prendere in prestito dal Brucker l'immagine delle circonferenze concentriche da lui usata per raffigurare in modo icastico e suggestivo l'articolazione interna alla comunità fiorentina di fine Trecento inizi Quattrocento (72), potremmo dire che la circonferenza più esterna comprendeva tutti i cittadini de intus, la successiva prevedeva quelli de intus et de fora e sfumava nel più ristretto cerchio dei cives originari, mentre la circonferenza più interna riguardava i patrizi. Tutti avevano il pieno diritto di dominium, di libertà personale, di libertà di movimento e di commercio in città, tutti godevano dei diritti definiti negli statuti cittadini e della protezione delle magistrature municipali; libertà di commercio e pienezza di proprietà, insieme con la protezione degli apparati giudiziari, era garantita agli inclusi nella seconda circonferenza anche nei domini adriatici ed orientali della Repubblica; ai soli patrizi, invece, la Serrata riservò il diritto di partecipare alla maggiore assemblea del comune e di conseguenza aprì loro la strada per il monopolio delle magistrature incaricate dell'esercizio della jurisdictio municipale unitaria. Nel Trecento una serie di norme disciplinarono l'entrata nella cittadinanza e il passaggio da una circonferenza all'altra. La mobilità sociale era ammessa in ascesa, ma entro limiti ben precisi e con difficoltà crescenti man mano che si procedeva verso il cerchio più interno.
I cittadini veneziani, divisi in base alla sfera giuridica di cui godevano, trovavano poi ulteriori divisioni nelle organizzazioni di base che offrivano loro in maniera diretta ed immediata la protezione delle persone e delle cose. Tali ordinamenti particolari si affiancavano a quello unitario del comune, precedendolo come forma immediata di associazione tra cittadini, ma al contempo sollecitandone l'esistenza come autorità essenziale ad integrare la protezione da loro fornita.
Il primo ordinamento particolare da prendere in esame è quello della famiglia la quale, a Venezia come in ogni altro centro urbano, costituiva il momento aggregativo naturale per ogni cittadino.
In anni recenti la storiografia ha dedicato particolare attenzione all'ordinamento familiare veneziano e, pur incontrando non poche difficoltà di indagine per la complessità e l'incompletezza delle fonti documentarie, ne ha ricostruito l'articolazione interna, la molteplicità delle forme, il rapporto con il territorio urbano (73). Le ricerche hanno riguardato in modo particolare la famiglia nobile per la quale le fonti offrono notizie più consistenti; non sono, comunque, mancate indagini sulle famiglie popolari e sulla loro composizione.
In merito al ceto nobile è stato chiarito che nel secolo XIV i vincoli familiari erano di duplice natura: da un canto si riferivano alla famiglia mononucleare, composta dai genitori e dai figli, a volte estesa anche ai fratelli celibi dei genitori, dall'altro alla cosiddetta "ca'", il gruppo consanguineo - cioè - che riconosceva di discendere da un capostipite comune e portava lo stesso cognome (74). Un'articolazione, questa, che era poi ulteriormente arricchita da una terza componente, quella del "ramo" familiare al quale facevano capo, all'interno della stessa ca', più famiglie mononucleari (75). Nella sua triplice accezione la famiglia costituiva l'ordinamento di base che tutelava i cittadini e, di conseguenza, stabiliva per loro diritti e doveri; e i vincoli di solidarietà legavano i nobili in tutti e tre i gradi familiari.
Per quanto concerne la famiglia mononucleare appare interessante ricordare che Giovanni Caldiera (1395-1474) nei trattati De oeconomia veneta e De praestantia venetae politiae, composti probabilmente nel 1473 (76), indicava al suo interno un preciso ordine gerarchico: tale ordine vedeva al vertice - come è ovvio - il paterfamilias, il quale, oltre alla tutela delle persone e alla loro guida, aveva la gestione del patrimonio (perciò dal Caldiera è detto anche iconomus), e nei gradini successivi rispettivamente la moglie-madre, i figli, i servi, gli animali, i beni inanimati. Tutte le persone che componevano la famiglia dovevano esercitare, a detta del Caldiera, le virtù collegate alla loro posizione all'interno della gerarchia suddetta. Perciò il paterfamilias doveva esercitare la prudenza nella gestione patrimoniale, la diligenza e la cautela nelle iniziative economiche intraprese, la carità verso i figli insieme con la costanza nell'impartire loro sicuri insegnamenti morali ed intellettuali, la fedeltà verso la moglie, la sicurezza e la giustizia nella guida dell'intero nucleo; la moglie, i figli e i servi dovevano rispetto ed obbedienza al padre; tutti dovevano concorrere alla difesa del bene supremo, quello della concordia interna, che garantiva la solidità e la prosperità della famiglia (77).
Al conseguimento della concordia e della prosperità di ciascuna famiglia mononucleare collaboravano anche le altre dinastie appartenenti allo stesso ramo e alla medesima ca'. Lo attestano, in primo luogo, le norme relative alla vendita di beni immobili definite dagli statuti cittadini promulgati nel 1226 dal doge Pietro Ziani. In base ad esse il venditore era tenuto a dichiarare la propria volontà di alienare alla corte dell'esaminador, la quale fissava il prezzo del bene e ne proclamava la messa in vendita, dando il termine di un mese per la presentazione delle domande di acquisto le quali dovevano essere confortate dal deposito del 10% del prezzo presso la depositeria di S. Marco. La procedura si proponeva, con ogni evidenza, di offrire strumenti di tutela ai parenti del venditore al fine di evitare che questo li tenesse all'oscuro della sua decisione. E proprio per meglio difendere la conservazione del bene all'interno del patrimonio familiare, le norme in questione riconoscevano ai componenti della famiglia del venditore - nelle tre articolazioni prima ricordate - il diritto di prelazione. Nel secolo XIV, poi, si andò gradualmente affermando una nuova prassi che completava la disciplina ora indicata, poiché offriva mezzi efficaci alla conservazione del patrimonio all'interno della famiglia. Tale prassi prevedeva che la proprietà immobiliare si trasmettesse soltanto in linea maschile e fosse esclusa sia dalle alienazioni sia dalle divisioni: in caso di assenza di figli maschi nella famiglia mononucleare erano i maschi degli altri rami a rivendicare il diritto di proprietà (78).
La famiglia, inoltre, offriva l'impianto organizzativo di base per l'esercizio delle attività mercantili, fonte primaria a Venezia - come sappiamo - della produzione economica, saldamente in mano alle maggiori dinastie. L'impresa commerciale, infatti, assumeva di frequente la forma della partnership familiare, detta fraterna (79), la quale univa in una comune attività componenti della medesima dinastia, sia conviventi sia non conviventi, i quali mettevano insieme i loro capitali per lo svolgimento degli affari e dividevano tra loro spese e ricavi in ragione della quota di partecipazione (80). Ed il rilievo della realtà familiare nella gestione degli affari commerciali non scemava quando ad un'iniziativa troppo onerosa per una singola dinastia partecipavano più famiglie, dando vita a quelle che il Lane chiama joint-ventures: all'interno di queste le famiglie non dissolvevano la propria individualità, ma restavano i soggetti dominanti e lascia-vano alla guida unitaria della compagnia solo l'autorità unitaria indispensabile a condurre l'impresa in maniera coordinata, mentre riacquistavano la piena libertà, e di conseguenza mettevano fine alla joint-venture, appena l'affare era concluso (81). L'importanza della solidità dei vincoli all'interno della ca' appare, poi, confermata dalla prassi, particolarmente diffusa nel Trecento, di matrimoni tra appartenenti a famiglie che quella componevano: il matrimonio, correntemente utilizzato nei centri urbani del basso Medioevo come strumento di alleanza tra dinastie, risulta svolgere nella Venezia del secolo XIV un ruolo importante come mezzo per ribadire e consolidare la solidarietà interna al clan patrizio (82).
Quest'ultimo, però, non confortava tale ricerca di coesione interna con quel "raggruppamento territoriale" che in altri comuni, a cominciare da Genova, caratterizza in maniera evidente l'insediamento nobile in città (83): al contrario, le singole famiglie mononucleari avevano sede in aree urbane diverse, spesso distanti tra loro. La crescente importanza che nel corso del secolo XIV assunsero i legami di clan sollecitò il rafforzamento del processo, già iniziato sulla metà del secolo precedente, diretto verso il superamento dell'originaria chiusura delle insulae familiari. In proposito si deve ricordare che per un lungo periodo, prolungatosi fino alla seconda metà del Duecento, la grande famiglia veneziana aveva dominato l'insula in cui era insediata - e che aveva strappato al mare procedendo per propria iniziativa ad un'attenta opera di bonifica - considerandola alla stregua di una propria signoria fondiaria e, quindi, da un canto imponendo la propria autorità su ogni altro nucleo familiare ivi residente, dall'altro limitando al massimo i propri rapporti con le insulae delle altre dinastie. La città si presentava, pertanto, come il risultato di una giustapposizione di domini privati, ciascuno dei quali era per più versi autosufficiente. Dalla seconda metà del Duecento Venezia conobbe uno slancio edilizio del tutto inedito (84), mentre i collegamenti di ciascuna dinastia con il resto della comunità urbana, in primo luogo con le altre famiglie della ca', cominciavano ad acquistare un crescente significato economico e politico. Tali fenomeni si confermarono e si accentuarono nel Trecento, rafforzando da un canto il superamento dell'originaria separazione, ponendo, dall'altro, per la prima volta all'attenzione dei patrizi il tema della gestione dei terreni e delle acque che consentivano i contatti tra le varie zone della città. Essi compresero allora che difficilmente avrebbero potuto raggiungere, operando singolarmente, un'adeguata difesa della loro insula, un significativo sviluppo delle loro attività mercantili, una costante e significativa utilizzazione della solidarietà familiare: tutti questi obiettivi, il cui conseguimento era indispensabile per ciascuna dinastia, potevano essere raggiunti soprattutto mediante la gestione dei beni ora ricordati.
A partire dagli ultimi decenni del secolo XIII cominciò ad essere modificata l'attribuzione di alcuni di questi beni - stagni, paludi, acque interne alle insulae, calli - che fino ad allora erano stati riconosciuti di dominio individuale. Di fronte all'incapacità delle singole famiglie di provvedere in maniera efficiente alla loro amministrazione, il comune cominciò a considerare tali beni come parte del demanio municipale e, di conseguenza, a sottoporli alla propria jurisdictio. La loro amministrazione venne, allora, assunta da magistrature municipali, prima tra tutte quella dei giudici del piovego. Tale amministrazione comportava non soltanto la gestione dell'esistente, ma anche la definizione di una disciplina giuridica che provvedesse allo sviluppo coordinato della città: nel corso del Trecento vennero approvate numerose regole relative alla costruzione dei muri delle case, di grondaie, di scale, all'apertura di finestre sui canali e sulle calli, alla demolizione di edifici pericolanti, alla realizzazione di canali di scarico. Inoltre, particolare attenzione venne riservata alla pulizia dei canali e della laguna: nel corso del secolo numerose risultano le leggi che vietarono di gettare nei canali fango, immondizia, acque di tintura, letame, pena l'esproprio di immobili e il pagamento di pesanti pene pecuniarie, mentre altre norme proibivano il pascolo di greggi nella zona del Lido, la pesca delle ostriche e ogni atto di vandalismo. Infine, entrò a far parte della jurisdictio comunale la cura dell'approvvigionamento idrico della comunità che per lungo tempo era spettata ai singoli signori delle insulae. Nei primi anni del Trecento la comunità veneziana dovette constatare che i pozzi d'acqua privati erano del tutto inadeguati al fabbisogno idrico di una popolazione in crescita: il comune provvide, allora, a costruire nuovi pozzi supplementari, assumendosene le spese e la gestione, nonché ad organizzare regolari rifornimenti idrici dal Bottenigo e dal Brenta. La sensibile contrazione dernografica provocata dalla Peste Nera rese meno assillante il problema dell'approvvigionamento idrico, non certo quello della sua igiene: l'autorità comunale continuò, comunque, ad occuparsene come parte integrante della sua potestà (85).
In sostanza nel corso del Trecento si venne a meglio definire il contenuto del patrimonio demaniale del comune ed al contempo l'amministrazione dello stesso assunse un crescente significato per le singole famiglie patrizie. La jurisdiclio municipale acquistò, dunque, nel Trecento una nuova importanza per questi ordinamenti particolari, assumendo un'insostituibile funzione integrativa della giurisdizione di cui gli stessi erano titolari. E il discorso sulle famiglie nobili sembra poter essere esteso con poche modifiche alle principali famiglie popolari - quelle che costituivano il "popolo grande" - anch'esse caratterizzate da un'articolazione interna che si avvicina a quella della ca' patrizia, da vincoli di solidarietà tra i diversi rami, dall'impegno nella tutela del patrimonio familiare, dalla necessità di avvalersi in città di una fitta e stabile rete di relazioni per lo svolgimento delle attività produttive (86). Anche per queste famiglie, allora, nel corso del Trecento il valore dei beni comuni aumentò e di conseguenza crebbe il significato dell'integrazione offerta dalla potestà comunale all'autorità da loro esercitata all'interno della propria organizzazione.
La giurisdizione unitaria del comune appare, poi, nel Trecento di estrema utilità per le famiglie del patriziato anche sotto un altro aspetto, quello dei traffici marittimi. Il grande commercio via mare era saldamente in mano ai nobili veneziani che si impegnavano in imprese mercantili sia individualmente, sia come si è visto or ora dando vita a partnerships familiari, o ricorrendo a joint-ventures strette tra più dinastie. Tali iniziative private nel Trecento risultano per più versi dipendenti dall'intervento della potestà comunale.
Innanzi tutto sotto il profilo dell'organizzazione del viaggio. Il Lane raggruppa i viaggi mercantili veneziani nel secolo XIV in cinque categorie: i viaggi liberi di navi private, quelli privati regolati dal comune, i privati autorizzati dal comune, i viaggi di navi di proprietà comunale appaltate a privati, i viaggi di navi di proprietà comunale diretti a fini comuni (87).
Il primo tipo era ancora molto frequente nel Trecento (88) ed era usato soprattutto per le rotte del mare Egeo e dello Ionio. Esso prevedeva che il privato fosse libero di scegliere il periodo del viaggio, la rotta da seguire, il carico da trasportare e il tipo di nave da usare; egli era, comunque, tenuto ad osservare le norme stabilite dalla legislazione marittima - costituita dallo statuto promulgato nel 1255 sotto il doge Ranieri Zeno e dalle aggiunte successive (89) - in merito al numero dei componenti l'equipaggio, nonché le decisioni delle autorità comunali le quali dettavano le regole per la navigazione ed ogni anno fissavano il numero dei viaggi liberi ammessi al commercio del grano (90).
Nel secondo e nel terzo tipo di viaggio l'intervento dell'autorità comunale era moltopiù consistente. Nei viaggi "regolati" - usati in genere per il trasporto di merci di valore, come tessuti, metalli preziosi, spezie - le navi di proprietà privata entravano a far parte di un convoglio che era organizzato dal governo cittadino e viaggiava solo in periodi stabiliti. Il convoglio delle navi era designato con il termine di "muda", termine che indicava anche il periodo di carico. Le mude ordinarie si svolgevano due volte l'anno, in primavera e in autunno (91), ed erano poste agli ordini di un capitano scelto, a partire dal 1303, dal maggior consiglio tra i patrizi di alto rango. Al capitano spettava la gestione di tutti gli affari, marittimi, diplomatici e militari, che il convoglio si trovava ad affrontare (92). L'8 marzo 1321 il maggior consiglio deliberò l'elezione di cinque savi incaricati di predisporre le regole che dovevano essere seguite dalle mude di prossima organizzazione. Da allora tale nomina si ripeté con scadenza pressoché annuale: ai savi - che erano detti "agli ordini" ("ordini" erano chiamate le regole per la navigazione dei convogli) - fu affidata la normativa sui convogli organizzati dal comune (93). Nei viaggi "autorizzati", poi, si registrava un'ulteriore interferenza del governo: quando era necessaria una più minuziosa programmazione della muda, il senato, a partire dal 1322 (94), fissava il numero delle navi che potevano partecipare al viaggio: i privati che volevano entrare nella muda dovevano registrare la loro richiesta ed erano sottoposti ad esame da parte di apposita magistratura. Le navi private che riuscivano ad ottenere l'autorizzazione erano, infine, poste agli ordini di un capitano nominato dal maggior consiglio (95).
Negli ultimi due tipi di viaggio, infine, il ruolo dell'autorità comunale era decisivo, dato che riguardava non solo l'organizzazione del viaggio, ma anche la costruzione e la proprietà delle navi usate. In entrambi i tipi, infatti, si trattava di navigli costruiti dal comune che ne conservava la proprietà, assumendosi l'onere della loro manutenzione e della loro riparazione. Centro di tali attività era l'Arsenale. Fino all'inizio del secolo XIV il termine "arsena" o "arsenatus" indicava uno spazio recintato all'interno del quale si costruivano navigli, si provvedeva alla loro riparazione e alla conservazione delle merci da loro trasportate. E accanto all'"arsena Communis", sito nell'area di Castello, ne esistevano altri di proprietà privata (96). Il 25 febbraio 1302 il maggior consiglio deliberò di vietare la costruzione di navigli di proprietà comunale in luoghi diversi dall'"arsena Communis " (97): la decisione non eliminava i cantieri privati, che rimanevano attivi per la produzione di navigli di singoli proprietari, ma assegnava all'Arsenale il monopolio della realizzazione delle navi di proprietà comunale. In particolare la produzione dell'Arsenale si indirizzò verso le galere, navi che si andavano affermando come le più adatte ai traffici marittimi anche perché agevolmente equipaggiabili con armi per la difesa contro eventuali attacchi (98). Un decisivo impulso all'attività dell'Arsenale venne dal suo ampliamento deliberato nel 1325 quando il comune acquistò dal monastero benedettino di S. Clemente un'area limitrofa al vecchio "arsenatus " (99): i lavori di ampliamento, iniziati probabilmente già nel 1326, trasformarono radicalmente il precedente centro (100). Ma l'impulso allo sviluppo dell'Arsenale venne soprattutto dalla prassi che si andò vieppiù imponendo per la sua funzionalità, quella per cui il comune dava in appalto a privati le navi costruite in Arsenale. Tale prassi configura, appunto, il quarto dei tipi di viaggio individuati dal Lane. Alla gara dell'appalto - che si svolgeva secondo le regole dell'incanto - potevano partecipare soltanto patrizi, singolarmente o nelle compagnie da loro costituite: spettava al senato decidere sull'ammissione dei partecipanti alla gara. La nave veniva consegnata nuda e l'appaltatore - che ne diventava il patronus - provvedeva a rifornirla del personale e del materiale necessario; l'appaltatore riscuoteva il nolo - il corrispettivo del trasporto delle merci, trattenendone per sé la metà e versando l'altra al comune (101). Le navi appaltate erano organizzate in mude e seguivano le regole fissate per i convogli. Questa forma di viaggio si diffuse ampiamente nel secolo XIV. Infine, nell'ultimo tipo di viaggio - quello di navi di proprietà comunale non appaltate a privati, ma direttamente gestite dal comune - spettava a quest'ultimo provvedere alla nomina di un patronus che si assumeva la responsabilità dell'intera operazione e sceglieva il capitano del convoglio (102).
L'intervento dell'autorità comunale nel settore dei viaggi via mare, peraltro, non si fermava qui. Il governo, in primo luogo, forniva alle mude una scorta di navi addestrate al combattimento. Inoltre, disciplinava la materia della navigazione marittima con le norme fissate dal già ricordato statuto di Ranieri Zeno e successive aggiunte e modifiche deliberate fino al 1343 (103) e regolava le operazioni delle mude attraverso gli "ordini" approvati dai savi. Infine, operava nel settore sia attraverso i grandi consilia, sia con officia particolari, innanzi tutto i consoli dei mercanti, poi dal 1279 i "domini super mercatoribus Levantis", detti correntemente "levanti", i quali nel 1330 vennero fusi con gli ufficiali "de super denariis de Rascia", istituiti alla fine del secolo XIII con il compito di impedire che le monete coniate nel regno balcanico di Rascia fossero usate come equivalente del grosso veneziano: consoli e levanti, insieme con magistrati istituiti per periodi particolari o per questioni specifiche, controllavano il carico delle navi e il corretto svolgimento del viaggio (104). Inoltre avevano competenza in materia sia i savi agli ordini, di cui si è detto prima, sia gli ufficiali pagatori della camera dell'armamento, eletti dal maggior consiglio per predisporre l'armamento di navi di proprietà comunale in attuazione degli ordini del doge e dello stesso maggior consiglio, sia, infine, i patroni dell'Arsenale, istituiti probabilmente poco prima della metà del secolo XIII e responsabili della custodia dell'Arsenale e del controllo delle attività artigianali e mercantili che vi si svolgevano (105).
L'esercizio del commercio marittimo, fonte primaria delle entrate delle famiglie patrizie, risulta dunque nel secolo XIV inscindibilmente legato all'autorità comunale, al cui intervento era affidata l'organizzazione, la gestione e la regolamentazione della maggior parte dei viaggi.
Accanto alla famiglia altro importante momento aggregativo della società veneziana era il vicinato.
O meglio lo era stato: ché a partire dalla metà del secolo XIII il graduale abbandono del carattere chiuso ed insulare dei domini fondiari urbani delle grandi famiglie e il crescente bisogno di collegamenti e di relazioni tra le varie zone della città avevano avuto la conseguenza di modificare profondamente la natura originaria dell'ordinamento in questione. Fino a quando la città risultava composta da una pluralità di insulae, il vicinato aveva avuto il ruolo di riunire tutti i signori - sia i grandi, sia i minori - della medesima insula - o di insulae contigue - offrendo loro la forma associativa nella quale affrontare e risolvere problemi connessi con la comune difesa e con la tutela dei loro diritti. Il vicinato, pertanto, univa famiglie potenti e famiglie meno importanti: e se la guida dell'organizzazione era naturalmente assunta dalle prime, le seconde avevano comunque la possibilità di far sentire le proprie ragioni e di intervenire direttamente nella tutela dei loro diritti. La trasformazione sociale iniziata nella seconda metà del Duecento attenuò il significato dell'ordinamento: la difesa dei singoli domini fondiari urbani passò in maniera crescente all'ordinamento municipale, al pari di quanto avvenne per la tutela dei diritti individuali che fu assunta, in maniera estesa, dalle numerose magistrature cittadine.
Nel Trecento il vicinato sembra dissolversi nelle articolazioni territoriali del municipio, nel senso che esso risulta inserito nelle unità di contrada e di sestiere e all'interno di queste sfuma al punto di presentare pochi tratti di individualità. Ora, si deve tener presente che la natura della contrada e del sestiere era diversa da quella del vicinato: quest'ultimo era un ordinamento particolare a base territoriale che precedeva e si distingueva da quello unitario del comune, mentre le prime erano mere articolazioni spaziali del municipio. Lo attesta il carattere di magistrati comunali dei capicontrada e dei capisestiere - questi ultimi documentati con regolarità a partire dal 1319- i quali, anche se scelti tra gli esponenti delle maggiori famiglie della zona urbana (106), erano nominati - come meglio vedremo in seguito - dalle autorità municipali (107).
Sarebbe, tuttavia, eccessivo ritenere che nel secolo XIV il vicinato avesse esaurito completamente la sua funzione. In realtà ancora lo si riconosceva come ordinamento particolare, anche se con significato ridotto. Così gli era attribuito il diritto di patronato sulla chiesa parrocchiale e gli era confermato il ruolo di sede di discussione e di riunione tra i residenti nella medesima area cittadina. E soprattutto venne considerato dal municipio come soggetto destinatario delle concessioni riguardanti la bonifica di aree di dominio comune e l'edificazione delle medesime (108): un riconoscimento, questo, che poneva il vicinato sul medesimo piano degli altri ordinamenti particolari - in primo luogo le famiglie patrizie - a cui il comune si rivolgeva riconoscendone l'individualità e la distinzione rispetto a se stesso.
Nel Trecento, dunque, il vicinato continuava a sussistere, ma era inserito nell'unità comunale. E a conclusioni non dissimili si può arrivare, con le dovute differenze, anche in riferimento all'altro ordinamento particolare, quello delle corporazioni, le associazioni di mestiere che a Venezia erano dette Arti.
Le corporazioni veneziane appaiono diverse da quelle degli altri comuni per due principali motivi: avevano contenuti devozionali altrove assenti, o del tutto marginali; non provvedevano da sole alla difesa dei diritti degli associati e alla regolamentazione delle loro attività, ma avevano bisogno dell'intervento di magistrature comunali che integrassero la loro jurisdictio particolare.
Associazioni devozionali dette scholae (schola dal greco = associazione di persone) con fini di mutuo soccorso sono attestate a Venezia sin dal secolo XI: ciascuna di loro aveva una sede stabile e ben definita, un particolare luogo di culto, ed era composta da persone di varia estrazione sociale. A partire dagli ultimi decenni del secolo XII alcune di loro cominciarono a distinguersi perché accoglievano soltanto addetti al medesimo mestiere. Non per questo, tuttavia, persero il loro originario carattere religioso, devozionale ed assistenziale (109): anzi svilupparono una rinnovata solidarietà interna che si esprimeva nel sostegno agli associati in difficoltà, nell'aiuto e nella difesa offerta agli orfani, nelle cerimonie religiose per le esequie dei soci defunti e per ricordarli in preghiera (110) Tale intima connessione tra l'Arte e la Scuola - e quindi tra le ragioni dell'attività produttiva e quelle della solidarietà cristiana - favoriva il mantenimento dell'armonia tra gli iscritti e contribuiva a trovare la soluzione delle loro vertenze (111).
Nel secolo XIV le Arti veneziane riguardavano le principali attività artigianali ed il commercio minore. Il Mackenney ha di recente proposto una loro classificazione in ragione del settore produttivo in cui erario impegnate e per ciascuna corporazione ha ricordato la data di approvazione dello statuto. Un primo gruppo comprende le Arti che riguardano i mestieri relativi al settore alimentare: vi appartengono i pescivendoli (1227), i custodi degli stai (1261) e i fabbricanti di pesi (1261), i ternieri (impegnati nel commercio dell'olio, del formaggio e della carne salata: statuti 1263), i biadaroli (1271), i venditori di biade e di legumi (1281), i pistori (1333). Un secondo gruppo riguarda l'industria tessile: in esso rientrano i tintori (1243), i venditori di lino (ante 1261), i tessitori di seta (1265), i fustagnai (dediti al commercio del cotone: statuti 1275), l'Arte delle faldelle (1279-1280), i fabbricanti delle corde di budello. Terzo gruppo è, poi, quello dei mestieri legati al settore edilizio: qui i fornaciai (1229), i muratori (1271), i falegnami (1271) e i tagliapietra (1307) risultano socialmente più elevati dei portatori, dei numeratori di tegole (1222) e dei fabbricanti di stoviglie (1300) i quali partecipavano al medesimo settore produttivo. La lavorazione dei metalli, poi, spettava ai fabbri (1271), ai fabbricanti di campane e di laveggi (1282), ai calderai (1283), mentre la lavorazione del legno, destinata sia al grande commercio sia a singoli privati, era esercitata dai cerchiai (1259), dai bottai (1271), dai fabbricanti di pettini e fusti di fanali (1297), dai tornitori (1300). Nel campo del pellame operavano, poi, i conciatori di pelle (1271 circa), gli imbiancatori (1271), i pellicciai (1271), i calzolai (1271), gli associati all'Arte delle pelli di ghiro (1311), mentre nel vestiario erano attivi i sarti (1219), i giubettieri (1219), i cappellai (1280), i berrettai (1281) e nel settore dei prodotti di lusso rientravano gli orefici (1233), i pittori (1271), i fioleri (1271) e i cristallai (1284), queste ultime due categorie impegnate nella produzione del vetro. Ancora, al gruppo dei commercianti appartenevano i marzieri (o merciai), i rivenditori di roba vecchia (1233), i venditori di panni vecchi (1264-1265) e a quello dei fornitori di servizi i medici (1258), gli speziali (1261), i barbieri (1270), i renaioli (la sabbia aveva un ruolo insostituibile nel filtrare l'acqua pluviale dei pozzi cittadini; statuti 1278) (112).
L'ultima categoria indicata dal Mackenney è, poi, composta dalle Arti che facevano capo all'Arsenale: si tratta delle corporazioni dei filocanape della Tana (1233), dei balestrieri (prima del 1261), dei segatori (statuti nel 1262), dei carpentieri (1271), dei calafati (1271), dei remai (1307), nonché quelle dei sovrastanti delle ancore (1280) e dei sovrastanti sopra la pece (1301) entrambe incaricate di regolare la produzione del complesso dell'Arsenale (113). Alle categorie proposte dal Mackenney, infine, può esserne aggiunta un'altra, quella dei mestieri attivi presso la Zecca di recente studiati dalla Bonfiglio-Dosio (114).
Le corporazioni erano regolate da statuti che nel secolo XIII erano indicati anche con i termini di matriculae o mariegole (115) poiché ne costituivano la regola-madre (116). La loro organizzazione interna prevedeva la guida di alcuni ufficiali: al vertice era in genere un gastaldo, coadiuvato da un vicario, da un gruppo di consiglieri, o giudici, detti bancali (da banco = consiglio), da un cassiere, da uno scrivano, da un esattore, da due sindaci, da uno o più tassatori; in alcune Arti al posto del gastaldo si trovavano sovrastanti, giudici o decani (117). Compito del gastaldo - e degli altri magistrati al vertice delle corporazioni - era quello di curare il rispetto delle norme statutarie da parte degli iscritti e di risolvere le vertenze di modesto contenuto economico insorte tra di loro nell'esercizio del mestiere. Tutti gli iscritti partecipavano, infine, all'assemblea dell'Arte, la quale, oltre a discutere le scelte della corporazione e a risolvere i principali conflitti interni, aveva la funzione di fissare le norme generali che tutti si impegnavano a rispettare e in particolare elaborava gli statuti della corporazione (118).
Alcune corporazioni, poi, si articolavano al loro interno in unità minori. Così, ad esempio, l'Arte dei filocanape era divisa in "ars grossa" e "ars suptile", quella dei pellicciai in "ars nova" e "ars vetera", quella dei medici in "medici physice" e "medici cyrologye", i fabbri si distinguevano in calderai, lavoranti di armi da getto e fabbri, i fustagnai in tessitori, tessitrici, battitori e filatrici, mentre i pittori comprendevano pittori di tavole e di legni, pittori di vetri, mosaicisti, miniaturisti (119). Le Arti veneziane, al pari di quelle delle altre città italiane, associavano esclusivamente i maestri ed avevano il compito primario di regolare la concorrenza tra di loro e di mediare nelle vertenze insorte tra gli stessi. Al di fuori dell'associazione rimanevano i prestatori d'opera: di conseguenza tra le funzioni della corporazione non rientrava la soluzione dei contrasti tra maestri e lavoratori (120). Un ruolo marginale avevano all'interno della corporazione gli apprendisti, dato che essi erano legati contrattualmente non già all'Arte, bensì al singolo maestro. In alcune corporazioni, poi, era riconosciuta una specifica funzione alle donne: è il caso, ad esempio, del settore tessile nel quale le "tessitrici" e le "filatrici" costituiscono - come si è detto - due unità minori dell'Arte dei fustagnai (121). Si deve infine sottolineare che all'interno di ogni Arte la condizione di parità degli iscritti, definita e rispettata sotto il profilo giuridico, conosceva di fatto sensibili alterazioni: già nel corso del secolo XIII si era venuta a delineare una gerarchia che vedeva al vertice un gruppo ristretto di maestri di bottega più capaci ed intraprendenti degli altri; e tale situazione si conservò anche nel Trecento, con una certa mobilità interna che consentiva un ricambio al vertice della corporazione (122).
La seconda caratteristica delle Arti veneziane è costituita, come si diceva, dall'ingerenza dell'autorità comunale all'interno dell'ordinamento corporativo. In proposito la storiografia prevalente afferma che le corporazioni veneziane "formavano una categoria separata", nel senso che erano escluse dalla guida politica della città e rimanevano estranee allo svolgimento delle attività economiche più importanti (123). Questa interpretazione è stata di recente rivisitata dal Mackenney, il quale ha sostenuto che le corporazioni non ebbero un ruolo marginale nella vita politica ed economica veneziana: al contrario - a suo parere - esse contribuirono in maniera decisiva a radicare nella comunità l'evoluzione sia economica, sia istituzionale del comune e a farla dipanare senza brusche rotture con il passato, assicurando in tal modo alla storia cittadina una profonda continuità. Esse avrebbero svolto tale funzione perché accettarono di buon grado l'esclusione dalle magistrature comunali e il monopolio del governo da parte del patriziato. La loro scelta sarebbe stata motivata sia dalla loro debolezza politica ed economica - derivante, soprattutto, dall'assenza di una potente industria laniera, che impedì alle Arti attive nel settore della produzione tessile di coagulare l'opposizione popolare al regime aristocratico -, sia dal loro tornaconto, dato che l'intervento delle magistrature cittadine assicurava agli iscritti alle corporazioni una giustizia immune da interessi personali, e perciò più equa, ed allo stesso tempo lo stretto collegamento con il grande commercio internazionale, saldamente in mano alle famiglie del patriziato, era indispensabile alle attività artigianali e mercantili che trovavano espressione nelle Arti (124).
La tesi appare di grande interesse, anche se non sembra dissipare tutti i dubbi. In particolare qualche perplessità suscita il giudizio sulla debolezza dell'Arte della lana, dato che lo stesso studioso riconosce il grande significato economico dell'industria tessile veneziana per quanto riguardava sia la lavorazione del cotone - nella quale Venezia si distinse in maniera preminente su altri centri italiani -, sia quella della lana (125). Ed in effetti l'Arte della lana fu a Venezia una delle più importanti: diretta nella prima metà del Trecento da consoli, da procuratori e da un massaro, essa passò nel 1369 sotto la guida di funzionari i quali avevano il titolo di sovrastanti e il potere di condannare quanti violavano le norme corporative a pene pecuniarie o all'espulsione dall'Arte. L'Arte si avvalse costantemente del sostegno dell'autorità comunale: nella prima metà del secolo XIV tale protezione si espresse nei provvedimenti diretti a restringere l'importazione di tessuti stranieri e in quelli che facilitavano il commercio dei panni veneziani; nella seconda metà del secolo divenne, poi, determinante per consentire alla produzione cittadina di affrontare la difficile congiuntura provocata dall'accavallarsi di vari fattori negativi, quali l'incremento dei dazi dei comuni lombardi - tradizionali destinatari della manifattura tessile veneziana -, la crisi politica delle Fiandre, da tempo controparte di Venezia nella produzione tessile, - crisi conseguente allo scoppio del conflitto tra la monarchia francese e quella inglese - e la contrazione della manodopera provocata dalla Peste Nera e dalle successive epidemie (126).
A Venezia, allora, non mancò una grande Arte della lana: anche se inferiore a quella fiorentina, essa, insieme con le altre corporazioni attive nella tessitura, controllava un settore manifatturiero essenziale per l'economia cittadina. E vero che a differenza di quanto avvenne in altri centri italiani ed europei - come Firenze e le città fiamminghe - il sèttore tessile non fu a Venezia segnato da esplosioni di "furor populi" (127), ma tale dato, ampiamente testimoniato dalle fonti, sembra dover essere ascritto a motivi diversi dalla debolezza della produzione manifatturiera.
Né del tutto convincente è l'idea di far risalire la docilità delle Arti al vantaggio che i loro iscritti avrebbero ricavato dalla giurisdizione delle magistrature cittadine sulle loro vertenze. Si deve ricordare in proposito che gli ordinamenti giuridici medievali si componevano sia di norme che il diritto odierno assegna al diritto sostanziale, sia di quelle oggi attribuibili al diritto processuale e che la difesa di entrambi questi filoni di norme era gelosamente rivendicata, da quanti si riconoscevano negli stessi ordinamenti, come parte essenziale della propria "libertà". In particolare, negli altri centri cittadini le corporazioni pretendevano il rispetto sia delle regole che disciplinavano lo svolgimento del mestiere, i rapporti tra gli iscritti e tra questi e gli estranei all'Arte, sia della esclusiva competenza delle corti di giustizia nate nel loro seno in merito alle vertenze insorte tra gli iscritti stessi per questioni concernenti la loro attività. Tale difesa del diritto corporativo, facilmente riscontrabile in tutte le grandi città italiane ed europee con forti organizzazioni di mestiere, nasceva necessariamente dal presupposto che i membri delle Arti giudicavano le loro particolari corti come quelle che meglio garantivano la tutela dei loro diritti e quindi la più equa giustizia. La differente situazione di Venezia, dove il giudice corporativo era competente per le sole questioni minori e le vertenze più rilevanti erano affidate alle magistrature cittadine, appare allora sintomo della debolezza dell'ordinamento delle Arti, espressione ulteriore dell'integrazione effettuata nei suoi confronti dall'ordinamento unitario del municipio, non già ricompensa per la sua subordinazione al governo patrizio e, di conseguenza, non sembra poter essere intesa come una giustificazione di tale docilità.
Se allora torniamo a considerare la tesi del Mackenney sulle cause dell'accettazione da parte delle Arti dell'esistenza di un distinto e superiore ceto nobile a Venezia, nonché del monopolio del governo cittadino da questo tenuto, la più condivisibile sembra essere quella che evidenzia lo stretto, inscindibile legame tra la produzione dei mestieri organizzati nelle Arti e il grande commercio internazionale, soprattutto marittimo, saldamente tenuto nelle loro mani dalle famiglie del patriziato. La produzione manifatturiera veneziana risulta destinata prevalentemente a tale commercio e quindi trarre da questo la fonte primaria della sua alimentazione: ne derivò una sostanziale dipendenza delle Arti, che quella produzione organizzavano, dalle famiglie che quel commercio dominavano e dal governo che le stesse famiglie controllavano in modo esclusivo.
L'inserimento dell'ordinamento corporativo in quello unitario del municipio, peraltro, fu il risultato di un lungo periodo di contrasti sviluppatisi tra gli stessi ordinamenti nel corso della prima metà del secolo XIII. All'inizio del Duecento l'individualità delle Arti rispetto al comune era sensibilmente marcata e si esprimeva nella piena libertà di elezione dei magistrati corporativi, elezione che si realizzava attraverso la cooptazione operata dai magistrati uscenti. Per evitare che élites familiari e consortili si appropriassero stabilmente dei vertici delle corporazioni, le autorità comunali cercarono di intervenire nella scelta dei funzionari e di limitare la durata della loro carica. Nel 1265 il maggior consiglio approvò una norma che riduceva ad un anno la durata del gastaldato e subito dopo riuscì ad introdurre l'intervento dei giudici della giustizia vecchia nella vita delle Arti. La reazione delle corporazioni non fu tale da conseguire una revisione di tali provvedimenti. Nel secolo XIV, poi, gli equilibri raggiunti tra ordinamento comunale e ordinamento corporativo si consolidarono al punto che le autorità comunali non temettero più la costituzione di élites familiari e consortili al vertice delle Arti e ne accettarono la formazione spontanea, sicure che le stesse si sarebbero mantenute fedeli alla superiore giurisdizione del comune (128).
Nel Trecento l'intervento dell'autorità municipale nella vita interna delle corporazioni risulta duplice, consistendo da un canto nella potestà di dettare norme corporative e di approvare gli statuti delle Arti, dall'altro nella titolarità di una parte della competenza giurisdizionale sugli iscritti. Sin dal 1268 le autorità cittadine avevano iniziato a sottoporre a revisione le norme degli statuti delle Arti, introducendo in tal modo il principio per cui la validità di dette norme dipendeva dalla potestà comunale. Nello stesso torno di anni venne conferita ai giudici della giustizia vecchia un'ampia giurisdizione in merito alla maggior parte delle Arti. A loro fu attribuita l'autorità di introdurre, mediante ordinanze, nuove norme statutarie: ed essi fecero ampio uso di tale potestà, al punto che alcuni statuti corporativi, ancorché approvati dall'assemblea degli iscritti, ebbero la forma di ordinanze dei giustizieri. Inoltre, fu riservata alla loro competenza la disciplina di importanti aspetti dello svolgimento delle attività artigianali, in primo luogo la definizione degli emolumenti dovuti ai prestatori d'opera. Ancora, i giustizieri integravano la giurisdizione dei funzionari corporativi, dato che assunsero la potestà di giudicare le controversie di maggior significato economico insorte tra gli iscritti. Infine, ebbero l'autorità di procedere alla nomina del gastaldo - e dei corrispondenti funzionari principali delle corporazioni -, dopo la scelta all'interno dell'Arte (129). E giurisdizione analoga a quella assegnata alla giustizia vecchia sulla maggior parte delle Arti ebbero l'ufficio della ternaria sulle corporazioni impegnate nel commercio dell'olio, la giustizia nuova su tavernieri e mercanti di vino e i provveditori di comun su quelle interessate alla produzione dei panni di lana (130).
Famiglia, vicinato ed Arti non esaurivano le forme associative del "popolo" veneziano: ad esse si aggiungevano le Scuole.
La Scuola a Venezia era - secondo la definizione del Pullan - "un'associazione religiosa governata da funzionari laici elettivi" (131), istituita per la devozione ed il culto di un santo, nonché per la mutua assistenza dei confratelli e la loro sepoltura religiosa. I confratelli erano legati tra loro da vincoli strettissimi, che nascevano con la prestazione del giuramento di osservare lo statuto, vincoli che sono stati giudicati di natura analoga a quelli che legavano tra loro i componenti della famiglia (132). Si è visto prima come alcune Scuole fossero associate alle corporazioni di mestiere.
Accanto a questo tipo di Scuola esistevano, poi, quelle che riunivano soggetti impegnati in mestieri diversi e che, pertanto, avevano un più spiccato carattere devozionale. Innanzi tutto le cosiddette Scuole grandi o Scuole dei Battuti, o dei Disciplinati, nate nella seconda metà del secolo XIII, la cui origine è da mettere in relazione con il movimento dei flagellanti che si diffuse nell'Italia centro-settentrionale nel 1260: la prima di dette Scuole - S. Maria della Carità - venne fondata proprio in questa data (133) e ad essa seguirono le Scuole di S. Giovanni Evangelista, di S. Maria della Misericordia e di S. Marco, tutte in vita alla fine del secolo (134). Le Scuole grandi erano le più ricche, riunendo fedeli appartenenti alle maggiori famiglie popolari. Oltre ad esse erano attive le Scuole piccole, che si proponevano identici obiettivi devozionali ed assistenziali, ma riunivano popolari di condizione sociale inferiore. Inoltre operavano a Venezia Scuole che riunivano stranieri della medesima natio - come quelle dei Greci, degli Albanesi, dei Milanesi, dei Fiorentini, dei Bergamaschi, dei Lucchesi (135) -, Scuole del Santissimo Sacramento - che si caratterizzavano per il culto di Cristo e per la celebrazione della festa del Corpus Domini - e, infine, Scuole caritative, il cui scopo precipuo era quello di organizzare la raccolta di elemosine e di destinarle a particolari categorie di bisognosi: così nel 1315 venne fondata la Scuola degli orbi, che sosteneva i ciechi, e nel 1392 fu istituita, dietro autorizzazione del consiglio dei dieci, la Scuola di S. Arcangelo (nella parrocchia di S. Angelo) che si proponeva di sollecitare le famiglie benestanti a versare elemosine in favore dei poveri (136).
Si deve, comunque, precisare che la distinzione tra i vari tipi di Scuola non era rigida. Come sottolinea il Mackenney, alcune Scuole piccole si caratterizzavano per la partecipazione dei loro componenti ad una comune attività mercantile ed alcune Scuole grandi maturarono interessi comuni con alcune Arti (137). Pertanto, la classificazione ora adottata ha un valore soprattutto pratico e non pretende di esaurire una realtà che risulta ben più complessa.
Le Scuole, pur essendo organizzazioni devozionali, non riunivano ecclesiastici, ma solo laici: alcune Scuole grandi, comunque, nel secolo XIV si rivolsero a sacerdoti per la celebrazione della messa e per gli altri servizi di culto (138). Delle Scuole potevano far parte nel Trecento soltanto cittadini non appartenenti al patriziato. Esse costituivano, dunque, forme associative popolari particolarmente importanti per gli stretti vincoli di solidarietà che univano i loro iscritti. Di qui l'attenzione che il governo patrizio rivolse loro, impegnando nel loro controllo sia la giustizia vecchia, sia i provveditori di comun, sia, infine, il consiglio dei dieci. Dal canto loro, peraltro, le Scuole, accogliendo cittadini residenti nelle diverse zone della città ed esercitando la loro attività nell'intera area urbana, dipendevano dalle vie di comunicazione interne al territorio cittadino ed avevano continui contatti con le famiglie patrizie per l'esercizio delle opere caritative e delle cerimonie di culto (139). Il governo comunale, cui spettava l'amministrazione del patrimonio demaniale e che era saldamente in mano ai patrizi, costituiva, dunque, l'indispensabile autorità integrativa della giurisdizione particolare delle Scuole.
Il clero veneziano si caratterizza per una lunga vicenda di integrazione con la comunità laica, integrazione che risaliva ai primi tempi dell'autonomia ducale e che si consolidò dopo la fondazione del comune.
Nella seconda metà del secolo IX l'organizzazione ecclesiastica della comunità lagunare risulta articolata in sei diocesi, quelle di Caorle, di Equilio (poi Jesolo), di Cittanova Eracliana, di Malamocco, di Torcello e di Olivolo (quest'ultima competente per la zona di Rialto), sotto l'autorità del patriarca di Grado (140). Nello stesso torno di anni cominciarono a diffondersi nel territorio lagunare le prime parrocchie le quali assunsero la forma istituzionale della collegiata, dato che si avvalevano di un "piccolo capitolo formato dal parroco e dai titolari: alcuni preti col titolo presbiteriale, altri con quello diaconale o suddiaconale e in qualche caso pure con quello di accolito" (141). La rete parrocchiale si diffuse nella comunità lagunare, dando vita ad una compenetrazione tra mondo laico e mondo religioso che presenta contenuti particolarmente intensi e si manifesta sia nel monopolio della dignità di parroco stabilmente posseduto dalle maggiori famiglie della zona, sia dall'uso della parrocchia come articolazione territoriale da parte della stessa società civile (142).
La compenetrazione tra clero e laici caratterizzava la società ducale anche ai suoi vertici. Il doge era costantemente affiancato dai dignitari ecclesiastici (143) ed allo stesso tempo rivendicava la titolarità di una suprema auctoritas sulla Chiesa del Ducato sul modello di quella del basileus bizantino nell'Impero d'Oriente (114). Detta autorità si espresse, in particolare, nel ruolo di custode delle reliquie di s. Marco quando le stesse vennero traslate nella città lagunare nel secolo IX (145), nonché nella giurisdizione esclusiva, dal doge assunta sin dalla fondazione, sulla basilica di S. Marco (146). Si espresse anche nel sostegno da lui assicurato al vescovo veneziano - il quale nel 1091 mutò il titolo da vescovo di Olivolo a vescovo di Castello (147) nella sua azione diretta a conseguire maggiore autonomia dal patriarca di Grado (148). Quando, poi, il centro della vita lagunare si spostò a Rialto, anche il patriarca di Grado fu sollecitato a prendervi residenza: a partire dall'inizio (149) - o quanto meno dalla metà (150) - del secolo XII egli pose la sua sede nella chiesa di S. Silvestro ed ebbe autorità diretta - condivisa in vari casi con il vescovo di Castello - su alcune parrocchie cittadine (151).
La formazione del comune vide le maggiori autorità ecclesiastiche allontanarsi dal vertice del potere (152). Non per questo, però, si modificò la tradizionale integrazione tra clero e laici. Si accrebbe, al contrario, la presenza dei chierici nella vita cittadina, grazie sia alla loro costante partecipazione al rinnovato slancio delle attività mercantili, sia alla ramificata diffusione in città delle istituzioni dei canonici regolari, che nel corso del secolo XII fondarono S. Maria della Carità, S. Salvatore, S. Clemente, S. Elena,. S. Tommaso di Torcello, S. Maria degli Angeli e agli inizi del secolo successivo S. Maria Nuova di Gerusalemme, e si impegnarono in un'attenta opera pastorale, caritativa, assistenziale ampiamente apprezzata dalla comunità (153). Si consolidò altresì il legame tra la gerarchia ecclesiastica e l'autorità civile, ora rappresentata dal doge e dalle altre magistrature titolari della jurisdictio comunale, legame che comportava l'intervento di queste ultime nella scelta dei vescovi e nel controllo delle dignità parrocchiali da parte delle famiglie della zona.
Nel secolo XIII, poi, l'organizzazione ecclesiastica si arricchì dell'insediamento degli ordini religiosi i quali contribuirono all'intensificazione dell'opera pastorale e caritativa in seno alla comunità cittadina, mentre le iniziative devozionali del mondo laico conoscevano nuove istituzioni. Nel secolo XIV la complessa organizzazione ecclesiastica veneziana e la rete delle istituzioni devozionali presenti nel territorio comunale appaiono largamente sottoposte alla jurisdictio comunale. L'ingerenza nella scelta dei titolari delle maggiori dignità ecclesiastiche era rivendicata dalle autorità cittadine come regola fondata su un'antica consuetudine risalente agli albori del Ducato (154), legata alla suprema potestas del doge, ed era di fatto esercitata nonostante l'opposizione della S. Sede (155). In particolare l'elezione dei vescovi (tra il secondo ed il terzo decennio del secolo XII la sede di Malamocco era stata trasferita a Chioggia (156) spettava al senato, il quale procedeva con il sistema del ballottaggio (157). In mano alle grandi famiglie veneziane, poi, rimaneva la dignità parrocchiale, mentre magistrati comunali - come sappiamo - avevano autorità sulle Scuole devozionali, in particolare sulle Scuole grandi le quali, in seguito alla crisi conosciuta a Venezia dai grandi ordini religiosi nel corso del secolo XIV, finirono per assumere, insieme con gli ordini mendicanti per la prima volta presenti in città, il maggior impegno caritativo ed assistenziale (158).
L'intreccio tra mondo laico e mondo ecclesiastico si esprime a Venezia in forme degne di attenzione. Così, ad esempio, mentre nelle altre città la decima era costituita da una quota della rendita fondiaria versata con regolarità dai fedeli, a Venezia - dove la rendita fondiaria era di poco conto e le maggiori attività produttive erano quelle artigianali e mercantili - essa assunse la forma della cosiddetta "decima personale" che il vescovo percepiva solo alla morte del fedele per iniziativa degli esecutori testamentari di quest'ultimo (159). Inoltre, la tutela assicurata dalle autorità comunali all'ordinamento ecclesiastico veneziano, se aprì frequenti dissidi tra la gerarchia e il governo municipale, ebbe contenuti di sicura utilità per la Chiesa. Tra l'altro, il governo veneziano assegnava alle chiese parte delle entrate percepite come corrispettivo della concessione di grazie perché la destinassero ad opere di assistenza e di beneficienza (160), partecipando in tal modo all'attività caritativa che sembra caratterizzare in modo particolare la devozione veneziana.
L'esame sommario degli ordinamenti particolari veneziani fin qui condotto ci induce, dunque, ad affermare che per ciascuno di loro la jurisdictio comunale aveva assunto nel Trecento un valore decisivo, come potestà indispensabile alla loro organizzazione e alla loro tutela. Tale jurisdictio era esercitata in quel periodo da alcuni grandi consigli e da un vastissimo numero di magistrature: la partecipazione a detti consigli e a dette magistrature era riservata agli appartenenti al ceto patrizio, quali componenti del maggior consiglio.
Gli storici sogliono distinguere tra consilia ed officia, i primi costituiti dalle grandi assemblee - minor consiglio, maggior consiglio, consiglio dei rogati o dei pregadi o senato, consiglio dei quaranta o quarantia, consiglio dei dieci -, i secondi dalle magistrature minori. Secondo il Cessi i primi erano "organi dotati di competenza legislativa esercitata in virtù di un potere sovrano", mentre i secondi svolgevano "funzioni esecutive nell'ordine amministrativo e giurisdizionale" (161). E il giudizio è sostanzialmente condiviso dallo Zordan secondo il quale i consilia erano "i massimi organi costituzionali dello Stato detentori del potere sovrano [...> gestori dello stesso soprattutto attraverso l'attività normativa", mentre gli officia possono essere definiti "tutti gli altri organi statali che non sono consigli" (162). Il criterio adottato dagli studiosi ora ricordati, però, sembra derivare dalla convinzione che agli ordinamenti medievali possano legittimamente adattarsi sia il concetto della sovranità statale, sia il principio di separazione dei poteri che in realtà avrebbero fatto la loro comparsa nel mondo occidentale molti secoli più tardi. A prescindere dalla questione generale della legittimità di avvalersi per il Medioevo di categorie e principi del diritto contemporaneo, ricordiamo come in particolare la difficoltà di utilizzare per l'ordinamento veneziano di fine Medioevo dette categorie e detti principi è stata già rilevata dal Lane il quale ha sottolineato come i Veneziani, nonostante la pluralità di uffici e di consigli, ignorassero del tutto l'idea della separazione dei poteri (163). Appare allora preferibile lasciar da parte tale idea ed accontentarci di rilevare
che mentre i consigli mostrano una competenza generale, concernente - cioè - l'intera comunità e l'intero territorio, gli uffici sembrano impegnati in singoli settori o nei riguardi di alcune categorie di cittadini o di particolari aree territoriali.
Gli officia sono distinti dagli studiosi in base alla località della loro sede. La prima distinzione è quella tra gli officia de intus, con sede a Venezia, e gli officia de foris, costituiti dalle magistrature veneziane attive nei centri del Dogado, nelle località della costa adriatica e dell'Oriente in cui risiedevano colonie di mercanti veneziani. La seconda distinzione riguarda i soli officia de intus e li separa in due gruppi, gli uffici di Palazzo o di S. Marco - e quelli di Rialto. Tale distinzione topografica è stata, però, ulteriormente caratterizzata da alcuni storici i quali hanno cercato di individuare una differenza di sostanza tra gli uffici dei due gruppi. Così il Cessi ha attribuito agli uffici di Palazzo "funzioni prevalentemente giurisdizionali" ed ha giudicato quelli di Rialto - collocati nell'area del principale mercato cittadino - "magistrati regolatori della vita economica, mercantile e finanziaria", nonché "uffici di polizia giudiziaria" (164). La tesi è stata ripresa più di recente dallo Zordan, il quale, comunque, ammette che non tutti gli uffici del primo gruppo ebbero competenze di "carattere giudiziario" e dichiara che il secondo gruppo comprende uffici trà loro molto differenti (165). Le perplessità manifestate dallo Zordan, e successivamente condivise dall'Ortalli (166), inducono ad usare cautela nel cercare per gli officia de intus un criterio distintivo diverso da quello meramente topografico, anche perché non si riesce a ben comprendere quali siano per il Cessi le competenze giudiziarie degli uffici di Palazzo dal momento che egli assegna a tutti gli uffici, per distinguerli dai consigli, compiti meramente esecutivi. Sembra preferibile riconoscere a tutti gli uffici natura uguale - quella, cioè, di magistrature incaricate della gestione della complessa jurisdictio municipale nei settori loro assegnati - e di considerare come dettata dalla convenienza e dalla normale opportunità - non già frutto di una pianificazione programmata - la presenza di uffici con giurisdizione in materia mercantile nell'area del mercato realtino.
Gli uffici di Palazzo erano numerosi. Jacopo Bertaldo, noto giurista veneziano, nello Splendor Venetorum civitatis consuetudinum composto all'inizio del secolo XIV ne indicava soltanto cinque, gli avogadori di comun, i giudici del piovego (termine corrotto per "super publicis"), i giudici del magno salario, detti "del men", i signori della notte e i giudici de contrabannis (167). Ma l'elenco è eccessivamente contenuto. Ai cinque gli studiosi sono soliti aggiungere i procuratori di S. Marco, i soprastanti alla moneta, i signori sopra l'armamento, i patroni dell'Arsenale, i giudici del comun, i giudici dell'esaminador, i giudici del forestier, i giudici del mobile, i giudici per omnes curias, gli avogadori del proprio, i soprastanti ai canali, i soprastanti alle usure (168), i giudici della curia di petizion (169), gli ufficiali del cattaver ("cattaver" da "trova-averi" o "catta-aver") (170), per un totale di diciannove uffici.
Ancora più lungo è, poi, l'elenco degli uffici di Rialto proposto comunemente dalla storiografia. Si tratta dei visdomini - articolati nei tre uffici dei visdomini dei Lombardi, dei visdomini da mar e dei visdomini della ternaria -, dei giustizieri - anch'essi divisi in due settori, la giustizia vecchia e la giustizia nuova -, dei consoli dei mercanti, degli ufficiali al frumento, dei visdomini del fondaco dei Tedeschi, dei soprastanti all'oro e all'argento, dei soprastanti ai panni d'oro e ai fustagni, dei soprastanti alla messetaria (i "messeti" erano i mediatori che intervenivano nelle transazioni commerciali), dei soprastanti all'oro e al pepe, dei soprastanti al dazio delle beccherie, dei cinque della pace, degli ufficiali sopra Rialto, dei camerlenghi di comun, dei sopraconsoli dei mercanti, dei salinari da mar, degli stimatori dell'oro, dei capitani delle poste e dei legni, dei signori sopra imprestiti, dei soprastanti delle ragioni di dentro e di fuori, dei soprastanti del Lido, dei provveditori alle biade - istituiti nel 1365 -, dei soprastanti al dazio del vino, degli ufficiali sopra le merci di Levante (171). L'elenco, a detta di chi lo ha tentato, non è completo (172).
Il numero delle magistrature indicate nell'elenco, comunque, è di ventitré; esse, insieme con le diciannove di Palazzo, fanno un totale di quarantadue officia de intus attivi a Venezia nel secolo XIV: un totale cui devono essere aggiunte le commissioni di savi nominate con grande frequenza dai consigli veneziani per la soluzione di questioni specifiche. Le magistrature veneziane erano, dunque, molteplici ed impegnavano, di conseguenza, allo stesso tempo molti patrizi anche perché gli uffici erano in genere collegiali, spesso erano articolati in più sezioni e la durata della carica era breve, andando dai sei mesi ad un anno.
Per tentare di comprendere il loro funzionamento e la natura della loro partecipazione al governo della jurisdictio comunale appare necessario esaminare i principali settori del loro intervento.
Si è visto prima come a partire dalla seconda metà del secolo XIII il comune rivendicasse l'appartenenza al suo demanio di una serie di beni fondiari presenti nel territorio urbano e come questi assumessero, soprattutto nel Trecento, un crescente significato per gli ordinamenti particolari veneziani. L'amministrazione di detti beni fu allora assunta da vari uffici.
La più antica magistratura con questa competenza sembra essere stata quella, di carattere temporaneo, dei giudici "apositi pro ripis et pro viis publicis et pro viis de canali" testimoniata per la prima volta nel 1224 (173). Successivamente l'amministrazione venne attribuita a numerose magistrature stabili: nel secolo XIV risultano competenti in materia demaniale i giudici del piovego, i signori della notte, i capisestiere, i provveditori di comun e i procuratori di S. Marco.
I giudici del piovego sono attestati a partire dal 1282, anno dal quale ha inizio la serie delle loro sentenze. Erede della curia "super canales" e di quella "super pontibus et viis ", istituite in via temporanea nella prima metà del Duecento, la magistratura era composta di tre ufficiali ed era designata con il titolo ufficiale di "curia super publicis inveniendis et recuperandis". La centralità dell'ufficio nella gestione dei beni demaniali venne decisa dal maggior consiglio quando con provvedimento del 1300 le assegnò la giurisdizione in materia di canali, ponti, calli, piscine, rendendola competente anche per la materia del prosciugamento degli stagni comuni (174). Da quel momento i giudici del piovego assunsero una duplice funzione: da un canto difesero la natura demaniale di beni di interesse comune, respingendo i tentativi di alcune grandi famiglie di restaurare la natura privata degli stessi, e contribuirono decisamente, mediante la loro opera giurisprudenziale, ad estendere la demanialità ad altri beni; dall'altro si affermarono come autorità primaria per la concessione a soggetti privati del diritto di prosciugare stagni demaniali e di edificarvi, per la gestione delle vie di comunicazione, sia di acqua sia di terra, per la costruzione di pozzi comuni indispensabili per il rifornimento idrico della cittadinanza (175).
I risultati della loro attività giurisprudenziale appaiono evidenti in relazione alla materia delle vie di comunicazione: con una serie di sentenze i giudici del piovego definirono la natura demaniale di calli e di canali, rifiutando ogni pretesa di utilizzazione privata degli stessi, sin dai primi anni del secolo XIV, tanto che tale natura risulta correntemente accettata almeno a partire dal 1337 (176). In merito, poi, alla gestione dei beni demaniali, particolare interesse presenta la materia delle piscinae. I giudici del piovego intervenivano, come protagonisti di primo piano, in una articolata procedura che iniziava con la definizione da parte loro delle zone della piscina interessata da assegnare ai privati confinanti - famiglie, monasteri, vicinato - che avevano chiesto la concessione, proseguiva con la delibera dei grandi consigli in merito a tale concessione, trovava la sua ultima fase nel controllo degli stessi giudici del piovego sull'esecuzione dei lavori da parte dei concessionari. L'ufficio risulta, pertanto, al centro dell'espansione urbanistica vissuta da Venezia nei primi decenni del Trecento, nonché della grande ripresa edilizia che caratterizzò la città lagunare dopo il 1385, quando ebbe termine la lunga crisi iniziata con la diffusione della Peste Nera e proseguita a causa delle successive epidemie e del conflitto con Genova (177).
I giudici del piovego, comunque, non erano i soli magistrati con giurisdizione in materia demaniale. Così, alla gestione delle piscinae partecipavano anche i signori della notte, magistratura istituita sotto il dogado di Pietro Ziani o con maggior probabilità intorno alla metà del secolo XIII, composta in origine da un solo ufficiale, poi da due i quali negli anni successivi divennero sei (178), responsabile sin dalla fine del secolo del mantenimento dell'ordine pubblico all'interno della città. Nel 1300 il maggior consiglio coinvolse i signori della notte nell'attività di controllo sui lavori di prosciugamento e di edificazione eseguiti dai concessionari delle piscinae, affidando loro la cura e la sorveglianza di tutti i cantieri attivi in città (179).
Giurisdizione sui beni demaniali avevano anche i capisestiere, magistratura che proprio nel corso del secolo XIV andò precisando le proprie competenze e la propria organizzazione interna. Sorto con ogni probabilità negli ultimi decenni del Duecento - nel 1272 cominciano, infatti, ad essere testimoniati ufficiali non stabili "qui erunt super sexteriis" (180) -, l'ufficio esprime la fusione dell'ordinamento particolare del vicinato in quello unitario del comune: i capisestiere, infatti, non erano portavoce e rappresentanti della comunità locale, bensì funzionari municipali con competenza territoriale. La loro evoluzione nel corso del Trecento appare complessa. Il 10 agosto 1319 il consiglio dei dieci provvide per la prima volta alla nomina di "capita sexteriorum" con funzioni di tutela dell'ordine pubblico all'interno della circoscrizione urbana: si trattò di un ufficio temporaneo il quale rimase in carica per sei mesi e successivamente non venne rinnovato. Nel 1320, poi, fu il maggior consiglio a deliberare la nomina di capisestiere, anch'essi per la durata di sei mesi: al contrario dei primi, però, al termine del mandato questi vennero rinnovati e la proroga proseguì di sei mesi in sei mesi fino al 1324, quando la magistratura fu resa stabile. Alla fine del 1328, infine, i dieci provvidero di nuovo alla nomina di capisestiere, i quali si affiancarono a quelli nominati dal maggior consiglio. Da questo momento coesistettero due categorie di capisestiere, quelli nominati dai dieci, impegnati soprattutto nella tutela dell'ordine pubblico con specifiche funzioni di polizia e titolari della potestà di nomina dei capicontrada, e gli altri nominati dal maggior consiglio i quali, pur esercitando funzioni in materia di tutela dell'ordine pubblico, si caratterizzarono soprattutto per i compiti che ricevettero dal maggior consiglio nella gestione dei beni demaniali. In particolare spettò loro, a partire dal 1325, la custodia e l'amministrazione dei pozzi pubblici, nonché, dal 1330, la loro manutenzione insieme con quella delle fondamenta degli edifici, delle rive dei canali, delle calli, dei ponti (181).
La giurisdizione degli uffici ora ricordati si intrecciava, peraltro, con quella dei provveditori di comun, magistratura istituita probabilmente nel 1256 e composta da tre funzionari. I provveditori avevano un'ampia sfera di competenza che comprendeva la concessione della cittadinanza de intus e de intus et de fora, autorità sulle Arti impegnate nella produzione dei panni di lana e sulle Scuole piccole, giurisdizione in materia daziaria - dietro preventiva autorizzazione del maggior consiglio imponevano dazi su merci in entrata e/o in uscita dal territorio del comune - e nel settore dell'amministrazione demaniale. In quest'ultimo campo, in particolare, la loro competenza riguardava le calli, i canali, i ponti, le fondamenta degli edifici, i pozzi pubblici: essi avevano il potere di decidere l'apertura o la chiusura delle vie di comunicazione, partecipavano alla manutenzione dei suddetti beni e alla tutela dell'ordine pubblico nelle stesse aree(182).
Giurisdizione sui beni demaniali avevano anche i procuratori di S. Marco, magistratura complessa la cui competenza riguardava prevalentemente - come meglio vedremo in seguito - altri settori della jurisdictio municipale. La magistratura l'unica, oltre a quella dogale, a durare a vita - traeva origine dal procuratore che, secondo la tradizione, il doge avrebbe nominato nell'829 con l'incarico di custodire le reliquie di s. Marco traslate nello stesso anno nel territorio lagunare e di curare l'ampliamento e l'abbellimento della chiesa destinata ad accoglierle. Per lungo tempo il procuratore limitò la sua funzione alla cura della Basilica e del patrimonio ad essa collegato. Nel secolo XIII, poi, cominciò ad estendere la sua giurisdizione, affermandosi come ufficio di custodia di documenti legali, di somme private, di patrimoni individuali affidatigli soprattutto da testatori, nonché come tutore di orfani di minore età. Nel 1256 la magistratura si articolò in due uffici, quello dei "procuratores de supra", competente per l'opera di S. Marco e per la tutela degli orfani minori, l'altro dei "procuratores de subtus" o "procuratores super commissariis" che amministrava i patrimoni ricevuti in custodia: ciascun ufficio era affidato a due magistrati. Nel 1308 e nel 1309 il maggior consiglio nominò procuratori suprannumerari per aiutare i quattro che erano oberati di lavoro. Il 25 marzo 1319, poi, il medesimo consiglio riorganizzò la magistratura, dividendo l'ufficio "de subtus" in due settori, uno competente per i patrimoni situati sul lato di S. Marco del Canal Grande ("de citra Canale"), l'altro per quelli della riva opposta ("de ultra Rivoaltum sive ultra Canale") e attribuendo ai "procuratores de supra" autorità in materia di tutela dei minori e degli incapaci, nonché giurisdizione sull'area di piazza S. Marco: in particolare venne loro affidata la manutenzione della Piazza e il potere di concedere licenza ai mercanti che volevano aprirvi botteghe; la concessione seguiva un'articolata procedura di appalto che era ripetuta ogni anno(183).
Infine, una specifica giurisdizione su alcuni beni demaniali spettava anche agli ufficiali sopra Rialto, istituiti tra il 1229 e il 1248, la cui attività fu disciplinata da un capitolare a noi giunto nel testo composto tra il 1260 e gli anni immediatamente successivi al 1356. Oltre ad esercitare funzioni di polizia e di autorità tributaria nell'area del principale mercato cittadino, essi avevano l'amministrazione degli edifici demaniali dell'isola di Rialto e della "riva de Moneda": curavano, pertanto, la loro assegnazione a privati che volessero utilizzarli ai fini della loro attività commerciale e riscuotevano gli affitti relativi; inoltre, dietro delibera del doge e del maggior consiglio, provvedevano al restauro degli stessi edifici, nonché alla loro alienazione. Infine, essi avevano il compito di assicurare la manutenzione della "riva de Moneda". Nel maggio del 1371 l'ufficio venne fuso con quello dei salinari da mar probabilmente perché la crisi del mercato realtino aveva reso superflua l'esistenza di un ufficio competente in via esclusiva della zona del mercato stesso: la giurisdizione degli ufficiali, comunque, passò ai salinari (184).
L'intervento del governo municipale nella cura e nell'amministrazione dei beni demaniali non si limitò, peraltro, all'attività degli uffici stabili ora ricordati: a loro vennero affiancate magistrature di carattere temporaneo, incaricate di volta in volta della soluzione di problemi particolarmente urgenti e rilevanti.
È questo, ad esempio, il caso delle numerose magistrature istituite nel corso del secolo XIV per la cura dei canali. Già nel 1284 risulta in funzione un "officium de supra canales" che sembra incaricato della pulizia degli stessi, in particolare della rimozione dei rifiuti che erano di ostacolo alla navigazione. Nel secolo successivo, poi, la materia fu disciplinata con grande attenzione. Il maggior consiglio vietò ai cittadini di piantare pali e palizzate per l'ancoraggio delle barche senza la propria preventiva autorizzazione; nel 1316 vietò ai tintori di lavare nei canali i panni tinti e di versarvi l'acqua della tintura; nello stesso anno adottò misure dirette a sollecitare ed a favorire lo spostamento delle botteghe dei tintori nelle aree periferiche della città dove l'esercizio del loro mestiere avrebbe comportato minori inconvenienti per la pulizia dei canali; sin dall'inizio del secolo vietò lo scarico di letame, immondizia e fango nei canali e stabilì pesanti pene pecuniarie per i trasgressori. Nel 1321, poi, i capisestiere compilarono la lista dei canali le cui rive avevano bisogno di restauri e di quelli che dovevano essere dragati per facilitarvi la navigazione (185). A questi provvedimenti si accompagnò la creazione di magistrature temporanee. Il 6 luglio 130 1 il maggior consiglio nominò "sex pro cavatione rivorum"; nel 1303 conferì a tre magistrati l'incarico di intervenire affinché i lavori di costruzione delle saline, iniziati dai Padovani, non procurassero danni alla laguna; nel 1324 procedette alla nomina di quattro savi sopra le paludi, con il compito di sorvegliare la pulizia delle acque, e di una commissione che organizzò ed eseguì i lavori di spostamento della foce del Brenta da Fusine a S. Marco di Lama al fine di conseguire un più sicuro equilibrio idrico dell'area lagunare sulla quale era stata edificata la città di Venezia (186).
Insieme con la cura dei canali, il governo municipale dedicò molta attenzione a quella del litorale. Sin dal 1281 sono attestati in attività "superstantes" con competenza sui lidi, mentre negli anni immediatamente successivi il comune lanciò la sottoscrizione di un prestito per raccogliere le somme necessarie alla risistemazione del litorale. Alla fine del Duecento, poi, affiancò i magistrati inviati nei principali centri lagunari - i podestà di Caorle, Chioggia, Poveglia, Malamocco e Pellestrina -, già competenti per la tutela dei lidi, con altri funzionari, indicati nei documenti come "illi de littore", i quali nel 1315 divennero stabili ed ebbero giurisdizione in materia di tutela del litorale (187). Nel secolo XIV la complessa materia fu oggetto di numerosi interventi da parte dei maggiori consigli municipali, in particolare della quarantia e del senato, mentre i magistrati "de littore" intensificavano la loro attività, tanto da articolarsi al loro interno in uffici con distinta competenza territoriale (188). Il 23 maggio 1399, infine, venne istituita la magistratura dei tre savi sopra i lidi, composta da tre ufficiali che erano affiancati da quattro nobili e duravano in carica un anno (189): una magistratura che l'Escobar definisce "prima struttura stabile" (190), ma che sembra piuttosto un perfezionamento del già esistente ufficio degli ufficiali "de littore" divenuto permanente - come si è detto - già nel 1315.
Dallo Splendor Venetorum civitatis consuetudinum di Jacopo Bertaldo apprendiamo che la tutela dell'ordine pubblico - funzione precipua della potestà unitaria del comune - spettava nella seconda metà del Duecento e nei primi anni del Trecento al doge, al suo consiglio e alla quarantia, i quali si avvalevano dell'opera di tre uffici, gli avogadori di comun, i signori della notte e i cinque savi della pace (191).
L'ufficio dell'avogaria di comun era - come ricorda il Ruggiero - "uno dei più antichi corpi del governo veneziano" (192) ed era titolare di un'ampia gamma di competenze in quanto difensore del diritto della comunità cittadina. Formata da tre magistrati che rimanevano in carica per un anno, l'avogaria controllava tutti i titolari delle magistrature e dei consigli municipali, valutava l'esercizio della loro attività ed aveva l'autorità di procedere alla loro incriminazione nei casi in cui avesse rilevato una loro violazione delle norme vigenti (193). Fungeva, poi, da pubblica accusa nei giudizi che si svolgevano davanti ai grandi consigli - il maggior consiglio, il senato e, in particolare, la quarantia - contro persone accusate di aver violato diritti del comune (194). Infine nella prima metà del secolo XIV l'avogaria fu corte di appello intermedio per i casi di giustizia male amministrata, cioè in merito a giudizi, sia civili sia penali, che si rivelavano fondati su norme errate o non applicabili al caso in questione (195): nel 1352 il maggior consiglio restrinse tale competenza al penale (196).
Vedremo meglio in seguito le procedure adottate dall'avogaria e le specifiche competenze giurisdizionali ad essa riconosciute. Qui ci limitiamo a sottolineare come sin dalla seconda metà del secolo XIII la giurisdizione a lei spettante in merito alla tutela dei diritti dei cittadini e del comune riguardasse anche l'ordine pubblico, con la conseguente potestà di procedere in giudizio contro chiunque lo violasse e di emanare disposizioni in materia.
Sotto questo aspetto, dunque, l'avogaria si affiancava ai signori della notte e ai cinque della pace, magistrature investite, più specificamente, di compiti di polizia. Abbiamo visto prima le funzioni riconosciute ai signori della notte in merito alla tutela dell'ordine pubblico: esse risultano sostanzialmente analoghe a quelle dei cinque della pace ai quali spettava di perlustrare le strade con la collaborazione di piccoli gruppi di custodes, di intervenire in caso di rissa e di punire in via diretta ed immediata quanti portassero con sé armi senza la relativa autorizzazione. E al pari dei signori della notte i cinque dovevano appartenere al patriziato (197).
Nel 1310, poi, fu istituito il consiglio dei dieci con il compito di colpire in maniera decisa quanti avessero aderito alla congiura promossa da Baiamonte Tiepolo e da Marco Querini o avessero, comunque, mostrato simpatie verso il complotto. Reso stabile in via definitiva nel 1335, il consiglio ebbe la funzione precipua di provvedere alla difesa della forma di governo affermatasi nel comune veneziano, nonché di garantire la tutela dell'ordine pubblico in città. La definizione delle sue competenze, comunque, non ebbe la conseguenza di ridurre la giurisdizione degli uffici precedenti, né, tanto meno, di eliminarli.
Gli avogadori, i signori della notte ed anche i cinque della pace - la cui attività è testimoniata indirettamente per tutto il Trecento dai numerosi ricorsi contro i provvedimenti da loro adottati (198) - continuarono ad operare, tenendosi ora in stretto rapporto con i dieci (199). Anche la nascita nell'agosto del 1319 dei capisestiere di nomina dei dieci lasciò inalterate le competenze degli altri uffici. I capisestiere in questione furono incaricati, in particolare, di registrare i nomi degli stranieri residenti in città, di provvedere all'espulsione di quanti fossero stati giudicati indesiderabili, di sorvegliare alberghi e taverne. Più tardi vennero posti al vertice di una gerarchia di funzionari locali, competenti in materia di ordine pubblico: a partire dal 1329 spettò loro la nomina dei capicontrada - due per ogni circoscrizione urbana e anch'essi patrizi (200) - i quali non furono più eletti dalla comunità locale ed ebbero da allora soprattutto compiti di polizia; dai capicontrada, infine, dipendevano le duodenae, i gruppi di dodici armati che pattugliavano le vie della contrada e rispondevano della loro azione direttamente ai capisestiere (201).
Le competenze dei capisestiere e dei funzionari a loro sottoposti si vennero, pertanto, ad intrecciare con quelle dei signori della notte - i quali continuarono ad essere autorità primaria nella tutela dell'ordine pubblico nel territorio urbano -, degli avogadori di comun - che conservarono la potestà di reprimere gli atti di violenza, di condurre la pubblica accusa contro quanti si fossero resi responsabili di violazioni dell'ordine pubblico, e di emanare disposizioni in materia (202), nonché dei cinque della pace. A queste magistrature deve, infine, essere aggiunta quella della giustizia nuova la quale aveva autorità sulla gestione delle taverne e, quindi, curava anche il rispetto dell'ordine pubblico in detti locali (203).
L'autorità municipale veneziana risulta particolarmente presente nel settore principale dell'economia cittadina, con una articolata gamma di interventi.
Innanzi tutto deve essere segnalata la sua autorità sull'ordinamento corporativo, autorità che era esercitata soprattutto da due uffici, la giustizia vecchia e i provveditori di comun (204).
Ufficiali designati con il titolo di giustizieri risultano attivi a Venezia sin dagli ultimi decenni del secolo XII con competenze in materia di tutela dei consumi e di repressione delle frodi commerciali. Nel secolo successivo la loro giurisdizione si estese alle organizzazioni di mestiere, limitandosi all'inizio a quelle che operavano nel settore alimentare ed ampliandosi poi a comprendere la maggior parte delle Arti. Tale giurisdizione prevedeva la competenza sulle vertenze di maggior contenuto economico insorte tra gli iscritti alla medesima Arte, nonché su quelle tra le varie organizzazioni, la potestà di approvare gli statuti corporativi e, quindi, di indicare le modifiche da introdurre negli stessi, l'autorità di ricevere da quanti entravano nella singola organizzazione di mestiere il giuramento con cui si impegnavano a rispettare le norme che la regolavano (205). Nel 1261 i giustizieri - che in origine erano stati cinque, poi erano stati ridotti a tre e infine erano divenuti sei - furono articolati in due uffici, quello della giustizia vecchia e l'altro della giustizia nuova: la competenza sulle organizzazioni di mestiere fu assegnata al primo, mentre il secondo ebbe giurisdizione sul commercio del vino e di conseguenza - come abbiamo visto - controllava le attività delle taverne e vegliava sull'ordine pubblico in questi locali (206).
La distinzione di competenze tra i due uffici si conservò immutata nel Trecento: la giustizia vecchia continuò ad esercitare la tradizionale autorità dei giustizieri sulla maggior parte delle Arti.
Dalla sua competenza, comunque, erano escluse le corporazioni attive nel settore della produzione della lana: nei riguardi di queste ultime avevano autorità i provveditori di comun - di cui si è già detto -, i quali vantavano una giurisdizione identica a quella spettante alla giustizia vecchia sulle altre Arti. Ai provveditori facevano capo i lanari, i tessitori di seta, i cappellari, i garzotti, i testori da lana, i merciai, i tintori e i berrettai (207).
Nella seconda metà del secolo XIV, poi, altre due magistrature si aggiunsero alla giustizia vecchia e ai provveditori di comun: nel 1347 i consoli dei mercanti - di cui parleremo meglio tra poco - assunsero la competenza sulle Arti della seta e dei panni di seta e d'oro (208), privandone i provveditori di comun, mentre nel 1367 i provveditori alle biade subentrarono alla giustizia vecchia nella giurisdizione sull'Arte dei panettieri (209).
Intimamente legata a ciascuna Arte era - come si è detto - una Scuola devozionale: quest'ultima, proprio a motivo di tale rapporto, era sotto il controllo della magistratura competente per la correlata corporazione. Anche le altre Scuole devozionali erano sottoposte all'autorità di istituzioni comunali: le Scuole piccole riconoscevano quella dei provveditori di comun, mentre le Scuole grandi erano controllate dal consiglio dei dieci (200).
Altro settore produttivo in cui costante fu l'intervento del comune è quello del commercio marittimo. Il principale ufficio in materia era quello dei consoli dei mercanti. Già ricordati nello statuto del doge Ranieri Zeno come magistratura preminente nella disciplina delle attività mercantili marittime, i consoli esercitarono sin dal secolo XIII piena giurisdizione civile e penale sull'intera materia contrattuale relativa a dette attività, ebbero supervisione della produzione tessile, autorità sull'esercizio del credito, diritto di essere consultati dal maggior consiglio - probabilmente insieme con i provveditori di comun - in merito alle scelte da adottare in materia di politica mercantile. Inoltre intervenivano nelle operazioni delle singole navi, stimando e definendo le capacità di carico di ciascuna e controllando, con visite personali, il rispetto dei limiti da loro stabiliti.
A partire dagli ultimi decenni del secolo XIII i consoli vennero affiancati dai già ricordati "domini super mercatoribus Levantis", detti correntemente "levanti", i quali a partire dal 1279 sostituirono i consoli stessi nelle ispezioni delle navi. All'inizio del Trecento, poi, i levanti cedettero parte di tale compito agli ufficiali di Rascia, di cui abbiamo già detto (211). Competenti erano anche i giudici del cattaver - istituiti nel 1280, resi stabili nel 1281 - la cui giurisdizione principale riguardava il recupero dei beni rivendicati dal comune, come le eredità abbandonate e i beni rinvenuti in mare o in terra, nonché la repressione del contrabbando dopo la loro fusione, nel 1292, con l'ufficio del ῾contrabando' (212).
Negli anni 1304-1330, secondo la ricostruzione proposta dal Lane, l'intervento degli ufficiali veneziani per la regolamentazione del carico delle navi si articolava variamente. Per le navi private non armate i consoli dei mercanti stabilivano l'ammontare del carico, mentre i levanti controllavano, con ispezioni, il contenuto del carico stesso, l'equipaggio della nave, le armi da questo portate, e i giudici del cattaver curavano il rispetto delle disposizioni concernenti il carico. Per quanto, poi, riguarda le navi armate, quelle private erano sottoposte all'ispezione degli ufficiali di Rascia, che controllavano carico, equipaggio e armi, mentre quelle comunali conoscevano le ispezioni di ufficiali di volta in volta nominati: per entrambe i giudici del cattaver curavano il rispetto delle regole stabilite dai consoli sopra i mercanti in merito al carico (213). Inoltre nel medesimo periodo i consoli dei mercanti persero una parte della loro originaria giurisdizione, dato che la conoscenza delle liti insorte tra il patrono della nave e i membri dell'equipaggio passò ai giudici del comun, o del forestier, la cui competenza principale riguardava le vertenze tra cittadini veneziani e stranieri (214).
Alla fine degli anni '20 l'autorità dei consoli fu ampliata con l'attribuzione, nel 1328, della competenza per i reati di furto e di appropriazione indebita commessi su ogni tipo di galera in viaggio lungo le rotte d'Oriente. Nel 1330, poi, la fusione tra i levanti e i giudici di Rascia introdusse una parziale semplificazione delle competenze. Nel 1351, infine, i consoli, insieme con la giurisdizione sulle Arti della seta e dei panni di seta e d'oro, furono investiti dell'autorità sui debitori insolventi, autorità che comprendeva anche l'adozione di provvedimenti detentivi nei riguardi di costoro (215): anche se si trattava di una competenza generale, essa finiva per essere esercitata con particolare attenzione nel settore del commercio marittimo.
L'organizzazione dei viaggi marittimi, come sappiamo, coinvolgeva anche la giurisdizione dei grandi consigli e di altri uffici. Così nell'organizzazione delle mude intervenivano il maggior consiglio e il senato, mentre i savi agli ordini definivano le regole che i convogli dovevano osservare durante il viaggio (216). Ancora, i viaggi di navi comuni appaltati a privati erano controllati dall'ammiraglio - magistrato dell'Arsenale - al quale competeva l'organizzazione della protezione armata del convoglio, mentre i privati vincitori dell'appalto erano tenuti a versare alla curia del proprio una somma a titolo di cauzione. Infine, la direzione delle spedizioni di vascelli comuni organizzate dal municipio era attribuita - come sappiamo - ad un funzionario dell'amministrazione comunale, che era indicato con il titolo di "patronus" e nei confronti del quale era responsabile il capitano che guidava il convoglio, mentre ufficiali straordinari controllavano il carico (217).
L'intervento del comune nell'organizzazione dei viaggi marittimi si avvaleva, inoltre, dell'opera di altri ufficiali, i savi agli ordini e gli ufficiali pagatori della camera dell'armamento. La prima elezione di cinque savi incaricati di definire le regole (= "ordini") per le mude in corso di preparazione avvenne - come si è già detto - in maggior consiglio l'8 marzo 1321. Da allora l'elezione fu ripetuta quasi costantemente ogni anno, tanto da rendere stabile la magistratura. La procedura dell'elezione dei savi prevedeva, nei primi anni, che il doge, insieme con i suoi consiglieri e i capi della quarantia, presentasse la lista dei candidati al senato e qui avvenisse la nomina; successivamente il senato assunse direttamente l'iniziativa della nomina senza attendere le proposte del doge. Inoltre nel corso del secolo XIV accanto ai savi nominati annualmente - che potrebbero definirsi "ordinari" - il senato nominò savi "straordinari", in genere in numero di tre, affidando loro funzioni specifiche. I savi erano chiamati a formulare il testo delle regole che le mude dovevano osservare e che doveva essere approvato dal senato: l'importanza di tale compito può essere colta nella delibera adottata dal maggior consiglio nel 1396 che imponeva ai savi eletti ad altra magistratura di non abbandonare il loro incarico (218). Gli ufficiali pagatori della camera dell'armamento fecero la loro comparsa sulla metà del secolo XIII: eletti in maggior consiglio in numero di tre, predisponevano l'armamento di navi di proprietà del comune secondo le disposizioni del doge e del minor consiglio. Quando dopo il 1325 si diffuse il sistema dell'appalto a privati di navi di proprietà comunale, la loro competenza si spostò soprattutto sulle navi da guerra (219).
Altro settore, infine, di intervento comunale era quello della costruzione di navi di proprietà della Repubblica. Le attività artigianali che si svolgevano presso l'Arsenale erano - come si è detto - sotto il controllo dei patroni all'Arsenal, istituiti poco prima della metà del secolo XIII. Secondo il loro capitolare, approvato nel 1302, essi erano eletti in maggior consiglio, potevano rimanere in carica fino all'età di settanta anni, erano responsabili per la custodia dell'Arsenale ed avevano la direzione tecnica dei cantieri (220).
L'autorità del governo comunale, peraltro, non si limitava ad interessarsi dell'organizzazione del commercio marittimo, ma si occupava anche della disciplina di altri aspetti del mercato. Obiettivi primari di queste forme di intervento appaiono quello di garantire alla comunità cittadina un adeguato approvvigionamento di prodotti essenziali - prodotti alimentari, materie prime, tessuti - e l'altro di equilibrare la domanda della medesima comunità con il quantitativo dei beni importati in modo da evitare una repentina crescita o una brusca caduta dei prezzi e da tutelare la produzione interna. Al conseguimento di tali obiettivi erano impegnati da un canto uffici con competenza generale in materia di importazione ed esportazione di merci, dall'altro magistrature con autorità limitata ad un singolo bene o ad un singolo settore produttivo.
Nella prima categoria particolare significato rivestiva l'ufficio dei visdomini. Istituito con ogni probabilità all'inizio del secolo XIII, esso venne riformato negli anni 1229 - 1248: i funzionari passarono allora da due a sei e la magistratura fu articolata in tre sezioni, i visdomini dei Lombardi, quelli da mar e quelli della ternaria. Competente nella complessa materia dei dazi sulle merci importate a Venezia o esportate dalla città, l'ufficio intrecciava la sua giurisdizione con quella di magistrature con autorità su singoli prodotti - come gli ufficiali del dazio del vino e gli ufficiali del frumento - senza che fossero segnati confini precisi tra le stesse, tanto che spesso il maggior consiglio era costretto ad intervenire per risolvere conflitti tra di loro. Al pari non del tutto netta era la distinzione tra le tre sezioni dell'ufficio, anche se ciascuna di loro vantava una giurisdizione ben caratterizzata: i visdomini dei Lombardi intervenivano sulle merci in entrata ed in uscita per le vie terrestri o fluviali; quelli da mar si occupavano dei prodotti trasportati via mare e, a partire dal 1268, anche di quelli del traffico - terrestre e fluviale - con il Friuli; quelli della ternaria avevano potestà su specifici prodotti, sottratti alla competenza delle due prime sezioni, prodotti che dopo il 1268 furono l'olio, il formaggio e la carne. I visdomini restavano in carica un anno. Nel secolo XIII, stando alla ricostruzione dello Zordan, non erano scelti tra i soli patrizi, dato che per accedere alla carica erano sufficienti i requisiti della maggiore età e della cittadinanza veneziana (221): tale eccezione al monopolio patrizio delle cariche comunali, generalmente consolidatosi dopo la Serrata, non sembra, però, trovare conferma nelle fonti per il Trecento.
Competenze in materia daziaria ebbero anche i già ricordati levanti, in particolare sul traffico commerciale con l'Oriente, e i visdomini del fondaco dei Tedeschi. La giurisdizione di questi ultimi riguardava l'attività dei mercanti tedeschi i quali avevano la loro base nell'ampio deposito-magazzino sito a S. Bartolomeo - e detto fondaco dei Tedeschi - dove custodivano le merci importate a Venezia o qui acquistate. Istituiti sulla metà del secolo XIII i visdomini sovrintendevano a tutte le operazioni commerciali che si svolgevano nel fondaco, mantenevano l'ordine pubblico all'interno di questo, riscuotevano dazi di importazione e di esportazione. Essi erano sottoposti al controllo dei consoli dei mercanti e si avvalevano della collaborazione di particolari mediatori d'affari - i sensali del fondaco, i quali dovevano intervenire in ogni transazione - e di un gastaldo che curava gli alloggi dei mercanti e il deposito delle loro merci. A differenza degli altri visdomini, essi furono scelti tra i nobili sin dal secolo XIII (222).
L'uso dei dazi di importazione per limitare l'entrata di merci straniere nel territorio veneziano non dovette, però, essere considerato sufficiente dal governo veneziano all'inizio degli anni '20 se il 5 agosto 1324 il senato deliberò che ciascun mercante potesse importare via mare un quantitativo di merci di valore non superiore a quello del suo patrimonio risultante dall'estimo elaborato ai fini del prestito pubblico. L'applicazione del provvedimento, che colpiva soprattutto i mercanti meno ricchi, fu affidata ad un nuovo ufficio, quello degli "officiales de navigantibus": costoro ricevettero l'autorità di imporre ai mercanti e ai patroni di rendere noto il quantitativo delle merci trasportate, di procedere al controllo delle dichiarazioni, di giudicare e condannare quanti avessero violato il provvedimento. I magistrati si comportarono con severo rigore e provocarono decise reazioni da parte dei mercanti di medio-bassa capacità economica: sensibile al malcontento che si andava diffondendo in città, il senato revocò il provvedimento entro lo stesso anno o, al più tardi, all'inizio del successivo. L'ufficio, comunque, si era dimostrato strumento efficace per il contenimento delle importazioni: perciò esso venne restaurato dal senato nel 1331 quando detto contenimento si rese indispensabile per tutelare la produzione interna. Per qualche anno l'ufficio rinunciò alla severità della prima esperienza, operando con maggior elasticità, ammettendo qualche eccezione e spingendosi a suggerire al senato l'adozione di modifiche in senso liberale delle norme sulle importazioni. Nel 1336, però, esso tornò alla precedente politica, provocando di nuovo il malcontento della cittadinanza. Il 1 o novembre 1 338 il senato abolì la legislazione restrittiva ed eliminò l'ufficio, questa volta in via definitiva anche perché la contrazione intervenuta nel traffico terrestre e fluviale, come conseguenza del conflitto tra Venezia e gli Scaligeri, rendeva ormai inutile il contenimento delle importazioni (223).
Uffici competenti per singole merci o per singoli settori di produzione completavano, poi, il quadro delle magistrature incaricate dell'imposizione daziaria e del controllo dei quantitativi di merci disponibili per la comunità cittadina.
In proposito vanno ricordati innanzi tutto gli uffici competenti per il sale e per il frumento. Per quanto riguarda il sale - come noto indispensabile anche per la conservazione di prodotti alimentari - per un lungo tempo il governo veneziano ebbe ad obiettivo il monopolio della produzione: nel secolo XIII intensificò quella delle saline di Chioggia ed istituì l'ufficio dei "Salinarii salis Clugie", la cui sede era a Rialto. La politica veneziana mutò all'inizio degli anni '80: il governo prese atto che la produzione di Chioggia non riusciva a far fronte alle necessità crescenti della comunità e spostò l'oggetto del suo monopolio dalla produzione alla vendita del sale, inaugurando una politica di incentivo alle importazioni da altre regioni del Mediterraneo. Venne allora istituito l'ufficio dei "Salinarii salis maris" cui spettò anche di mantenere stabile l'equilibrio tra i quantitativi importati e quelli prodotti internamente. Nel secolo XIV questo ufficio affermò la sua autorità sull'altro dei salinari di Chioggia e nel maggio 1371 venne unito dal senato con quello degli ufficiali sopra Rialto, di cui diremo tra poco e di cui assorbì le competenze (224).
L'ufficio competente per il frumento, poi, era fino alla metà del secolo XIV quello degli ufficiali al frumento. Nel 1349 venne istituito il collegio sopra le biade, composto non solo dai suddetti ufficiali, ma anche dai capi della quarantia. Troppo pletorico per essere efficiente, il collegio fu eliminato nel 1365: assunsero di nuovo autonomia gli ufficiali che furono sottoposti al controllo di tre magistrati temporanei, i provveditori alle biade, cui spettava anche di fissare il prezzo di vendita dei cereali, di punire chiunque ne facesse incetta, di giudicare le vertenze ed i reati commessi in materia, e di sovrintendere - come abbiamo visto - all'Arte dei panettieri. Dopo ripetuti rinnovi, l'ufficio fu reso stabile nel 13 75 (225).
Altro ufficio competente in materia di commercio dei cereali era, poi, la camera del frumento istituita nel secolo XIII con il compito di ottenere, attraverso prestiti di privati, le somme necessarie all'acquisto del quantitativo di cereali di cui la comunità cittadina aveva bisogno. Il prestito era garantito dal governo veneziano e rendeva un modico interesse: poteva essere stipulato senza limiti e senza formalità con cittadini veneziani, mentre gli stranieri dovevano essere autorizzati dal governo lagunare. Al momento della sua istituzione la camera era un banco privato che aveva bisogno dell'autorizzazione del maggior consiglio per ogni operazione mercantile. Tra gli ultimi anni del secolo XIII ed il 1314 essa si trasformò in ufficio comunale che agiva autonomamente: da allora operò per ampliare il numero dei creditori, ricercandoli non solo tra i cittadini residenti a Venezia, ma anche tra quelli che vivevano nelle colonie, nonché tra i titolari delle signorie padane (226). Gli ufficiali al frumento avevano autorità sui fonteghi delle farine di Rialto e di S. Marco, controllavano alcune Arti legate alla produzione del pane e furono affiancati, a partire dal 1349, dal collegio alle biade (227).
Il quadro delle magistrature veneziane con giurisdizione in materia mercantile è, infine, completato dagli uffici con competenza in alcuni particolari settori delle attività commerciali. In proposito vanno ricordati, innanzi tutto, gli ufficiali sopra Rialto, più volte citati in precedenza, particolarmente attivi nella prima metà del secolo XIV, nel momento, cioè, di maggior espansione del principale mercato cittadino. A loro spettava l'amministrazione degli edifici pubblici situati nella zona del mercato medesimo, l'attribuzione dei locali a privati appaltatori, la riscossione degli affitti, l'autorità di polizia nella zona. Nella prima metà del Trecento, in particolare, promossero importanti lavori di sistemazione e di razionalizzazione dell'area in vista di una migliore funzionalità degli "spazi commerciali" (228): tra il 1316 e il 1318 intervennero negli edifici della dogana e negli annessi magazzini, nel 1340 avviarono il restauro del palazzo Ducale e negli anni successivi promossero la risistemazione dell'Arsenale, la costruzione del faro del Lido, il trasferimento del deposito del grano a S. Biagio. Dopo la fusione con i salinari da mar le loro competenze passarono a quest'ultima magistratura (229).
Altro momento importante del commercio era la mediazione d'affari. L'autorità comunale vi interveniva con l'ufficio dei messeti, o mediatori, che risultano in funzione già nel 1278 e nel 1339 estesero la loro giurisdizione a tutte le compravendite di navi, case e terre a Venezia e nel Dogado. Essi controllavano il rispetto delle norme relative alla conclusione dei contratti e riscuotevano l'imposta sulla stipulazione degli stessi: tale imposta, riguardante in origine i soli contratti su beni mobili ed estesa nel 1338 anche a quelli sugli immobili, gravava in parti uguali sui contraenti (230).
L'autorità comunale, infine, non mancava di controllare l'attività dei banchi con sede nella zona realtina ai quali i mercanti facevano correntemente ricorso per finanziamenti: tali banchi erano detti nel Trecento "banchi di scritta" perché si avvalevano anche di impegni scritti in luogo di moneta corrente. L'ufficio competente era quello dei consoli sopra i mercanti: a lui il titolare del banco, una volta vinto l'appalto dei locali, era tenuto a presentare i suoi mallevadori (231).
Particolare impegno il comune di Venezia dedicò a questa materia, assumendola come parte significativa della jurisdictio municipale ed affidandone la gestione a due magistrature, i giudici del proprio e i procuratori di S. Marco.
I primi, la cui attività e le cui competenze sono ampiamente descritte da Jacopo Bertaldo nel suo Splendor (232), erano titolari - come componenti di una corte "diretta continuazione della curia ducis" (233) - di una larga giurisdizione: nominavano tutori per minori ed incapaci, imponevano la restituzione delle doti, curavano la successione dei cittadini defunti fuori del Dogado, provvedevano alle successioni ab intestato, controllavano l'attendibilità dei testimoni presentati nei giudizi civili e penali, avevano autorità in materia di trasferimento coatto di beni, custodivano i depositi versati, a titolo di cauzione, dai privati appaltatori di navi comuni (234), e forse avevano anche potestà in campo penale, potestà, però, che il capitolare duecentesco esaminato dal Roberti non sembra in grado di definire con precisione (235).
La competenza dei procuratori "de supra", poi, riguardava i minori e gli incapaci rimasti senza tutori. In astratto essa si distingueva da quella dei giudici del proprio perché consisteva nella valutazione dell'idoneità del parente più prossimo ad assumere la tutela del minore o dell'incapace in questione e, in caso di giudizio negativo, ad addossarsi direttamente l'onere di tale incarico. Di fatto la linea di demarcazione tra la giurisdizione del proprio e quella dei procuratori era incerta e non dovettero mancare casi di sovrapposizione tra i due uffici (236). Dal canto loro i procuratori "de subtus", nell'esercizio delle funzioni concernenti la gestione di patrimoni affidati all'ufficio, provvedevano all'amministrazione dei beni di minori e di incapaci sottoposti alla loro tutela.
Ciascuno degli ordinamenti particolari presenti a Venezia esercitava al suo interno la tutela delle norme che lo componevano. La giurisdizione unitaria del comune, dal canto suo, garantiva la tutela di tali ordinamenti, interveniva al loro interno per integrarne l'autorità, offriva piena tutela ai diritti che ciascun cittadino, in quanto appartenente alla generale comunità municipale, vantava nel quadro dell'articolata gamma cetuale prima ricordata. Tale protezione dei diritti, funzione primaria della jurisdictio municipale e ragion d'essere della stessa autorità del comune, era assicurata non soltanto dai grandi consigli e dal doge, ma anche da numerosi uffici.
L'avogaria di comun, in primo luogo, di cui si sono già indicate le competenze in merito al controllo dei titolari degli uffici e delle più elevate cariche, la funzione di pubblica accusa nei giudizi davanti ai grandi consigli, l'autorità di giudice d'appello per i casi di giustizia male amministrata. Si deve precisare che gli avogadori esercitavano la funzione di pubblica accusa non solo in difesa dell'autorità comunale contro le violazioni commesse dai singoli, ma anche per la tutela dei diritti dei cittadini contro altri cittadini (237).
Quando operavano come pubblica accusa gli avogadori seguivano una procedura che nel secolo XIV si articolava nei quattro momenti dell'accusa, dell'inquisitio e della stesura dell'intromissio - la relazione contenente i risultati dell'inchiesta -, della presentazione di detta intromissio ad uno dei grandi consigli e, infine, della proposta della pena da comminare all'accusato (238). Nel 1319 il maggior consiglio autorizzò gli avogadori a procedere anche contro quanti fossero appena sospettati di reato (239). Quanto alla loro funzione di corte d'appello si deve precisare che la stessa passò nel 1343 agli auditori di sentenze i quali nel 1349 la estesero anche ai territori del Dominio da Mar; nel 1352, però, fu restituita in parte agli avogadori, dato che costoro ebbero l'appello in campo criminale, mentre gli auditori conservavano quello in materia civile (240).
In quanto principali tutori del diritto cittadino gli avogadori nel 1306 ricevettero anche la potestà di intervenire alle riunioni dei grandi consigli per curare il rispetto delle norme vigenti. Inoltre nel 1310 il maggior consiglio conferì loro l'incarico di ordinare il complesso della legislazione veneziana in una raccolta unitaria da custodire presso la loro sede(241) e nel 1311 introdusse l'obbligo della presenza di almeno uno degli avogadori alle riunioni di ciascun consiglio come "requisito indispensabile di legittimità per le sedute in quanto gli [...> avogadori potevano subito accertarsi se qualche atto era viziato, sospendendone la validità" (242).
Giurisdizione criminale avevano, poi, i signori di notte i quali dopo il 310 dovettero coordinare la loro competenza con quella del consiglio dei dieci: conservarono, comunque, la potestà di arrestare gli accusati, compresi i titolari di uffici comunali responsabili di atti contrari alle norme che disciplinavano la loro magistratura, di multare i colpevoli di violazioni degli statuti corporativi, di presenziare alla tortura di accusati di crimini gravi, di condurre inchieste su sospetti di omicidio e di furto (243). Per i reati di usura, di eresia e di indebita appropriazione di beni di dominio comune erano competenti, invece, i giudici del piovego, che abbiamo visto incaricati della tutela delle vie di comunicazione (244).
In campo civile avevano autorità i giudici dell'esaminador cui spettava l'esame degli atti negoziali, sia in sede contenziosa, sia in sede extragiudiziale, e la loro approvazione mediante sottoscrizione. Essi, inoltre, partecipavano ai giudizi civili, procedendo all'esame dei testimoni, provvedendo ad attestare l'eventuale decesso degli stessi, autenticando le copie dei documenti addotti come prova (245). Le vertenze insorte tra cittadini veneziani e stranieri erano giudicate, poi, sia dai giudici del forestier, sia dalla curia di petizion.
Giudici del comune sono testimoniati sin dal 1179. Nel corso del secolo XIII essi si distinsero dai giudici del proprio, assumendo giurisdizione sulle cause tra cittadini e autorità comunale. Nel 1287 dai giudici di comun si distaccò la curia dei giudici del forestier, la cui competenza venne concentrata sulle vertenze tra cittadini veneziani e stranieri, mentre i giudici di comun conservavano la precedente giurisdizione (246). La curia di petizion, poi, istituita nel 1244 dal doge Jacopo Tiepolo, aveva il compito di esaminare tutte le petizioni presentate dai cittadini e di deliberare su vertenze per le quali era difficile richiamarsi all'applicazione di una norma vigente ed era opportuno costruirne una nuova. Pertanto la sua competenza si concentrò soprattutto in materia di rapporti commerciali, creditizi e patrimoniali complessi. Inoltre la curia ebbe la potestà di avocare a sé processi in corso presso altre corti di giustizia, nonché giurisdizione di appello per i casi di difetto di giustizia, casi che si avevano quando il giudice competente ometteva di prendere in esame la vertenza. Nel secolo XIV la curia si occupava anche di ruberie e di frodi ed aveva l'autorità di annullare atti e scritture notarili (247). Le cause di scarso valore economico erano di competenza della corte dei giudici de' mobili, o del men (248), mentre i giudici del cattaver si occupavano, come sappiamo, della ricerca e della tutela dei beni rivendicati dal comune (249).
Speciale giurisdizione, infine, avevano i procuratori di S. Marco "de subtus" e gli ufficiali alle razon di dentro e di fuori. I primi, come sappiamo, provvedevano all'amministrazione di patrimoni privati loro affidati da cittadini; fungevano anche da ufficio di depositeria nei confronti sia degli ufficiali finanziari del comune, sia di singoli cittadini. Presso di loro, infatti, veniva depositato il denaro riscosso da funzionari municipali a titolo di pena pecuniaria o di multa, il denaro raccolto dalle autorità comunali per ripianare il debito pubblico, quello percepito dai camerlenghi di comun e destinato al pagamento degli interessi del debito pubblico e all'ammortamento dello stesso. Venivano depositate anche somme di denaro privato - le cosiddette "commendationes" - debitamente iscritte in registri custoditi presso la stessa procuratoria, somme deliberate dal doge e dal minor consiglio, somme lasciate da signori e principi stranieri. Infine, conservavano i doni ricevuti dalla basilica di S. Marco, i lasciti ereditari a favore della Chiesa veneziana, le decime ad essa spettanti: di queste ultime curavano anche la distribuzione all'interno del clero nel rispetto delle norme canoniche. Per evitare che i procuratori fossero distratti dalle loro funzioni il maggior consiglio deliberò nel 1388 che non più di un funzionario per ciascuna sezione potesse ricevere incarichi esterni all'ufficio (250).
L'ufficio alle razon era magistratura di controllo contabile competente per tutti i funzionari, sia de intus sia de foris, che gestivano denaro pubblico. Istituito sulla metà del secolo XIII, esso verificava l'attività dei funzionari al termine del loro mandato ed aveva giurisdizione anche in materia di debito pubblico (251). Nel 1364 il maggior consiglio lo incaricò di imporre ai rettori di alcuni centri veneti - Asolo, Castelfranco, Novale e Mestre - il versamento regolare ai camerlenghi di comun del denaro da loro riscosso istituzionalmente; nel 1381 gli affidò la vigilanza sulla gestione di alcuni dazi; nel 1385 ne riconobbe l'autorità di promuovere azione giudiziaria contro i debitori del comune; nel 1389 confermò la sua giurisdizione contabile su tutti i funzionari di dentro e di fuori e nel 1394 lo incaricò di segnalargli i nomi dei funzionari che mancavano di assolvere con diligenza ai loro doveri d'ufficio. Nel 1395 o nel 1396 il numero degli ufficiali passò da quattro a sei: ufficiali alle razon nuove vennero allora ad affiancare i precedenti, detti ora alle razon vecchie (252).
Si deve, infine, ricordare che gli uffici competenti per le diverse corporazioni - la giustizia vecchia, la giustizia nuova, i provveditori di comun, i consoli dei mercanti, i provveditori alle biade - avevano competenza sulle vertenze di maggior contenuto economico insorte tra gli appartenenti all'Arte da loro controllata. È, questa, una forma particolarmente interessante di integrazione della giurisdizione particolare da parte di magistrature appartenenti alla giurisdizione unitaria del municipio.
Numerosi erano, infine, gli uffici che intervenivano nella gestione delle finanze comunali.
La coniazione spettava alla Zecca e riguardava monete d'argento e monete d'oro (253), le prime formate dal cosiddetto "grosso" - "un denaro d'argento a titolo 0,965 del peso di gr. ven. 42 1/4 (grammi 2,178)" (254) -, le seconde dal ducato aureo messo in circolazione a partire dal 1284 e di valore corrispondente a 18 grossi "a parità di peso e di fino con il fiorino aureo" (255).
La coniazione era affidata ai numerosi artigiani attivi presso la Zecca - maestri di stampe, intagliatori, fonditori, affinatori - e controllata da vari ufficiali, guidati dai massari (256) i quali, dopo l'entrata in circolazione del ducato aureo, furono distinti in massari dell'argento e massari dell'oro. I capitolari più antichi dei massari vennero compilati nel 1278 e contengono anche usi di epoca precedente: riguardano, come è ovvio, i soli massari dell'argento. I capitolari dei massari dell'oro furono approvati alla fine del secolo XIV (257). L'attività della Zecca era sottoposta al controllo dei soprastanti alla moneta (258). La politica monetaria del comune era decisa dai grandi consigli, in particolare fino al 1360 dal maggior consiglio e dalla quarantia - con prevalenza di quest'ultima -, mentre negli ultimi decenni del secolo il maggior consiglio divenne più marginale ed al contempo si affermò il senato, il quale dopo il 1390 riuscì ad assumere il ruolo primario, riducendo anche le competenze della quarantia (219).
Le entrate finanziarie del comune erano costituite innanzi tutto da tributi indiretti - rappresentati in via principale dai dazi sulle merci, dal monopolio del sale e di altri prodotti, dalla tassa sulla messetaria - e dalle entrate di giustizia. La riscossione spettava ai numerosi ufficiali competenti per ciascuna di tali funzioni. Ad essi si aggiunsero sulla metà del Trecento i camerlenghi di comun i quali nel 1354 (o 1368) - come si è detto - cominciarono a percepire con regolarità le entrate riscosse dai rettori di alcune località venete e dal 1381 vennero incaricati di riscuotere tutte le somme esatte, a qualunque titolo, dai funzionari veneziani (260).
Altra voce importante delle entrate cittadine era, poi, il prestito pubblico. Si trattava di un prestito forzoso, imposto su tutti i cittadini per un ammontare calcolato sulla base della ricchezza individuale risultante dal registro dell'"estimo". Nel 1262 il prestito, fino ad allora fruttifero e redimibile, era divenuto consolidato e il suo interesse fu fissato al 5% (261): nasceva, così, il primo Monte veneziano, le cui cartelle erano comunque alienabili e la cui amministrazione venne affidata alla già esistente camera degli imprestidi (262). Le ristrettezze finanziarie conosciute dal comune durante l'estenuante lotta con Genova indussero il governo lagunare prima a ridurre gli interessi al 4%, poi nel 1379 a sospenderne il pagamento (263). Il pagamento fu ripreso nel 1382 grazie all'istituzione di un fondo, alimentato da un incremento delle tariffe doganali e da un'imposta sul valore di stima degli immobili ed espressamente destinato a ripianare il debito pubblico ed a pagare gli interessi (264). Nel 1383, infine, venne acceso un nuovo prestito pubblico - che si affiancò al precedente, il quale di conseguenza, fu definito "vecchio" - per finanziare l'impresa di Tenedo: l'interesse fu fissato al 3% (265).
Nell'ordinamento finanziario veneziano - al pari di quanto avveniva negli altri municipi italiani - le imposte dirette avevano carattere eccezionale, a motivo della natura stessa del comune che, nato per tutelare il dominio pieno e libero dei cittadini e quindi la loro acquisizione dell'intero prodotto della proprietà, non poteva poi costringere gli stessi cittadini a cedergli parte delle entrate. Alle imposizioni personali, con altre di libera volontà, pertanto, si ricorreva solo in caso di bisogno collettivo al quale tutti i cittadini decidevano di far fronte con proprie contribuzioni: così accadeva a Venezia per il finanziamento di lavori pubblici o di fronte a situazioni di emergenza - come accadde nel 1382, quando ad esse si ricorse per rimpinguare le casse comunali esaurite dal conflitto contro Genova -, oppure in sostituzione del servizio militare (266). Durante la guerra di Chioggia, poi, fece la sua comparsa una particolare forma di tributo, la cosiddetta impositio, un'"anticipazione [...> garantita genericamente o specificamente su determinati redditi, ed infruttifera" (267), basata sulle risultanze dell'estimo e giudicata dal Cessi un "ponte di passaggio" tra prestito forzoso e imposizione diretta (268). Introdotta per la prima volta nel 1378 come anticipazione rimborsabile sull'imposta militare personale, venne ripetuta nel novembre 1381 per la durata di cinque anni, rinnovabile per altri cinque, per l'ammontare di un quinto sugli interessi del debito pubblico. Nuove impositiones furono introdotte negli anni successivi; una dello 0,5% sul valore di stima degli immobili in data non precisabile, un'altra del 3% nel novembre 1393 (269).
La giurisdizione relativa alla complessa materia del debito pubblico e delle impositiones spettava agli ufficiali alle razon: a loro il maggior consiglio confermò solennemente tale competenza nel 1383, preferendo tale soluzione all'altra dell'istituzione di una nuova magistratura (270).
La spesa comunale era, infine, deliberata dai grandi consigli - nel 1334 il maggior consiglio riconobbe competenza in materia anche al senato, alla quarantia e al consiglio dei dieci e nel 1359 autorizzò il minor consiglio a rilasciare ordini di pagamento (271) - mentre la sua amministrazione spettava ai camerlenghi di comun e ai savi di Terraferma. I primi operavano come cassieri del municipio ed erano, pertanto, i destinatari di tutti gli ordini di pagamento; avevano, altresì, l'autorità di proporre riduzioni di spesa (272). I secondi furono istituiti nel 1342: erano cinque e uno di loro - che aveva funzioni di tesoriere generale - era l'unico funzionario legittimato a rilasciare ordini di pagamento (273).
Il quadro sommario ora tracciato dei settori della jurisdictio municipale assegnati alla competenza degli officia de intus ci offre l'immagine di un'intensa partecipazione degli stessi alla vita della comunità e di un contemporaneo e costante impegno di numerosi patrizi nel funzionamento di tali istituzioni. L'organizzazione di detti uffici - tanto significativi per la comunità cittadina e tanto coinvolgenti per i nobili veneziani - risulta guidata da due principi. Da un canto ciascuno di loro era incaricato non già di un'unica funzione, bensì di compiti numerosi riguardanti aspetti della potestà unitaria del comune spesso molto distanti tra loro. Dall'altro, come conseguenza del primo principio, nessun ufficio poteva vantare una competenza esclusiva in un qualsiasi campo della giurisdizione municipale, ma aggiungeva la sua autorità a quella di altri e con questa la intrecciava; né, per lo più, tale sovrapposizione era accompagnata da una precisa linea di demarcazione tra le competenze. L'ordinamento dei suddetti uffici, allora, sembra caratterizzarsi non già per la ricerca di un funzionamento snello e rapido, quanto piuttosto per l'obiettivo di un costante e continuo controllo reciproco tra uffici e per il contestuale intervento, nella medesima materia, di numerosi funzionari appartenenti sia alla stessa magistratura sia a magistrature diverse.
La tutela dei diritti dei Veneziani, la difesa e lo sviluppo dei loro interessi economici dipendevano anche dalle comunità di cittadini residenti nei principali scali delle rotte adriatiche e mediorientali, dai possedimenti del comune in Istria, in Dalmazia, nell'Impero orientale e nelle isole dell'Egeo, nonché, a partire dal quarto decennio del Trecento, nell'entroterra veneto. Nelle suddette comunità e nei suddetti domini l'autorità unitaria del comune era rappresentata da magistrati i quali avevano sia il compito di assicurare la difesa dei diritti, delle persone e dei beni dei Veneziani membri di dette comunità, sia l'altro di armonizzare tali diritti ed interessi con quelli della madrepatria. Questi uffici nel secolo XIV erano riservati ai patrizi veneziani e la loro gestione era sottoposta al medesimo controllo che era previsto per gli uffici cittadini.
All'interno di tali uffici la storiografia suole distinguere, in base alla località della loro sede, tra quelli che appartenevano al Dominio da Mar e gli altri che riguardavano le località del Dogado, dell'Istria e della Dalmazia.
Gli ordinamenti veneziani del Dominio da Mar erano, a loro volta, di due tipi, le rettorie (o bailatus), costituite dalle comunità residenti in territori sottoposti alla giurisdizione di un'autorità locale, e i regimina, che erano veri e propri domini posseduti da Venezia in regioni e in isole del Mediterraneo orientale. Entrambi gli ordinamenti si rinvenivano sia nella cosiddetta "Romània", le regioni dell'Impero latino d'Oriente passate sotto il controllo o l'influenza veneziana soprattutto dopo la quarta Crociata, sia nelle terre d'Oltremare poste sulla costa mediorientale ed africana del Mediterraneo.
Secondo la ricostruzione elaborata dal Thiriet le rettorie veneziane erano costituite nel secolo XIV in Romània da quella di Corfù, diretta da un bailo; di Argo-Nauplia, guidata da un podestà almeno tra il 1389 e il 1394; di Tinos e Mikonos, sotto un bailo a partire dal 1390; di Costantinopoli, governata da un ballo; di Tenedo funzionante, sotto un rettore, solo negli anni 1373-1384; di Tessalonica, che dopo il 1324 risulta guidata da un console; di Trebisonda, sotto un bailo; ed infine della Tana, comandata da un console (274) In Medio Oriente e sulla costa africana, poi, funzionavano le rettorie di Acri, di Tiro, d'Armenia - sotto un bailo coadiuvato da consiglieri e da un camerlengo -, di Alessandria e di Tunisi, governate da un console. Infine una rettoria veneziana, guidata da un console, esisteva anche a Messina (275). Le rettorie erano, dunque, le forme istituzionali delle comunità di mercanti veneziani stanziate, lungo le rotte orientali, in importanti località nelle quali arrivavano sia i prodotti dall'entroterra, sia le merci trasportate dalla città lagunare e dove veniva fornita assistenza alle navi veneziane dirette in porti più lontani (276).
Più complessa era l'organizzazione dei regimina. Quelli più piccoli erano governati da castellani con funzioni di difesa del territorio, dei cittadini veneziani ivi residenti e dei loro diritti, mentre i maggiori - quello di Candia, riguardante l'isola di Creta, e quello del Negroponte, relativo all'antica isola di Eubea - erano detti regna ed avevano un ordinamento istituzionale più articolato.
Nel Negroponte la giurisdizione unitaria spettava ad un bailo che era coadiuvato da un consiglio e si avvaleva di un certo numero di uffici competenti sia in materia finanziaria e mercantile, sia nell'amministrazione della giustizia. A Candia, poi, il governo era esercitato da magistrature molte delle quali ripetevano nel nome le maggiori cariche veneziane. Al vertice, infatti, si trovava il duca che si avvaleva di un ristretto consiglio e di alcune assemblee, il consilium feudatorum, composto dai principali signori dell'isola, il quale nominava il maggior consiglio e il consiglio dei rogati, entrambi riservati ai soli cittadini veneziani (277). Inoltre nelle località di Sitia, Retimo e La Canea operavano rettori (278). Sin dal primo momento della conquista, nel 1210, nell'isola era stata introdotta dai Veneziani la divisione in sestieri, ciascuno dei quali era articolato in più turmae e queste, a loro volta, in castellanie. Il governo lagunare stimolò l'immigrazione di cittadini assegnando loro domini fondiari posti sotto la protezione delle castellanie: agli esponenti delle famiglie maggiori furono concesse ricche ed estese signorie in cambio del servizio militare di cavalleria, mentre ai popolari furono dati domini meno ampi e a loro venne richiesto il semplice servizio militare di fanteria (serventeria). Inoltre, al momento della conquista i Veneziani requisirono i patrimoni dei signori indigeni - gli archonti e i paroikoi -, ma in seguito li restituirono, almeno in parte, in cambio di un atto di formale accettazione del nuovo governo (279). La manodopera contadina era composta sia da liberi - indicati nei documenti come "habitatores franchi" -, sia da affrancati dal governo veneziano o da quello cretese, sia, infine, da non liberi che potevano essere "villani comunis" - avevano il diritto di risiedere in città - oppure "villani militum" - ed in tal caso erano tenuti a risiedere dove il loro signore disponeva (280).
In genere gli interessi della madrepatria e quelli dei regimina coincidevano. A Creta, però, nella seconda metà del Trecento scoppiò tra la colonia e Venezia un forte contrasto quando venne restaurato l'officum de navigantibus e il governo lagunare tornò alla precedente politica di limitazione delle importazioni di frumento che colpiva in maniera consistente gli interessi dei produttori cretesi (281).
I titolari di tutti gli uffici d'Oltremare erano nominati dal maggior consiglio tra i patrizi e dovevano aver raggiunto la maggiore età di venticinque anni. Al termine dell'incarico essi erano tenuti a presentare, entro due mesi, il rendiconto della loro amministrazione agli ufficiali alle razon. Inchieste su di loro potevano, inoltre, essere condotte sia dagli avogadori di comun, sia da speciali commissioni di sindacato, nominate dal senato, commissioni che risultano frequenti negli ultimi decenni del secolo XIV e i cui componenti sono a volte indicati con il titolo di "provisores" (282).
Dall'amministrazione di rettorie e regimina si distingue, infine, quella relativa alle comunità residenti nel territorio veneto, istriano e dalmata: Venezia garantì il rispetto delle consuetudini locali, ma allo stesso tempo estese i propri statuti (283) ed assunse le funzioni di giustizia e di difesa del territorio esercitandole per il tramite di magistrati da lei inviati i quali, al pari dei magistrati cittadini, avevano anche il potere di arbitrium. Così, Venezia inviava nella regione del Dogado podestà a Chioggia, Loreo, Caorle e Torcello, in Istria rettori-podestà nei centri maggiori come Capodistria, Isola, Parenzo, Pola, Montone, Pirano, e minori, come Valle e Umago' (284), in Dalmazia ufficiali con diversi titoli, come il conte di Ragusa - attivo fino al 1358 quando Venezia perse il dominio della città -, il conte di Zara, il conte di Ossero, il podestà di Farra e Brazza, il capitano e castellano di Almissa (285). L'amministrazione della giustizia da parte di magistrati veneziani, l'uso del loro potere di arbitrium, l'automatica estensione degli statuti lagunari ai centri dogali, istriani e dalmati, insieme con il sensibile avvicinamento tra gli interessi di detti centri e quelli veneziani, ebbe la conseguenza di favorire la graduale recezione del diritto della città dominante da parte di quello locale (286).
Nel Trecento, infine, Venezia inaugurò con la conquista di Treviso nel 1339 il governo di Terraferma. Treviso aveva conosciuto un ordinamento municipale fino all'instaurazione della signoria dei da Camino nel 1283, signoria che era durata fino al 1312 per essere sostituita prima dal ritorno del governo comunale, poi, nel 1320, dalla signoria del conte Enrico di Gorizia, infine, dal 1329, da quella degli Scaligeri. Venezia trovò, dunque, già in funzione in città una sorta di governo diarchico - costituito dal signore e dalle istituzioni comunali - e si limitò a sostituire il signore all'interno di tale governo. Il suo rappresentante - il rettore - subentrò al podestà e capitano signorile, mentre rimanevano immutati gli uffici municipali. Fu allora conservata la divisione delle entrate fiscali precedentemente in vigore tra il comune e il signore: Venezia affidò l'amministrazione della propria quota ad ufficiali da lei stessa inviati, i quali erano sottoposti, al termine dell'incarico, al controllo degli ufficiali alle razon (287). Inoltre se nel documento di dedizione, formalizzato nel 1344, Treviso riconobbe a Venezia la potestà "di disporre di ogni bene, dominio, legge e competenza del comune", sin dal 1339 aveva ottenuto dalla stessa la conferma degli statuti cittadini (288). Anche a Treviso, dunque, Venezia seguì la politica di equilibrio tra il rispetto dell'ordinamento locale e l'inserimento di questo nella giurisdizione unitaria a lei spettante. Tale equilibrio risulta evidente nell'indirizzo adottato in merito all'applicazione della legislazione veneziana nel comune trevigiano. Le norme approvate dai consigli lagunari per questo comune, infatti, si affiancarono agli statuti senza sostituirli e formarono un corpo separato di "provisiones ducales" che provocarono quella che il Varanini definisce "una riforma statutaria strisciante" (289), una riforma - cioè - non già imposta in modo autoritario, bensì gradualmente recepita man mano che le nuove norme mostravano la loro utilità alla cittadinanza. Tale riforma appare favorita sia dall'esercizio del potere di arbitrium da parte del rettore (290), sia dall'attività dei giudici d'appello veneziani la cui presenza a Treviso e nel contado è attestata a partire dal 1367 (291). Un intervento più significativo, invece, Venezia operò nel contado trevigiano, dove eliminò le precedenti istituzioni introdotte dal comune per garantire la dipendenza del territorio dalla città (292) e le sostituì con magistrature da lei direttamente nominate (293).
"La costituzione veneziana è intrecciata e articolata in modo particolarissimo. Ricorda la struttura della chiesa di S. Marco, con le sue cinque cupole, arcuate e splendenti allo stesso modo, attraverso le quali la luce penetra nel vasto duomo; delle quali però una è più grande, più larga, più alta e fa penetrare più luce, mai tanta tuttavia da fare veramente giorno". La celebre rappresentazione del governo veneziano formulata dal Ranke in riferimento alla realtà istituzionale del Cinquecento (294) può essere usata anche in relazione all'ordinamento comunale del secolo XIV quando, con la creazione del consiglio dei dieci, si completò il quadro delle assemblee che insieme con il doge guidavano l'amministrazione della complessa jurisdictio municipale veneziana ed erano destinate a rimanere in vita fino alla caduta della Repubblica. Il doge, infatti, era affiancato - come è noto e come abbiamo più volte detto - dal minor consiglio, dal maggior consiglio, dal consiglio dei quaranta - o quarantia -, dal consiglio dei pregadi - o dei rogati, o senato - e, infine, dal consiglio dei dieci.
L'immagine usata dal Ranke non si limita ad indicare il numero delle grandi assemblee cittadine, ma ha anche l'obiettivo di sottolinearne l'identità delle funzioni. Come le cinque cupole contribuiscono, con uguale apporto, all'abbellimento ed alla decorazione della Basilica, nonché alla sua suggestiva illuminazione, così i cinque consigli sono partecipi, alla stessa stregua, della gestione della jurisdictio municipale: tra quelle non c'è differenza di funzioni architettoniche, tra questi non c'è diversità di funzioni istituzionali. Si è visto prima come la complessa jurisdictio municipale comprendesse, intimamente intrecciate, potestà che negli ordinamenti odierni sono divise tra la sfera del legislativo, del giudiziario e dell'esecutivo. I consigli veneziani prendevano tutti parte, allo stesso titolo e senza riserve di competenza esclusiva, all'esercizio di tale jurisdictio nel quale intervenivano anche - come sappiamo - i numerosi officia cittadini: la specifica competenza in singole materie, che caratterizza gli officia nei confronti dei consilia, non si rinviene tra questi ultimi i quali risultano tutti legittimati all'esercizio dell'intero complesso di potestà rientranti nella giurisdizione comunale.
Al tempo della sua fondazione il comune di Venezia era retto dal doge, erede dell'antica autorità del duca bizantino, dal suo ristretto consiglio - il minor consiglio -, dal più ampio maggior consiglio e dalla concio popolare, l'assemblea che riuniva tutti gli abitanti. Agli inizi del secolo XIV tale quadro istituzionale era radicalmente mutato: la concio popolare era scomparsa, l'autorità del doge era stata profondamente ridimensionata, l'esercizio della jurisdictio comunale spettava in maniera prevalente al maggior consiglio il quale si avvaleva della collaborazione di consigli più ristretti, da lui nominati e quindi funzionanti come sue commissioni, il consiglio dei quaranta - cioè - e quello dei pregadi.
Investito di alta autorità formale, quale primo magistrato del comune, il doge continuò a svolgere nel Trecento compiti sostanziali di sicuro rilievo. Convocava e presiedeva il consiglio ducale - o minor consiglio, composto da sei membri in rappresentanza dei sestieri in cui la città era divisa - e da solo, o con la collaborazione di questo, poteva legittimamente intervenire in ogni campo dell'amministrazione comune in cui la sua autorità fosse stata richiesta o fosse a lui sembrata necessaria. Presiedeva, inoltre, il maggior consiglio e il senato, prendendo parte attiva ai lavori delle due assemblee, faceva parte, insieme con i suoi consiglieri, del consiglio dei dieci, era riconosciuto come autorità superiore di controllo e di vigilanza su tutti gli uffici ed i comitati attivi a Venezia, partecipava in diverse forme alla scelta dei titolari di molte magistrature (295).
Alla fine del Duecento il maggior consiglio costituiva l'istituzione centrale del governo lagunare. La Serrata del 1297, come sappiamo, ne riservò l'accesso ad alcune categorie di cittadini, mantenendo in funzione, comunque, alcune procedure di elezione all'assemblea. Tali procedure furono eliminate dalla riforma del 1319 - di cui abbiamo parlato in precedenza - la quale trasformò il consiglio nella riunione di tutti i nobili di maggiore età. Secondo la prevalente storiografia tale trasformazione avrebbe avviato la decadenza del consiglio stesso, il quale da centro del governo comunale sarebbe gradualmente passato al ruolo di assemblea elettiva degli altri consigli assurti nel frattempo a principali organi istituzionali in virtù della loro più snella composizione e della conseguente capacità di adottare in tempi rapidi le loro decisioni ed eseguirle con efficienza (296). In realtà anche dopo il 1319 il maggior consiglio risulta istituzione primaria dell'ordinamento veneziano, titolare di funzioni sostanziali in tutti i settori della jurisdictio municipale ed al contempo assemblea nella quale tutti i membri del patriziato trovavano la sede per intervenire a difesa dei loro diritti in maniera diretta ed immediata, senza passare per alcuna mediazione. Le numerose serie delle delibere adottate dal maggior consiglio nel Trecento - molte delle quali sono ancora inedite, ma sono state per più versi illustrate dagli studi più recenti - lo attestano assemblea nella quale il patriziato giudicava le vertenze insorte tra cittadini, concedeva grazie, adottava delibere generali cogenti per tutta la comunità cittadina, prendeva le decisioni più importanti di politica interna ed estera, nominava i componenti degli altri consigli, degli uffici, delle magistrature temporanee, delle commissioni, delle ambascerie (297),
La più antica delle assemblee nate come commissioni del maggior consiglio era la quarantia, che risulta in funzione sin dalla prima metà del secolo XIII: nella seconda metà del Duecento essa aveva assunto in via stabile la funzione di principale corte di giustizia civile e penale, di giudice d'appello per giustizia denegata o male amministrata (298), di principale autorità in materia economica e monetaria (299), di istituzione di controllo sul funzionamento degli altri consigli e degli uffici (300): come principale corte di giustizia, svolgeva anche un'intensa attività legislativa (300).
Sulla metà del Duecento, probabilmente prima del 1255, venne istituito anche il consiglio dei pregadi, composto di sessanta membri: secondo il Cessi esso nacque soprattutto per regolare la materia dei traffici mercantili (302). Negli anni successivi, poi, la sua competenza conobbe una sensibile espansione e si venne ad intrecciare con quella della quarantia, tanto che nel 1268 il maggior consiglio decise che pregadi e quarantia si riunissero insieme quando dovevano essere trattate e risolte questioni particolarmente importanti e delicate per la comunità veneziana: e la decisione venne ribadita nel 1292. Dopo la Serrata i due consigli continuarono ad estendere il loro intervento, sostituendosi al maggior consiglio e confermando le riunioni congiunte per la trattazione delle materie più impegnative. Nei primi decenni del Trecento tale situazione si sviluppò nel senso che la quarantia cominciò a perdere competenza sulle scelte di politica generale, mentre consolidava la sua autorità in campo giudiziario. Detta evoluzione risulta già in fase matura nel 1338 quando il maggior consiglio parlava del senato come dell'assemblea preminentemente impegnata nelle decisioni più importanti per il comune (303). Inoltre il senato affiancò a partire dal 133 I la quarantia nella gestione della materia monetaria (304): nel 1390 assunse la guida della materia medesima, mentre la quarantia e il maggior consiglio mantenevano al riguardo la potestà di concedere grazie e quella di disciplinare gli uffici competenti (305).
Il senato, dunque, emerse gradualmente nel corso del secolo XIV come principale consiglio veneziano. Alcuni provvedimenti contribuirono alla sua affermazione. Il maggior consiglio, che ascoltava il suo parere prima di procedere ad ogni delibera, gli assegnò nel 1318 la potestà sulle commissioni di controllo degli ufficiali attivi in Oriente, nonché la vigilanza sui porti della Romània, dell'Istria e della Dalmazia; nel 1323 l'autorità di concedere la cittadinanza veneziana per privilegio; nel 1324 il compito di inviare lettere commendatizie al pontefice per la nomina dei dignitari della Chiesa veneziana; nel 1327 la competenza in materia di rappresaglia; nel 1348 l'incarico di adottare tutti i provvedimenti atti a favorire il ripopolamento della città e del Dogado dopo la diffusione della Peste Nera; nel 1363 l'autorità in materia di guerra; nel 1381 l'ispezione sulla leva militare; nel 1383 la giurisdizione sui dazi di Terraferma; nel 1385, infine, il potere di esercitare le proprie funzioni senza interferenze di altri consigli né pretese di avocazione da parte di questi, con la sola eccezione dello stesso maggior consiglio (306).
L'ascesa conosciuta dal senato nel corso del Trecento, tuttavia, non deve essere letta come il risultato di un contrasto istituzionale tra lo stesso e gli altri consigli. Al riguardo, infatti, appare necessario sottolineare che né il maggior consiglio né la quarantia furono formalmente private delle competenze assunte dai pregadi: al contrario, questi due consigli continuarono ad essere titolari della giurisdizione loro spettante tradizionalmente, ad intervenire quando era opportuno, a sovrapporsi al senato nella trattazione di più materie. Inoltre, le tre assemblee non esprimevano gruppi sociali distinti, né avevano membri diversi: la quarantia e il senato, come si è detto, erano commissioni del maggior consiglio, di modo che i loro componenti altri non erano che membri del maggior consiglio (307). Infine, si deve ricordare che l'incremento delle competenze del senato fu accompagnato da un allargamento della sua composizione; e accanto ad un numero crescente di membri del maggior consiglio, entrarono a farne parte anche membri della quarantia, i componenti del minor consiglio, quelli del consiglio dei dieci, nonché titolari di officia, come gli avogadori di comun, i provveditori del sal, ed altri (308). A partire dagli anni del dogado di Lorenzo Gelsi (1361-1365) il senato fu affiancato da una commissione straordinaria - detta "zonta" - composta da venti patrizi scelti per cooptazione dal senato e nominati dal maggior consiglio: la zonta, che interveniva in caso di questioni di particolare rilievo, ben presto divenne stabile (309).
In sostanza sembra potersi dire che i rapporti tra maggior consiglio, senato e quarantia non possono essere valutati col metro delle relazioni tra istituzioni tra loro distinte e in competizione. Si trattò, al contrario, nella sostanza dell'articolazione interna al medesimo consiglio, che cercava di distribuire i suoi lavori ed i suoi impegni tra l'assemblea generale e le commissioni in cui la stessa si articolava, trovando aggiustamenti ed equilibri di volta in volta diversi, in dipendenza dalle esigenze che andavano maturando nella gestione della potestà unitaria del comune.
Come commissione di savi scelti e nominati nel suo seno dal maggior consiglio nacque anche l'ultimo - in ordine di tempo - consiglio veneziano, quello dei dieci. Dopo esser riuscito a reprimere la congiura promossa nel 1310 da Baiamonte Tiepolo e da Marco Querini contro la forma di governo affermatasi nel comune una congiura che aveva mirato a spezzare gli equilibri faticosamente raggiunti all'interno del ceto patrizio e aveva ancora una volta riproposto il pericolo di una soluzione signorile dei contrasti interni -, il maggior consiglio provvide in un primo momento direttamente alla punizione dei colpevoli. Ben presto, però, decise di procedere in maniera più radicale e di recidere alle radici tutti i possibili legami allacciati dai congiurati con altri patrizi. Istituì allora, in data 10 luglio 1310, il consiglio dei dieci, come corte di giustizia provvisoria che avrebbe dovuto svolgere accurata inchiesta sulla diffusione ramificata della congiura e punire tutti i cittadini a qualunque titolo coinvolti. Il consiglio doveva durare in carica fino al giorno di s. Michele dello stesso anno, ma con ripetuti rinvii venne conservato in vita fino al 1335 quando, con delibera del 20 luglio, il maggior consiglio lo trasformò in corte stabile.
Composto da dieci consiglieri, tutti appartenenti al maggior consiglio, dal doge e dai suoi sei consiglieri, da almeno uno degli avogadori di comun - il quale non partecipava al voto, ma fungeva da pubblica accusa e con la sua presenza conferiva validità alla riunione della corte stessa - il consiglio dei dieci fu nella prima metà del Trecento autorità direttamente impegnata nella tutela della pace sociale e dell'ordine pubblico. La sua giurisdizione, allora, pur presentando specifici contenuti nella repressione dei crimini politici e nell'esercizio dell'attività di polizia, non si limitava a questo settore, ma poteva estendersi ad ogni altro campo della jurisdictio comunale quando entravano in gioco motivi di salvaguardia della forma di governo e del pacifico convivere della cittadinanza. Di conseguenza i dieci non soltanto erano in stretto rapporto con gli uffici espressamente incaricati delle funzioni di polizia, dei quali abbiamo parlato in precedenza, ma avevano autorità anche su altre istituzioni. Così, fu loro affidato il controllo delle Scuole grandi, o dei Battuti, le quali, come si è detto, svolgevano un'intensa attività nel campo devozionale e caritativo ed erano composte sia da laici, sia da ecclesiastici: spettò ai dieci l'autorizzazione per l'apertura di nuove Scuole, la concessione ai cittadini del permesso di fare parte sia delle vecchie sia delle nuove, nonché il controllo costante sulla loro attività (310). E tale larga competenza, che andava ben oltre la mera funzione di polizia a tutela dell'ordine pubblico e a difesa del sistema di governo, venne chiaramente definita nella seconda metà del Trecento, quando il maggior consiglio riconobbe ai dieci una pluralità di compiti che finivano per affiancarli alla quarantia e al senato nella gestione della jurisdictio comunale (311). E nella seconda metà del Trecento il consiglio conobbe anche un allargamento della sua composizione. Nel 1355 nel corso del processo intentato contro gli aderenti alla congiura promossa dal doge Marino Falier (312) al consiglio fu aggiunta, in via temporanea, una zonta con funzioni consultive. L'anno successivo la zonta divenne stabile e da allora fu composta da venti membri, scelti dai dieci tra i membri del maggior consiglio e da quest'ultimo nominati; essa si affiancava ai dieci quando il consiglio trattava questioni di particolare gravità e di maggior interesse politico (313).
La sommaria ricostruzione dell'ordinamento veneziano e delle sue principali istituzioni qui condotta consente alcune considerazioni.
L'autorità unitaria del comune garantiva sin dall'origine a tutti i cittadini la tutela di un diritto privato di proprietà particolarmente pieno ed esclusivo ed una completa libertà contrattuale e mercantile. A partire dalla metà del Duecento, inoltre, la medesima autorità unitaria aveva accresciuto il suo ruolo di protezione e di difesa degli ordinamenti particolari in cui la comunità veneziana si articolava, svolgendo una significativa funzione complementare ed integrativa dell'organizzazione interna di ciascuno di loro ed acquisendo, come corrispettivo, una nuova autorità nei loro confronti. La jurisdictio municipale, dunque, aveva assunto a partire da allora un'importanza decisiva sia per ciascun cittadino, sia per ciascun ordinamento particolare. Dalla fine dello stesso secolo la gestione di detta jurisdictio venne formalmente riservata ad un preciso ceto giuridico, quello del patriziato, con la conseguente esclusione degli altri cittadini. Il gruppo di famiglie che componevano il ceto nobile perfezionò una forma di governo che, riprendendo l'antica tradizione veneziana di opposizione al prevalere di un signore o di una singola consorteria, garantisse a tutte di partecipare alla gestione della potestà municipale.
Se alla luce di queste considerazioni torniamo a prendere in esame il problema da cui abbiamo preso le mosse - l'individuazione, cioè, dei meccanismi istituzionali nei quali si espresse la forma cosiddetta "mista" del governo veneziano, fonte della celebrata "pax et quies" del regime lagunare e quindi fondamento del "mito" di Venezia - possiamo dire che detti meccanismi, costruiti dai principali esponenti del patriziato veneziano - e condivisi dalla maggior parte dei suoi componenti - per conseguire questo obiettivo, erano di estrema semplicità. Essi prevedevano al vertice la presenza, accanto al doge, di cinque consigli con competenze indefinite, tutti allo stesso titolo partecipi dell'amministrazione di ogni potestà compresa nella jurisdictio municipale.
Insieme con il doge e i cinque grandi consigli operavano, poi, numerosi uffici che si caratterizzavano per il pluralismo delle competenze e per la sovrapposizione delle giurisdizioni. Ogni materia rientrante nell'autorità unitaria del comune, allora, vedeva la contemporanea giurisdizione del doge, dei cinque consigli e di un numero consistente di uffici. Di conseguenza nella medesima materia intervenivano allo stesso tempo molti patrizi, ciascuno dei quali aveva la possibilità concreta di controllare e valutare l'intervento degli altri, prevenendo ed evitando in tal modo lesioni dei propri diritti e accrescimenti indebiti dei diritti altrui.
La forma di governo veneziano, allora, si proponeva una partecipazione paritetica delle grandi famiglie alla gestione dell'autorità comunale, a differenza degli altri comuni ove le famiglie dell'oligarchia erano divise in consorterie ciascuna delle quali cercava di allontanare le altre dal governo, se non dalla stessa comunità cittadina. La definizione del ceto giuridico del patriziato ebbe l'effetto di tradurre in termini formali quell'esclusione di una parte della cittadinanza dal governo che si ritrova anche in tutti gli altri municipi, ma affidata soltanto al libero gioco delle forze economiche e politiche. E una volta raggiunta tale definizione formale, le famiglie nobili non proce dettero ad ulteriori divisioni al loro interno. Tra di loro si ebbe - almeno in linea di principio - una piena compartecipazione al governo, una "democrazia", che altrove non risulta ricercata. Una "democrazia" che era certamente attenuata nei fatti dalle differenze esistenti, sotto il profilo economico e sotto l'altro del prestigio sociale, tra le famiglie del patriziato, ma che sul piano formale era in vigore perché quelle differenze di sostanza non rilevavano giuridicamente. Una "democrazia", peraltro, che facilmente poteva sposarsi con la "monarchia" del doge e l'"aristocrazia" del senato, perché questi esprimevano non solo la gerarchia di fatto esistente all'interno del patriziato, ma anche, e soprattutto, l'esigenza di funzionamento più snello dell'apparato di governo. Doge e senato non rappresentavano ceti, gruppi od ordinamenti particolari alternativi a quelli che si ritrovavano nel maggior consiglio, dato che i componenti dei consigli e il doge provenivano tutti dal medesimo ceto, tutti facevano parte della principale assemblea cittadina, tutti si avvalevano dei meccanismi di controllo reciproco che guidavano l'attività degli uffici.
I numerosi episodi di contrasto tra famiglie attestati dalle fonti trecentesche ed in particolare le due gravi crisi politiche espresse dalle congiure del 1310 e del 1355 stanno a dimostrare che la forma di governo affermatasi nel comune non riuscì ad eliminare tutte le rivalità tra patrizi, né a conseguire il consenso unanime degli stessi. Una conclusione, questa, che risulta ampiamente confermata dall'impegno di numerosi uffici nella tutela dell'ordine pubblico e nella difesa del regime politico, nonché dall'istituzione del consiglio dei dieci e dalla sua successiva trasformazione in corte stabile: il pericolo di contrasti tra famiglie e quello di azioni dirette a rovesciare il governo e a sostituirlo con forme istituzionali signorili erano ben presenti al ceto dirigente veneziano, il quale si dotò di strumenti idonei a prevenirli e a combatterli.
Ma al di là dei casi concreti di contrasti e di congiure resta il dato evidente dell'obiettivo di solidarietà e di congiunto, reciproco controllo cui consigli ed uffici tendevano nell'esercizio della jurisdictio comunale. Tale obiettivo venne esaltato come supremo ideale del comportamento civile, al fine di rafforzare la passione dei nobili veneziani nell'esercizio del governo municipale. Non si trattava, comunque, di una mera mistificazione priva di qualunque fondamento di sostanza, ma, al contrario, di un principio che concretamente guidava il funzionamento delle istituzioni veneziane. E d'altro canto si deve riconoscere che, se non mancarono conflitti interni, certamente i momenti di concordia furono ben più numerosi.
Il "mito" di Venezia, dunque, risulta avere un sicuro fondamento nella forma di governo che prevalse in città a partire dalla metà del Duecento e che si consolidò definitivamente nel secolo successivo. Questo "mito" trovò il suo presupposto nel significato decisivo che a quest'epoca la jurisdictio municipale aveva assunto sia per ogni singolo cittadino, sia per ciascun ordinamento particolare della comunità lagunare; trovò, altresì, la sua realizzazione nei meccanismi di competenza congiunta e di reciproco controllo che caratterizzarono in maniera particolare l'esercizio di quella jurisdictio da parte dei grandi consigli e degli uffici.
1. In proposito ci limitiamo a ricordare Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, I, Bergamo 1927; Roberto Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, I, Milano-Messina 1944, pp. 270 ss.; Juan Beneyto Perez, Fortuna de Venecia. Historia de una fama politica, Madrid 1947; Gina Fasoli, Nascita di un mito, in Studi in onore di Gioacchino Volpe, I, Firenze 1958, pp. 447-479 (poi in Ead., Scritti di storia medievale, a cura di Francesca Bocchi - Antonio Carile - Antonio Ivan Pini, Bologna 1974, pp. 445-472); Helmut G. Koenigsberger, Decadente or Shifts.? Changes in the Civilization of Italy and Europe in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, "Transactions of the Royal Historical Society", ser. V, 10, 1960, p. 10 (pp. 1-18); Franco Gaeta, Alcune considerazioni sul mito di Venezia, "Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance", 23, 1961, pp. 58-75; Iris Origo, The World of San Bernardino, New York 1962, p. 155; Nicolai Rubinstein, Marsilius of Padua and Italian Political Thought of His Time, in Europe in the Late Middle Ages, a cura di John R. Hale et al., Evanston (Ill.) 1965, pp. 60, 63 (pp. 44-75); Felix Gilbert, The Venetian Constitution in Fiorentine Political Thought, in Florentine Studies: Politics and Society in Renaissance Florence, a cura di Nicolai Rubinstein, London 1968 (trad. it. La Costituzione veneziana nel pensiero politico fiorentino, in Id., Machiavelli e il suo tempo, Bologna 1977, pp. 115-167), pp. 466-468 (pp. 463-500); William J. Bouwsma, Venice and the Defence of Republican Liberty: Renaissance Values in the Age of the Counter-Reformation, Berkeley-Los Angeles 1968 (trad. it. Venezia e la difesa della libertà repubblicana. I valori del Rinascimento nell'età della Controriforma; Bologna 1977), pp. 43, 53, 65, 70, 95; Felix Gilbert, Religion and Politics in the Thought of Gasparo Contarini, in Action and Conviction in Early Modern Europe, a cura di Theodore K. Rabb-Jerrold E. Seigel, Princeton (N.J.) 1969, p. 111 (pp. 90-116); Hugo Buchthal, Historia Troiana. Studies in the History of Medieval Secular Illustration, London-Leiden 1971, p. 58; Stanley Chojnacki, Crime, Punishment and the Trecento Venetian State, in Violence and Civil Disorder in Italian Cities, 1200-1500, a cura di Lauro Martines, Berkeley-Los Angeles-London 1972, pp. 184-188 (pp. 184-228); Oliver Logan, Culture and Society in Renaissance Venice, London 1972, p. 5; Lester J. Libbyjr., Venetian History and Political Thought After 1509, "Studies in the Renaissance", 20, 1973, pp. 7 s. (pp. 7-45); Giuseppe Maranini, La Costituzione di Venezia, I-II, Firenze 1974; David Robey - John Law, The Venetian Myth and the "De Republica Veneta" of Pier Paolo Vergerio, "Rinascimento", 15, 1975, pp. 3-8 (pp. 3-59); Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 102-108; James S. Grubb, When Myths Lose Power: Four Decades of Venetian Historiography, "The Journal of Modern History", 58, 1986, pp. 45 ss. (pp. 43-94); Dennis Romano, Patricians and Popolani. The Social Foundation of the Venetian State, Baltimore-London 1987, pp. 1-4.
2. F. Gaeta, Alcune considerazioni, p. 63.
3. G. Fasoli, Nascita (ed. 1974), p. 464.
4. La cronaca è stata pubblicata con il titolo Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972. Su di essa v. Giorgio Cracco, Società e Stato nel Medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1987, pp. 265-290, e D. Romano, Patricians, p. 3.
5. Così, ad esempio, Otto Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, II, Chicago 1984, pp. 199-206; D. Romano, Patricians, p. 1.
6. Francesco Petrarca, Lettere senili, IV, nr. 3: in proposito F. Gilbert, The Venetian Constitution, p. 467; S. Chojnacki, Crime, p. 184.
7. D. Romano, Patricians, pp. 6-11.
8. Così, ad esempio, Lauro Martines, Potere e fantasia: le città Stato nel Rinascimento, Bari 1981, pp. 170 s.
9. In proposito v. Alberto Tenenti, The Sense of Space and lime in the Venetian World of the Fifteenth and Sixteenth Centuries, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973 (trad. it. Il senso dello spazio e del tempo nel mondo veneziano dei secoli XV e XVI, in Id., Credenze, ideologie, libertinismi tra Medioevo ed Età moderna, Bologna 1974, pp. 75-118), p. 32 (pp. 17-46).
10. In proposito v. Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, p. 117; F.C. Lane, Storia di Venezia, pp. 122-128.
11. In proposito v. Giovanni Monticolo, L'Ufficio della Giustizia Vecchia a Venezia dalle origini sino al 1330, "Monumenti Storici della R. Deputazione Veneta di Storia Patria", ser. IV, t. 12, Venezia 1892; Brian Pullan, Rich and Poor in Renaissance Venice, Cambridge (Mass.) 1971 (trad. it. La politica sociale della Repubblica di Venezia 1500-1620, I-II, Roma 1982), pp. 99-131; Richard Mackenney, Arti e Stato a Venezia tra tardo Medio Evo e '600, "Studi Veneziani", n. ser., 5, 1981, pp. 127-143; D. Romano, Patricians, pp. 7 s.
12. Ad esempio F.C. Lane, Storia di Venezia, pp. 121-204; S. Chojnacki, Crime, pp. 184-228; Edward Muir, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton (N J.) 1981 (trad. it. Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984), pp. 135-181. Detti autori appartengono a quella corrente interpretativa che John Najemy, recensione a Williani M. Bowski, A Medieval Italian Commune: Siena Under Nine, "Speculum", 58, 1983, pp. 1029-1033, definisce come "scuola del consenso" perché impegnata ad enfatizzare, in riferimento ai maggiori comuni italiani del tardo Medioevo, il sentimento di fiducia avvertito nelle comunità municipali nei riguardi della classe politica alla guida delle loro città. In proposito si v. anche D. Romano, Patricians, pp. 8-10.
13. Così Guido Ruggiero, Violente in Early Renaissance Venice, New Brunswick (N J.) 1980 (trad. it. Patrizi e malfattori. La violenza a Venezia nel primo Rinascimento, Bologna 1982), pp. 1-53; G. Cracco, Società e Stato, p. 454; R. Cessi, Storia, p. 270; A. Tenenti, The Sense of Space, p. 19. In proposito v. D. Romano, Patricians, pp. 9 s.
14. Al riguardo v. G. Maranini, La Costituzione, II, pp. 35 s.; Giorgio Zordan, L'ordinamento giuridico veneziano. Lezioni di storia del diritto veneziano con una nota bibliografica, Padova 1980, p. 93.
15. G. Cracco, Società e Stato.
16. Margarete Merores, Der grosse Rat von Venedig und die sogenannte Serrata vom Jahre 1297, "Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte", 21, 1928, p. 81 (pp. 33-113).
17. Così Roberto Cessi, Politica ed economia veneziana del Trecento, in Id., Politica ed economia di Venezia nel Trecento. Saggi, Roma 1952, pp. 7-11 (pp. 7-22); G. Maranini, La Costituzione, II, pp. 29-31.
18. Così, ad esempio, R. Cessi, Politica, pp. 11-13.
19. Ad esempio Frederic C. Lane, The Enlargement of the Great Council of Venice, in Florilegium Historiale: Essays Presented to Wallace K. Ferguson, a cura di John G. Rowe - W.H. Stockdale, Toronto 1971, pp. 236-274 (poi anche in Id., Studies in Venetian Social and Economic History, a cura di Benjamin G. Kohl-Reinhold C. Mueller, London 1987, cap. III); Stanley Chojnacki, In Search of the Venetian Patriciate: Families and Factions in the Fourteenth Century, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 47-90; Jean-Claude Hocquet, Oligarchie et patriciata Venise, "Studi Veneziani", 17-18, 1975-1976, pp. 401-410.
20. La tesi è stata di recente ribadita da Reinhold C. Mueller, Espressioni di ῾status' sociale a Venezia dopo la "serrata" del Maggior Consiglio, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 53-61.
21. In proposito si v., ad esempio, S. Chojnacki, In Search, pp. 53 s.
22. Ibid., pp. 34-36; J.-C. Hocquet, Oligarchie, pp. 405-407; Giorgio Cracco, Venezia nel Medioevo: un "altro mondo", in Id.-Andrea Castagnetti-Augusto Vasina-Michele Luzzati, Comuni e signorie nell'Italia nordorientale e centrale: Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Torino 1987 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, Vii/1), p. 113 (pp. 2-157); R.C. Mueller, Espressioni, p. 53.
23. V., ad esempio, S. Chojnacki, Crime.
24. Così, ad esempio, J. S. Grubb, When Myths, pp. 45 s.
25. In proposito si v. l'articolata analisi condotta da Donald E. Queller, The Venetian Patriciate. Reality versus Myth, Urbana-Chicago 1986 (trad. it. Il patriziato italiano. La realtà contro il mito, Roma 1987), in particolare le sue conclusioni (pp. 247-252).
26. In proposito rinvio a quanto detto in Mario Caravale, Ordinamenti giuridici dell'Europa medievale, Bologna 1994. Rifiuta il modello statuale per la lettura del diritto medievale anche Paolo Grossi, L'ordine giuridico medievale, Bari 1995.
27. Per un rapido esame della storiografia sull'argomento rinvio a quanto da me detto in Per una premessa storiografica, in Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431). Atti del Convegno. Roma 2-5 maggio 1992, a cura di Maria Chiabò-Giusi D'Alessandro-Paola Piacentini-Concetta Ranieri, Roma 1992, pp. 1-15.
28. D. Romano, Patricians.
29. Elisabeth Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse". Espaces, pouvoirs et société à Venise à la fin du Moyen Âge, I-II, Rome 1992.
30. Richard Mackenney, The Guilds: a Separate Category?, "Studi Veneziani", in corso di stampa.
31. L'opinione di Bartolo è ricordata dal giurista quattrocentesco Giason del Maino (Yasonis Mayni In Primam Digesti Veteris Partem Commentaria, Augustae Taurinorum 1592, c. 9v, nr. 26; Id., In Primam Codicis Partem Commentaria, Augustae Taurinorum 1592, c. 3, nr. 11), ma gli studiosi moderni non sono riusciti ad individuare il passo bartoliano. Al riguardo Ugo Petronio, "Civitas Venetiarum est edificata in mari", in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 176 s. (pp. 171-185).
32. In Primam Digesti Veteris Partem Commentaria, Venetiis 1599, c. 43v, nr. 8 (ad l. summa, ff. de divisione et qualitate [Dig. 1.8.1>).
33. U. Petronio, "Civitas", p. 175, ricorda, comunque, che in un altro passo (In Digestum Novum Commentaria, Venetiis 1599, f. 3, in l. hoc edicto & quod si quis, ff. de quis noni nunciatione [Dig. 39.1.1.18>) Baldo sosteneva una tesi parzialmente diversa. Affermava infatti: "Allegatur quod civitas Venetorum, que est aedificata in mari, sit libera, quod verum est, non tamen a iurisdictione Imperii. Si tamen illud mare esset ecclesiae, esset ecclesiae [...> Mare proprie universaliter sumptum est Imperatoris, ut l. deprecatio infra ad legem Rhodiam de iactu". Il Petronio rileva che tale contraddizione all'interno del pensiero di Baldo non sembra esser stata colta dalla maggior parte dei successivi dottori, i quali si limitano a ricordare soltanto la tesi della piena libertà dei Veneziani: il solo Giason del Maino avrebbe citato l'idea di Baldo per la quale Venezia "non est libera a iurisdictione Imperatoris". In realtà, il passo ora segnalato non sembra in stridente contraddizione con l'altro del Vetus, dato che in quest'ultimo Baldo si occupava della questione dell'appartenenza del suolo veneziano al demanium imperiale, mentre nel Novum affrontava la diversa questione relativa alla possibilità di far rientrare il territorio lagunare in quel "dominium quoad iurisdictionem" che la dottrina bolognese sin dai primi glossatori riconosceva all'imperatore in tutto il mondo. In proposito rinviamo a Ugo Nicolini, La proprietà, il principe e l'espropriazione per pubblica utilità. Studi sulla dottrina giuridica intermedia, Milano 1952, pp. 97-107; Ennio Cortese, La norma giuridica, II, Milano 1962, pp. 452 s.; Kenneth Pennington, The Prince and the Law. 1200-1600. Sovereignity and Rights in the Western Legal Tradition, Berkeley-Los Angeles-London 1993, p. 23; M. Caravale, Ordinamenti giuridici, pp. 545 s.
34. Matteo Casini, La cittadinanza originaria a Venezia tra i secoli XV e XVI. Una linea interpretativa, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 134 s. (pp. 133-150).
35. Ibid., p. 136.
36. Secondo i calcoli effettuati dal Casini tra il 1305 e il 1500 su un totale di tremilaseicento nuovi cittadini i cives originari per privilegio furono soltanto settantadue: cf. ibid., pp. 135 s.
37. Julius Kirshner, Between Nature and Culture: an Opinion of Baldus of Perugia on Venetian Citizenship as Second Nature, "The Journal of Medieval and Renaissance Studies", 9, 1979, pp. 184 s. (pp. 179-208).
38. Il testo del provvedimento è stato pubblicato da Giorgio Martino Thomas, Cittadinanza veneta accordata a forestieri, "Archivio Veneto", 8, 1874, pp. 154 s. n. 1 (pp. 154-156). Si v. al riguardo J. Kirshner, Between Nature and Culture, pp. 184 s.
39. L'originale della decisione del maggior consiglio si conserva inedito in A.S.V., Provveditori di Comun, b. 2, cc. 5v-7v: al riguardo v. J. Kirshner, Between Nature and Culture, p. 185.
40. Secondo la Venetiarum historia vulgo Petro lustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di Roberto Cessi-Fanny Bennato, Venezia 1964, p. 229, a causa della peste "maior pars nobilium venetorum et plebeium de hoc seculo transmigraverunt". Secondo la Cronica di Venexia, di Enrico Dandolo, la popolazione diminuì di circa 1/3. Per i Cortusi (Guilelmus Et Albrigetus Cortusii, Historia de novitatibus Paduae et Lombardiae [1256-1364>, in R.I.S., XII. 1728, col. 962) i morti sarebbero stati centomila, mentre per Lorenzo de' Monacis (Chronicon de rebus Venetis ab urbe condita ad annum MCCCLIV [...>, a cura di Flaminio Corner, Venetiis 1758, p. 315) la peste avrebbe ucciso il 70% della comunità veneziana. In proposito v. Reinhold C. Mueller, Aspetti sociali ed economici della peste a Venezia nel Medioevo, in AA.VV., Venezia e la peste, 1348/1797, Venezia 1979, p. 71 (pp. 71-76). Si v. anche Mario Brunetti, Venezia durante la peste del 1348, "Ateneo Veneto", 32, 1909, pt. 1, pp. 289-311; pt. 2, pp. 5-42.
41. R.C. Mueller, Aspetti sociali, p. 74; J. Kirshner, Between Nature and Culture, p. 186.
42. J. Kirshner, Between Nature and Culture, p. 186.
43. Ibid. Il testo del provvedimento è stato edito da G.M. Thoivias, Cittadinanza, p. 155 n. 2.
44. J. Kirshner, Between Nature and Culture, p. 186.
45. I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di Riccardo Predelli, II, Venezia 1878, pp. 50, 84 s., 300.
46. Ibid., p. 51; Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, I-X, Venezia 1853-1861: II, p. 379; P.G. Molmenti, La storia, p. 386.
47. David Jacoby, Un agent juif au service de Venise: David Mavroganato de Candia (XVe s.), "Thesaurismata", 9, 1972, p. 80 (pp. 68-96).
48. Eliyahu Ashtor, Ebrei cittadini di Venezia?, "Studi Veneziani", 17-18, 1975-1976, pp. 145-156 (pp. 145-165).
49. Per lungo tempo la storiografia ha ritenuto che il cambiamento della politica veneziana nei riguardi degli Ebrei risalisse al 1366, anno cui si data il primo provvedimento favorevole all'insediamento ebraico in laguna. Reinhold C. Mueller, Charitable Institutions, the Jewish Community and Venetian Society. A Discussion to the Recent Volume by Brian Pullan, "Studi Veneziani", 14, 1972, pp. 63 s. (pp. 37-81), ha invece dimostrato che il provvedimento del 1366 riguarda non gli Ebrei attivi a Venezia, bensì la comunità ebraica di Mestre. In proposito si v. anche David Jacoby, Les Juifs à Venise du XIVe au milieu du XVIe siècle, in Venezia centro di mediazione tra Oriente ed Occidente (secoli XV XVI). Aspetti e problemi, a cura di Hans-Georg Beck - Manoussos Manoussacas - Agostino Pertusi, I, Firenze 1977, p. 166 (pp. 163-216).
50. D. Jacoby, Les Juifs, p. 166.
51. Ibid., pp. 188-191.
52. Reinhold C. Mueller, Les prêteurs juifs de Venise au Moyen Âge, "Annales E.S.C.", 30, 1975, pp. 1284-1287 (pp. 1277-1302).
53. Ibid., p. 1291; D. Jacoby, Les Juys, p. 167.
54. Secondo i calcoli di G. Cracco, Società e Stato, p. 347, si trattava di novantasette famiglie.
55. G. Zordan, L'ordinamento, p. 92.
56. G. Maranini, La Costituzione, II, pp. 35 s.
57. G. Zordan, L'ordinamento, p. 93.
58. Si v., ad esempio, le norme dei capitolari degli uffici veneziani approvati nel secolo XIII e pubblicati da Melchiorre Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane e i loro capitolari fino al 1300, II, Venezia 1909, pp. 75, 138, 206; III, Venezia 1911, pp. 30, 111, 145, 158.
59. G. Zordan, L'ordinamento, pp. 95 s.
60. G. Maranini, La Costituzione, II, p. 41; G. Zordan, L'ordinamento, p. 94.
61. G. Maranini, La Costituzione, II, p. 41; S. Chojnacki, In Search, p. 53.
62. G. Maranini, La Costituzione, II, p. 42; G. Zordan, L'ordinamento, p. 94; Stanley Chojnacki, Il raggiungimento della maggiore età politica a Venezia nel XV secolo, in Venezia tardomedievale. Istituzioni e società nella storiografia angloamericana, a cura di Michael Knapton, "Ricerche Vencte", 1, 1989, p. 72 (pp. 59-86) (il saggio era stato già pubblicato con il titolo Political Adulthood in Fifteenth-Century Venice, "American Historical Review", 91,, 1986, nr. 4, pp. 791-810).
63. G. Maranini, La Costituzione, II, p. 45.
64. G. Zordan, L'ordinamento, p. 94.
65. S. Chojnacki, Il raggiungimento, p. 72.
66. G. Maranini, La Costituzione, II, p. 46.
67. Così S. Chojnacki, In Search, p. 53, che basa le sue affermazioni soprattutto sulla ricostruzione delle magistrature veneziane elaborata da Giovanni Antonio Muazzo (1621-1703), le cui opere (Del governo antico della Repubblica veneta, e Historie del governo antico e presente di Venetia) sono conservate inedite presso la Biblioteca Nazionale Marciana e il Museo Correr di Venezia. Sull'opera del Muazzo si v. Antonino Lombardo, Storia e ordinamento delle magistrature veneziane in un manoscritto inedito del sec. XVII, in Studi in onore di Riccardo Filangieri, II, Napoli 1959, pp. 619-688.
68. G. Maranini, La Costituzione, II, p. 48; S. Chojnacki, In Search, p. 43.
69. S. Chojnacki, In Search, p. 43.
70. G. Maranini, La Costituzione, II, p. 48.
71. Ibid., pp. 49 s. L'episodio è dettagliatamente descritto in Raphayni De Caresinis Chronica, a. 1343-1388, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 2, 1922, pp. 56 s., dove è riportato anche l'elenco dei trenta popolari ammessi.
72. Gene Brucker, Dal Comune alla Signoria. La vita pubblica a Firenze nel primo Rinascimento, Bologna 1981, pp. 294 s.
73. Tra gli studi più interessanti si possono ricordare: Frederic C. Lane, Andrea Barbarigo, Merchant of Venice, 1418-1449, Baltimore 1944; Id., Family Partnerships and Joint Ventures, in Venice and History. The Collected Papers of Frederic C. Lane, Baltimore 1966, pp. 36-55; S. Chojnacki, In Search; Id., Patrician Women in Early Renaissance Venice, "Studies in the Renaissance", 21, 1974, pp. 176-203; Id., Dowries and Kïnsmen in Early Renaissance Venice, "Journal of Interdisciplinary History", 5, 1974-1975, nr. 4, pp. 571-600; James C. Davis, A Venetian Family and Its Fortune, 1500-1900. The Donà and the Conservation of Their Wealth, Philadelphia 1975 (Memoirs of the American Philosophical Society, 106) (trad. it. Una famiglia veneziana e la conservazione della ricchezza. I Donà dal '500 al '900, Roma 1980); Margaret L. King, Caldiera and the Barbaros on Marriage and the Family: Humanist Reflections of Venetian Realities, "The Journal of Medieval and Renaissance Studies", 6, 1976, pp. 19-50; Robert Finlay, Politics in Renaissance Venice, London 1980; D. Romano, Patricians, pp. 39-56; E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 373-461.
74. In proposito si v., ad esempio, James C. Davis, The Decline of the Venetian Nobility as a Ruling Class, Baltimore 1962, p. 48; R. Finlay, Politics, p. 81; D. Romano, Patricians, pp. 44-46; E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 407-409.
75. Sull'articolazione della ca' in più rami si v. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, p. 409.
76. I trattati si conservano inediti presso Oxford, Bodleian Library, Ms. Laud. Misc. 717, cc. 79-99v, 101-148: v. in proposito Juliana Hill Cotton, Caldiera, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVI, Roma 1973, pp. 626-628, e M.L. King, Caldiera and the Barbaros, p. 23.
77. M.L. King, Caldiera and the Barbaros, pp. 23-28.
78. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 410-421.
80. J.C. Davis, The Decline, p. 26.
81. F.C. Lane, Family Partnerships, pp. 36 s.
81. Ibid., p. 36.
82. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 396 s.
83. Ibid., pp. 407-409.
84. Ibid., pp. 116- 119. In proposito si v. anche Andrzej Wyrobisz, L'attività edilizia a Venezia nel XIV e XV secolo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 307-343.
85. Questo complesso di provvedimenti è stato esaminato con cura da E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 141-260, 291-307, 333-347.
86. Più marcata sembra essere la differenza con la famiglia del "popolo minuto", la quale risulta priva dell'articolazione della famiglia nobile e appare limitata alla sola struttura mononucleare. In proposito v. D. Romano, Patricians, pp. 50-56.
87. Frederic C. Lane, Merchant Galleys, 1300-34: Private and Communal Operation, in Id., Venice and History. The Collected Papers of Frederic C. Lane, Baltimore 1966, p. 194 (pp. 193-226) (già in "Speculum", 38, 1963, pp. 179-205).
88. P.G. Molmenti, La storia, p. 232.
89. Frederic C. Lane, Maritime Law and Administration, 1250-1350, in Id., Venice and History. The Collected Papers of Frederic C. Lane, Baltimore 1966, pp. 227-232 (pp. 227-252) (il saggio era stato già pubblicato in Studi in onore di Amintore Fanfani, III, Milano 1962, pp. 21-50).
90. Id., Merchant Galleys, p. 195.
91. Ibid.; Id., Fleets and Fairs: the Functions of the Venetian Muda, in Studi in onore di Armando Sapori, I, Milano 1957, pp. 651-659 (pp. 649-663).
92. Bernard Doumerc, Le galere da mercato, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti-Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 363 s. (pp. 357-395).
93. Franco Rossi, Le magistrature, ibid., p. 689 (pp. 687-757).
94. B. Doumerc, Le galere, p. 358.
95. F.C. Lane, Merchant Galleys, pp. 195 s.
96. Ennio Concina, Venezia: arsenale, spazio urbano, spazio marittimo. L'età del primato e l'età del confronto, in Arsenali e città nell'Occidente europeo, a cura di Id., Roma 1987, p. 11 (pp. 11-32); Id., La casa dell'Arsenale, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti-Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 147 s. (pp. 147-210).
97. Id., L'Arsenale della Repubblica di Venezia, Milano 1984, p. 28; Id., Venezia, p. 12; Id., La casa dell'Arsenale, p. 150.
98. In proposito v. Alberto Tenenti-Corrado Vivanti, Le film d'un grand système de navigation: les galères marchandes vénitiennes. XIVe-XVIe siècles, "Annales E.S.C.", 16, 1961, nr. 1, pp. 83 s. (pp. 83-86).
99. E. Concina, L'Arsenale, pp. 29 s.
100. Per i lavori di ristrutturazione ibid., pp. 30-34.
101. B. Doumerc, Le galere, pp. 362-364.
102. F.C. Lane, Merchant Galleys, pp. 196-199.
103. Id., Maritime Law, pp. 227-235.
104. Ibid., pp. 236-251.
105. F. Rossi, Le magistrature, pp. 688-731.
106. Così F.C. Lane, Storia di Venezia, p. 118.
107. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 270-280.
108. Ibid., pp. 80-89.
109. F.C. Lane, Storia di Venezia, p. 123.
110. D. Romano, Patricians, p. 65.
111. R. Mackenney, The Guilds.
112. Ibid.
113. Ibid.
114. Giorgetta Bonfiglio-Dosio, Lavoro e lavoratori nella Zecca veneziana attraverso il "Capitolar dalle broche" (XIV-XVI sec.). in Viridarium Floridum. Studi di storia veneta offerti dagli allievi a Paolo Sambin, a cura di Maria Chiara Billanovich-Giorgio Cracco-Antonio Rigon, "Medioevo e Umanesimo", 54, 1984, pp. 255-276.
115. P. G. Molmenti, La storia, p. 149.
116. Brian Pullan, Natura e carattere delle Scuole, in Le Scuole di Venezia, a cura di Terisio Pignatti, Milano 1981, p. 14 (pp. 9-26).
117. D. Romano, Patricians, pp. 70, 249 s.; Richard Mackenney, Tradesmen and Traders. The World of the Guilds in Venice and Europe, c. 1250- c. 1650, Totowa (N.J) 1987, pp. 21 s.
118. D. Romano, Patricians, p. 70.
119. R. Mackenney, The Guilds; Id., Tradesmen, pp. 4 s.
120. La natura dell'Arte quale associazione di soli maestri non sembra esser colta con chiarezza dagli studiosi che si sono posti il problema dei rapporti tra maestri e prestatori d'opera all'interno delle corporazioni veneziane. In proposito ne I Capitolari delle Arti Veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, I-II, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1896-1905; III, a cura di Enrico Besta, Roma 1914: II, p. CXXXVIII, Monticolo ha sostenuto che la vita interna delle corporazioni veneziane si caratterizzava per la sostanziale identità di interessi tra maestri e lavoratori. La tesi non è condivisa del tutto da D. Romano, Patricians, p. 67, secondo il quale tale accordo si ritrova soltanto in alcune Arti, mentre manca del tutto in altre. In realtà appare necessario collocare il problema dei rapporti tra maestri e lavoratori nell'ambito della singola bottega o del singolo settore produttivo, non già in quello dell'ordinamento corporativo: solo nei primi, infatti, è possibile quel rapporto che manca, per assenza di uno degli elementi, nel secondo.
121. R. Mackenney, The Guilds.
122. Così D. Romano, Patricians, p. 66.
123. Così R. Mackenney, The Guilds, che ricorda in proposito G. Maranini, La Costituzione, I, p. 241; R. Cessi, Politica, pp. 8, 20; G. Luzzatto, Storia economica, pp. 65-80; P.G. Molmenti, La storia, pp. 145, 147; D. Romano, Patricians; R. Mackenney, Tradesmen; nonché i saggi di Dennis Romano, Struttura familiare e legami matrimoniali nel '300 veneziano, e di Richard Mackenney, Corporazioni e politica nel medioevo veneziano, in Venezia tardomedievale. Istituzioni e società nella storiografia angloamericana, a cura di Michael Knapton, "Ricerche Venete", I, 1989, rispettivamente pp. 131- 165 e 87- 129.
124. R. Mackenney, The Guilds. La tesi era stata già in parte formulata in Id., Tradesmen, pp. 23-28.
125. Id., The Guilds.
126. Sull'organizzazione dell'Arte della lana e sui provvedimenti municipali in suo favore rinviamo a Nella Fano, Ricerche sull'Arte della Lana a Venezia nel XIII e XIV secolo, "Archivio Veneto", ser. V, 18, 1936, pp. 72-213.
127. R. Mackenney, Tradesmen, pp. 14 s.; Id., The Guilds.
128. D. Romano, Patricians, p. 73.
129. F.C. Lane, Storia di Venezia, p. 126.
130. R. Mackenney, Tradesmen, p. 9.
131. B. Pullan, Natura, p. 9.
132. Ibid., p. 14.
133. Id., Rich and Poor, pp. 34-38.
134. R. Mackenney, Tadesmen, p. 47.
135. Ibid., p. 48.
136. B. Pullan, Natura, pp. 10-13.
137. R. Mackenney, The Guilds.
138. B. Pullan, Natura, p. 22.
139. In proposito si v., ad esempio, R. Mackenney, Tradesmen, p. 48.
140. Giorgio Fedalto, Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa nella "Venetia maritima", in Antonio Carile-Giorgio Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, pp. 360-363; Silvio Tramontin, Fondazione e sviluppo della diocesi, in Patriarcato di Venezia, a cura di Id., I, Padova 1991, p. 31 (pp. 19-46).
141. S. Tramontin, Fondazione, p. 32.
142. Ibid.
143. Giorgio Cracco, Chiesa ed istituzioni civili nel secolo della Quarta Crociata, in La Chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, II, Venezia 1988, p. 15 (pp. 11-30).
144. Al riguardo si v. Paolo Prodi, The Strutture and Organization of the Church in Renaissance Venice: Suggestions for Research, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, p. 413 (pp. 409-430); Giorgio Fedalto, La diocesi nel Medioevo, in Patriarcato di Venezia, a cura di Silvio Tramontin, I, Padova 1991, p. 65 (pp. 47-90).
145. G. Fedalto, La diocesi, pp. 63-65.
146. Bianca Betto, Il capitolo della basilica di S. Marco in Venezia: statuti e consuetudini dei primi decenni del secolo XIV, Padova 1984, pp. 15-19.
147. Vittorio Piva, Il patriarcato di Venezia e le sue origini, II, Venezia 1960, p. 218; Silvio Tramontin, Dall'episcopato castellano al patriarcato veneto, in La Chiesa di Venezia tra Medioevo ed età moderna, a cura di Giovanni Vian, III, Venezia 1989, p. 55 (pp. 55-85).
148. G. Fedalto, La diocesi, p. 63.
149. Così ibid., p. 75.
150. S. Tramontin, Fondazione, p. 33, lo dice già residente nel 1156.
151. Ibid.
152. Così G. Cracco, Chiesa, p. 15.
153. G. Fedalto, La diocesi, pp. 77 s.
154. B. Betto, Il capitolo, p. 22.
155. S. Tramontin, Fondazione, p. 32.
156. Sergio Perini, L'età medievale, in Dino De Antoni-Sergio Perini, Diocesi di Chioggia, II, Padova 1992 (Storia religiosa del Veneto, 2), p. 21 (pp. 19-48).
157. S. Tramontin, Fondazione, p. 32.
158. G. Fedalto, La diocesi, pp. 84-86.
159. Bianca Betto, Decime ecclesiastiche a Venezia fino al secolo XIV e i motivi di contrasto fra il vescovo e la città, "Archivio Veneto", ser. V, 113, 1979, pp. 23-54.
160. Gherardo Ortalli, Il procedimento ῾per gratiam' e gli ambienti ecclesiastici nella Venezia del primo Trecento. Tra amministrazione, politica e carità, in Chiesa società e Stato a Venezia. Miscellanea di studi in onore di Silvio Tramontin nel suo 750 anno di età, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1994, pp. 75-78 (pp. 75-100).
161. R. Cessi, Storia, p. 272.
162. G. Zordan, L'ordinamento, p. 103.
163. F.C. Lane, Storia di Venezia, p. 14.
164. R. Cessi, Storia, p. 273.
165. G. Zordan, L'ordinamento, p. 103.
166. Gherardo Ortalli, Gli ufficiali sopra Rialto: per gestire i luoghi al centro di un sistema, in Il capitolare degli ufficiali sopra Rialto. Nei luoghi al centro del sistema economico veneziano (secoli XIII-XV), a cura di Alessandra Princivalli-Gherardo Ortalli, Milano 1993, pp. XI s. (pp. VII-XXVI).
167. Jacobi Bertaldi Splendor Venetorum civitatis consuetudinum, a cura di Francesco Schupfer, in Bibliotheca juridica Medii Aevi, III, Bononiae 1901, pp. 99-153. Su Jacopo Bertaldo rinviamo alla biografia redatta da Pasquale Smiraglia in Dizionario Biografico degli Italiani, IX, Roma 1967, pp. 447 s.
168. In proposito R. Cessi, Storia, p. 273; G. Zordan, L'ordinamento, pp. 104 s.; G. Ortalli, Gli ufficiali sopra Rialto, p. XII.
169. M. Roberti, Le magistrature, II, pp. 111 ss.; Giovanni I. Cassandro, La Curia di Petizion e il diritto processuale di Venezia, Venezia 1937.
170. Giulio Bistort, Il Magistrato alle Pompe nella Repubblica di Venezia. Studio storico, Venezia 1912, p. 45.
171. R. Cessi, Storia, p. 273; G. Zordan, L'ordinamento, pp. 105 S.; G. Ortalli, Gli ufficiali sopra Rialto, pp. XII-XIV.
172. Un elenco degli uffici de intus può essere elaborato anche sulla base della documentazione da loro pervenuta e oggi conservata presso l'A.S.V. Risultano attivi nel secolo XIV: procuratori di S. Marco, avogaria di comun, ufficiali agli imprestiti, ufficiali sopra Rialto, salinari di Chioggia, salinari da mar, ufficiali al frumento, provveditori alle biade, visdomini della ternaria vecchia, visdomini della ternaria nuova, ufficiali alle becarie di S. Marco e di Rialto, camerlenghi di comun, Zecca, ufficiali alle razon vecchie, affiancati dal 1396 dagli ufficiali alle razon nuove, ufficiali alla messetaria, ufficiali al dazio del vin, visdomini del fondaco dei Tedeschi, ufficiali sopra le mercanzie del Levante, ufficiali all'estraordinario, ufficiali al cattaver, patroni all'Arsenal, pagadori della camera dell'armamento, giudici del piovego, provveditori di comun, consoli dei mercanti, giustizieri vecchi, giustizieri nuovi, giudici del proprio, giudici del forestier, giudici dell'esaminador, giudici di petizion, giudici del mobile, giudici del procurator, sindaci e giudici straordinari, auditori vecchi, auditori nuovi, capisestiere, signori della notte, savi alla pace (Guida generale degli Archivi di Stato italiani, IV, Roma 1994, pp. 882-1005), per un totale di trentanove uffici, alcuni dei quali articolati in più magistrature.
173. Melchiorre Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane e i loro capitolari fino al 1300, I, Padova 1907, p. 199.
174. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, p. 270.
175. Ibid., pp. 89, 267-269.
176. Ibid., II, pp. 155-215.
177. Ibid., I, pp. 96-119.
178. Guida generale degli Archivi di Stato, p. 1002.
179. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 269 s.
180. Ibid., p. 271.
181. Ibid., pp. 270-280. Si v. anche G. Ruggiero, Violence, pp. 12 s.
182. G. Bistort, Il Magistrato alle Pompe, p. 45 n. 4; Maria Borgherini-Scarabellini, Il Magistrato dei Cinque Savi alla Mercanzia dalla istituzione alla caduta della Repubblica. Studio storico su documenti d'archivio, Venezia 1925, p. 9; Guida generale degli Archivi di Stato, p. 979.
183. Reinhold C. Mueller, The Procurators of San Marco in the Thirteenth and Fourteenth Centuries: a Study of the Office as a Financial and Trust Institution, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 108-114 (pp. 105-220). Si v. anche Guida generale degli Archivi di Stato, pp. 885 s.
184. G. Ortalli Gli ufficiali sopra Rialto, pp. XVI-XVIII.
185. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 293-301.
186. Antonio Favaro, Notizie storiche sul Magistrato veneto alle acque, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 9, 1905, pp. 179 s. (pp. 179-199); Sergio Escobar, Il controllo delle acque: problemi tecnici ed interessi economici, in Storia d'Italia, Annali, 3, Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento a oggi, a cura di Gianni Micheli, Torino 1980, p. 110 (pp. 83-153).
187. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 344 s.
188. A. Favaro, Notizie, p. 180; E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, p. 346.
189. A. Favaro, Notizie, p. 180.
190. S. Escobar, Il controllo, p. 112.
191. J. Bertaldi Splendor, pp. 102 s.
192. G. Ruggiero, Violence, p. 19.
193. Åsa Boholm, The Doge of Venice. The Symbolism of State Power in the Renaissance, Gothenburg 1990, p. 29.
194. Gaetano Cozzi, Authority and Law in Renaissance Venice, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, p. 303 (pp. 293-345).
195. Ceferino Caro Lopez, Gli Auditori Nuovi e il Dominio di Terraferma, in. Stato e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 264 s. (pp. 259-316).
196. Guida generale degli Archivi di Stato, p. 921.
197. G. Ruggiero, Violence, pp. 5 s.; G. Ortalli, Gli ufficiali sopra Rialto, p. XIV.
198. G. Ruggiero, Violence, pp. 5 s.
199. Ibid., pp. 10 s.
200. Ibid., pp. 15 s.
201. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, p. 276.
202. G. Ruggiero, Violence, p. 20.
203. G. Ortalli, Gli ufficiali sopra Rialto, p. XIII.
204. D. Romano, Patricians, p. 73.
205. G. Ortalli, Gli ufficiali sopra Rialto, p. XIII.
206. I Capitolari delle Arti Veneziane; Magistrature contabili e di controllo della Repubblica di Venezia. Dalle origini al
1797, a cura del Ministero del Tesoro, Ragioneria Generale dello Stato, Roma 1950, p. 93; R. Mackenney, Arti e Stato, p. 130.
207. M. Borgherim-Scarabellini, Il Magistrato dei Cinque Savi, p. 9.
208. R. Mackenney, The Guilds.
209. Magistrature contabili, p. 53.
210. R. Mackenney, Tradesmen, pp. 47 s.
211. F.C. Lane, Maritime Lazo, pp. 237-247.
212. G. Bistort, Il Magistrato alle Pompe, p. 46 n. 3; Guida generale degli Archivi di Stato, p. 937.
213. F.C. Lane, Maritime Law, p. 251.
214. Ibid. Sui giudici del comun rinviamo a M. Roberti, Le magistrature, I, pp. 194 ss.
215. M. Borgherini-Scarabellini, Il Magistrato dei Cinque Savi, p. 14.
216. F.C. Lane, Merchant Galleys, p. 212.
217. Ibid., pp. 198 s. Sull'intervento delle magistrature veneziane in materia di navigazione mercantile si v. anche G. Cracco, Venezia nel Medioevo, pp. 123 s.
218. F. Rossi, Le magistrature, pp. 689 s.
219. Ibid., pp. 700-703.
220. Ibid., pp. 723-731.
221. Giorgio Zordan, I Visdomini di Venezia nel secolo XIII (Ricerche su un'antica magistratura veneziana), Padova 1971, pp. 21-112.
222. Capitolare dei Visdomini del Fontego dei Tedeschi in Venezia, a cura di Georg M. Thomas, Berlin 1874; Henry Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig und die deutsch-venetianischen Handelsbeziehungen, Stuttgart 1887; G. Zordan, I Visdomini, pp. 567-662; Karl-Ernst Lupprian, Il Fondaco dei Tedeschi e la sua funzione di controllo del commercio tedesco a Venezia, "Quaderni del Centro Tedesco di Studi Veneziani", VI, Venezia 1978; Gerhard Rosch, Il Fondaco dei Tedeschi, in AA.VV., Venezia e la Germania, Milano 1986, pp. 51-72.
223. R. Cessi, Storia, pp. 290-292; Id., L'"ocium de navigantibus" ed i sistemi della politica commerciale nel sec. XIV [1916>, in Id., Politica ed economia di Venezia nel Trecento. Saggi, Roma 1952, p. 23 (pp. 23-61).
224. Sulla politica veneziana nel settore del sale rinviamo a Jean-Claude Hocquet, Il sale e la fortuna di Venezia, Rorrra 1990. Sulla fusione dei salivari da mar con gli ufficiali sopra Rialto si v. G. Ortalli, Gli ufficiali sopra Rialto, pp. XVI-XX. L'importanza che il monopolio del sale rivestiva per il governo veneziano è attestata anche dal fatto che per difenderlo il comune lagunare era pronto ad usare le armi. Così accadde, ad esempio, con Treviso: Venezia pretendeva di essere unica autorità per il commercio del sale con le città e le signorie dell'entroterra padano, mentre Treviso voleva imporre liberamente dazi sui convogli di sale veneziano che attraversavano, lungo le vie fluviali, il suo territorio. Venezia sospese in un primo momento le spedizioni per via fluviale: ma la soluzione definitiva del problema avvenne solo nel 1339 con la conquista della città di Treviso. Il problema del sale si trova anche alla base del dissidio tra il comune lagunare e la signoria degli Scaligeri, dato che costoro cercarono di dar vita ad una propria produzione e di imporre dazi sul traffico fluviale nel tratto del loro territorio. In proposito v. Jean-Claude Hocquet, Il sale e l'espansione veneziana nel Trevigiano (secoli XIII-XIV), in Istituzioni, società e potere nella Marca Trevigiana e Veronese (secoli XIII-XII ). Sulle tracce di G.B. Verci. Atti del Convegno. Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 271-289.
225. Magistrature contabili, pp. 52 s.
226. Reinhold C. Mueller, La Camera del frumento: un "banco pubblico" veneziano e i gruzzoli dei signori di Terraferma, in Istituzioni, società e potere nella Marca Trevigiana e Veronese (secoli XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci. Atti del Convegno. Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 321-360.
227. Guida generale degli Archivi di Stato, p. 927.
228. G. Ortalli, Gli ufficiali sopra Rialto, p. XX.
229. Ibid.
230. Ibid., p. XIII. Si v. anche Guida generale degli Archivi di Stato, p. 935.
231. Reinhold C. Mueller, I banchi locali a Venezia nel tardo Medioevo, "Studi Storici", 28, 1987, pp. 145-155.
232. J. Bertaldi Splendor, pp. 103-153.
233. Guida generale degli Archivi di Stato, p. 988.
234. Su questa competenza v. G. Cracco, Venezia nel Medioevo, p. 123.
235. M. Roberti, Le magistrature, I, pp. 182-186.
236. R.C. Mueller, The Procurators, pp. 105 ss.
237. Gaetano Cozzi, Note sopra l'Avogaria di Comun, in Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori, a cura di Amelio Tagliaferri, Milano 1981, p. 548 (pp. 547-557).
238. G. Ruggiero, Violence, p. 21.
239. G. Maranini, La Costituzione, II, p. 42.
240. C. Caro Lopez, Gli Auditori Nuovi, pp. 264 s.
241. Magistrature contabili, p. 51.
242. G. Cozzi, Note, p. 548.
243. G. Ruggiero, Violence, p. 6.
244. M. Roberti, Le magistrature, I, pp. 186 s., 198-204.
245. Ibid., pp. 182-186. Si v. anche Guida generale degli Archivi di Stato, p. 989.
246. Roberto Cessi, La "curia forinsecorunn" e la sua prima costituzione, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 28, 1914, pp. 202-207; Guida generale degli Archivi di Stato, p. 989.
247. M. Roberti, Le magistrature, I, pp. 209-212; G.I. Cassandro, La Curia di Petizion; Guida generale degli Archivi di Stato, p. 991.
248. Su tale corte Guida generale degli Archivi di Stato, p. 992.
249. G. Bistort, Il Magistrato alle Pompe, p. 43 n. 3.
250. R.C. Mueller, The Procurators, pp. 105-220.
251. G. Zordan, I Visdomini, p. 55; Id., L'ordinamento, p. 106.
252. Magistrature contabili, pp. 53 s.; Guida generale degli Archivi di Stato, pp. 933-935.
253. Sul bimetallismo veneziano e sui provvedimenti adottati in materia dal governo lagunare nel corso del Duecento e del Trecento rinviamo a Giulio Mandich, Monete di conto veneziane in un libro di commercio del 1336-1339, "Studi Veneziani", n. ser., 8, 1984, pp. 15-36.
254. Roberto Cessi, Problemi monetari veneziani no a tutto il sec. XIV), Padova 1937, p. XIX.
255. Ibid., p. XL.
256. G. Bonfiglio-Dosio, Lavoro e lavoratori, pp. 274-276.
257. Capitulare massariorum monete anni MCCLXXVIII et
subsequentium, a cura di Vincenzo Padovan, "Archi
vio Veneto", 20, 1880, pp. 96-110, 274-292.
258. Il loro Capitolare, pervenutoci in una copia databile
probabilmente al 1418-1424, è stato edito da R. Cessi, Problemi monetari, doc. nr. 37.
259. G. Bonfiglio-Dosio, Lavoro e lavoratori, pp. 255-276;
Ead., Controllo statale e amministrazione della Zecca vene ziana fra XIII e prima metà del XVI secolo, "Nuova Rivista Storica", 69, 1985, pp. 463-476.
260. Magistrature contabili, pp. 52 s.
261. Frederic C. Lane, The Funded Debt of the Venetian Republic, 1262-1482, in Venice and History. The Collected Papers of Frederic C. Lane, Baltimore 1966, p. 87 (pp. 87-98) (il saggio era stato edito con il titolo Sull'ammontare del Monte Vecchio' di Venezia, in Il debito pubblico della Repubblica di Venezia, a cura di Gino Luzzatto, Milano 1963, pp. 275-292).
262. Magistrature contabili, p. 87.
263. F. C. Lane, The Funded Debt, p. 87. Roberto Cessi, La finanza veneziana al tempo della guerra di Chioggia, in Id., Politica ed economia di Venezia nel Trecento. Saggi, Roma 1952, p. 183 (pp. 179-248), data il provvedimento al 1380.
264. R. Cessi, La finanza, pp. 206-212.
265. Ibid., pp. 231-233.
266. Id., Prestiti pubblici e imposta diretta nell'antica Repubblica di Venezia, in Id., Politica ed economia di Venezia nel Trecento. Saggi, Roma 1952, p. 173 (pp. 172-178).
267. Ibid., p. 175.
268. Ibid., p. 174.
269. Ibid., pp. 172, 242.
270. Ibid., p. 236.
271. Magistrature contabili, p. 52.
272. Ibid., pp. 92 s.
273. Ibid., p. 52. Importanti raccolte di documenti sull'amministrazione della finanza veneziana sono La regolazione delle entrate e delle spese (sec. XIII-XIV). Documenti, a cura di Roberto Cessi - Pietro Bosmin, Padova 1925, e Documenti finanziari della Repubblica di Venezia, a cura di A. Draghi, Padova 1929.
274. Freddy Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Âge. Le développement et l'exploitation du domaine colonial vénitien (XIIe-XVe siècles), Paris 1959, pp. 184-187.
275. R. Cessi, Storia, p. 274; G. Zordan, L'ordinamento, p. 107.
276. Un esempio di funzionamento di tali fondaci veneziani è offerto da quello di Tessalonica studiato da Freddy Thiriet, Les Vénitiens à Thessalonique dans la première moitié du XIVe siècle, "Byzantion", 22, 1952, pp. 323-332 (poi in Id., Études sur la Romanie greco-vénitienne [Xe-XVe siècles>, London 1977, cap. I).
277. Id., Problemi dell'amministrazione veneziana nella Romania, XIV-XV sec., in Venezia e il Levante fino al sec. XV, a cura di Agostino Pertusi, I/2, Firenze 1973, p. 781 (pp. 773-782) (poi in Id., Études sur la Romanie greco-vénitienne [Xe-XVe siècles>, London 1977, cap. XIV). Fonti importanti per il funzionamento del governo cretese nel secolo XIV sono Duca di Candia. Bandi (1313-1329), a cura di Paola Ratti Vidulich, Venezia 1965; Duca di Candia. Quaternus consiliorum (1340-1350), a cura di Paola Ratti Vidulich, Venezia 1976, e Duca di Candia. Ducali e lettere ricevute (1358-1360, 1401-1405), a cura di Freddy Thiriet, Venezia 1978.
278. F. Thiriet, La Romanie, p. 184.
279. Id., Sui dissidi sorti tra il comune di Venezia e i suoi feudatari di Creta nel Trecento, "Archivio Storico Italiano", 114, 1956, pp. 700 s. (pp. 699-713) (ora anche in Id., Etudes sur la Romanie greco-vénitienne [Xe-XVe siècles>, London 1977, cap. VI).
280. Id., La condition paysanne et les problèmes de l'exploitation rurale en Romanie greco-vénitienne, "Studi Veneziani", 9, 1967, pp. 39-46 (pp. 35-69) (poi in Id., Études sur la Romanie greco-vénitienne [Xe-XVe siècles>, London 1977, cap. XIII).
281. Id., Sui dissidi, pp. 706-712.
282. Id., La Romanie, pp. 191-198.
283. Lamberto Pansolli, La gerarchia delle fonti nella legislazione medievale veneziana, Milano 1968, pp. 195-204.
284. Gaetano Cozzi, Politica, società, istituzioni, in Id.-Michael Knapton, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII/1), p. 206 (pp. 1-271).
285. Ibid., pp. 197 s. Si v. anche G. Zordan, L'ordinamento, p. 107.
286. Gian Maria Varanini, Comuni cittadini e Stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento, Verona 1992, p. 13.
287. Michael Knapton, Il fisco nello stato veneziano di Terraferma tra 300 e 500: la politica delle entrate, in Il sistema fiscale veneto: problemi e aspetti. XV-XVIII secolo. Atti della Prima Giornata di studio sulla Terraferma veneta (Lazise, 29 marzo 1981), a cura di Giorgio Borelli-Paola Lanaro-Franco Vecchiato, Venezia 1982, pp. 23 s. (pp. 15-57).
288. Id., Venezia e Treviso nel Trecento: proposte per una ricerca sul primo dominio veneziano a Treviso, in Tomaso da Modena e il suo tempo. Atti del Convegno internazionale di studi per il 6° centenario della morte. Treviso 31 agosto -3 settembre 1979, Treviso 1980, pp. 45-47 (pp. 41-78).
289. G.M. Varanini, Comuni, p. 13.
290. M. Knapton, Venezia e Treviso, p. 50.
291. G. M. Varanini, Comuni, pp. 8-12.
292. Su tali istituzioni si v. Andrea Castagnetti, L'ordinamento del territorio trevigiano nei secoli XII-XIV, in Tomaso da Modena e il suo tempo. Atti del Convegno internazionale di studi per il 6° centenario della morte. Treviso 31 agosto-3 settembre 1979, Treviso 1980, pp. 79-87.
293. M. Knapton, Venezia e Treviso, p. 49.
294. Leopold Von Ranke, Venezia nel Cinquecento, Roma 1974 (Bibliotheca Biographica, X), pp. 150 s.
295. In proposito rinviamo a Å. Boholm, The Doge of Venice.
296. Così, ad esempio, G. Marannini, La Costituzione, II, p. 81.
297. G. Cozzi, Politica, pp. 103-108. Un'idea della pluralità di interventi del maggior consiglio può essere tratta dall'esame della raccolta di Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, a cura di Roberto Cessi, I, Bologna 1950; II, Bologna 1931; III, Bologna 1934.
298. Gaetano Cozzi, La politica del diritto nella Repubblica di Venezia, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Id., Roma 1980, p. 115.
299. G. Bonfiglio-Dosio, Controllo, pp. 468-470.
300. R. Cessi, Storia, pp. 270 s.
301. Ibid., p. 270.
302. Ibid., p. 271.
303. Su questi sviluppi G. Marannini, La Costituzione, II, pp. 203-205.
304. R. Cessi, Storia, p. 205.
305. G. Bonfiglio-Dosio, Controllo, pp. 469 s. Per il funzionamento della quarantia fonte importante è la raccolta Le deliberazioni del Consiglio dei XL della Repubblica di Venezia, a cura di Antonino Lombardo, I, Venezia 1957; II, Venezia 1958; III, Venezia 1967.
306. G. Maranini, La Costituzione, II, pp. 203-206. Sull'attività del senato nel secolo XIV accanto alla ricchissima documentazione inedita sono fonti importanti la pubblicazione di Giuseppe Glomo, Le rubriche dei libri misti del Senato perduti, "Archivio Veneto", 10, 1880, pp. 293-301, e la raccolta Le deliberazioni del Consiglio dei Rogati (Senato). Serie "mixtorum", I, Libri I-XIV, a cura di Roberto Cessi-Paolo Sambin, "Monumenti Storici Pubblicati dalla Deputazione di Storia Patria per le Venezie", n. ser., XV, Venezia 1960; II, Libri XV-XVI, a cura di Roberto Cessi - Mario Brunetti, ibid., XVI, Venezia 1961.
307. Questa norma venne esplicitamente ribadita nel 1311 per il senato: in proposito G. Zordan, L'ordinamento, p. 95.
308. G. Cozzi, La politica del diritto, p. 109.
309. Ibid., pp. 108 s. Si v. anche R. Cessi, Storia, p. 271.
310. Nel 1330, ad esempio, imposero ai confratelli di S. Giovanni Battista il giuramento di fedeltà al governo comunale e l'impegno a denunciare ogni atto sedizioso di cui venissero a conoscenza e nel 1362 decretarono l'espulsione dalla confraternita e l'incarcerazione del diacono di S. Maria della Misericordia che accusavano di aver espresso giudizi contrari al governo. Al riguardo si v. William B. Wurthmann, The Council of Ten and the Scuole Grandi in Early Renaissance Venice, "Studi Veneziani", n. ser., 18, 1989, pp. 15-66.
311. G. Zordan, L'ordinamento, pp. 100 s.
312. Su tale congiura e sui numerosi studi ad essa relativi rinviamo a Giorgio Ravegnani, Falier, Marino, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIV, Roma 1994, pp. 429-438.
313. G. Zordan, L'ordinamento, pp. 100 s.