Le leggi razziste
Per gli ebrei italiani, riportati di un colpo a uno statuto di inferiorità legale e civile simile a quello che aveva preceduto l’emancipazione, le leggi emanate da Mussolini nel 1938 furono una rottura drammatica della continuità storica, uno spartiacque nettissimo nell’appartenenza politica, nella vita sociale e nella stessa quotidianità. Ma per l’Italia, esse furono molto più di questo, molto più cioè di una discriminazione introdotta contro una ridottissima percentuale di cittadini, uno su mille. Esse rappresentarono una rottura fortissima nella continuità dello Stato, la definitiva sepoltura dello Stato nato dal processo risorgimentale, l’introduzione, per la prima volta nella sua storia, di una discriminazione tra cittadini che segnava la fine dei principi base dello Stato nato nel processo unitario. Quello che non aveva portato a compimento la svolta del 1925, con l’abolizione della democrazia parlamentare, lo compirono le leggi razziste. «Il regime», scrive Michele Sarfatti, «incise sulla cronologia storica dell’Italia unita, determinando, dopo la cessazione della democrazia, la cessazione dell’intera vicenda storico-nazionale avviatasi con il Risorgimento»2.
Questa discontinuità ha, naturalmente, ripercussioni molto forti anche sulla Chiesa e sulla sua posizione nei riguardi di una società, quella nata dalRisorgimento, che aveva concesso agli ebrei l’uguaglianza civile inserendoli nel suo seno. L’irruzione dello Stato fascista, attraverso le leggi razziste del 1938, nel quadro dei rapporti tra Chiesa ed ebrei introduce cambiamenti sostanziali sia rispetto agli ultimi decenni del secolo, quelli caratterizzati dalla frattura radicale con il nuovo Stato, usurpatore dei poteri della Chiesa, e dal divampare di un antigiudaismo non privo di suggestioni antisemite, sia rispetto ai decenni successivi, caratterizzati dal graduale riassorbimento della frattura con lo Stato, fino alla Conciliazione, e da una politica più oscillante e meno radicalmente ostile nei confronti degli ebrei. L’aspetto fortemente contro-emancipatorio delle leggi del 1938 viene naturalmente colto dalla Chiesa, che della polemica contro questa emancipazione aveva fatto da decenni il suo cavallo di battaglia. E anche quando la Chiesa si mostra renitente a coglierlo, è il regime che glielo ricorda, sottolineando come il fascismo non avesse fatto altro che mettere in atto i principi e le norme del secolare antigiudaismo cattolico. E ancora, ad armistizio concluso, lo sottolineerà il gesuita padre Tacchi Venturi in quel famoso intervento sul governo Badoglio che mirava a salvaguardare il mantenimento di alcune delle norme del 1938, come consonanti con i principi della Chiesa cattolica3. Ma in realtà, le leggi del 1938 introducevano elementi che la Chiesa non poteva far propri nemmeno in nome del rifiuto dell’uguaglianza degli ebrei, quali il razzismo biologico e il divieto dei matrimoni misti (il famoso vulnus al Concordato): tutti fattori che portavano a una messa in discussione radicale della possibilità della conversione. Tanto è vero che l’unico tentativo serio attuato da parte cattolica di giungere a una confluenza con il razzismo del 1938, quello di padre Gemelli, ebbe vita breve e travagliata e fu sconfessato dalla Chiesa. L’adozione da parte di Mussolini dell’antisemitismo di Stato rappresentò una rottura sostanziale degli equilibri creatisi con il Concordato e contribuì, nel lungo periodo, quando le sue devastanti conseguenze apparvero in tutta la loro portata, a rendere impossibile il proseguimento da parte della Chiesa del suo rifiuto dell’emancipazione degli ebrei, fino a mettere in discussione, in prospettiva, tutta la secolare tradizione antigiudaica.
Il fatto che le leggi del 1938 siano state interpretate, dopo la guerra e dopo la Shoah, non come una rottura della continuità dello Stato, ma come una pura svolta persecutoria nei confronti della minoranza ebraica, può spiegare in parte anche la loro complessa e ritardata memoria e le particolari caratteristiche della loro storiografia. Una memoria che si costruisce faticosamente, con grandi ritardi anche rispetto a quella dellaShoah, e una storiografia che si afferma ancora più tardi, in realtà solo dopo il cinquantesimo anniversario delle leggi, nel 1988. Solo cogliendo la valenza fondamentale della legislazione del 1938 per la più ampia storia italiana, queste leggi hanno potuto essere interpretate infine, oltre che come un momento decisivo della storia della persecuzione degli ebrei, come un tassello determinante del processo che ha portato il regime fascista a sancire la fine del Risorgimento e la morte della patria.
A Roma, dove il ghetto era durato più a lungo di tutti gli altri ghetti, fino al 1870, erano ancora vivi nel 1938 ebrei che in questo luogo erano nati e che si ritrovavano, in vecchiaia, in una situazione simile a quella vissuta da bambini, prima dell’emancipazione: privi di diritti, subordinati, sottoposti a vessazioni e umiliazioni. Le leggi che nel 1938 separavano gli ebrei dagli altri cittadini e introducevano nei loro confronti misure volte a renderli cittadini di seconda classe rappresentavano infatti, da molti punti di vista, un netto rovesciamento dell’emancipazione. Le misure discriminatorie introdotte non facevano che riprendere in gran parte misure secolari, già adottate in passato dalla Chiesa e dagli Stati, volte a mantenere gli ebrei in uno stato di subordinazione e inferiorità. Questo è vero in particolare per i divieti di fondo che riguardavano la cittadinanza, come quello di mantenere cariche pubbliche, di far parte dell’esercito, di frequentare scuole e università, di contrarre matrimoni con non ebrei. In Germania e nei paesi occupati, un’altra norma che riprese clamorosamente il passato, simile all’imposizione del segno distintivo in età medievale, fu quella che impose agli ebrei di portare la stella gialla, una norma com’è noto che in Italia non fu adottata neanche durante l’occupazione nazista. Queste corrispondenze tra la normativa medievale e quella nazista sono state sottolineate con forza da Raul Hilberg, che le mette minuziosamente a confronto proprio in apertura del suo libro sulla distruzione degli ebrei d’Europa4. Ne emerge evidente, pur nell’ovvia diversità del contesto, il fatto che la cancellazione nazi-fascista dell’uguaglianza si fondò effettivamente sui precedenti di una normativa secolare e consolidata, a cui l’Europa aveva rinunciato solo da poco. È un aspetto, questo della valenza antiemancipatoria delle leggi del 1938, che di solito è dato un po’ per scontato dalla storiografia e che merita attenzione se si pensa alla diffusione e alla portata, negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento, della polemica antiemancipatoria e se si considera inoltre che in quegli anni il rifiuto dell’emancipazione ebraica assunse il ruolo di una cornice in cui si mescolavano forme tra loro anche molto diverse di ostilità alla modernità e agli ebrei.
Ma le leggi non rappresentano soltanto il ritorno per gli ebrei a uno statuto giuridico precedente l’emancipazione. Preludio come sono a una persecuzione volta a mettere a repentaglio le loro vite, e non solo i loro diritti, esse costituiscono per il mondo ebraico molto di più del ritorno al periodo della pre-emancipazione. E sono molto di più anche per l’Italia, per cui segnano la morte del Risorgimento e il seppellimento dei principi su cui si era basato il processo risorgimentale. Una rottura al tempo percepita come tale dagli ebrei, o almeno da quella parte del mondo ebraico che più si identificava con l’appartenenza nazionale.
«Quella che venne percepita dai contemporanei, soprattutto dagli ebrei italiani, come una rottura, appare tale nei confronti dello Stato uscito dal Risorgimento, e questo contribuisce a spiegare la lacerazione sofferta dagli ebrei italiani, che avevano partecipato numerosi al fascismo, vissuto anche come l’inveramento di talune aspirazioni alla grandezza della nazione risorgimentale», scriveMario Toscano. Ma aggiunge, «la rottura non appare tale nei confronti dell’identità e dell’idea di nazione progressivamente costruita dal fascismo»5.
È necessario, per comprendere a fondo il legame tra rovesciamento dell’emancipazione e morte del Risorgimento, spostarci indietro, a un momento di molto precedente questa trasformazione dell’idea nazionale realizzata dal regime fascista e appuntare la nostra attenzione sui nessi profondissimi creatisi tra emancipazione degli ebrei italiani e Risorgimento. L’ottenimento dell’uguaglianza da parte degli ebrei italiani, e con loro dei valdesi e delle altre minoranze religiose, che accompagna il processo di costruzione dell’Italia unita, non ne rappresenta infatti una sorta di conseguenza marginale ma ne segna profondamente il percorso, divenendone, con il connesso principio della tolleranza di tutti i culti religiosi e poi con quello dell’uguaglianza dei culti di fronte alla legge, uno dei pilastri basilari.
Portata in Italia dalle armate napoleoniche, l’uguaglianza degli ebrei deriva in Italia, come in Francia, da un principio generale, quello dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Questa origine in un principio universale di uguaglianza e non nell’ampliamento progressivo dei diritti di una minoranza resterà a caratterizzare il processo di emancipazione degli ebrei italiani anche nel periodo successivo, nonostante la restaurazione dei vecchi Stati avesse portato con sé anche quella della subordinazione ebraica e dei ghetti. Nel biennio 1847-1848 la bandiera dell’emancipazione degli ebrei viene alzata, in maniera più o meno ampia, dal movimento cattolico liberale. Un’occasione perduta, perché la fine del progetto di cattolicesimo liberale, nel 1848, porta la Chiesa su posizioni fortemente antiebraiche e lega di conseguenza il progetto di emancipazione a quello di costruzione della nazione italiana. Sono gli anni in cui in Germania gli ebrei partecipano numerosi alla rivoluzione del 1848 e in cui in Italia Carlo Alberto, con lo Statuto albertino, concede l’emancipazione a ebrei e valdesi, sia pur con le limitazioni legate al mantenimento della religione cattolica come religione dello Stato: una conquista, comunque, duratura e condivisa da tutte le correnti politiche risorgimentali, e non solo da quella democratica e mazziniana6. Dal 1848 in avanti e naturalmente ancor più dopo la legge delle guarentigie del 1871 l’uguaglianza dei cittadini, indipendentemente dalla religione da loro professata, diviene un pilastro fondamentale del nuovo Stato italiano. Che a segnare così profondamente il carattere del progetto risorgimentale, attraverso l’uguaglianza di tutti i suoi cittadini, fosse anche il fatto oggettivo della presenza dello Stato della Chiesa quale principale ostacolo alla costruzione nazionale e la necessità quindi di contrastarne i principi oltre che l’esistenza, è naturalmente vero. Dopo la fine del cattolicesimo liberale, quei principi si fondavano sempre più sul rifiuto della libertà religiosa e sulla conclamata intolleranza delle minoranze. Ma questo nulla toglie ai valori profondamente e intrinsecamente liberali della costruzione risorgimentale, al di là degli schieramenti e delle contingenze politiche. Valori percepiti come tali anche dagli ebrei, e che rendevano intima e convinta la loro adesione al Risorgimento, la loro partecipazione ai moti e alle rivoluzioni di quegli anni. Questa Italia che si stava costruendo nel Risorgimento era infatti una nazione a cui gli ebrei italiani potevano aderire senza troppo rinunciare alla loro identità. E non è un caso se Giacomo Dina, il direttore ebreo del giornale governativo torinese «L’Opinione» personalmente impegnato nella battaglia per l’emancipazione ebraica, usava definire il Risorgimento con l’espressione «emancipazione nazionale»7. Unanime o quasi è il consenso del mondo ebraico non solo intorno alla necessità politica di appoggiare il processo unitario in quanto portatore di emancipazione, ma intorno alle possibilità che il Risorgimento garantiva agli ebrei di trasformare il processo di emancipazione in una straordinaria occasione di rinascita, «la prospettiva di identificarsi con un insieme di valori che esaltavano al massimo il significato della modernità senza apparenti contropartite»8, come scrive Francesca Sofia, chiedendosi poi che cosa significasse «assimilarsi a un sistema di valori, piuttosto che a un popolo, a una nazione fisicamente costituita, a una lingua»9. Era, proprio per questo, un Risorgimento che poteva ispirare a Moses Hess, nel suo Roma e Gerusalemme, l’idea che la rinascita del popolo ebraico potesse modellarsi sulla costruzione nazionale italiana e che nel 1918, molto più tardi ma nello stesso spirito, avrebbe spinto Dante Lattes a definire l’irredentismo il sionismo d’Italia e il sionismo l’irredentismo d’Israele10.
Certo, si tratta di una nazionalizzazione parallela, per ricorrere alla frase famosa di Momigliano e alla sua rilettura gramsciana11, che riguarda soprattutto il primo periodo di vita dello Stato liberale. All’inizio del nuovo secolo, molti fattori avrebbero messo in discussione questa convergenza tra ideali dello Stato liberale e ideali delle minoranze. In primo luogo, come sottolineaMario Toscano riprendendo a proposito dell’Italia le tesi di Mosse sulla nazionalizzazione delle masse, il processo di integrazione nazionale delle masse cattoliche e contadine:
«Nel momento in cui con la propria entusiastica partecipazione alla Grande guerra gli ebrei italiani ritenevano di aver suggellato col sangue il proprio processo di nazionalizzazione, il dibattito sui criteri di rifondazione della nazione che si andava svolgendo in quegli anni contribuiva a creare le condizioni per una messa in discussione dei presupposti del processo di integrazione nazionale degli ebrei, inserendo progressivamente anche in Italia i temi del nuovo antisemitismo politico»12.
Profeticamente, ne «Il Corriere israelitico» del 30 settembre 1912 «un giovane ebreo avrebbe visto nell’adozione giolittiana del suffragio universale maschile la fine di un’epoca storica per gli ebrei d’Italia»13. Il 1912 è infatti l’anno della guerra di Libia e dell’esplodere del nazionalismo italiano, un anno «dal forte valore periodizzante nella storia dell’idea di nazione in Italia»14. La nazione, già vista essenzialmente come costruzione spirituale e culturale, si avvia sempre più a diventare espressione della terra e del sangue, prima di diventare manifestazione della razza. La distanza tra la costruzione nazionale italiana e quella delle altre nazioni europee, tra i suoi miti fondativi essenzialmente democratici e universalistici e quelli nazionalisti di Francia e Germania, si stava riducendo progressivamente nel fragore della guerra coloniale voluta da Giolitti, prima di cancellarsi nel sangue della Grande guerra.
Rispetto alla questione ebraica il 1938 rappresenta anche uno spartiacque, sia pur meno netto, nella continuità del rapporto tra lo Stato e la Chiesa. Anche in questo caso bisogna tornare indietro di quasi un secolo, al rapporto della Chiesa cattolica con il processo risorgimentale e con l’emancipazione degli ebrei italiani, un problema che era stato fin da quegli anni, e ancor più dopo la caduta del potere temporale dei papi, una pedina non marginale del gioco, fino a fare dell’ebreo emancipato il bersaglio privilegiato dei cattolici. Quasi assente nelle polemiche dell’età della Restaurazione, concentrate invece nell’accusare la Riforma protestante, il giansenismo, l’illuminismo di essere i motori della congiura anticattolica volta ad aprire la società cristiana all’odiata modernità, il ruolo dell’ebraismo diventa infatti importante con il 1848 e assolutamente determinante nel 187015.
«Fu […] alla metà del secolo, con l’accentuarsi della crisi rivoluzionaria, che la Chiesa e il cattolicesimo europeo con essa, vennero ad assumere sempre di più un atteggiamento ostile verso gli ebrei […]. È sintomatico, tuttavia, che la vera svolta, il vero momento periodizzante per lo svilupparsi dell’antisemitismo cattolico ottocentesco sia rappresentato in realtà dal 1870. È la svolta del 1870 a far emergere in tutta la sua corposità quel latente fenomeno di respiro europeo che abbiamo delineato», scrive Renato Moro16.
Una svolta determinata soprattutto dagli eventi della rivoluzione romana del 1848, dove fu, com’è noto, la Repubblica romana ad aprire i portoni del ghetto e a emancipare gli ebrei, e Pio IX al suo ritorno a Roma a rimettere in funzione il ghetto e le interdizioni ebraiche. Le parole con cui pochi anni prima, nel 1843, Vincenzo Gioberti, aveva difeso nel suo Primato, in nome della libertà di coscienza, il diritto degli israeliti all’emancipazione, il dibattito che aveva visto schierarsi a difesa della parità dei diritti degli ebrei D’Azeglio, Tommaseo, Giorgini, Lambruschini, (in misura minore Rosmini, attestato su posizioni più conservatrici), le stesse attenuazioni attuate a Roma tra il 1847 e il 1848 delle misura di discriminazione degli ebrei, tutto questo è cancellato nel mondo cattolico italiano dalla reazione alle vicende del 1848, lasciando spazio al ristabilimento dei ghetti e, come si è visto, all’accentuarsi dell’identificazione degli ebrei con lo spirito moderno e con l’attacco al cattolicesimo17. Il processo giunge al suo culmine nel 1870 con l’abbattimento del potere temporale in cui la Chiesa, prigioniera in Vaticano, vede la vittoria della congiura di tutte le forze anticattoliche contro il papato. E in questo schema gli ebrei assumono una funzione centrale. Ciò che è cambiato, con il 1870 e che determina la svolta, è proprio il fatto che, in una Roma deprivata del suo ruolo di centro della cristianità, gli ebrei sono divenuti definitivamente cittadini alla pari con gli altri cittadini, potendo cioè esercitare funzioni direttive, sia nel campo della politica che in quello della società e della cultura. Il principio basilare su cui nei secoli si era retto l’equilibrio ineguale tra ebrei e cristiani era stato quello della sottomissione: sottomissione degli ebrei ai cristiani, che voleva dire sottomissione dell’errore alla verità, dell’incredulo al credente. L’emancipazione ebraica era la massima riaffermazione di ciò che i cattolici intransigenti definivano ‘relativismo religioso’, cioè del principio della tolleranza, dell’idea che tutti i culti potessero godere di eguale valore e status giuridico. Eletto per secoli a simbolo dell’errore e in quanto tale ammesso a far parte, in posizione emarginata, del mondo cristiano, l’ebreo ne faceva ora parte senza essere emarginato e senza rinunciare al suo errore. Era come se la sinagoga, effigiata cieca e piegata sulle antiche cattedrali, si fosse orgogliosamente rialzata strappandosi la benda. Un’uguaglianza in cui la Chiesa, prigioniera e sulla difensiva, vede una pretesa di superiorità, una minaccia di dominio.
Come stupirsi del senso di tradimento che emerge fortissimo nei pubblici pronunciamenti di Pio IX dopo il 1870? Gli ebrei, accolti e amati paternamente dalla Chiesa, hanno morso la mano che li aveva nutrito, hanno pugnalato la Chiesa alle spalle. Questa è la percezione che traspare nelle fittissime polemiche di parte cattolica di quegli anni: l’emancipazione degli ebrei, il loro essere divenuti uguali ai cristiani, vi appare come il nemico da battere per eccellenza.
«Ebrei di fuori, che accorrono nella nuova capitale, ne dirigono i giornali, alimentano gli attacchi alla Chiesa; ebrei di Roma, che hanno tradito il loro sovrano, dimenticandone i benefici, che hanno accolto “festanti” i piemontesi, che frequentano luoghi prima loro preclusi. Sta qui il vero, grande scandalo. Gli ebrei a Roma, sede di Pietro, capitale della cattolicità, soppiantano i cristiani, acquistano proprietà, esercitano funzioni di governo. Sta qui la prova della loro “fusione” con la “rivoluzione”, e la ragione della futura rivalsa cristiana che non potrà non colpirli: il diritto di prendere nel futuro “misure difensive” contro gli ebrei nasce infatti dagli attuali loro comportamenti»18.
Sono gli anni in cui Pio IX, parlando ai pellegrini che vengono a visitarlo in Vaticano, non manca di scagliarsi con violenza contro gli ebrei, da figli divenuti «cani», che «sentiamo latrare per tutte le vie, e ci vanno molestando per tutti i luoghi»19. L’insistenza è costante sul rovesciamento dei ruoli, da figli a cani, sul tradimento, sul potere acquisito, un potere evidentemente illegittimo, come illegittime sono la presa di Roma e la distruzione del potere pontificio.
Dall’insistenza sui misfatti dell’emancipazione, saldata con quella sulla persecuzione subita dopo il 1870 dalla Chiesa, deriva il nuovo filone antiebraico che si afferma negli ultimi decenni del secolo. L’antisemitismo cattolico si fonda sull’idea del complotto e delle sue derivazioni, come per esempio l’accusa del sangue, che riempie la stampa cattolica dei due ultimi decenni del secolo, quella contro il Talmud, che viene denunciato, con L’ebreo talmudista di August Rohling del 1871, non soltanto come un testo anticristiano, ma soprattutto come l’espressione di un complotto ebraico per dominare il mondo. Accuse sempre rinnovate che scavano un solco sempre più grande fra la Chiesa e gli ebrei e che concorrono a rendere centrale, nel più vasto rifiuto della modernità, l’attacco agli ebrei. E se negli ultimi anni del pontificato di Pio IX queste prese di posizione potevano apparire come il colpo di coda di una Chiesa deprivata di potere e ridotta sulla difensiva, nel corso del lungo pontificato di Leone XIII esse divengono più meditate, meno legate alla questione romana, e alla perdita dello Stato della Chiesa, più legate invece alla situazione internazionale, che con gli anni Ottanta pone le agitazioni e i movimenti antisemiti all’ordine del giorno. Una tigre che la Chiesa appare decisa a cavalcare, senza tuttavia rinunciare né alla prospettiva di trasformare gli ebrei in cattolici, che il carattere razzista del nuovo antisemitismo rischiava ora di mettere pesantemente in discussione, né al vecchio armamentario antigiudaico, reso più aspro e anche più complesso dall’avvenuta emancipazione. È allora infatti che sui vecchi temi si innestano le tesi che vedono negli ebrei gli esponenti di un capitale finanziario che usa il denaro per introdurre valori anticristiani nella società, per demolire la tradizione, per abbattere i valori del passato. Un complesso di immagini che coagula intorno a sé motivi diversi e di diversa origine, fino a legare il cattolicesimo intransigente nato con de Maistre e Bonald in funzione antirivoluzionaria con il socialismo antisemita di un Fourier o di un Toussenel20.
La storia dell’antisemitismo cattolico tra il 1870 e il 1938 e del suo complesso e ambiguo rapporto con l’antisemitismo razziale è stata egregiamente tracciata e analizzata in ogni aspetto da molti studiosi21. Un antisemitismo alla cui comprensione George Mosse aveva dato un contributo essenziale e a proposito del quale aveva usato, significativamente, il termine di “cristianesimo infetto”22 . Sia le Chiese protestanti che quella cattolica, sottolinea Mosse, che pure avevano in sé gli anticorpi per reagire al razzismo, non sono state in grado di farlo e ne sono anzi state spesso infettate. Di questo processo di contaminazione va sottolineato un aspetto le cui conseguenze non mi paiono essere state sufficientemente messe in rilievo dalla storiografia: il fatto che la concezione naturalista e fisica dell’ebreo enfatizzata dalle dottrine razziste entrasse frontalmente in contrasto con la possibilità stessa di conversione, con l’idea che il battesimo potesse trasformare un ebreo in un cristiano. È questo, a mio avviso, il limite che la Chiesa non può in nessun caso superare, lo scoglio su cui si infrange qualsiasi possibilità di conciliare razzismo e antigiudaismo. E se il carattere di rovesciamento dell’emancipazione che avevano molte delle norme del 1938 poteva spingere la Chiesa a vedere nelle leggi un aspetto positivo, di rimessa in uso dell’ideologia antigiudaica tradizionale, il rifiuto della conversione rappresentò alla fine, per una Chiesa che dal secolo XVI in avanti aveva fatto del proselitismo uno dei pilastri della sua politica verso gli ebrei, uno strappo inaccettabile con i suoi principi costitutivi.
Il problema non era nuovo. La Chiesa si era già trovata una volta nella sua storia di fronte a un dilemma di questo tipo, quello di come valutare la conversione degli ebrei. La questione si era posta nella Spagna del secolo XV, dopo un’ondata di conversioni, più o meno forzate, che era stata seguita da una profonda integrazione dei convertiti nella società spagnola. Ma cinquant’anni dopo, sull’onda di una violenta reazione sociale a questa integrazione, erano stati formulati quegli statuti di «limpieza de sangre» che, non potendo più ricorrere alla religione per separare e discriminare gli ebrei divenuti cristiani, erano ricorsi al sangue, introducendo limitazioni all’ingresso nelle università, negli ordini religiosi, negli uffici pubblici ai discendenti, anche lontani, dei convertiti. Quale era stata, all’epoca, la reazione della Chiesa a quest’iniziativa tutta spagnola che introduceva per la prima volta il criterio fisico del sangue al posto di quello spirituale della religione? Inizialmente, non vi erano stati compromessi. Un papa, Niccolò V, aveva giudicato queste norme come un’eresia volta a screditare il battesimo e a mettere in dubbio i fondamenti stessi della fede. All’inizio del Cinquecento, il cardinale domenicano Tommaso de Vio (il famoso cardinale Caietano, che poi sarà l’oppositore di Lutero a Worms) aveva messo in guardia dal rischio che questa politica presentava nei confronti del proselitismo. Chi si sarebbe più battezzato, per diventare un cristiano sospetto e di seconda categoria23? Poi, gradualmente, le ragioni della politica avevano prevalso e il papato aveva accettato che le norme del sangue conservassero legittimità e validità in Spagna, e soltanto in Spagna, dove, per dirla come il successore di Ignazio di Loyola al rango di generale della Compagnia di Gesù, Laynez, era diffusa questa fantasia (imaginationes) del lignaggio24. La vicenda spagnola del Quattro-Cinquecento è ovviamente altra cosa da quella dell’antisemitismo del Novecento25, anche se non molto diverso è il problema con cui la Chiesa cattolica dovette confrontarsi: prima con l’ossessione del sangue e poi con quella della razza. Sembra, comunque, che l’infezione provocata dal razzismo otto-novecentesco abbia agito molto più in profondità di quella provocata dall’ossessione del sangue del Cinquecento, ben più limitata e locale.
Ed è forse alla luce di questo conflitto tra conversione e razza che vanno rilette alcune caratteristiche del dibattito dei decenni precedenti il 1938, prima che le leggi razziste rendessero tutto questo quanto mai esplicito. Consideriamo per esempio il caso della Società degli Amici d’Israele, nata a Roma per combattere l’antisemitismo nel febbraio 1926 su iniziativa del cardinale olandese van Rossum, uno degli alfieri dell’attacco contro il modernismo. La Società, che aveva forti intenti conversionistici, fu soppressa dalla Santa Sede come troppo filoebraica nel 1928. Ma quegli intenti conversionistici erano il frutto semplicemente dell’idea tradizionale della necessità della conversione o erano forse anche una risposta all’idea, ormai ovunque diffusissima, che gli ebrei, convertiti o no, fossero per natura diversi e comunque sempre ebrei? Credo che la domanda non sia tanto peregrina, riferita com’è a un contesto in cui la cultura della razza diventava sempre più pervasiva.
Consideriamo un testo dal titolo La Croce e la stella di Davide, traduzione abbreviata di un volume del 1933, pubblicato da Vita e Pensiero nel 1937, di W. H. Friedeman, un ebreo tedesco convertito. Il testo, dedicato completamente al tema della conversione degli ebrei e del loro riconoscimento del Cristo, fu attaccato con estrema violenza tanto da Giovanni Preziosi che da Julius Evola. Sostenendo che «l’incitamento alla rivoluzione mondiale da parte degli ebrei si manifesta adesso sotto l’aspetto delle conversioni religiose», la rivista di Preziosi attaccava in blocco qualsiasi possibilità conversionistica e considerava la conversione come una sorta di cavallo di Troia dell’ebraismo nella roccaforte cristiana26. Una campagna, quella contro le conversioni ‘politiche’, condotta avanti dall’ala di Farinacci con estrema forza, come rivelano i rapporti degli informatori27, che nel novembre del 1938, a Milano, si riferiscono a ebrei battezzati di nascosto all’alba nelle chiese di periferia o nello stesso duomo dal cardinaleSchuster. Ma l’attacco di Preziosi al testo di Friedeman, andava oltre, per individuare nell’insieme del proselitismo cattolico un complotto teso, attraverso le conversioni, a giudaizzare dall’interno il cristianesimo.
Eppure, proprio colui che aveva pubblicato il testo di Friedemann, padre Gemelli, portò avanti per un breve periodo, fra l’autunno 1938 e il 1939, una politica che mirava a far accettare dalla Chiesa, sia pur parzialmente, la politica antisemita del regime e rappresentò una forza di mediazione fra razzismo e antigiudaismo, tra Chiesa e cultura della razza. L’unico, almeno fra i prelati e uomini legati alla Curia che appoggiarono la linea razzista, a tentare una vera e propria mediazione politica con il regime che aveva adottato l’antisemitismo di Stato28. Il percorso di questa mediazione è noto: il 18 ottobre 1938, in una lettera a Mussolini, Nicola Pende richiamava l’approvazione di Farinacci alle sue tesi razziste e aggiungeva che «per bocca di padre Gemelli ho avuto anche l’approvazione delle autorità dall’altra parte del Tevere». Il 7 novembre 1938, in una conferenza sul tema La Chiesa e gli ebrei da lui tenuta a Milano, Farinacci si propose di dimostrare l’assoluta sintonia fra antigiudaismo ecclesiastico e antisemitismo razzista: «se, come cattolici, siamo diventati antisemiti lo dobbiamo agli insegnamenti che ci provengono dalla Chiesa attraverso venti secoli»29. L’argomentazione era quella già usata da Hitler fin dal 1933, di richiamarsi al secolare insegnamento antiebraico della Chiesa affermandone la continuità con l’antisemitismo nazista30. Il 7 gennaio Farinacci scriveva al duce preannunciandogli di essere riuscito a tirare dalla sua Gemelli, come già aveva fatto con il vescovo di Cremona, Giovanni Cazzani, che aveva tenuto nella sua diocesi un’omelia di forte sostegno alla politica razzista. Il 9 gennaio Gemelli tenne a Bologna una conferenza rimasta famosa su un chirurgo medievale, Guglielmo di Saliceto, aggiungendovi un’appendice molto diversa come tono e linguaggio dal resto della conferenza:
«Tragica, senza dubbio, e dolorosa la situazione di coloro che non possono far parte, e per il sangue e per la loro religione, di questa magnifica Patria; tragica situazione in cui vediamo una volta di più, come altre nei secoli, attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé e per la quale va ramingo per il mondo, incapace di trovare la pace di una Patria, mentre le conseguenze dell’orribile delitto lo perseguitano ovunque e in ogni tempo»31.
Una formulazione che nel 1945 Gemelli avrebbe difeso davanti alla Commissione di epurazione come tradizionalmente antigiudaica e obbediente alla dottrina della Chiesa, dimenticando però di dar conto della parola «sangue» accostata a quella di «religione» che cambiava fortemente la valenza della sua argomentazione. Un discorso accolto del resto con entusiasmo da Farinacci, che il giorno dopo intitolava un suo articolo Non siamo soli.
Sembrava proprio che le posizioni di Gemelli divenissero il supporto teorico ideale della desiderata conciliazione tra razza e fede, tra sangue e religione. Il 4 febbraio Gemelli tenne a Milano una conferenza sul problema razziale e sul meticciato, dando, secondo il rapporto di un informatore, «pienamente ragione ai provvedimenti al riguardo del Governo nell’interesse della razza bianca, dall’oratore dichiarata superiore a tutte le razze d’altro colore». Il rapporto aggiungeva che Gemelli era stato «vivamente applaudito dalla massa degli studenti e dal pubblico, vivamente meravigliati di vedere un frate tenere conferenze su argomenti in contrasto con le direttive del Vaticano, desumendone che quest’ultimo avrebbe cambiato parere, così come l’avrebbe cambiato nella questione ebraica»32.
Lungi dal rappresentare il momento di saldatura tra l’antisemitismo cattolico dei decenni precedenti e quello razzista e filonazista, come auspicavaFarinacci, secondato per un breve periodo dal rettore della Cattolica, le leggi del 1938 rappresentarono invece l’inizio della rottura di quel complesso intreccio tra i due che aveva segnato i precedenti decenni. Le leggi del 1938 mettevano infatti in chiaro, arrivando alle conseguenze estreme, le ripercussioni che la concezione razzista aveva sull’intera impalcatura teologica della Chiesa. Chiesa che si espresse, subito dopo la chiamata in causa di Farinacci a Milano, attraverso l’allocuzione del cardinale Schuster in duomo, che parlò della «nuova eresia nordica», attaccando quindi con nettezza il nazismo sulla linea del pontefice, e successivamente, nel dicembre, con un forte intervento del cardinale di Bologna, Nasalli Rocca, che andava nella stessa direzione. Interventi questi dei due alti prelati tanto netti da suscitare i violenti attacchi di Farinacci che il 3 gennaio scriveva sul suo giornale: La misura è colma. La complessa e ambigua posizione di padre Gemelli si sarebbe chiarita nel settembre 1939, quando Roma, con un intervento del Sant’Uffizio, gli proibì di dare il suo contributo a un congresso della Società italiana per il progresso delle scienze sul tema: Gli aspetti biologici del problema della razza. Come riferì poi lo stesso Gemelli, da Roma «non si ritenne opportuno che un Rettore di Università Cattolica partecipasse a un Congresso in cui si esponevano dottrine sulla razza non ortodosse»33.
La rottura netta con la linea rappresentata dalle leggi, o almeno dai loro aspetti più decisamente razziali, non significò naturalmente né un abbandono della tradizione antigiudaica, riaffermata anzi con forza proprio nel momento in cui più ci si distanziava dalla linea del razzismo biologico, né tantomeno una chiara e netta presa di posizione pubblica su questo tema e in difesa degli ebrei. Anche qui prevaleva la stessa linea di cautela e di rifiuto di una presa di posizione pubblica di tipo ‘profetico’ che la Chiesa avrebbe poi adottato nella Shoah. Il tentativo di salvare la tradizione antigiudaica dal naufragio dell’antisemitismo avrebbe portato la Chiesa del segretario di stato Maglione nel 1943 a quel famoso intervento, attuato da padre Tacchi Venturi, presso il governoBadoglio che ammoniva a procedere con cautela nell’abolizione delle leggi razziste, rispettandone e mantenendone in vigore quelle parti più in accordo con la tradizione ecclesiastica. Non era una ripresa delle tesi di Gemelli, ma piuttosto l’ultima difesa della tradizione antiemancipatoria, almeno tra quelle più note e autorevoli. Dopo il 1938, e naturalmente dopo la Shoah, era diventato impossibile, anche per quella parte della Chiesa che aveva guardato per tanto tempo con timore e riprovazione all’emancipazione, sostenere le ragioni di questa tradizione. Ed essa fu, di conseguenza, abbandonata, anche se con cautela, e senza rinunciare ad altri aspetti a essa legati.
Rientrano in questo quadro di tradizionale ostilità antiebraica, non senza venature di vero e proprio antisemitismo in cui si sentono gli echi della propaganda fascista di quegli anni, le enunciazioni di un laico comeCesare Merzagora, quando, nel 1946, intimava agli ebrei scampati alla persecuzione di non lamentarsi troppo, a quelli battezzati di non tornare ebrei e a tutti, in sostanza, di saper restare al loro posto, anche questo un’eco di un tradizionale motivo antigiudaico, quello dell’inferiorità. Parole che si fregiarono, purtroppo, di un’introduzione di Benedetto Croce34. Ma come stupirsene se perfino Ernesto Buonaiuti poteva porre quasi alla chiusura del suo Pellegrino di Roma, pubblicato nel 1945, queste gravi parole sugli ebrei, in cui era la loro emancipazione, vista come l’apertura alla corruzione e al denaro, ad avere aperto la strada alla loro catastrofe:
«Il rimbrotto rivolto da Isaia agli Ebrei del suo tempo avrebbe ben potuto essere tempestivamente rivolto agli Ebrei della età contemporanea. I quali, usciti dalla clausura dei ghetti, ammessi alla libera circolazione della vita pubblica del mondo, si erano dati a speculare sui cavalli e sui carri dei popoli in mezzo a cui vivevano, e a cercare negli idoli menzogneri della cultura circostante, protezione e garanzia»35.
Il fatto che le uniche proteste ufficiali realizzate dalla Chiesa nel 1938 contro l’emanazione delle leggi riguardassero il vulnus inflitto al Concordato attraverso il rifiuto dei matrimoni misti non era soltanto una volontà di non occuparsi che degli ebrei convertiti e di abbandonare al loro destino gli ebrei rimasti tali. Ché questo non rappresentava certo una novità per una Chiesa dal 1870 in avanti decisamente ostile agli ebrei e fortemente consapevole, più di quanto non lo fossero gli ebrei stessi, della rottura, molto forte anche simbolicamente, avvenuta nel 1870. Essa era anche l’espressione, credo, di una profonda preoccupazione nei confronti delle conversioni. Di fronte alle norme che consideravano ebreo un individuo basandosi sul suo sangue, indipendentemente dalla religione professata, la Chiesa si rese conto della possibilità che le si apriva di dover rinunciare, con la conversione degli ebrei, al suo universalismo di fondo, al principio insomma che il battesimo rendesse tutti uguali e fratelli. La protesta avvenne sull’unico terreno consentitole, avendo rinunciato alla linea di protesta spirituale e profetica, cioè quello concordatario. L’unico terreno inoltre, che le permetteva di mantenere vivo, accanto alla ripulsa del razzismo, l’insegnamento del disprezzo. Un disprezzo che del resto non aveva mai, nella lunga storia della Chiesa, mirato a colpire le vite degli ebrei, ma solo a separarli, umiliarli, segregarli. Certo, non furono pochi, soprattutto nei duri anni della persecuzione attiva, quanti furono in grado di superare quell’insegnamento. Ma in molti la difesa, anche eroica, di quelle vite, poté lasciare intatto o quasi l’apparato tradizionale del disprezzo, come era del resto successo già nel passato, ancor prima che la rottura causata dall’emancipazione liberasse la Chiesa dall’idea di dover proteggere gli ebrei, ormai cani e non più figli.
Per molto tempo, nella memoria ma anche nella storiografia, la legislazione razzista del 1938 fu vista come un mero preludio alla persecuzione della guerra, un preludio per di più che riguardava essenzialmente gli ebrei, spossessati dei diritti, relegati al rango di cittadini di seconda classe, e non la maggioranza degli italiani, che quei diritti ancora conservavano. L’idea che la legislazione del 1938 riguardasse solo coloro a cui venivano tolti i diritti e non coinvolgesse anche direttamente la natura dello Stato che glieli toglieva può contribuire a spiegare le ragioni della difficilissima memoria della legislazione razzista, del suo essere tanto a lungo passata inosservata, tanto nella costruzione memoriale del dopoguerra quanto nella storiografia. Il confronto non fu tra uno Stato in cui tutti godevano degli stessi diritti, quello uscito dal processo risorgimentale, e uno in cui alcuni cittadini ne venivano privati, quanto piuttosto tra ciò che era successo agli ebrei, tra la persecuzione dei diritti e quella della vita. Un paragone difficile tra fatti incommensurabili: il primo, una legislazione discriminante di cui solo molto più tardi sono divenuti chiari i nessi con la persecuzione messa in atto negli anni successivi; il secondo, la deportazione di ogni ebreo, dai neonati ai vecchi, finalizzata allo sterminio nelle camere a gas. Se paragonati fuori dal loro contesto, i due fenomeni apparivano, e appaiono ancora, incomparabili. Il peso stesso della memoria della deportazione e dello sterminio, una memoria – non dimentichiamolo – anch’essa a lungo rimossa, rese per molto tempo, anche agli occhi di chi più ne aveva sofferto, quasi irrilevanti le conseguenze delle leggi del 1938. E se si potevano mettere tra parentesi i campi della morte, come non rimuovere quello che li aveva preceduti, cioè la perdita del lavoro, dei diritti, della dignità? Fino a quando l’antisemitismo di Stato in Italia fu valutato non nella sua valenza di rottura della continuità dello Stato ma in termini di maggiore o minor gravità della persecuzione subita dagli ebrei, fu difficile tanto per la storiografia come per la memoria assumerne appieno l’importanza e la valenza36.
Naturalmente, molti altri erano gli elementi che concorrevano a questa messa tra parentesi delle leggi razziste del 1938. Esse minavano infatti l’immagine del «buon italiano»37, un’immagine diffusa e difficile a morire, che mette insieme fenomeni di ben diversa natura, alcuni soltanto veri: dall’aiuto effettivamente dato agli ebrei nella Francia meridionale, in Iugoslavia e Grecia dall’esercito italiano e dalle autorità fasciste prima del 1943; all’idea, del tutto falsa e ormai smontata radicalmente dalla storiografia, che le leggi non fossero dure o che fossero state rese inefficaci dagli italiani, scettici e lontani dal fanatismo teutonico; al salvataggio di tanti ebrei, realizzato durante laShoah dalla Chiesa ma anche da tanti cittadini italiani. Un aiuto effettivo di fronte alla persecuzione delle vite che fa da pendant all’indifferenza manifestata nel periodo della persecuzione dei diritti, con la legislazione del 1938.
Inoltre, quella delle leggi antiebraiche era una memoria imbarazzante, che intralciava l’immagine che della guerra, della Resistenza e dello sterminio nazista si era affermata nell’immediato dopoguerra: quella di un regime fascista privo di consenso popolare, di una Resistenza, se non maggioritaria, espressione comunque dei sentimenti antifascisti del popolo italiano, di un antisemitismo privo di radici in Italia ed esclusivamente frutto dell’imposizione nazista. L’immagine, in sostanza, che aveva traghettato l’Italia sconfitta tra i vincitori, facendo della Resistenza un secondo Risorgimento e che aveva veicolato con sé il mito assolutorio del buon italiano.
Perché le leggi del 1938 cominciassero a ricevere la giusta attenzione era necessario che l’idea portante della storiografia antifascista del dopoguerra, quella di un fascismo imposto agli italiani, non voluto e privo di consenso, fosse demolita dalla ricerca storica. E questo avvenne non senza forti resistenze, a opera della storia del fascismo diRenzo De Felice e della storiografia che a De Felice faceva riferimento. E l’Italia del consenso al regime era anche quella del consenso alle leggi razziste, anche se proprio De Felice, nel suo libro del 1961 Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, la prima opera a occuparsi della legislazione del 1938, ne aveva dato un’interpretazione attenuata ed edulcorata38.
Solo a partire dal cinquantesimo anniversario, nel 1988, gli studi, i convegni, le ricerche sulla legislazione antisemita fascista cominciarono a moltiplicarsi, mentre si iniziavano a studiare anche le lentezze e le difficoltà frapposte alla sua abrogazione, un altro elemento che non deponeva a favore della tesi di un’Italia coinvolta solo marginalmente nell’applicazione delle norme antisemite. Il rovesciamento del paradigma interpretativo fu opera in particolare degli studi di Michele Sarfatti e degli storici a lui vicini, determinando una profonda revisione della vecchia immagine39. Una revisione che passava anche attraverso una vera e propria rivisitazione della periodizzazione, in cui ormai, entro il periodo lungo 1938-1945, si distingueva tra il periodo della persecuzione dei diritti e quello della persecuzione delle vite. Una distinzione essenziale per non confrontare fenomeni incommensurabili, la persecuzione e lo sterminio, e per ricollocare nella giusta prospettiva, quella di una rottura della continuità dello Stato, la cesura del 1938. La legislazione del 1938 era infine analizzata nel suo significato in relazione a chi la aveva emanata, lo Stato fascista, e non soltanto in rapporto a chi la aveva subita. Eppure, questa revisione dell’immagine storiografica stenta a tutt’oggi a essere recepita nel senso comune storiografico, a diventare una vulgata. Agli occhi dei più, a differenza della Shoah, che ha ormai assunto il significato di una rottura epocale della nostra civiltà, le leggi razziste del 1938 rappresentano ancora un tassello di una storia ristretta e ininfluente, quella degli ebrei in Italia. E per di più un tassello scarsamente rilevante, di una storia lontana dagli orrori successivi, fatta di grigiore, umiliazioni, perdita dei diritti. Fenomeni, insomma, della vita quotidiana.
1 M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino 2000, p. X.
2 M. Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Torino 2005, p. 87.
3 G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Milano 2000, pp. 401-402.
4 R. Hilberg, The destruction of the European Jews, New York 1985 (trad. it. La distruzione degli Ebrei d’Europa, Torino 1999, pp. 8-11).
5 M. Toscano, L’antisemitismo nell’Italia contemporanea: note, ipotesi e problemi di ricerca, «Zakhor. Rivista di storia degli ebrei in Italia», 6, 2003, p. 27.
6 C. Ghisalberti, Sulla condizione giuridica degli ebrei in Italia dall’emancipazione alla persecuzione: spunti per una riconsiderazione, in Italia Judaica. Gli ebrei nell’Italia unita. 1870-1945, Roma 1993, pp. 19-31.
7 F. Sofia, Su assimilazione e autocoscienza ebraica nell’Italia liberale, in Italia Judaica, cit., p. 35.
8 Ibidem, p. 38.
9 Ibidem, p. 45.
10 Ibidem, cit., p. 36.
11 M. Toscano, Risorgimento ed ebrei: alcune riflessioni sulla “nazionalizzazione “parallela”, «La Rassegna Mensile di Israel» 1998, pp. 59-70.
12 M. Toscano, L’antisemitismo nell’Italia contemporanea, cit., pp. 23-24.
13 Ibidem, p. 23.
14 Ibidem, p. 25.
15 G. Miccoli, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo, in St.It.Annali, XI, 2, Gli ebrei in Italia. Dall’emancipazione a oggi, a cura di C. Vivanti, 1997, pp. 1371-1574.
16 R. Moro, L’atteggiamento dei cattolici tra teologia e politica, in Stato nazionale ed emancipazione ebraica, a cura di F. Sofia, M. Toscano, Roma 1992, pp. 323-325.
17 G. Martina, Pio IX e Leopoldo II, Roma 1967, pp. 195 segg.
18 G. Miccoli, Santa Sede, questione ebraica, cit., pp. 1399-1400, in riferimento in particolare a quanto scrivevano nel 1873 due ebrei convertiti al cattolicesimo, i fratelli francesi abati Lémann.
19 Ibidem, p. 1407. Su questa metafora, cfr. K.R. Stow, Jewish Dogs. An Image and its Interpreters, Stanford 2006.
20 G.L. Mosse, Toward the Final Solution. A History of European Racism, New York 1978 (trad. it. Il razzismo in Europa dalle origini all’Olocausto, Milano 1985, pp. 163 segg.). Su queste tematiche si veda ora anche M. Battini, Il socialismo degli imbecilli, Torino 2010.
21 Fra gli altri in particolare da Giovanni Miccoli e Renato Moro.
22 G.L. Mosse, Toward the Final Solution, cit. (trad. it. pp. 140 segg.).
23 A. Foa, Limpieza versus Mission: Church, Religious Orders and Conversion in the Sixteenth Century, in Friars and Jews in the Middle Ages and Renaissance, a cura di S.J. McMichael, S.E. Myers, Leiden 2004, p. 305.
24 A. Foa, Limpieza versus Mission, cit., p. 308.
25 Y.H. Yerushalmi, Assimilation and Racial Anti-Semitism. The Iberian and the German Models, New York 1982 (trad. it. Assimilazione e antisemitismo razziale: i modelli iberico e tedesco, Firenze 2010).
26 M. Bocci, Agostino Gemelli rettore e francescano. Chiesa, regime, democrazia, Brescia 2003, p. 492.
27 Ibidem, p. 531.
28 A. Foa, Gemelli e l’antisemitismo, in Agostino Gemelli e il suo tempo, a cura di M. Bocci, pp. 211-220.
29 R. Farinacci, La Chiesa e gli ebrei, Roma 1938, p. 4.
30 R. Moro, L’atteggiamento dei cattolici, cit., pp. 305-306.
31 A. Gemelli, Un grande chirurgo medioevale. Guglielmo da Saliceto, Bologna 1939, p. 11.
32 M. Bocci, Agostino Gemelli rettore e francescano, cit., p. 539.
33 Ibidem, p. 510.
34 G. Schwartz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia post-fascista, Roma-Bari 2004, pp. 11-12.
35 E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, Bari 1964, p. 508.
36 A. Foa, Quando i cittadini tornarono paria. Memoria e storia delle leggi razziste in Italia, in Leggi del 1938 e cultura del razzismo, a cura di M. Beer, A. Foa, I. Iannuzzi, Roma 2010, pp. 125-131.
37 D. Bidussa, Il mito del bravo italiano. Persistenze, caratteri e vizi di un paese antico/moderno, dalle leggi razziali all’italiano del Duemila, Milano, 1994.
38 R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1993 (prima ed. 1961).
39 Cfr. G. Rigano, Storia, memoria e bibliografia delle leggi razziste in Italia, in Leggi del 1938 e cultura del razzismo, cit., pp. 187-209.